DANTE E FRANCESCO:

CONSIDERAZIONI SUL CANTO XI DEL PARADISO

 

 

  CONFERENZA -DIBATTITO DEL 19 GIUGNO 2004 TENUTA DALLA DOTT.SSA ALESSANDRA MORANDIN PRESSO LA SALA S. FRANCESCO DELLA CHIESA DEI FRATI CAPPUCCINI DI CONEGLIANO ( TV )

Dante Alighieri, il sommo poeta della nostra letteratura, fu certamente colpito dalla figura del Poverello di Assisi: nella sua opera principale, la Commedia, Francesco compare più volte, ma l’episodio più significativo è la sua lode, che formula nel punto più alto dell’opera: il Paradiso.

Quando Dante nacque, nella Firenze da poco comunale del 1265, l’Ordine francescano si era già ampiamente diffuso e sviluppato, ed era diventato importante anche in ambito universitario, soprattutto grazie all’opera di San Bonaventura da Bagnoregio, ministro generale dell’ordine, che insegnava all’Università di Parigi ed aveva redatto nel 1259 alla Verna la sua opera teologica più famosa, l’Itinerarium mentis in Deum; in quegli anni, attorno alla metà del 1200, egli veniva considerato tra i più grandi maestri della scuola parigina, insieme al domenicano San Tommaso d’Aquino. Le loro posizioni filosofiche sono piuttosto lontane: i Domenicani nascono come predicatori, lottano contro l’eresia, perciò mirano a convincere con la ragione, che diventa con Tommaso la via principale per indagare e approfondire le verità di fede, ed è indispensabile strumento che Dio stesso ci ha donato. I Francescani assumono il Vangelo come stile di vita, e sono più propensi invece alla contemplazione del creato: Bonaventura (come San Francesco nel Cantico delle Creature) vede che la natura e l’anima dell’uomo sono come impronte di Dio, e queste diventano il mezzo per avvicinarsi, per quanto ci è possibile, a Lui: l’esperienza mistica rappresenta la conoscenza vera e propria del Creatore e solo da Lui dipende, non dalla ragione umana, che può aiutare l’uomo solo ad arrivare ad un livello intermedio.

 

Non esistono notizie certe sui primi contatti di Dante con ambienti francescani: commentatori anche di poco successivi ipotizzarono che egli in gioventù fosse stato novizio, per poi uscire dal convento prima di prendere i voti. Ma quello che Dante stesso ci dice della sua giovinezza non sembra confermare questa ipotesi: verosimilmente egli compì i primi studi in ambiente religioso, cosa peraltro comune a quel tempo, forse alla scuola del convento francescano di Santa Croce in Firenze. Frequentò poi nuovamente questo ambiente e la scuola domenicana di Santa Maria Novella per cercare conforto negli studi filosofico-teologici in un momento doloroso , la morte di Beatrice, avvenuta nel 1290 (come scrive nel Convivio e nella Vita Nuova).

 

Il primo interesse del giovane Dante è ‘lo scriver per rima’, sancito anche dal sodalizio con Guido Cavalcanti e altri poeti, e dagli insegnamenti del maestro Brunetto Latini: sono gli albori del ‘Dolce Stil Novo‘ (definizione che pronuncia il poeta Bonagiunta Orbicciani da Lucca nel canto XXIV del Purgatorio), che Dante costantemente riprende e ridefinisce, in un percorso che va dalla prima produzione in rima, alla Vita Nuova, al Convivio, alla Commedia stessa: Beatrice, la donna cantata in gioventù secondo lo stile della lirica cortese, che eleva e ingentilisce l’animo del poeta e addirittura di chiunque la incontri, dopo la sua morte viene dimenticata, e l’amore sostituito dall’interesse umano per la Filosofia; ma nel Paradiso ritorna trionfante come simbolo della Teologia, che guida verso Dio, prima e unica fonte di Amore, l’uomo Dante e, tramite lui (con la Commedia), tutta l’umanità.

 

Dante era stato destinato fin da piccolo al matrimonio con Gemma Donati (celebrato nel 1295), che faceva parte di una famiglia legata allo stesso gruppo politico degli Alighieri, i Guelfi Bianchi. Egli è molto orgoglioso della sua appartenenza alla piccola nobiltà cittadina: partecipò alla battaglia di Campaldino nel 1289 come feditore a cavallo contro gli aretini e i ghibellini di Toscana e cominciò ad appassionarsi alla vita politica di Firenze, tanto da arrivare a far parte del Consiglio dei Cento e del Consiglio del Podestà, e ricoprire perciò la carica di priore. Proprio in questo periodo è costretto a prendere fortemente posizione nelle lotte intestine tra Bianchi e Neri, al punto da votare, nel Consiglio dei Priori, l’esilio di sedici esponenti delle due fazioni, tra i quali il suo amico Guido Cavalcanti.

Egli fu il capo dell’ambasceria inviata dal governo bianco nel 1301 presso Papa Bonifacio VIII, per chiedergli di rinunciare ad intervenire nelle vicende cittadine. Ma nel frattempo a Firenze i Neri presero il potere con la forza (appoggiati dallo stesso Papa), istituirono un processo contro i priori dell’ultimo biennio, i quali vennero condannati all’esilio in contumacia nel 1302. Fra costoro è Dante stesso, che così non poté mai più far ritorno in patria, ma decise di prendere la strada delle corti dell’Italia settentrionale e centrale: la dura esperienza dell’esilio (fino alla morte a Ravenna nel 1321) rappresenta un evento fortemente doloroso, l’abbandono ‘di ogni cosa diletta più caramente’ (Pd. XVII, v.55), e segnerà ogni suo scritto successivo. Ma nonostante la sofferenza egli rifiutò la possibilità di far ritorno, che gli venne offerta nel 1315, pur di non sottostare all’umiliazione di dover chiedere perdono di reati che non aveva commesso, e subì addirittura la condanna a morte in contumacia.

 

 

 

Il suo pensiero politico-religioso, segnato anche da questi avvenimenti dolorosi, teorizza una netta divisione tra l’incarico della Chiesa e quello dell’Impero: la prima è la depositaria della Rivelazione e via per la salvezza dell’anima, ma, per Dante, non può possedere alcun bene o potere temporale, che Dio ha affidato invece ai sovrani per garantire la pace e la giustizia in questo mondo. Egli perciò non può che criticare vivacemente l’operato del Papa in diverse occasioni, in particolare per la sua ingerenza nelle scelte politiche della “sua” Firenze, ma anche l’indifferenza dell’imperatore per le sorti dell’Italia, affidata legittimamente al suo governo, come possiamo leggere nelle tredici epistole che ci sono rimaste delle molte che inviò a cardinali, podestà e al sovrano stesso, Enrico VII.

 

Questo incompleto e breve ritratto del poeta sembra darne un’immagine piuttosto lontana dalla serenità francescana e dal distacco dalle cose mondane tipico del convento. Tuttavia altre fonti sostengono che Dante, fermatosi finalmente dopo il suo lungo peregrinare nelle corti italiane, nella città di Ravenna, sia entrato nel Terz’Ordine Francescano (è sepolto nella chiesa del convento di San Francesco) ed anche un dipinto di Giotto nella Basilica di Assisi pare che lo ritragga in queste vesti. Il fatto risulta verosimile, vista la grande ammirazione di Dante per il Santo di Assisi, lui che criticava aspramente le ricchezze e la corruzione della Chiesa, dimentica, a quei tempi, delle sue origini nella povera grotta di Betlemme.

 

Nella Commedia, Francesco fa una breve apparizione addirittura nell’Inferno, nel tentativo di salvare dalla dannazione l’anima fosca di Guido da Montefeltro, il quale si era fidato dell’assoluzione precedente il peccato, che papa Bonifacio VIII gli prometteva in cambio del consiglio giusto per eliminare i suoi avversari politici.

Nel Paradiso, poi, nel canto XII, 44-45 e 110-112 San Bonaventura, dopo aver lodato la vita di San Domenico, parla dei francescani degeneri e dei monaci corrotti, lontani dalla purezza del loro Santo fondatore; ancora, in XXII vv.88-90, San Benedetto ricorda che ‘Pier cominciò sanz’oro e sanz’argento,/e io con orazione e con digiuno,/e Francesco umilmente il suo convento’; infine, il posto di San Francesco nell’Empireo dei beati è in una posizione privilegiata, subito sotto San Giovanni Battista e di fronte alla Vergine (XXXII, 27-35: ‘E come quinci il glorioso scanno / della donna del cielo e li altri scanni / di sotto lui cotanta cerna fanno, / così di contra quel del gran Giovanni, / che, sempre santo, ‘l diserto e ‘l martiro / sofferse, e poi l’inferno da due anni; / e sotto lui così cerner sortiro / Francesco, Benedetto e Augustino, / e altri fin qua giù di giro in giro’).

 

 

Ma la vera celebrazione è nel canto XI, vv.28-117, nel quale il domenicano San Tommaso d’Aquino racconta la vita straordinaria del Santo di Assisi, situazione che si ribalterà nel canto seguente, in cui il francescano San Bonaventura da Bagnoregio elogerà San Domenico di Guzman, a sottolineare la fratellanza evangelica tra i due fondatori, e a rimproverare l’odio terreno a cui erano giunti i loro seguaci.

Dante, guidato da Beatrice, è arrivato al quarto dei nove cieli di cui è composto l’Empireo, precisamente a quello del Sole, nel quale si trovano gli spiriti sapienti: il primo beato che incontra è San Tommaso d’Aquino, accompagnato dal suo maestro Alberto Magno e da altre dieci anime. Egli, come poi san Bonaventura nel canto seguente, spiega a Dante l’importanza dei due santi fondatori: Gesù ‘sposò’ la Chiesa con il sacrificio del suo sangue, ed ebbe cura di lei tanto da affidarle due ‘principi’ che le fossero di guida, diversi fra loro per poter offrire un sostegno migliore: Francesco, acceso di mistico ardore di carità come un Serafino, e Domenico, luminosamente sapiente come un Cherubino. Lodandone uno, si esalta allo stesso modo anche l’altro, perché entrambi in vita avevano un unico scopo: il bene della Chiesa. Comincia così il racconto della vita di Francesco da parte del domenicano Tommaso: la città di Assisi, da cui nacque il Sole-Francesco, viene celebrata in ben quattro terzine, segue poi la giovinezza del Santo, tutta incentrata sulla metafora del suo amore per Madonna Povertà, talmente forte da indurre altri a seguirlo. Poi, cresciuta la famiglia francescana, Tommaso insiste sul ‘sigillo’ papale ricevuto da Innocenzo III, e successivamente anche da Onorio III; il terzo segno, che lo rese veramente ‘alter Christus’, furono le stimmate, ricevute ‘nel crudo sasso intra Tevero e Arno’. Vi è anche una parentesi sulla missione di Francesco in terra d’Oriente, dinanzi al Saladino, in cui si sottolinea il desiderio di sacrificare la propria vita; invece la morte avvenne sul suolo natio, lasciando alle cure dei suoi frati il bene più prezioso: Madonna Povertà.

Tommaso termina ribadendo che la stessa grandezza fu nel suo patrono, San Domenico, sebbene i suoi seguaci non siano più in grado di eguagliare la grandezza del fondatore, e ne abbiano abbandonato il sentiero, attratti dallo studio di cose vane, che finiscono per svuotarli della loro sapienza.

 

Ecco il passo preso in considerazione:

 

 


Intra Tupino e l’acqua che discende

Del colle eletto dal beato Ubaldo,

fertile costa d’alto monte pende,

onde Perugia sente freddo e caldo

da Porta Sole; e di rietro le piange

per grave giogo Nocera con Gualdo.

Di questa costa, là dov’ella frange

più sua rattezza, nacque al mondo un sole,

come fa questo talvolta di Gange.

Però chi d’esso loco fa parole,

non dica Ascesi, ché direbbe corto,

ma Oriente, se proprio dir vuole.

Non era ancor molto lontan da l’orto,

ch’el cominciò a far sentir la terra

de la sua gran virtute alcun conforto;

ché per tal donna, giovinetto, in guerra

del padre corse, a cui, come a la morte,

la porta del piacer nessun diserra;

e dinanzi a la sua spiritual corte

et coram patre le si fece unito;

poscia di dì in dì l’amò più forte.

Questa, privata del primo marito,

millecent’anni e più dispetta e scura

fino a costui si stette sanza invito;

né valse udir che la trovò sicura

con Amiclate, al suon de la sua voce,

colui ch’a tutto il mondo fé paura;

né valse esser costante né feroce,

sì che, dove Maria rimase giuso,

ella con Cristo pianse in su la croce.

Ma perch’io non proceda troppo chiuso,

Francesco e Povertà per questi amanti

prendi oramai nel mio parlar diffuso.

La lor concordia e i lor lieti sembianti,

amore e maraviglia e dolce sguardo

facieno esser cagion di pensier santi;

tanto che ‘l venerabile Bernardo

si scalzò prima, e dietro a tanta pace

corse e, correndo, li parve esser tardo.

Oh ignota ricchezza! Oh ben ferace!

Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro

dietro a lo sposo, sì la sposa piace.

Indi sen va quel padre e quel maestro

con la sua donna e con quella famiglia

che già legava l’umile capestro.

Né li gravò viltà di cuor le ciglia

per esser fi’ di Pietro Bernardone,

né per parer dispetto a maraviglia;

ma regalmente sua dura intenzione

ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe

primo sigillo a sua religione.

Poi che la gente poverella crebbe

dietro a costui, la cui mirabil vita

meglio in gloria del ciel si canterebbe,

di seconda corona redimita

fu per Onorio da l’Etterno Spiro

la santa voglia d’esto archimandrita.

E poi che, per la sete del martiro,

ne la presenza del Soldan superba

predicò Cristo e li altri che ‘l seguiro,

e per trovare a conversion acerba

troppo la gente e per non stare indarno,

redissi al frutto de l’italica erba,

nel crudo sasso intra Tevero e Arno

da Cristo prese l’ultimo sigillo,

che le sue membra due anni portarno.

Quando a colui ch’a tanto ben sortillo

piacque di trarlo suso a la mercede

ch’el meritò nel suo farsi pusillo,

a’ frati suoi, sì com’a giuste rede,

raccomandò la donna sua più cara,

e comandò che l’amassero a fede;

e del suo grembo l’anima preclara

mover si volle, tornando al suo regno,

e al suo corpo non volle altra bara.


 

Nell’introduzione al canto curata da Umberto Bosco e Giovanni Reggio, si sottolineano l’attenzione e la cura che Dante ebbe nell’accostare Francesco e Domenico: infatti le loro presentazioni, rispettivamente nel canto XI e nel XII, sono assolutamente speculari anche dal punto di vista metrico e contenutistico. Vengono presentati come impavidi cavalieri a difesa della Chiesa, scudo contro i suoi nemici esterni, gli eretici (San Domenico), e interni, gli ecclesiastici avidi di beni materiali (San Francesco): in entrambi i canti sono presenti termini guerreschi, a sottolineare la forza e l’energia dei due santi nelle loro scelte di vita e posizioni. Forse ciò va a discapito di molto altro, in particolare per San Francesco l’ardore serafico, soltanto accennato all’inizio dell’elogio, l’amore per le creature e il ‘Cantico di Frate Sole’, la profonda umiltà e la letizia nella sofferenza, i miracoli e lo spirito profetico.

 

Per lui, lo sposalizio con Madonna Povertà è un atto di guerra, e contro suo padre (‘per tal donna, giovinetto, in guerra / del padre corse’, vv.58-59), con un’energia data dalla consapevolezza che la sua strada gli era stata indicata da Dio stesso. Egli sceglie una compagna disprezzata da tutti per più di millecento anni, ma amata da Cristo stesso: si percepisce la tensione polemica, espressa in ben tre terzine, di Dante, che interpreta la scelta di Francesco come la rinuncia totale della proprietà personale, secondo la teoria dei francescani spirituali, e contro la posizione troppo lassista dei conventuali.

Segue la trattazione dell’opera del Santo, con il proliferare dell’ ordine e le due conseguenti approvazioni papali da parte di Innocenzo III e poi di Onorio III, e la missione in Oriente presso il Soldano. Quest’ultimo, nella Legenda Maior di San Bonaventura, fonte principale di Dante, viene presentato come una bestia feroce, ammansita però dalla presenza di Francesco; Dante invece insiste sulla superbia del sovrano per far risaltare maggiormente la forza d’animo del Santo, determinato a ricevere il martirio.

Infine, il transito: al momento della morte Francesco affida ai suoi frati ‘la donna sua più cara’, dalla quale non si separa mai, al punto da morire sulla nuda terra. In realtà la Legenda trascrive anche altre raccomandazioni da parte del Santo, in particolare l’obbedienza alla Regola, il lavoro e la sottomissione totale alla Chiesa in tutti i suoi rappresentanti; ma Dante, come altrove nel canto, si sofferma soprattutto sulla questione che più gli sta a cuore: l’elogio della povertà, intesa soprattutto come distacco e libertà dalle cose terrene.

 

 

Qual è il motivo di tanta insistenza? Il poeta, con molti suoi contemporanei, riteneva che la decadenza morale del suo tempo derivasse soprattutto dalla cupidigia, dalla sete dei ‘subiti guadagni’ portata innanzi dalla nuova classe sociale, tipicamente cittadina, dei mercanti, che avevano abbandonato i valori cavallereschi e cortesi della liberalità e dell’onore (tipici invece della nobiltà feudale, della quale Dante stesso faceva ancora parte) per anteporvi il benessere e il guadagno personale. Questo attaccamento alla gloria e al potere terreno risulta maggiormente grave quando intacca gli uomini di Chiesa, e lo stesso papa, ormai lontani dalla purezza della povertà evangelica e immersi nelle lotte per la supremazia politica: proporre in questo modo i due santi Francesco e Domenico per Dante significava indicare un esempio preciso sulla via da seguire per ritrovare la strada del Vangelo.

Il poeta prende così posizione nella questione che da decenni dilaniava l’ordine francescano e la Chiesa, sulla povertà di Cristo e degli Apostoli, che divideva i due gruppi degli spirituali (sfociati talvolta nell’eresia e pesantemente condannati) dai conventuali, definitivamente approvati questi ultimi nel 1323 da papa Giovanni XXII: Dante sembra essere più vicino ai primi, ma con un atteggiamento più moderato e intermedio, come quando presenta altri santi quasi come francescani ante litteram (così San Pietro e San Paolo in Pd XXI 127-129: ‘Venne Cefàs e venne il gran vasello / dello Spirito Santo, magri e scalzi, / prendendo il cibo da qualunque ostello.’), assumendo la stessa posizione che aveva preso San Bonaventura, ministro generale dell’ordine, in merito alla questione, come dimostra palesemente nel canto successivo.

 

Qui Dante sembra più distaccato rispetto all’XI, ma ciò soltanto per il fatto che problema della Povertà, come abbiamo visto, gli stava più a cuore che non la lotta agli eretici. In realtà i versi dedicati a S.Domenico sono altrettanti, e se nel canto precedente incontriamo un splendida perifrasi per indicare Assisi, nel XII vi è un ricercato artificio retorico con i nomi del Santo e dei suoi genitori, nel gusto tipico dell’epoca per le etimologie: ‘Domenico’ indica l’appartenenza a Dio, come custode dei suoi precetti o perché Dio l’ha custodito dai nemici, Giovanna sua madre è ‘piena di grazia’ di nome e di fatto, per non parlare del padre, Felice (vv.67-81). Dante non aveva comunque a disposizione la stessa quantità di notizie sul Santo spagnolo, perché nel secolo intercorso tra la sua morte e la stesura della Commedia l’agiografia si era concentrata di più sulla figura di S. Francesco.

I canti XI e XII costituiscono perciò un disegno unitario, secondo la visione eroica che Dante ci offre di questi due Santi i quali, secondo un unico progetto divino, accorrono da due opposti angoli del mondo (Oriente ed Occidente) a sorreggere il timone della barca di San Pietro, alla deriva nelle avversità e nelle tentazioni della vita terrena, sopportando angustie, nemici e privazioni, per giungere finalmente alla più alta delle ricompense, la visione estatica di Dio, nell’Empireo.