TRATTORIA DEI CACCIATORI

I primi giorni del gennaio del 1943, durante l’infuriare della seconda guerra mondiale, i miei genitori decisero di lasciare Torino a causa dei bombardamenti che stavano devastando la città.
Trovarono alloggio a Luserna S. Giovanni in un quartiere che si chiamava “Borg d’i sangrìn”, borgo dei dispiaceri, nome che la diceva lunga sulla maestosità del luogo.
Non so perché i miei avessero deciso di sistemarsi in un posto così orribile, in un alloggio squallido di una casa vecchia con un cortile grigio su cui guardavano altre case grigie.. Proprio non me lo so spiegare dato che le nostre condizioni economiche non erano così disastrate, forse faceva parte di una mentalità da “cupio dissolvi”, dovuta all’umiliazione e all’avvilimento causati dalle leggi razziali, che avevano colpito ed emarginato i cittadini di “razza ebraica” sin dal 1938, o forse in quella casa brutta e buia speravano di mimetizzarsi meglio, nascondendosi in una tana in attesa di giorni migliori.
I primi tempi dopo il trasferimento i miei genitori sovente si assentavano nel pomeriggio, andavano a Torino a prelevare da casa oggetti di valore, argenteria, gioielli, per nasconderle a casa di conoscenti valdesi.
Molti valdesi in quel periodo si incaricarono di custodire i beni degli ebrei, e furono pochi quelli che approfittarono della situazione.
Nacque così a Torino un sodalizio tra ebrei e valdesi, sodalizio che continuò anche dopo la guerra, quando molti valdesi mandarono i loro figli alla scuola ebraica di Torino.
Allora, per riempire i pomeriggi in cui i miei genitori si assentavano, mia madre aveva trovato una signorina che doveva portarmi a spasso e insegnarmi il francese.
Io allora ero una bambina un po’ selvatica e solitaria cresciuta in mezzo agli adulti.
Portavo due treccine sul capo fissate da un fermaglio e sovrastate da un grande fiocco bianco, era stata quella l’unica pettinatura con cui mia madre era riuscita ad imbrigliare i miei capelli dritti e ribelli. Dapprima nessun fermaglio era riuscito a tenere appiattite sulla testa quelle due treccine, ma alla fine mia madre comprò riluttante un grosso e robusto fermaglio tedesco che riuscì finalmente all’uopo.
Lo chiamavamo tedescone, e mi stringeva i capelli talmente forte, che mi lasciava indolenzito tutto il cuoio capelluto.
Io, quei pomeriggi con la signorina del francese, li trovavo noiosissimi. Andavamo a spasso insieme e la signorina m’indicava tutto quello che vedevamo passeggiando, oggetti, animali e piante, mi traduceva i loro nomi in francese e io dovevo ripeterli.
Non avevo nessuna voglia d’imparare il francese, un po’ perché ero inquieta per l’assenza dei miei genitori, e un po’ perché non capivo l’utilità di mettermi in testa quelle parole strane dato che non avevo ancora 5 anni, però non mi sarei mai sognata di dire “non ne ho voglia”, era una frase che mia madre non avrebbe accettato.
Così imparai stancamente le prime parole di francese.
Un giorno la mia insegnante, per dimostrare ai miei genitori che non sprecavano tempo e denaro, mi insegnò una frase intera che avrei dovuto recitare al loro ritorno.
La frase diceva così: “Mon cher papa, ma cher maman, je suis contente que vous etes arrives”.
La signorina me la fece ripetere per tutto il pomeriggio e la sera del mio debutto non riscossi il successo sperato, e anche se i miei genitori si congratularono con me, io capii che erano distratti, che c’erano altre cose per loro ben più importanti di me e delle mie frasi di francese.

Quella casa di “Borg d’i sangrìn”, nonostante il suo squallore, si rivelò una casa molto viva. Non eravamo i soli sfollati, anche altra gente si era rifugiata lì per sfuggire ai bombardamenti.
C’era Sandra, una bellissima donna vedova di un aviatore, che viveva con la madre e i suoi due bambini, Marcella e Rodolfo, con cui io ogni tanto giocavo.
Sandra era gentile, sempre sorridente, con delle belle labbra truccate di un color rosso acceso, aveva l’aria contenta, era giovane, bela e splendente e mia madre diceva che era anche molto buona. Si era fatta un amico, un bel ragazzo anche lui, che ogni tanto veniva a trovarla.
Un giorno, in un grande alloggio al pian terreno, si installarono i Boari.
L’amicizia coi Boari fu la luce che illuminò il periodo cupo della guerra, e fu importante soprattutto per mai madre, le asciugò molte lacrime e le evitò di versarne altre. I Boari erano un gruppo allegro e composito, ma di un’allegria non banale, e passavano lietamente tra i drammi della vita senza perdere il loro spirito e il loro buon umore. Quello che i miei genitori, e in particolare mia madre amavano in loro, era il loro stile di vita un po’ bohémien, la loro assoluta mancanza di conformismo.
Capo famiglia era mamma Lina, una signora dai capelli nerissimi annodati in due grosse trecce attorno alla testa, che si occupava con aria energica e decisa dell’andamento della casa e di un marito malato che era sovente a letto.
I Boari avevano due figli, Gianni e Nanda. Anche Nanda aveva delle grosse trecce annodate sul capo, ma non così nere come quelle di sua madre, erano castane con riflessi chiari, e aveva grandi occhi verdi bellissimi ed espressivi e una risata allegra, comunicativa.
Gianni assomigliava a sua madre, aveva i capelli neri, ondulati e gli occhi scuri come i suoi, ma il suo sguardo era meno accigliato di quello della madre, più vellutato e più dolce. Era molto curato nell’aspetto e aveva modi garbati e suadenti.
Per la casa girava anche il signor Bonifanti, un uomo sulla quarantina, buffo, quasi calvo e con i baffetti a spazzola, ed era, a sentire i miei genitori, molto spiritoso.
I Boari arrivavano da Firenze e da Firenze avevano portato con loro la fidanzata di Gianni, Mimma, con la madre. Le due donne erano rimaste sole e Mimma stava lentamente consumandosi per una tubercolosi ossea. Mimma aveva lunghi capelli lisci, occhi scuri ed enormi nel viso smagrito. Era ormai quasi uno scheletro, tenuto in vita dall’amore e dalle premure di Gianni.
I boari erano innamorati di Firenze e cantavano sempre canzoni di Spadaio “Partivo una mattina col vapore…” “La porti un bacione a Firenze…”.
Nanda e mamma Lina cantavano sovente: “I’ciò la mia biondina, un sarà scicche, l’è forse un po’ cialtrona, ma io l’amo e senza reticenze, perché l’è come l’è di Firenze”.
I Boari erano innamorati del parlar toscano e dicevano che i fiorentini e i toscani in genere parlavano come poeti. Raccontavano sempre la storiella del contadino della campagna senese a cui era stata chiesta l’indicazione della strada per Siena. “La passi il ponte, la varchi il monte e Siena le parrà di fronte” aveva risposto il contadino.
Questa risposta mi aveva incantata e sovente, saltando sull’acciottolato grigio del cortile della casa del “Borg d’i sangrìn”, continuavo a ripetere: . “La passi il ponte, la varchi il monte…..”, e mi immaginavo una campagna aperta e assolata, mentre un contadino col cappello marrone indicava cantando la strada.

In anni più tardi, mia madre si chiese sovente pensando a quei tempi, come non si fosse resa conto del dramma di Mimma, che assisteva silenziosa ai nostri canti e alle nostre risate, quando aveva poco più di vent’anni e sapeva di dover morire.
“E pensa a sua madre”, mi diceva “povera donna”.
La mamma di Mimma aveva i capelli tirati indietro in una crocchia e cuciva tutti i giorni con gli occhiali sul naso. Sapeva fare molto bene certe frittelle dolci, e sovente le chiedevano “le frittelle, le frittelle”, e tutti gridavano battendo le mani. Lei alzava gli occhi al cielo, posava in silenzio il suo cucito e andava in cucina ad impastare.
“Povera donna” diceva mia madre “certo che io non capivo proprio niente”. Mia madre allora non aveva ancora trent’anni, e le erano piombate sulla testa subito dopo la mia nascita, le leggi razziali, che l’avevano cacciata dal lavoro, dalla sua amata Procoltura e da ogni tipo di partecipazione pubblica, e infine la guerra. Non aveva occhi che per i suoi problemi.
Io ascoltavo distratta, le canzoni e le risate che si facevano sovente seduti attorno alla tavola in casa dei Boari, dove oltre a noi veniva spesso anche Sandra, che i Boari chiamavano Fiandra, con la sua bocca rossa e ridente, sola o in compagnia.
La mia attenzione però era soprattutto attratta da Gianni e Mimma, seduti discosti su un divano a coccolarsi e guardarsi negli occhi.
Io non avevo ancora cinque anni, ma era già molto forte in me la suggestione del grande amore. Gianni si occupava esclusivamente di Mimma, la accarezzava, la baciava, e quando uscivamo a fare due passi, le teneva il braccio e camminava a passettini brevi e corti, leggermente strisciati come faceva lei, e appena vedeva un sasso, un ruscelletto, la prendeva in braccio e sembrava che sollevasse una piuma.
Io camminavo dietro di loro, piano,piano uniformando il mio passo ai loro passetti lenti, gli occhi incollati a quei due che neanche mi vedevano.
Mia madre diceva che Gianni era un po’ artista e cercava di fare della sua vita un’ opera d’arte. Si era fabbricato da solo una carta d’identità falsa in modo perfetto, costruendosi i timbri, mettendo insieme le lettere, un collage senza difetti che gli aveva permesso di non partire per il fronte.
Mamma Lina era un’ebrea d’origine tedesca convertita al cattolicesimo, ma sulle sue carte figurava ancora scritto il suo cognome ebraico. Gianni ignorava del tutto questo ascendente, su cui anzi qualche volte ironizzava con un certo distacco, Nanda invece ne era molto compresa, tanto da osservare ogni anno il digiuno del Kippur.
Vivevamo tutti così un po’ sospesi, lasciando che passasse il tempo finché la guerra non fosse finita e non fossero tornati tempi migliori.

Mio padre continuava a fare avanti e indietro con Torino, e dopo un po’ di tempo erano venuti a stabilirsi a Lucerna anche i miei nonni insieme a mio zio Dario (mio padre, sich…n.d.r.), che si era laureato in gran fretta così come mia madre, prima che le leggi razziali li chiudessero definitivamente fuori dall’università.
Mia nonna annotò così il suo arrivo a Lucerna in un’agendina intitolata solennemente: “ Ricordi di guerra”
“Gennaio 1943: ci siamo stabiliti a Lucerna in un’ orrida casa diroccata con le finestre simili a quelle delle prigioni”.
Così passò l’inverno e poi l’estate e arrivò l’8 settembre con i suoi brevi attimi di euforia. E poi i tedeschi e l’annuncio che tutti gli ebrei dovevano essere deportati in campo di concentramento. I miei genitori e i miei nonni capirono che l’unica cosa da fare era andare via da Lucerna e procurarsi dei documenti falsi.
Mia madre era terrorizzata, voleva andare via da Lucerna il più presto possibile perché lì eravamo conosciuti e avrebbero potuto trovarci subito e anche le carte false sarebbero parse assurde in tutto il loro valore effimero.
Mentre si facevano i preparativi per andare via da Lucerna, l’atmosfera in casa era tesissima, tanto che io mi ammalai e mi venne la febbre molto alta.
Sentivo che la mia malattia era un disturbo, anche la mia esistenza era un disturbo, tanto che un pomeriggio, mentre tutti si affaccendavano per la partenza, quando sentii borbottare “Ci mancava anche la febbre”,mi alzai tutta rossa a sedere sul letto e gridai “Ma come si fa a stare bene in una casa così!”
La frase venne annotata, non so se ebbe qualche effetto, ma mia madre se la ricordò per anni.
Mia nonna scrisse sulla sua agenda: “1° dicembre 1943 data tragica. Addii accorati la mattina di questo infausto giorno. Adri, Ennio, Dario e la piccola ci hanno lasciati e si sono diretti nelle langhe senza avere una meta. Mio marito ed io, carichi dei nostri bagagli, abbiamo peregrinato per 5 giorni sotto la pioggia senza casa né tetto, visitando qualche baita inospitale in cui non abbiamo trovato rifugio.”

Infine i miei genitori e i miei nonni decisero di andare a Monforte d’alba dove viveva Atonia. Atonia era stata per anni governante a casa dei miei nonni, ed era rimasta molto legata a mia nonna anche dopo che si era sposata ed era andata a vivere a Manforte.
Atonia aveva chiamata una delle sue figlie Adriana, come mia madre, L’ultima che si chiamava Iolanda era invece quasi mia coetanea e avevamo spesso giocato insieme.
Atonia e la sua famiglia vivevano in una grande cascina che aveva attorno molti vigneti.
Andammo quindi a Manforte d’Alba i miei nonni, mio zio Dario, i miei genitori ed io, e rimanemmo li un po’ di giorni cercando una qualche sistemazione.
Non ricordo nulla di quel soggiorno, eccetto l’impressione molto netta di una cena con una grande tavola apparecchiata dove sedevano molte persone e dove i miei genitori e i miei nonni avevano la testa china. Avevo la sensazione ben precisa che sia i miei genitori che i miei nonni si sentissero in qualche modo umiliati e avviliti e che la loro presenza non fosse gradita, ma tollerata.
A un certo punto mandarono me e Iolanda a giocare nel cortile, e anche il modo in cui me lo dissero era diverso dal solito. Io ero abituata ad essere trattata come la signorina di città che veniva in visita in campagna accolta con tutti gli onori, invece quella sera mi sentii una piccola scocciatrice che dovevano togliersi di torno e cercare di non dare fastidio.
Ne ricavai una sensazione d’inferiorità per me e la mia famiglia, una sensazione nuova e spiacevole, che mi diede un senso di insicurezza e di angoscia sottile.
Solo quella sera ricordo di quel soggiorno, durante il quale invece l’attività fu febbrile, e portò a una sistemazione per tutta la famiglia e all’indaginosa fabbricazione delle carte false.
L’idea di cambiare nome, cognome, indirizzo e luogo di nascita, così, tutto a un tratto da un giorno all’altro, fu scioccante soprattutto per i miei nonni, i quali infatti cercarono di cambiare il meno possibile, e da Debenedetti passarono a Benedetti. Mio zio prese invece il nome di Mario Spano nato in Sardegna.
Noi da Piperno diventammo Paterno. Mio padre Ennio diventò Enrico e mia madre Diana Rossi fu Rino, nata a Maglie in provincia di Lecce.
In un primo tempo mia madre figurò figlia di N.N., ossia di padre ignoto, tanto per evitare un altro nome da ricordare, ma la cosa a mio padre non garbò affatto, disse che saremmo andati a vivere in un paese, dove questo fatto sarebbe stato subito notato e avrebbe generato delle chiacchiere, che era proprio quello che si voleva evitare.
Così mio nonno divenne fu Rino.
Mio padre non volle rinunciare alla sua origine romana e anch’io figurai nata a Roma.
Roma non era ancora stata liberata dagli alleati, ma si sperava che lo sarebbe stata presto e le nostre origini dovevano figurare il più lontane possibili, nebulose e praticamente impossibili da verificare.
Non riuscii mai a spiegarmi perché mio zio, che continuò a proclamarsi figlio dei miei nonni, si chiamasse Mario Spano mentre i miei nonni si chiamavano Benedetti, e quando gli chiesi qualche spiegazione in anni recenti, mi rispose che quel nome era frutto della vivace fantasia di mia madre, e che tanto tutti sapevano tutto di noi, e che insomma non se lo ricordava,e così mi resi conto che non era possibile ripercorrere i cammini mentali che ci portarono ad assumere delle generalità così palesemente assurde.
In realtà mio padre continuò a chiamare mia madre Adriana anziché Diana, e a chiunque chiedesse spiegazioni rispondeva che Diana era stato il nome di una cagna che lui aveva avuto quando era ancora bambino e a cui aveva voluto molto bene, e siccome aveva sofferto tanto quando era morta, e siccome questo nome gli ricordava il suo cane, lui non voleva chiamare mia madre così.
A me questa storia del cane non convinceva affatto e mi ci arrovellavo sopra.
Avevo notato che mio padre non amava le bestie e non degnava di nessuna attenzione né i cani né alcun altro animale, e mi scervellavo ad immaginare come doveva essere stata questa cagna che si chiamava Diana, a cui mio padre era stato tanto affezionato da non poter più neppure pronunciare il suo nome.
Me la immaginavo, non so perché, una cagna grande di pelo marrone e con le orecchie lunghe e ne ero anche un po’ gelosa.
Ero gelosa di questo rapporto così particolare di cui nessuno parlava mai e che mio padre non aveva mai citato tra i suoi ricordi d’infanzia e di adolescenza.

Assunte le nostre nuove generalità ci sistemammo. Io, i miei genitori e mio zio Mario Spano ci stabilimmo a Rodino, in due diverse camere di un albergo che faceva anche da ristorante e che si chiamava Trattoria dei Cacciatori, i miei nonni, invece, trovarono una camera a Cravanzana in un alloggio in coabitazione.
La padrona della Trattoria dei Cacciatori si chiamava Marianìn, e gestiva l’albergo con l’aiuto, si fa per dire, di un marito taciturno e vinto che teneva sempre il cappello in testa,del figlio Luciano, un bel ragazzo bruno coi capelli vistosamente ondulati, e della figlia Piera, una ragazza bionda molto carina dall’espressione spesso corrucciata. Dalla sua bocca, sempre perfettamente truccata, uscivano parolacce terribili e insulti, per lo più indirizzati alla madre che pretendeva aiuto per i lavori domestici.
Una volta Marianìn la chiamò ripetutamente dal cortile. Vidi Piera arrivare di corsa sul balcone dove ero seduta io, la testina bionda accuratamente pettinata e la bocca truccata, sporgersi dalla ringhiera e urlare con quanto fiato aveva in corpo: “Merda!”, e altrettanto rapidamente sparire. Rimasi folgorata. Una parola così a casa mia non si sarebbe mai potuta pronunciare, invece Piera l’aveva gridata così, tranquillamente, e sua madre era rimasta zitta, pietrificata nel cortile, e poi era rientrata tristemente a casa in silenzio.
Luciano invece si era arruolato nei partigiani, un po’ perché non avrebbe saputo cos’altro fare, un po’ per darsi arie con le ragazze. Comandava un gruppetto di giovanotti come lui e la sua frase preferita era “Curagi, fieùi, scapùma”, coraggio ragazzi scappiamo, pronunciata ogni volta che nei dintorni comparivano i tedeschi o i fascisti.

Noi tre dunque ci installammo in una camera dove c’era un letto matrimoniale con la spalliera nera in ferro, una brandina per me nella parete opposta, un piccolo tavolo dove mangiare, leggere e fare i compiti, e un ripiano con un fornellino elettrico dove mia madre cucinava. Per lavarsi c’era un catino con la brocca per l’acqua. L’acqua bisognava prendersela nel pozzo che era situato nel cortile. Il gabinetto, comune, era sul balcone.
Mio padre cominciò a dire che nel catino non si sarebbe lavato, perché mio padre considerava lavarsi nel catino il massimo della degradazione.
“Non voglio sciacquarmi nell’acqua sporca”, ripeteva. Lui voleva l’acqua corrente, così la prima volta che andò a Torino prese un enteroclisma e lo appese sulla parete vicino al letto. Tenevamo in camera due secchi dell’acqua del pozzo, e con quella si cucinava e si riempiva l’enteroclisma per lavarci.
Quando si apriva il rubinetto, un filino d’acqua scendeva nelle nostre mani riunite a coppa. Occorreva qualche minuto per riempirle, ma mio padre era contento perché così si lavava con l’acqua corrente. Per parecchio tempo, per me, il concetto di acqua corrente restò legato al filino d’acqua che scendeva da qual cilindro di vetro con le guarnizioni di gomma arancione, e mi arrabbiavo e mi offendevo quando qualcuno rideva vedendoci usare l’enteroclisma per lavarci le mani.
Perché per ogni bambino
la verità, l’assoluto, il mondo, è la realtà della sua casa.

Sul letto dei miei genitori e sulla mia brandina erano appesi due quadri con l’immagine di Gesù Cristo e della Madonna. Avevano una cornice nera, ovale. La Madonna era vestita con un manto azzurro, mentre Gesù aveva una tunica marrone, e in entrambi il vestito era aperto a livello del cuore. Il cuore della Madonna era marroncino attraversato da una striscia azzurra con dei cuoricini rossi disegnati in fila, mentre quello di Gesù era rosso, ma con la stessa striscia di cuoricini azzurri. La sera, sdraiata nella branda, io non riuscivo a staccare gli occhio da quei quadretti.
Non sapevo decidere se preferivo il cuore marroncino della Madonna o quello rosso fuoco di Gesù, ma una cosa m’affascinava in tutti e due, ed era quella striscia colorata con i cuoricini rossi colorati dentro. Mi chiedevo se anche il mio cuore, che sentivo battere sotto le mie dita quando le posavo sulla giacca del pigiamino, fosse attraversato da una striscia colorata con tanti cuoricini dentro. Avrei dato non so cosa per avere anch’io un cuore fatto così.
Queste immagini si trovano ancora oggi in qualche vecchia casa di contadini, e quando mi è capitato di rivederle dopo anni, ho provato delle sensazioni forti di voci, di odori e di atmosfere rimaste sepolte in qualche angolo sconosciuto della mente e dei sensi.
Nella camera di fronte alla nostra vivevano i Nicola. Lui, il marito, l’aria perennemente aggrondata, teneva sempre un berretto in testa, parlava esclusivamente in dialetto piemontese ed era, a sentire i miei genitori, molto spiritoso.
La moglie Palmina, grassa e mansueta, era la sorella di Marianìn la padrona dell’albergo. Avevano un figlio, Giorgio, mio coetaneo, che diventò presto mio compagno di giochi.
La signora Palmina era ridente e allegra e la mattina, facendo i lavori, spesso cantava canzoni d’amore. Erano canzoni liete, mai struggenti, una in particolare, parlava di una donna lasciata dall’amato, che anziché disperarsi e lacrimare, rispondeva così all’ingrato che non voleva vederla più:
“Amici ne ho tanti, starò senza di tu”.
La grammatica è la grammatica, ma la rima, si sa, in una canzone d’amore è tutto.

Quando cominciò a fare freddo, scaldavamo la stanza con una stufetta che andava a legna o a carbone, a seconda di cosa si trovava, e anche se la stufetta era sempre rovente la stanza si riscaldava appena. Nicola sedeva corrucciato davanti alla sua “stùva”, il berretto sempre calato in testa: “Sta stùva va a giàsa”, diceva perché secondo lui la stufa non scaldava mai abbastanza.
Mia madre s’era comprata una macchina per fare la pasta, dato che la farina era abbastanza facile da trovare, e ne magnificava le comodità alla signora Palmina. Nicola, lui, sogghignava. “Che machina d’la pasta”, diceva sarcastico, “ma che machina, mi l’uai mia fumna che l’ha dui bràs ch’asmìu dui para chèr”.
Mio padre rise per anni ricordando Nicola che aveva la stufa che andava a ghiaccio e la moglie con le braccia grosse come paracarri.
In realtà fare la pasta con la macchina era abbastanza faticoso. Guardavo con attenzione mia madre impastare la farina con l’acqua, e in casi eccezionali aggiungerci un uovo, e ottenere il primo foglio spesso che veniva inserito a fatica nella macchina. Girando una manovella con forza, il foglio usciva più omogeneo, appiattito e allargato. Si infilava allora in una scanalatura più piccola e così avanti finché si aveva un foglio grande e sottile. A questo punto venivano inserite le rotelle con la forma di pasta desiderata. Si passava dentro il foglio, e uscivano le tagliatelle che venivano allineate in bell’ordine sul tavolo.
Poi cuocevamo le tagliatelle sul forellino condendole con olio di nocciole che era l’unico olio che potevamo procurarci. Siccome il gusto delle tagliatelle non si sposava con quello dell’olio di nocciole, mia madre aveva provato a scremare il latte e a sbattere la panna in un barattolino per fare il burro.
Dopo aver agitato il barattolo tutto il pomeriggio, era venuta fuori una noce semisolida di burro che non valeva certo tutta la fatica che era costata, per cui da quel giorno mia madre decise di condire la pasta con la panna del latte, “tout court”.
“Che strazio questa pasta”, commentava mia madre che per il resto della sua vita ne mangiò sempre pochissima, perché diceva che si era nauseato con quelle tagliatelle appiccicose e poco condite che mangiavamo così spesso a Roddino.
In realtà eravamo dei privilegiati ad avere della farina e il pane bianco che acquistavamo ogni mattina dal panettiere in fondo alla strada. Il pane ce lo serviva una donna allegra e florida, mentre suo marito, il fornaio, era pallido e magro e tutto coperto di farina. Infornava senza sosta una grande pala con i panini crudi ben allineati sopra.
Mia madre l’aveva soprannominato lo schiavo bianco. Il pane bianco spesso lo mangiavamo con la toma che acquistavamo nelle cascine dei dintorni. La toma aumentava sempre di prezzo e i contadini si lamentavano e sospiravano: “ Che tempi!. Guardi a quanto dobbiamo vendere la toma!”. Sembrava dovessero pagarla loro. La toma migliore la vendeva una contadina che abitava un po’ fuori del paese, alta, magra, l’aria sfiancata, che teneva sempre un bimbo in collo.
C’è una foto di me allora, in piedi nel prato davanti alla casa della contadina.
Si vede la figura sfuocata di una bambina con un grande fiocco bianco un po’ floscio sulla testa, una mela già morsicata in mano, una gonnellina corta e un golfino troppo stretto, insomma una bambina di guerra, che aveva smesso molto presto i vestitini ricamati a nido d’ape e le scarpine di pelle bianca.

Un pomeriggio in cui eravamo andati al solito a comprare la toma, trovammo una coppia, marito e moglie, che stavano parlando con la contadina. Salutarono mio padre a mezza bocca e la contadina s’affrettò a spiegarci che venivano anche loro da Torino e che erano degli sfollati come noi. Uscendo mio padre disse a mia madre che era rimasta fuori: “Sai chi c’era dentro? O. Levi. Io lo conoscevo, quasi quasi vado a salutarlo”. Mio padre ritornò nella cascina e con una scusa riuscì a rimanere solo con i nuovi venuti.
“Scusi”, disse all’uomo, “lei è Levi vero?”
“Si” rispose altro mentre la moglie taceva pallida come una morta.
“Non si preoccupi” le disse mio padre “io sono Piperno”.
La signora riprese colore. Dissero che si erano stabiliti lì con i loro figli, e che l’ultima, di pochi mesi, l’avevano messa a balia dalla contadina che l’avrebbe allattata insieme al bambino che teneva sempre in collo.
La signora Levi per l’agitazione e le ansie non aveva più latte, e l’uso di dare i bambini a balia era ancora abbastanza diffuso.
Così incominciammo a frequentarci coi signori Levi e io giocavo con Dede che era la maggiore di me di due anni. Dede era una bambina di poche parole, ma molto più sveglia di me. Sapeva capire le situazioni e per questo venne iscritta subito alla scuola elementare di Rodino.
Anch’io avrei dovuto andare a scuola e fare la prima elementare, ma mia madre, con la scusa che era maestra, disse che mi avrebbe insegnato lei stessa a casa.
In realtà io sapevo già leggere e scrivere, e la vera ragione per cui mia madre non voleva che andassi a scuola era perché aveva paura che io mi lasciassi sfuggire qualche frase compromettente o che facessi qualche domanda fuori luogo.
In effetti io avevo frequentato un anno all’asilo ebraico, ma di quell’anno apparentemente non ricordavo nulla, ed era proprio quel nulla che spaventava mia madre, che lo intuiva come una bomba innescata che poteva esplodere in ogni momento con delle conseguenze al di fuori del suo controllo.
Una volta in fatti Dede raccontò che avevano portato tutti i bambini a fare la comunione.
“E tu che cosa hai fatto?” le chiese mia madre.
“Ho visto come facevano gli altri e l’ho fatto anch’io” rispose Dede tranquilla.
Sentii palpabile l'ammirazione di mia madre per la giudiziosità di Dede e nello stesso tempo avvertii con chiarezza che mia madre sapeva, come me d’altronde, che le mie reazioni sarebbero state del tutto opposte. Io mi sarei affrettata a dire che non avevo mai fatto la comunione, che non sapevo come si faceva, avrei chiesto e dato pericolose spiegazioni. Non mi sarei mai comportata come Dede.
Sentii su di me il peso di un giudizio negativo che riguardava tutto il mio modo di essere e comportarmi, spesso imprudente e poco saggio, e che dato il momento poteva essere molto pericoloso.

Un’altra volta con Dede avevamo inventato un giochino. Avevamo messo a nudo la radice di un grosso albero che cresceva davanti alla loro casa, ne avevamo scalzato via la terra sopra e sotto, così che la radice aveva assunto l’aspetto di un ponticello.
Avevamo stabilito che la prima che fosse riuscita a passare sul ponte senza che l’altra fosse riuscita a prenderla avrebbe vinto, se invece fosse stata toccata mentre passava sul ponticello avrebbe dovuto pagare pegno.
Questo gioco ci costrinse a sorvegliarci l’un l’altra per più giorni e alla lunga io mi stufai, mi pareva un gioco stupido, anche perché tutte le volte che cercavo di passare, Dede mi pizzicava. Anch’io però ero riuscita a non farla passare.
Poi passarono alcuni giorni di quiete e dentro di me avevo deciso che il gioco era finito. Che probabilmente anche Dede si era stufata, ma improvvisamente un pomeriggio, mentre ero seduta tranquilla accanto a mia madre che chiacchierava con la signora Levi, Dede uscì di corsa e passò velocissima sul ponticello con una risata allegra, beffarda.
Io le feci cenno come per dire “non me ne importa niente” , ma non era vero.
La sconfitta mi bruciò moltissimo, e soprattutto mi bruciò la sua sghignazzata di vittoria. Ancora una volta mi sentii inetta di fronte a Dede, senza la sua astuzia e la sua prontezza nel saper capire e sfruttare le situazioni.
Così bisognava essere quando ci s’impegnava in una sfida, sempre vigili e attenti a capire il momento giusto per sconfiggere l’avversario. Ne trassi melanconiche deduzioni sulle mia capacità e altrettanto melanconiche previsioni per il mio futuro.
Dede non era la mia unica compagna di giochi, a casa c’era Giorgio il figlio della signora Palmina. Giorgio era un bambino grasso e allegro che non aveva voglia di studiare. Ogni tanto, quando prendeva un brutto voto, mia madre gli dava qualche ripetizione. Così ci sedevamo tutti e tre intorno alla tavola, Giorgio mia madre ed io, a fare i compiti.
Finito di studiare mia madre sovente ci raccontava delle fiabe, di Andersen, dei Fratelli Grimm o addirittura inventate da lei, ma ogni tanto non ne aveva voglia, e io allora cominciavo a frignare e Giorgio a implorare: “E ce la conti signora Paderno e ce la conti!”.
Questa frase rimase famosa in famiglia, tanto che per anni, quando mia madre usciva con le sue amiche o andava a qualche conferenza e al ritorno era avara di cronache e resoconti, mio padre ed io le giravamo intorno dicendo: “E ce la conti signora Paderno e ce la conti!”.
Oltre ai compiti e alle favole Giorgio ed io passavamo anche molto tempo a giocare, e lui sovente mi faceva arrabbiare perché era prepotente. Una volta eravamo seduti insieme sul balcone che dava sull’aia e sentivamo passare gli aerei, aerei da combattimento con il loro caratteristico minaccioso rimbombo, che è rimasto dentro di me come uno dei suoni caratteristici della mia infanzia.
“A quest’ora tuo papà è già morto”, mi disse Giorgio guardando il cielo.
“E il tuo?” chiesi io seccata.
“Oh il mio morirà tra mezz’ora”, rispose lui con tono sicuro. I nostri padri erano partiti in bicicletta la mattina presto alla volta di Alba, e di lì avrebbero preso il treno per Torino. Ero scocciata che Giorgio trovasse logico che mio padre morisse per primo.
I bombardamenti sulla ferrovia erano frequenti. Una volta mia madre aspettava mio padre per la sera e mio padre non arrivò.
Si sparse la voce di un grande bombardamento su Torino con molti morti e le ferrovie interrotte. Mia madre, senza alcuna possibilità di avere notizie, era talmente disperata che fece un voto alla Madonna. Mio padre l’indomani tornò.
Molti anni dopo mia madre mi diceva: “Ma ci pensi ho fatto un voto alla Madonna e lei mi ha esaudito. Un’altra persona al mio posto magari si sarebbe convertita”.
“Ma va”, le dicevo io, “in fondo è una madre ebrea che ha fatto un favore ad un’altra madre ebrea”.
Noi allora vivendo in paese dovevamo andare tutte le domeniche a messa.
Le messe le officiava don Rinaldi, un prete grasso col viso pasciuto e rubicondo, che quando dal pulpito parlava degli orrori della guerra diceva: “Fa pena, sapete, fa pena”.
I miei genitori trovavano molto comico il contrasto tra l’espressione compunta e la faccia rubizza del prete, tanto che da allora, quando la guerra era già finita da un pezzo, ogni volta che sentivamo annunci di disgrazie o di catastrofi nel mondo, commentavamo: “Fa pena, sapete, fa pena”.

Quando si verificava un bombardamento particolarmente violento, tutte le donne del paese venivano convocate da don Rinaldo a dire il rosario. Mia madre la prima volta ci andò riluttante non sapendo che scusa trovare per tirarsi indietro, ma poi disse che trovava estremamente rilassante ripetere cantilenando in coro le stesse preghiere per tanto tempo.
“Non ho mai detto tanti scemàn tutti insieme”, mi disse anni dopo, “però dicevo anche i Pater noster”.
Mia madre, in mezzo ai Pater noster e le Ave marie del rosario, recitava a mezza bocca lo “scemàn Israel”, la professione di fede di ogni ebreo, per sentirsi giustificata e farsi perdonare dal Dio unico e geloso la sua involontaria vita di marrana.
Essere ebreo non è solo appartenere a una religione, è un cammino difficile in cui non ci si aspetta né comprensione né indulgenza.
Anche Dio spesso è severo col suo popolo, impartisce ordini, impone precetti, e la pietà e il perdono quando arrivano, fanno sempre parte dello stesso vento impetuoso che può carezzare o distruggere.
Così mia madre, dopo le angosce e lo smarrimento provocatole dalle leggi razziali e dalle discriminazioni che ne erano seguite, si abbandonava con sollievo alla coralità consolatoria della religione cattolica. Sperimentava l’immediato conforto della preghiera comune nella comunità paesana, e si sentiva finalmente una tra gli altri, una che faceva parte della maggioranza e non di una minoranza braccata e perseguitata.
Era dolce dimenticare per qualche momento di appartenere al popolo eletto, custode di un patrimonio spirituale così difficile da conservare e da difendere.
Tornata a casa dopo il rosario, mia madre ripeteva imitando le “e” dilatate delle langarole “gementi piangenti in questa valle di lacrime”.
Anch’io mi sentivo investita da un grande afflato religioso e volevo sempre andare in chiesa e al pomeriggio volevo anche andare ai Vespri.
Mia madre mi frenava. Una volta, con quell’aria severa che aveva sempre quando si parlava di argomenti delicati, mi chiese:
“Ma tu lo sai fare il segno della croce?”.
Io lo feci, ma al contrario, nessuno me lo aveva mai insegnato.
“Ma no”, disse mia madre “non così”, e mi insegnò come fare, sempre col viso severo e le labbra strette.
Ogni tanto andavamo, naturalmente a piedi, a trovare i miei nonni a Cravanzana, i miei nonni che in realtà non erano i miei nonni, ma i genitori Benedetti di mio zio Mario Spano, che in realtà non era neppure mio zio, dato che figurava come fratello della prima moglie di mio padre.
Infatti Nicola, che non era stupido, aveva chiesto a mio padre come mai dicesse sempre “mio cognato” quando parlava di Mario Spano dato che mia madre si chiamava Diana Rossi. Mio padre preso alla sprovvista, aveva risposto:
“Perché è il fratello della mia prima moglie”, ragion per cui ogni volta che si parlava di mogli e matrimoni, Nicola apostrofava mio padre come “chiel ch’as’nitend”, lei che se ne intende.
Anche l’eccessiva confidenza tra mia madre e Mario Spano era stata notata, e alcune volte che mio padre era andato a Torino e noi tre eravamo rimasti a Rodino, la gente in paese mormorava. Da allora mio zio e mio padre partivano sempre insieme, oppure mio zio, in assenza di mio padre, andava qualche giorno dai nonni.
Qualche volta andavamo tutti a trovare questi parenti misteriosi. I miei nonni avevano allora tra i 50 e i 60 anni, e certo per loro fu un grandissimo sforzo adattarsi a vivere insieme a degli sconosciuti, specialmente per mio nonno che amava lavarsi e vestirsi con cura, e portava l’orologio d’oro nel taschino del panciotto con la catena ciondolante sul petto e la scatoletta d’argento delle mentine sempre in tasca.
Quando partivamo le indicazioni erano ben precise: dovevamo oltrepassare due colline per arrivare a Cravanzana, ma solo dopo la prima collina, arrivati a Ceretto, si poteva dire “nonni”. Prima era severamente proibito, andavamo dal Furino e da sua moglie. Mia madre infatti, che figurava orfana di padre figlia di fu Rino, quando parlava di suo padre lo chiamava Furino.
Io ero molto intransigente sulle indicazioni che mi venivano date. Se durante la strada, prima della collina di Ceretto, mia madre o lo zio Mario parlando dei nonni dicevano “mamma” o “papà”, io li redarguivo subito con aria severa:
“Silenzio!” dicevo, “non si può ancora dire mamma e papà”.
A Cravanzana rimanevamo ospiti dei nonni per qualche giorno. Dormivamo in un unico letto, mio padre, mia madre ed io, mentre mio zio Mario dormiva su una branda in cucina. Come riuscissimo a convivere tutti in così poco spazio, mi riesce oggi incredibile da immaginare, ma per fortuna mia nonna era molto curiosa del suo prossimo e sempre pronta ad entusiasmarsi per quello che facevano gli altri, soprattutto se erano estranei alla famiglia.
I miei nonni vivevano con una signora di Savona che secondo mia nonna era una cuoca eccezionale, la quale fin dal mattino preparava i suoi intingoli per il marito, la figlia, due nipoti e il genero. La cucina e il “putagè” erano in comune e così la tavola dove mangiavamo.
Il genero della signora di Savona che mia nonna chiamava la “savuneisa”, viveva con un piede perennemente fasciato, probabilmente una scusa per non partire per il fronte.
L’uomo teneva sempre il piede posato su una sedia durante i pasti e se lo toccava continuamente, e mio padre faceva fatica a sopportarlo e diceva che gli faceva senso.
Ricordo questa grandissima tavolata (eravamo in 12), un gruppo di estranei messi lì insieme a caso, a dividersi la cucina e le chiacchiere famigliari.
Scriveva mia nonna: “bisogna aver pazienza ed adattarsi. Tabula rasa della vita civile, disse il duce dell’ Italia fascista e in questo è riuscito in pieno.”
Dopo pranzo qualche volta andavamo a passeggiare nei boschi e io facevo il verso a mia nonna Gina che si entusiasmava per un nonnulla.
“Oh le castagne, quante castagne e le nocciole per fare l’olio! Ah il ginepro da mettere nel vino e i cucurucu per accendere la stufa!”. I cucurucu in dialetto piemontese erano le pigne, che noi in realtà non raccoglievamo perché bruciavano troppo in fretta e facevano troppo volume. Le nocciole e le castagne erano una componente importante del nostro vitto. Le nocciole le portavamo al frantoio che ne ricavava l’olio con cui cucinavamo e condivamo l’insalata, un olio con un gusto un po’ speciale, a cui dovemmo abituarci dato che mancava l’olio d’oliva. Il resto delle nocciole spremute ci veniva restituito sotto forma di “panèt”, una specie di tortino duro e molto stopposo, che in genere veniva dato alle galline e che a me invece piaceva e che mangiavo lentamente, boccone dopo boccone.
Quando venivamo via da Cravanzana, i miei nonni ci accompagnavano indietro per un pezzo, scendevano dalla collina di Cravanzana fino al fiume Belbo e qualche volta risalivano fino quasi a Ceretto, poi dovevano scomparire nel nulla, anche nella nostra memoria, e diventare altre persone.

Ogni tanto a Cravanzana andava soltanto mio zio Mario Spano, e una volta, mentre era lì per qualche giorno, vi fu un rastrellamento ad opera dei tedeschi e dei repubblichini.
Tutti gli uomini ancora validi vennero caricati su un camion e con loro anche mio zio.
Mio nonno non si diede per vinto. Cominciò ad andare da uno all’altro dicendo che lui era vecchio, che suo figlio era il suo solo sostentamento, quel figlio che si chiamava Spano mentre lui si chiamava Benedetti.
Mio nonno non ci pensava, gli interessava una cosa sola, che suo figlio scendesse da quel camion. Tirava per la manica i tedeschi, i repubblichini, che lo strattonavano e gli rispondevano male e a tutti lui indicava mio zio seduto là sul camion.
Ci sono momenti nella vita in cui ogni avvenimento è assurdamente e sfacciatamente casuale.
Mio nonno quella mattina stava scocciando tutti perché facessero scendere suo figlio dal camion dei tedeschi. Secondo la logica di quei tempi, avrebbe potuto trovare qualcuno che lo buttasse a terra con una spinta o che addirittura gli sparasse in testa per farlo tacere, e così suo figlio sarebbe rimasto sul camion andando incontro al suo destino di orrore, oppure poteva trovare qualche tedesco zelante che chiedesse i documenti a lui e a suo figlio,e in questo caso probabilmente sarebbe salito anche lui su quel camion, e insieme si sarebbero diretti verso il buio.
Fortuna volle che incontrasse un repubblichino particolarmente ragionevole che a un certo punto sbottò: “ E basta, fatelo stare zitto, fategli scendere ‘sto figlio e non se ne parli più”.
Mio zio scese rapidamente senza farsi pregare e tornò subito a Rodino.
Il giorno dopo partì con mio padre per Torino e insieme riuscirono a mettersi in contatto con una cugina che viveva ad Aosta e che conosceva alcuni contrabbandieri disposti ad accompagnare i profughi in Svizzera.
E così mio zio Mario Spano sparì da un giorno all’altro e non ne sapemmo più nulla fino alla fine della guerra.
Per anni a casa venne raccontata e commentata questa storia.
“Tuo padre ti ha dato la vita due volte”, diceva sempre mia madre a mio zio, alludendo al fatto che era riuscito a toglierlo dalle grinfie dei tedeschi, e poi pensavamo a quei contrabbandieri che quasi ogni giorno rischiavano la pelle per una cifra che secondo noi non valeva il rischio che ogni volta correvano.
Io mi feci raccontare molte volte da mio zio la sua attraversata notturna quando lui tornò a guerra finita. Mio zio per fortuna era un buon alpinista, abituato alle gite e alle escursioni in montagna, così riuscì a farsi a piedi il tragitto Aosta-Gran S.Bernardo seguendo sentieri lunghi e tortuosi per non essere preso. Per parecchie ore camminò spedito in silenzio dietro alla sua guida.
A un certo punto vide l’uomo affrettare il passo, mentre contemporaneamente si udiva un gran latrare di cani.
Senza che fosse pronunciata parola, mio zio capì che erano in vicinanza delle pattuglie tedesche poste in vicinanza del confine. Continuarono a camminare così una mezz’ora sulla neve gelata.
“È stata la mezz’ora più lunga della mia vita”, diceva sempre mio zio a questo punto del racconto.
“Pensa”, dicevo io rabbrividendo di emozione, “ se quel tizio fosse stato un traditore che dopo aver preso i soldi ti avesse portato dritto dai tedeschi. Nessuno l’avrebbe mai saputo”.
In effetti avrebbero potuto scoprirli in qualsiasi momento e a me piaceva immaginare quelle situazioni drammatiche e pericolose, mentre me ne stavo protetta nel guscio della mia vita ritrovata.
“Per fortuna non è andata così”, mi rispondeva mio zio, “certo ero nelle sue mani, ma è accaduto rare volte che qualcuno tradisse, erano quasi sempre persone fidate che non lo facevano solo per soldi”
“E poi”, chiedevo io, “cosa è successo?”.
“È successo che quando siamo arrivati in vista del territorio svizzero, lui mi ha lasciato all’Ospizio del Gran S. Bernardo ed è tornato indietro”.
Così mio zio, con il suo nome assurdo e i suoi documenti assurdamente falsi, riuscì a salvarsi perché così volle il destino.

La Trattoria dei Cacciatori era un posto di grande passaggio. Un giorno c’erano i partigiani, un giorno i repubblichini, oppure i tedeschi, oppure quelli della Muti che vestivano tute mimetiche e portavano un basco, per cui in paese li avevano soprannominate “le tume grase” o “cui d’la berta”.
Anche noi bambini giocavamo sempre a fare i partigiani e i tedeschi. L’eroe partigiano della zona si chiamava Lulù e si diceva fosse di nazionalità francese.
Una sera Lulù era venuto alla Trattoria dei Cacciatori. Ricordo una gran tavolata vociante e allegra, con Luciano, il figlio di Marianìn, che la faceva da padrone con un sorriso soddisfatto e i suoi capelli ondulati spalmati di brillantina, mentre Lulù sedeva capotavola pallidissimo e silenzioso.
Lulù aveva occhi chiari e capelli nerissimi, era piccolo e magro e sembrava lontano e assente, estraneo a tutto quel chiasso e a quell’allegria dovuti soprattutto alla sua presenza. In piedi, con le mani appoggiate alla spalliera della sedia di Lulù, stava Toiu, il suo luogotenente, con un’aria di possesso tracotante, il viso sprizzante una certa grossolanità ridanciana. Toiu pareva dire: “Il numero due sono io, e quello che Lulù dice a me non lo dice a nessuno”.
Lulù era diventato molto popolare per il suo coraggio.
“Ha un gran fegato”, diceva sempre mia madre. Compiva la maggior parte dei suoi colpi da solo, spesso indossando una divisa tedesca.
Una volta, sui muri di Dogliani, era comparsa una scritta: “Lulù ti aspettiamo”, e lui sotto aveva aggiunto di sua mano: “Anch’io vi aspetto”.
Ma i suoi continui travestimenti e le sue gesta da eroe solitario gli furono fatali.
Lulù girava in lungo e in largo per le colline delle Langhe con la sua motocicletta, e un giorno, mentre correva vestito da tedesco, si imbatté in una pattuglia di partigiani che gli intimarono l’alt.
Lulù si fermò, e mentre stava dicendo: “Non mi sparate sono Lulù”, una scarica di mitra lo uccise sul colpo. Questa almeno fu la storia che girò di bocca in bocca, e un senso di lutto e di sgomento fece seguito alla sua morte, sottolineata dal gaudio dei suoi avversari.
Con la presenza di Lulù nei dintorni ci sentivamo tutti più protetti, e l’eco delle sue gesta e la continua sfida lanciata dal suo coraggio si riflettevano su di noi, illuminando di luce riflessa le nostre giornate scure passate accanto alla stufa.
Anche Giorgio ed io giocavamo ai partigiani, e Giorgio voleva sempre fare Lulù, mentre a me toccava la parte di Toiu che io consideravo una figura umiliante di subalterno.
Ricordare la persona di Toiu mi procurava un senso di malessere, tanto mi erano estranei i suoi tratti volgari e la sua allegria facilona. Faticavo a parlare e a muovermi come se fossi Toiu, ma Giorgio era più prepotente, e in qualche modo vago e oscuro avvertivo in lui una maggiore forza fisica e quindi un maggior potere, il che mi rendeva incapace di andare al di là di qualche debole e infruttuosa protesta. Inoltre mi sentivo troppo insicura per impormi, sentivo che c’era in me qualcosa di non ben chiaro, qualcosa che doveva essere assolutamente celato e che mi rendeva diversa dagli altri.
Mia madre mi aveva detto che durante la guerra tutti cambiavano cognome, che era la regola, e che tutti dovevano nascondersi. Io le avevo subito chiesto:
“E Giorgio allora come si chiamava prima della guerra?”. Mia madre mi aveva guardato con occhi terrorizzati.
“Guardati bene dal chiederglielo”, mi aveva detto con voce gelida e gli occhi a fessura, “è un segreto importantissimo che non bisogna assolutamente raccontare a nessuno. Guai se si venissero a sapere i nomi veri della gente, saremmo tutti fucilati!”.
Io rimasi in silenzio, folle di curiosità per il vero cognome di Giorgio, ma non osai mai chiederglielo, lo sguardo di mia madre era stato sufficientemente terribile.
Una volta la signora Palmina era venuta a trovarci e lei e mia madre chiacchieravano sedute attorno alla tavola. Giorgio era andato a trovare un suo compagno di scuola ed io , annoiata dei loro discorsi e della scarsa attenzione che mi prodigavano, facevo i capricci, facevo la noiosa.
“Ma come sei cattiva Lillina”, mi disse la signora Palmina, “lo sai che se sei così cattiva quando muori finisci all’inferno?”.
“A me non me ne importa niente”, risposi con aria di sfida, “perché tanto io sono di un’altra religione”.
Ricordo il sorrisetto di mia madre, il tono apparentemente naturale, la cui falsità però a me non sfuggiva:
“Ma cosa dici stupida?”, mi disse, e rivolta alla signora Palmina:
“Dice così perché è nata a Roma, e crede che essere romani significhi essere di un’altra religione”.
“No, non è vero”, continuai io cocciuta.
Mia madre mi sferro un calcio sotto la tavola.
“Mamma”, replicai lagrimosa, “perché mi dai i calci?”.
“Io non ti do nessun calcio, ma che cosa dici?”, continuava mia madre con finta allegria.
Più tardi rimaste sole, mia madre mi disse con voce apparentemente dolce, ma a labbra quasi serrate: “Perché hai detto che sei di un’altra religione?. Tu sei cattolica, come gli altri”.
”Ma gli ebrei non ci sono?” chiesi con voce esitante
“C’erano”, replicò mia madre con aria convinta, “c’erano una volta nell’antichità, ma adesso non ce n’è più nessuno”.
Anni dopo mia madre ricordando questa storia commentava: “Non ti ho raccontato una gran bugia, era vero che gli ebrei a quel tempo non esistevano più, erano tutti apparentemente spariti”.
Allora però quella frase “tu sei cattolica come gli altri” mi suonò rassicurante.
Dunque non era vero che c’era in me qualcosa di strano e di diverso, ero come tutti, come gli altri, come Giorgio, come la signora Palmina, come Piera, ma una parte di me non era convinta. Perché non andavo a scuola anch’io come gli altri bambini?.Perché mia madre era così reticente a portarmi in chiesa quando ne avevo voglia? Perché tutti quei segreti sul mio vero nome?
Io non avevo allora ricordi chiari, ma solo immagini confuse di qualcosa di lontano, di diverso dal mondo in cui vivevo in quel momento e di cui mi si diceva facessi parte come gli altri, come tutti.
Così insensibilmente maturò in me la convinzione che nel mio modo di essere, nel mio nome e in tutto quello che mi riguardava doveva esserci qualcosa di terribile, qualcosa di cui vergognarsi e che doveva essere assolutamente celato, perché se gli altri ne fossero venuti a conoscenza sarei stata cacciata, oppure sarei stata presa caricata su un camion verso un destino di orrore e di morte.
Questa frase “l’hanno caricato su un camion”, oppure “li hanno portati via su un camion”, veniva pronunciata intorno a me a bassa voce, quando in giro c’erano i rastrellamenti dei tedeschi, e quella frase era per me sinonimo di minaccia e di buio.
Anch’io mi sentivo una, che per qualche motivo oscuro che non conoscevo, poteva essere da un momento all’altro caricata su un camion.
Queste sensazioni provocarono in me una tendenza all’isolamento e l’incapacità di stare in mezzo agli altri sentendomi parte di un gruppo, di una comunità, mi diedero un senso di perenne disagio e nello stesso di malcelato orgoglio nel sentirmi diversa, a parte, ogni volta che mi trovavo in mezzo alla gente.

Alla Trattoria dei Cacciatori le serate non erano sempre allegre come la sera in cui era venuto a cena Lulù. Ogni tanto arrivavano i repubblichini carichi di armi e in genere di pessimo umore. Venivano serviti in modo rapido e silenzioso da Marianìn e da Piera, mentre Luciano scappava sulle colline e il marito si metteva a letto.
La bellezza di Piera serviva in genere a sgelare l’ambiente, ma sovente i soldati non pagavano il conto e le donne brontolavano. Lo stesso scontento destavano le “tume grase”, quelli della Muti, mentre un gelido terrore si spandeva in tutto l’albergo quando arrivavano i tedeschi.
Una notte mia madre ed io eravamo sole e stavamo dormendo, quando fummo svegliate da un tramestio e da uno sferragliare di armi. A un certo punto vennero battuti dei colpi alla nostra porta, e prima che noi potessimo reagire, la porta venne aperta con violenza e contemporaneamente venne accesa la luce.
Io balzai a sedere sulla mia brandina e vidi un soldato tedesco armato di tutto punto, con l’elmetto e gli occhiali che gli davano un’aria distinta, il quale alla vista di una donna e di una bambina, borbottò una specie di scusa e richiuse la porta. Quel gruppo di tedeschi si comportò in modo molto civile, e Marianìn non finiva più di magnificare l’educazione del comandante della pattuglia, che si era perfino scusato per averle costrette di notte a preparar loro qualcosa da mangiare, e poi aveva chiesto il conto e pagato tutto fino all’ultimo centesimo.
“Dipende tutto dal comandante” sentenziò mia madre, “comunque è sempre meglio quando arriva la Wermacht”.
Io raccontai questo avvenimento sul mio diario: “18 novembre 1944. L’altra notte sono arrivati i tedeschi. Dicevano plaffe plaffe e io non capivo niente. Avevo paura del rumore dei camion e Giorgio è venuto a dormire nella mia stanza.”
Mi piaceva scrivere come compito o esercizio di tema una specie di diario raccontando tutto quello che facevamo e che ci succedeva.
Fu così che imparai a raccontare per iscritto gli avvenimenti delle mie giornate conservando un prezioso ricordo di quegli anni.
“I° maggio 44. Sono stata a letto 4 giorni con la febbre. Ora mi sento ancora debole. Mi rincresce perché è venuta Nanda e io non ho potuto andare a passeggio con lei”.
“3 maggio 44. Il fratello di Marina si chiama Renato. Marina è una bimba piccola che è a balia a S. Lorenzo. Renato da tanti baci a tutti, parla da bamboccio e chiama la mia mamma signora Padella e il mio papà signor Padello”.
“30 maggio 44. Oggi a casa di Bruna ho visto i bachi da seta. Stavano fermi fermi sopra uno strato di foglie di gelso perché dormivano. A vederli sembrano tanti bastoncini bianchicci con un grosso punto bianco sulla cima”.
“4 giugno 44. Anche oggi sono passati gli aeroplani. Dove saranno andati?. Quando sento il rombo dei motori sento un brivido di paura, eppure a vederli sono tanto belli, sembrano giocattoli d’argento”.
“8 agosto 44. Stamattina per la prima volta ho visto la trebbiatrice. Sull’aia c’era un gran movimento. Tutti i bambini erano sul balcone tutti contenti. La macchina separa i chicchi dalla paglia, funziona facendo un gran rumore”.
“15 settembre 44. Dora ha due bei cuccioli. Sono tanto graziosi e giocano come bambini; uno ha il pelo dorato e l’altro l’ha nero. Ieri li ho visti in mezzo all’aia che succhiavano il latte dalla mamma”…
“5 ottobre 44. Ieri sono di nuovo andata per nocciolini, bisogna andare nei boschi in mezzo alle spine per trovarne; ci sono tanti gusci bucati perché gli scoiattoli sono molto golosi. Tutti vanno a cogliere nocciolini per fare l’olio.”
“8 novembre 44. Oggi per la seconda volta sono andata dall’Oriavolo a fare legna. Io ho raccolto una fascinotta e me la sono trascinata fino a casa. Ho visto uno stormo di cornacchie; la gente dice che portano la neve, ora invece l’aria è tiepida”.
“15 novembre 44. Oggi sono andata per insalata con Dede e Carlo. Io ho raccolto un po’ di sarsèt col coltellino di Dede perché mia mamma aveva paura che mi tagliassi e non me l’ha dato”.

Quando terminava l’inverno, l’aria si faceva tiepida e poi arrivava il caldo e con il caldo la stanza era sempre piena di mosche.
Per evitare il fastidio degli insetti, dato che la nostra camera dava su un’aia dove razzolavano le galline e dove si apriva la stalla della cascina di fronte, mio padre si era costruito una zanzariera avvolgendo tutto il letto di tulle bianco.
Durante i mesi caldi, mio padre quando era a Roddino si riposava dopo pranzo sotto la zanzariera, e un caldo pomeriggio del luglio del 1944, un repubblichino sudato e stracarico di armi bussò alla porta della nostra stanza ed entrò.
Vide mio padre che dormiva tranquillo a torso nudo e con la bocca semiaperta sotto la sua zanzariera nella camera ombrosa, e alla vista di tutta quella beatitudine e di quel sereno abbandono diventò furioso, perché gli balzò agli occhi il contrasto del suo incomodo destino di soldato con l’ingombro di una divisa pesante ed il carico d’armi.
“Si alzi e venga con noi”, intimò a mio padre che lo guardava ancora intontito.
“Subito subito, aspetti solo un attimo che mi vesta”, rispose gentilmente mio padre e lo pregò di accomodarsi, dicendo a mia madre di offrirgli dell’acqua fresca, del vino e invitandolo nello stesso tempo a liberarsi dei suoi pesi con aria comprensiva e sollecita e con il calore che gli era caratteristico.
L’uomo si calmò un poco, si schermì, poi si sedette e si tolse dalle spalle il fucile mitragliatore e lo posò accanto alla sedia.
Mio padre intanto adagio adagio si vestiva, scusandosi per la lentezza causata da certi suoi dolori, che secondo lui gli impedivano di muoversi rapidamente, e intanto cercava di propiziarsi quell’estraneo seduto tutto accigliato su una sedia della sua stanza.
Mio padre conosceva l’Italia palmo a palmo, e si vantava sempre di saper dire da che città proveniva una persona se solo la sentiva pronunciare poche parole.
Secondo mio padre l’italiano migliore era parlato ad Orbetello, perché gli abitanti di Orbetello possedevano, secondo lui, la proprietà di linguaggio dei toscani senza avere nessun accento regionale.
Il soldato accaldato seduto sulla sedia della nostra stanza invece era emiliano.
“Ma lei è delle parti di Reggio Emilia”, disse subito mio padre con tono cordiale appena l’altro ebbe pronunciato qualche parola, e lui asserì rinfrancato.
Nominò il suo paese d’origine, che mio padre naturalmente conosceva e che magnificò con competenza ricordandone alcune peculiarità, tra cui naturalmente la simpatia degli abitanti. Intanto finiva lentamente di vestirsi, sempre invitando l’altro a rilassarsi, a fare come se fosse a casa sua.
Quando lo vide completamente a suo agio, si alzò in piedi e :
“Eccomi, sono pronto” gli disse.
A questo punto l’irritazione e la rabbia del repubblichino si erano completamente placate, si sarebbe detto che lui avrebbe voluto restare con noi anziché portarsi via mio padre.
Infatti gli chiese i documenti e poi lo salutò dandogli la mano, mentre mio padre lo gratificava con uno dei suoi migliori sorrisi.

 

“Mammaa, io voglio andare a Montezemolo dovee tutte le donne fanno all’amoore!”:
Così canta a squarciagola un ragazzo alto e grosso che abita nella cascina di fronte mentre tira su il suo secchio dal pozzo. Ha in testa un berretto con la visiera e gli stivali ai piedi per non infangarsi nella “pauta” che circonda il pozzo.
La madre, così rumorosamente convocata, arriva accigliata, alta, maestosa, vestita di grigio, due grosse trecce avvolte intorno alla testa e le galosce nere.
Prende in silenzio il secchio pieno dalle mani del figlio e gliene consegna uno vuoto, ritornando verso casa così pieno che versa, mentre il ragazzo a gambe divaricate vicino al pozzo, nuovamente l’invoca cantando:
“Mammaa, io voglio andare a Montezemolo……”.

Alla Trattoria dei Cacciatori la vita era abbastanza varia, ricca di chiacchiere, di pettegolezzi, di viste improvvise. Ogni tanto si spargevano voci:
“Stanno per arrivare i tedeschi!, alla Morra sono arrivate le tume grase!”.
Un giorno dell’agosto ’44 arrivò un battaglione di repubblichini. Gli uomini del paese scapparono tutti, ne rimasero solo due, mio padre e il signor Levi, gli unici ebrei del paese. Avevano pensato che fosse meno compromettente essere trovati tranquillamente a casa piuttosto che in fuga per le colline, la loro posizione era già abbastanza precaria così, inoltre si consideravano un po’ fuori dalla mischia dato che entrambi avevano superato da qualche anno la quarantina.
Nel pomeriggio tutto sembrava tranquillo e noi tre decidemmo di andare a fare una passeggiata. Camminavamo, ricordo, sullo stradone principale che portava ad un edificio disabitato che faceva parte di un paese che si chiamava la Pedaggera.
Passeggiavamo lentamente sotto il sole e mio padre mi teneva per mano.
Ad un certo punto vedemmo una mitragliatrice puntata sulla strada e accanto ad essa un soldato in camicia nera steso sul prato al sole. Alla vista del nostro terzetto, il soldato si alzò di scatto e corse verso mio padre a braccia aperte:
“Oh finalmente un uomo!” disse, e lo abbracciò.
“Ma dove sono finiti gli uomini in questo paese?. E’ incredibile, ci sono solo donne!” aggiunse.
Mio padre gli sorrise cordialmente senza dire nulla, pensando a quanto eravamo stati imprudenti ad uscire, quando sarebbe stato molto più saggio rimanere tappati in casa anche se faceva caldo e c’erano tante mosche, comunque, dopo aver mostrato i nostri documenti, potemmo continuare tranquillamente la nostra passeggiata.
Io ormai trovavo naturale camminare per le strade con le mitragliatrici puntate, sentir parlare di morti, ammazzamenti e bombe. Gli uomini che vedevo erano sovente armati e io non temevo le armi, le trovavo un naturale complemento dei vari tipi di abbigliamento che vedevo in giro.
Ma nell’estate 1944 già erano presenti i segnali che indicavano la caduta e la futura disfatta del mostro tedesco.
Il 5 giugno 1944 gli Alleati erano entrati in Roma e il 6 giugno era avvenuto lo sbarco alleato in Normandia.
I partigiani avevano alzato la testa e cominciavano ad affiggere proclami.
Un manifesto del Comitato di Liberazione intimava la diserzione alle forze della Repubblica Sociale Italiana entro il 12 giugno ’44 ore 24, e intanto gli alleati arrivavano a Viterbo.
I manifesti con le grosse scritte in nero e i punti esclamativi eccitavano la mia fantasia, e anch’io m’ero messa a scrivere dei foglietti pieni di dichiarazioni che appendevo per tutta la stanza e che chiamavo orgogliosamente “manifesti”.
Mia madre alla fine si era stufata e mi aveva sgridata piuttosto duramente, e al solito io reagii all’imposizione con una protesta, per affermare la mia autonomia e la mia indipendenza.
Scrissi il mio ultimo foglietto, il mio ultimo “manifesto” e lo appiccicai alla persiana della nostra finestra, poi in silenzio presi mia madre per mano e la portai a leggerlo.
Sul “manifesto” c’era scritto: “Sono stufa di avere una mamma così”.

 

Ritornò l’inverno , il freddo inverno 44-45 e i Russi marciavano su Berlino. Venne il Natale, vennero le feste. Mia madre diceva a tutti che a Roma si festeggiava la Befana e che i regali si scambiavano alla Befana e non a natale, così evitavamo tutte le storie su Gesù bambino e io aspettavo i miei regali alla Befana senza protestare.
I miei genitori partirono per Torino il 2 gennaio, lasciandomi dai miei nonni. Fu un periodo triste per quanto testimoniano gli scritti di mia nonna:
“10 gennaio 1945. Giornata rigida dopo una forte nevicala dell’Epifania. Non si vede intorno che neve e ghiaccio. La sera del 29/12 sono arrivati i nostri (i nostri eravamo noi tre, unica ragione di vita dei miei nonni). Sono ripartiti il 2 lasciando qui la piccola. Abbiamo passato un natale tristissimo (5° natale di guerra) e anche l’anno è cominciato sotto pochi buoni auspici. La guerra pare cominci ora e non se ne vede la fine. Chissà se Adri e E. potranno ritornare con le strade cattive e ingombre di neve!. Spero ci portino qualche notizia del nostro mondo passato da cui siamo completamente isolati”.
“14 gennaio 1945. Ancora i nostri non sono venuti. Continua il gran freddo, le strade sono tutte bianche di neve e gelate. L’altro giorno sono scivolata e sono ancora tutta indolenzita. Questo è un rigido e terribile inverno….”
I miei nonni erano sovente di cattivo umore, specie mio nonno che aveva un carattere introverso, intristito da un’incipiente sordità che andò man mano peggiorando.
Entrambi soffrivano molto l’isolamento dalla loro casa e dalle loro abitudini e forse intuivano che se anche fossero sopravvissuti che se anche fossero sopravvissuti, nulla per loro sarebbe stato più come prima.
Il 27 maggio 1944 mia nonna aveva scritto: “il mattino presto, quando mi sveglio alla realtà, sento un vero “serrement du coeur”, per usare la frase francese come era di moda nell’800 quando la Francia era in auge…..
Il pensiero della famiglia smembrata, dell’isolamento in cui ci troviamo da mesi, mi da veramente un senso di pena….”
Anch’io mi sentivo un po’ sola in quel gennaio 45 anche se giocavo coi nipotini della signora di Savona, e aspettavo con ansia il ritorno a Roddino dove l’atmosfera era più lieve e avevo i miei amichetti per giocare, e anch’io scrissi qualche riga sul diario:
“11 gennaio 1945. Oggi è di nuovo giornata gelida. All’intorno non c’è che neve e ghiaccio. Io attendo il ritorno del mio papà da Torino ove spero abbia trovato i doni della Befana per me.”
“18 gennaio 1945” Nemmeno oggi è arrivato il mio papalino, forse non è venuto perché le strade sono ingombre di neve gelata”.
“23 gennaio 1945. Sono venuti i miei genitori e mi hanno portato i doni della Befana. La befana mi ha portato una bambola e un bel libro di fiabe, Nanda mi ha mandato un bel cesto da lavoro e una lista di cioccolata, un’altra signorina mi ha mandato un altro libro e un pacco di caramelle. Sono stata felice e contenta di tutti questi doni. "
La bambola venne chiamata Elisabetta, era una bambola con gli occhi azzurri dalle lunghe ciglia, e le palpebre si abbassavano quando la piegavo all’indietro e aveva una gran massa di riccioli neri. Mia madre le cucì un gonnellino di lana a quadretti con un ritaglio di un mio vestito e le fece ai ferri un maglioncino azzurro che io trovavo molto carino. Così vestita Elisabetta sembrava proprio una bella bambina con cui giocare e chiacchierare. Avevo anche un piccolo carrozzino di legno per metterla a dormire e un cagnetto di pelo grigio.
Ogni tanto caricavo Elisabetta nella carrozzina facendo finta che fosse piccola e legavo con un cordino il cagnolino al manico della carrozzina e me ne andavo in giro per la stanza fingendo di chiacchierare con altre signore.
Parlavo scuotendo qua e là la testa dicendo continuamente “mio marito, mio marito”.
Altre volte, invece, giocavo con Elisabetta come se fosse stata una mia coetanea e le facevo le mie confidenze.
Nanda veniva sovente a trovarci e mi portava sempre qualche regalino.
Ascoltava le storie di mia madre guadandola con i suoi grandi occhi verdi bellissimi e intenti, che diventavano ogni tanto molto tristi come se stesse per piangere, quasi presagisse la sua morte precoce.
In genere però era allegra e lei e mia madre si divertivano molto insieme.
Nanda era rimasta colpita dall’accento impastato e largo dei langaroli, e quando veniva a trovarci, ci cantava le canzoni di Artuffo con l’accento della Langa:
“Al me paìs, le levatrìs
as fàn i rìs an s’al cupìs
cul turnavìs, al me paìs.
L’è mej na dona dal Munfà, che tut tsi doni ch’ajè a Mìlan.
L’è mej na dona d’Mungardìn, che tut tsi doni ch’ajè a Turìn”

Mio padre a quei tempi si arrabattava per guadagnarsi da vivere: erano poche ormai le persone che accettassero di assumere un ebreo alle loro dipendenze e le carte false risultavano smaccatamente false ad un esame più approfondito.
Quando si trovava a Torino per lavoro, mio padre andava tutte le sere a dormire nella nostra casa di piazza Ryneri. Una sera, arrivando a casa, venne bloccato dalla portinaia che gli disse che nel pomeriggio erano venuti a cercarlo dei signori che non le erano piaciuti per niente e che avevano detto che sarebbero ripassati la sera stessa. Mio padre a quell’ora non sapeva dove andare e la portinaia gli offrì ospitalità.
Petronilla, la nostra portinaia, dormiva in un’unica stanza col marito ed una figlia già adulta. Quella notte la figlia dormì nel letto con i genitori e lasciò a mio padre la sua branda accanto al letto matrimoniale.
Per fortuna quella sera nessuno tornò a cercare mio padre che se ne andò via la mattina presto e non tornò mai più a dormire a casa.
I miei sospettavano che l’ingrata visita fosse dovuta alla denuncia di un nostro vicino di pianerottolo che si diceva fosse dell’OVRA.
Così il nostro alloggio, a parte gli oggetti di valore che i miei genitori avevano messo al sicuro, restò a disposizione, e i fascisti ci misero dentro un gerarca, un certo Bonaglia, che era stato un pugile abbastanza famoso e poi aveva fatto carriera nel partito fascista.
I Bonaglia, marito moglie e due bambine, si installarono quindi nel nostro alloggio di piazza Rayneri, dormendo nei nostri letti, mangiando nei nostri piatti e usando le nostre stoviglie.
Mia madre un po’ si rodeva, e quando io facevo i capricci mi diceva:
“Guarda che ti mando dalla Bonaglia!”.
Quel nome, quella desinenza in "aglia", come tenaglia, marmaglia, battaglia, suonava al mio orecchio terribilmente minacciosa.
Mio padre, dopo che il nostro alloggio era diventato impraticabile, quando andava a Torino si fermava dai Boari, e cominciò ogni tanto a portare dei messaggi a Enzo, il fidanzato di Nanda, che militava nel movimento “Giustizia e Libertà”, i messaggi gli erano consegnati dai partigiani della zona.
Mio padre a Roddino era stato nominato vicesindaco perché, gli avevano detto, “a parla italiàn”, e lui si era impratichito a fabbricare licenze e lasciapassare che ogni tanto ai partigiani del posto venivano utili. Di quella sua carica pubblica e dei relativi benefici mi sono rimaste quattro carte d’identità in bianco con l’intestazione della Repubblica sociale italiana e con incollate le fotografie dei miei genitori e dei miei nonni. Dovevano servire di scorta nel caso di una fuga improvvisa e di un nuovo improvviso cambio d’identità.
 

Un giorno il signor Bonifanti, amico di famiglia dei Boari, propose a mio padre di fare il rappresentante di prodotti farmaceutici. Il signor Bonifanti aveva sognato tutta la vita di fare il farmacista, non so se si fosse mai iscritto all’Università, se avesse mai dato qualche esame, ma fabbricare farmaci era la sua segreta passione. La guerra gli offrì l’occasione per realizzare il suo sogno.
In quel periodo le medicine erano scarse e si trovavano con difficoltà e le farmacie erano in grado soltanto di confezionare prodotti basati su semplici ricette galeniche.
Bonifanti inventò una polverina per curare il mal di testa e le nevralgie. Avvolgendo un po’ della sua polverina in un’ostia creò i cialdini Bonifarma.
Lui cominciò a spacciarsi in giro come padrone di una piccola industria farmaceutica, mentre in realtà i cialdini venivano fabbricati in una grande stanza della casa dei Boari in corso Matteotti che allora si chiamava Oporto.
Il principale responsabile della fabbricazione e dell’impacchettamento dei cialdini era Roby, un ragazzo silenzioso dai capelli bruni ondulati e dagli occhi azzurri, che diventò in breve tempo il factotum dell’azienda.
Bonifanti si era anche fatto fare una fotografia in cui appariva in piedi con aria solenne, vestito con giacca e cravatta e con in mano un bilancino da farmacista.
Sotto la fotografia campeggiava una scritta: Prodotti Bonifarma.
Così si mise ad andare in giro con mio padre a piedi o in bicicletta per le colline delle langhe a smerciare i suoi cialdini, che ebbero molto successo e si vendevano come il pane. Dovevano certo possedere una qualità fondamentale, quella di non nuocere.
Bonifanti era molto orgoglioso della sua formula, e in quel periodo in cui non si riusciva a trovare quasi nulla, i cialdini fecero la sua fortuna e concessero a noi la sopravvivenza.
Anche mio padre, come Binifanti, si era fatto crescere i baffi, a me è rimasta una foto di loro due in piedi sorridenti con due borse di cuoio gonfie fermi in mezzo a una strada.
Tra di noi, e soprattutto con i Boari, ogni tanto si scherzava sulla storia dei prodotti Bonifarma. Come tutto quello che riguardava i Boari, anche la fabbricazione dei cialdini era vista come una cosa gioiosa e divertente, anche se in realtà il lavoro era febbrile e Bonifanti, famoso per il suo spirito brillante, diventava a proposito dei cialdini terribilmente serio.

Così passavano i mesi in un’atmosfera che a me pareva, nonostante tutto, serena.
Amavamo le langhe. Percorrevamo in lungo e in largo quei colli dolcemente ondulati così cari a Pavese, camminavamo nei sentieri tra le vigne e nelle strade lungo i campi coltivati a grano, prima verdissimi e poi sfacciatamente gialli con le macchie dei papaveri e dei fiordalisi. Osservavamo i colori delle varie stagioni, aspiravamo gli odori e vivevamo coi ritmi della campagna.
In primavera andavamo nei campi con un coltellino per accogliere nei prati i sarsèt da mangiare in insalata.
Con l’avvicinarsi dell’estate portavamo sempre con noi un cestino per raccogliere le fragole e i mirtilli che poi mangiavamo a casa con il pochissimo zucchero che c’era.
D’estate, dopo che il grano era stato falciato, andavamo a spigolare.
Raccoglievamo le numerose spighe lasciate a terra e ne facevamo dei fasci che portavamo al mulino che ci regalava in cambio qualche manciata di farina.
In autunno, all’epoca della vendemmia, andavamo ad aiutare i contadini a raccogliere l’uva. Mentre si raccoglieva l’uva per deporla nei grandi cesti posti per terra tra un filare e l’altro, ne assaggiavamo le varie qualità, il dolcetto dagli acini piccoli e rotondi, la barbera con gli acini grossi, duri e asprigni, e qualche volta il moscato bianco, con gli acini così attaccati l’uno all’altro, che si dovevano mangiare a morsi come se fossero state pannocchie.
Io non amavo molto quelle uve, che erano uve da vino più che da tavola, andavo pazza invece per certe piccole pesche che si chiamavano pesche di vigna, perché crescevano in alberelli tra i filari di vite. Erano pesche piccole, dalla pelle aderente e vellutata, che si spaccavano facilmente in due mostrando la polpa bianca e carnosa ed il cuore sanguigno. Erano gustose e profumate, ma i contadini non le tenevano in gran peggio per cui potevo farne grandi scorpacciate. Anche quelle piccole pesche, come molte cose di quei tempi, sono scomparse, e i contadini delle Langhe oggi non le coltivano più.
Dopo il periodo della vendemmia veniva quello delle castagne, che raccoglievamo nei boschi in gran quantità per poi farle bollire sul fornellino.
Le castagne erano lunghe da sbucciare, e si passavano ore nel pomeriggio o dopo cena a chiacchierare sbucciando le castagne, e una tirava l’altra come le ciliegie e il mucchio delle bucce nel piatto in centro alla tavola diventava sempre più alto.

Un mattino fui svegliata da urla disumane. I contadini avevano deciso di ammazzare un maiale e la povera bestia, non so se per il dolore o la paura, lanciava delle urla che mi gelavano il sangue. A noi avevano promesso un po’ di salsiccia come un grosso favore e mia madre non osò rifiutare. Dati i tempi rifiutare della salsiccia poteva sembrare non solo scortese, ma sospetto.
Noi non eravamo degli ebrei osservanti anche se non avevamo mai mangiato salsiccia. Quando chiedevano a mio padre se mangiava carne di maiale, lui rispondeva con aria scandalizzata: “No, solo prosciutto”.
Il prosciutto godeva per lui di una specie di indulgenza plenaria tanto da non essere più considerato parte del maiale.
I contadini lavorarono due giorni e infine un pomeriggio fummo invitati ad andare a riscuotere quello che ci avevano promesso.
Entrammo in una stanza male illuminata, e subito un odore di sangue e grasso mi prese alla gola e mi diede un senso di nausea. Dal soffitto pendevano i budelli vuoti che sarebbero stati riempiti dal tritato della salsiccia. Io uscii quasi subito, pensavo ancora alle urla del maiale e le trovavo intonate alla cupezza della stanza e a quell’odore che mi pareva più di morte che di cibo.
Mia madre uscì poco dopo con il suo pacchettino e alla sera fece cuocere le salsicce e mise qualche patata a rosolare nel grasso della salsiccia che si scioglieva al calore del fuoco. Trovammo il piatto squisito, una delle cose più buone gustate in tempo di guerra.

Quando veniva l’inverno con tanta neve ci sentivamo staccati dal mondo. Noi trascorremmo a Roddino due inverni, l’inverno 43-44 e il lungo inverno 44-45, eppure i ricordini di Roddino sono quasi tutti ricordi di sole, di prati verdi e di aria tiepida. Invece gli inverni erano lunghi e freddi e per uscire dovevamo metterci gli scarponi da montagna che erano sempre tutti inzaccherati.
Osservavo Piera, la figlia di Marianìn, che puliva e lucidava i suoi scarponi come specchi, e la domenica, quando andava a messa, saltellava sui pochi sassi che sporgevano dalla neve per non sporcarli.
Ricordo un tentativo infruttuoso di iniziazione allo sci.
Giorgio aveva un paio di sci, e sovente al pomeriggio si divertiva a scendere da una collinetta innevata vicino a casa. I miei genitori vollero che provassi anch’io, vedrai che ti divertirai dicevano.
Così un mattino, mentre Giorgio era a scuola, mio padre mi portò in cima alla collinetta e mi agganciò gli sci che Giorgio mi aveva prestato. Gli attacchi degli sci erano allora piuttosto duri da agganciare e mio padre si sollevò tutto congestionato e con uno sbuffo mi disse:
“Adesso vai!”.
Io non sapevo cosa fare con quei due slittini lunghi e sottili attaccati ai piedi e che oltretutto mi sembravano pesantissimi, tanto più che ero convinta che gli sci fossero dotati di moto autonomo e che partissero da soli portandomi fino in fondo alla discesa come facevano con Giorgio, invece io rimasi in cima alla collina, immobile.
Ero delusa perché gli sci erano pesanti e sembravano aderire al suolo senza nessuna intenzione di muoversi, d’altra parte nessuno mi aveva spiegato che gli sci partono da soli soltanto in discesa, anche mio padre non aveva mai messo un paio di sci ai piedi e probabilmente pensava anche lui che una volta infilati, gli sci schizzassero per conto loro giù dalla collina.
Così io rimasi eretta e rigida in cima alla collinetta per parecchi minuti, mentre mio padre continuava a dirmi: “Vai, vai!”, e alla fine sconsolato mi sganciò gli sci e io, sollevata, me ne tornai a casa.
“Non si è mossa”, disse mio padre a mia madre al nostro ritorno a casa. Mia madre si scandalizzò perché lei sapeva sciare, male, ma sapeva, però pensava di non essere in grado di dare nessun consiglio, perché sciare come sciava lei diceva, poteva impararlo chiunque.
Ne vennero tratte melanconiche deduzioni sulle mie attitudini sportive, deduzioni che si rivelarono perfettamente esatte, ma che una volta tanto non mi provocarono crisi di abbattimento.
A me di sciare non importava niente e così si chiuse l’argomento che si riaprì dolorosamente qualche anno dopo, quando mi venne regalato un paio di sci, e io cominciai faticose ascensioni con gli sci ai piedi su delle collinette innevate e altrettanto faticose discese, sempre comunque troppo rapide per rimettermi dalla fatica della salita, punteggiate da cadute che mi lasciavano il sedere costantemente fradicio.

Una volta, dopo una grande nevicata, mio padre ed io tornavamo da Cravanzana, e dopo aver già percorso parecchi chilometri nella neve, nei pressi di Pedaggera, trovammo un tratto di strada intonso dove sembrava che nessuno avesse ancora messo piede e dove la neve era alta più di un metro.
Mio padre si mise a camminare a passi lunghi e mi diceva di mettere piedi dentro le sue orme, così non sarei rimasta seppellita nella neve che mi arrivava sopra le spalle.
Io lo seguivo tutta seria, con fatica, perché le sue impronte erano troppo distanziate per le mie gambe corte, ma alla fine riuscimmo a superare il passaggio e potemmo camminare più liberamente.
Arrivati a casa non finiva più di lodarmi con la mamma per come ero stata paziente e coraggiosa, perché non mi ero messa a piangere e non mi ero mai voluta fermare. Io ero stupita di tutte quelle lodi, dato che mi era sembrato normale cercare di arrivare a casa il più presto possibile e di superare più in fretta che potevo quel passaggio difficile. Ero lusingata dei complimenti di mio padre, anche se non capivo il perché di tanto entusiasmo, e in effetti non capivo le reazioni degli adulti nei miei confronti, mi sembravano spesso esagerate e fuori luogo sia nel bene che nel male, come ad esempio era successo quella volta dei mastellini.
Eravamo andati a trovare i miei nonni a Cravanzana e dormivamo nella solita stanza.
In quella stanza c'era un cassettone con sopra degli oggettini come soprammobili. Io ero rimasta incantata davanti a due mastellini da bucato di legno dipinto, uno piccolo e l’altro un po’ più grande che mi sembravano bellissimi. Mi piaceva soprattutto quello più piccolo che trovavo perfetto in tutti i particolari. Guarda che ti guarda, prima di partire non resistetti e lo nascosi nella borsa di mio padre in mezzo alla biancheria.
Quando tornammo a Roddino e mio padre disfece la borsa, alla vista del mastellino s’arrabbiò moltissimo e me ne disse di tutti i colori.
Mi disse che si vergognava di avere una figlia che rubava la roba degli altri, che mai si sarebbe aspettato da me una cosa simile e così via. Alla fine terminò dicendo che quando saremmo tornati a Cravanzana avrei consegnato personalmente il mastellino con tutte le scuse del caso.
Io, invece di sentirmi mortificata e in colpa, mi seccai. Trovavo esagerata la reazione di mio padre, quante storie pensavo, va bene non bisognava prenderlo, e allora l’avrei restituito e rimesso a posto senza tante scene.
Invece, non appena ritornammo a Cravanzana, la scena di contrizione e scuse dovetti bene o male recitarla, ma siccome non ero rimasta convinta della gravità del mio peccato e del mea culpa che mi era stato imposto, decisi di affermare la mia volontà e di dimostrare il mio dissenso prendendo il mastellino più grosso che collocai nella borsa di mio padre bene in vista, in modo che lo vedesse appena avesse aperto la borsa.
Questa volta mio padre non disse nulla, mi guardò soltanto, ma nel suo sguardo colsi una delusione così grande, che finalmente mi vergognai e mi sentii un verme. Questa volta lo rimettemmo a posto in silenzio, ma io ormai mi ero sentita in colpa e non mi macchiai di altre ruberie.
Comunque rimase in me la convinzione che gli adulti avessero uno strano modo di ragionare a cui io non avevo voglia di sottomettermi a meno che non ne fossi personalmente convinta. Mia madre ogni tanto mi diceva tutta arrabbiata:
“Ma come sei maleducata!”.
“E tu educami!”, le rispondevo provocatoria.
“E’ quello che sto cercando di fare senza riuscirci”, mi rispondeva lei scuotendo la testa.

Nelle nostre uscite pomeridiane ci accompagnavamo spesso con i signori Levi.
Qualsiasi itinerario terminava dalla balia, perché la signora Levi voleva vedere come stava la bambina e intanto compravamo il latte e la toma.
La balia era sempre più lunga e pallida, i capelli raccolti dietro:
“Ma dove lo prende il latte balia, dalla schiena?”, le chiedeva la signora Levi, mentre osservava il petto scavato della balia, le sue mammelle cadenti. La balia sorrideva con i pochi denti che le rimanevano. La bambina, d’altra parte, era un fiore.
Così giorno dopo giorno, passò il lungo inverno del ’44, e all’inizio della primavera del ’45 i miei genitori decisero di traslocare. Si intravedeva già la fine della guerra, e per questo il nemico sconfitto si faceva sempre più feroce, e i conflitti a fuoco, gli agguati e le relative rappresaglie non si contavano più.
“6 febbraio 1945. Ieri abbiamo passato una giornata emozionante. Verso le 16 abbiamo sentito alcune raffiche di mitraglia. Quando siamo scesi alcuni colpi di mortaio facevano tremare le pareti, i vetri tintinnavano e sembrava che si rompessero. Per fortuna è tornata la calma e così abbiamo potuto mangiare e dormire tranquillamente.”
Nonostante l’apparente serenità delle mie cronache, i miei genitori non dovevano sentirsi sicuri, anche se non mi diedero mai una spiegazione chiara sul perché del trasloco da un posto dove in fondo ci trovavamo tutti bene, dissero che Roddino era un luogo troppo di passaggio e perciò diventato pericoloso, dissero anche che desideravano andare in una casa più grande.
Fu così che ci trasferimmo a Sorano nella casetta dei custodi della villa che si trovava nel parco di Fontanafredda.
Arrivammo quasi all’inizio della primavera e il parco era pieno di primule e viole, grandi viole vellutate che io trovavo splendide e che raccoglievo insieme con le primule. Mettevo questi mazzetti in un bicchiere che posavo sul tavolino dove studiavo. Il pomeriggio, quando passeggiavo con mia madre per i sentieri ombrosi del parco, mi pareva di vivere in un luogo fatato, mi pareva che avrebbero potuto spuntare tutt’a un tratto degli gnomi vestiti di rosso e magari una fatina col cappello a cono con una stella in cima e una bacchetta magica in mano, proprio come l’aveva disegnata mia madre su una fiaba che aveva scritto per me.
La casa era composta di una grande cucina e di una camera da letto. La camera da letto aveva un soffitto a cassettone blu e oro. Tutte le mattine mia madre svegliandosi passava qualche minuto in contemplazione di quel soffitto.
“Ma ci pensi che dormiamo sotto un soffitto tutto bordato d’oro?”, mi diceva con aria rapita. Io mi rannicchiavo felice nella mia brandina, allietata da questa gran fortuna che ci benediceva facendoci vivere in una casa col soffitto blu e oro, mentre fuori l’aria era tiepida di primavera e la guerra stava per finire.
La porta della nostra casa si apriva su un’aia dove razzolavano dei polli e dove circolavano due cani, Fido e Pulìn.
Fido era un cagnaccio bianco e nero, sempre in movimento e sempre affamato.
Ogni tanto, vedendolo continuamente in cerca di cibo, gli gettavamo del pane che lui divorava con grande voracità. Aveva sempre fame, anche perché il poco che c’era da mangiare i contadini lo davano a Pulìn, un cane vecchio, grasso, zoppo e sordo, a cui i contadini parevano molto affezionati.
Io ero indignata da queste ingiustizie, non amavo Pulìn, che mi pareva tozzo nel suo mantello a larghe chiazze bianche e marroni e che riceveva cibo e persino carezze, mentre Fido veniva pigliato a calci per un nonnulla.
Naturalmente io tenevo per Fido, non solo perché lo ritenevo maltrattato, ma anche perché amavo quel suo agitarsi, quel suo affannarsi, quel suo dimenare la coda se gli si dava qualcosa da mangiare, contento dell’immediato, senza odio e risentimento verso Pulìn che si mangiava i bocconi migliori e che veniva trattato meglio.
Senza rendermene conto, era la vitalità e nello stesso tempo la saggezza di Fido che mi conquistavano, perché pensavo che io al suo posto Pulìn l’avrei come minimo morsicato.

Al pomeriggio per non rimanere chiusa in casa, cominciai a prendere l’abitudine di accompagnare le contadine al pascolo. Andavo con delle ragazzine più grandi di me, tra i dodici e i quattordici anni, che portavano al pascolo le pecore e le capre. Con le mucche non volli mai andare, mi facevano troppo paura.
Uscivamo dalla cascina con il nostro gregge belante e Fido e Pulìn al seguito. Avevamo tutte un bastoncino con cui stuzzicare gli animali pigri che restavano indietro. Arrivate al pascolo, ci stendevamo sull’erba mentre le capre e le pecore brucavano e le ragazze parlavano tra loro con discorsi in dialetto che non sempre seguivo.
Quando un animale si allontanava, si faceva la conta per stabilire chi doveva arrampicarsi per i prati e riportarlo nel gregge, e non si sa bene perché veniva sempre fuori il mio nome.
Io ero la più piccola, e non avendo tra le contadine né amiche né protettrici, non osavo protestare. Mi ero si lamentata debolmente perché non trovavo giusto che toccasse sempre a me, ma le ragazze avevano alzato le spalle e non si erano curate di rispondermi. Allora al ritorno, seccata e umiliata, mi sfogavo col mio bastoncino su quelle povere pecore e capre belanti, dando ordini e facendole correre bacchettandole sulle zampe.
In genere mi lasciavano fare, eccetto che con Roseta, una pecora grossa e lenta che camminava a fatica, lo sguardo umido e compreso. Mi dissero che doveva avere un agnellino e io non capivo cosa volessero dire, non capivo perché facessero tante carezze alla Roseta mentre trattavano malamente tute le altre.
Un mattino lo capii. La Roseta era accucciata su un po’ di paglia, e vicino a lei, gli occhi ancora chiusi, un tenero e tremolante agnellino bianco, che il giorno dopo venne già al pascolo con noi, trotterellando sulle sue zampette tremanti e belando flebilmente sempre attaccato alla madre.
Era così piccolo e indifeso, che neppure io osai maltrattarlo con il mio bastoncino.

A un certo punto mi stufai di andare al pascolo con ragazze più grandi di me che decidevano sempre tutto quello che dovevo fare, e mi trovai un’amica tutta per me.
Si chiamava Piera, aveva circa cinque anni ed era la figlia più piccola dei contadini della cascina accanto, i padroni di Fido e Pulìn.
Piera non sapeva quasi parlare, ma si dimostrò subito disposta a seguirmi ciecamente ovunque andassi. Io sceglievo i giochi, gli itinerari dei nostri lunghi vagabondaggi ed ero finalmente padrona della situazione.
Andavamo in giro per i prati tutto il giorno, rubavamo la frutta che cadeva dagli alberi e ogni tanto i contadini ci minacciavano col rastrello.
Piera era una selvaggia con i capelli lunghi, biondi e spettinati ed io, con le mie due treccine tenute a fatica dal tedescone e il fiocco bianco sempre mezzo sfatto e stropicciato lo ero poco meno. Creammo però insieme un ferreo sodalizio, privo di parole e chiacchiere, ma denso di accadimenti.
Stavamo fuori fino a tardi la sera e mio padre si arrabbiava. Una volta che arrivai a casa che era quasi buio, mio padre mi accolse con un silenzio carico di minaccia.
Mi annunciò che avrei cenato da sola su un tavolino in un angolo della cucina con la faccia rivolta verso il muro. Mi parlò di questo castigo in tono solenne, e io mi chiedevo stupita quale fosse la punizione.
Quella sera a cena c’era il signor Bonifanti e forse mio padre pensava che mi sarei sentita doppiamente mortificata di fronte ad un estraneo. Invece io ero quasi contenta di mangiarmene tranquilla per conto mio, senza essere rimproverata se ero scomposta, se non mangiavo a bocca chiusa, e il fatto di mangiare voltando le spalle agli altri guardando verso il muro non mi dava nessun fastidio, perché mi tenevano compagnia i miei pensieri, i ricordi dei vagabondaggi del pomeriggio, dei prati dove io e Piera ci buttavamo quando eravamo stanche.
I miei genitori d’altra parte forse non avevano voglia d’infliggermi dei castighi troppo severi per la mia disubbidienza, erano troppo contenti della fine della guerra ormai prossima e facevano progetti e si divertivano alle battute del signor Bonifanti.
Bonifanti si fermò qualche giorno ospite da noi e ogni tanto si sedeva su una sedia nell’aia davanti alla nostra porta di casa. Si avvicinava Pulìn zoppicando, grasso e curioso. Quando gli veniva accanto, Bonifanti gli sollevava un orecchio e gli urlava dentro: "”Pulìn!", e Pulìn rimaneva immobile, completamente insensibile nella sua sordità.
I giorni che pioveva o in cui non avevamo voglia di girovagare, Piera ed io giocavamo a fare le brave donnine di casa. Prendevamo le mie pentoline, il fornellino e mettevamo a cuocere pietanze succosissime a base di terra, sassolini colorati e piccole foglioline. Poi versavamo queste leccornie sui piatti costituiti da larghe foglie di nocciolo. Altre volte facevamo le damine, staccavamo i petali dei fiori dei gerani e ce li incollavamo sulle dita per simulare lo smalto rosso come quello delle signore.
Piera si uniformava ai miei desideri, ma non mi guardava con ammirazione, era una mia seguace ma non una mia fan, e questo mi piaceva. Mi assecondava sempre in quel suo modo selvatico e silenzioso, che ci faceva sentire complici e profondamente legate.
Mia madre, che andava pazza per i soprannomi, chiamava Piera “l’amica P.”, il che conferiva alle nostre spedizioni l’aria di una missione segreta che a me piaceva moltissimo.

Un pomeriggio stavo per uscire con Piera per i soliti giri, quando vidi tutte le ragazze con cui ero solita andare al pascolo sedute in circolo, chi su una panca, chi per terra, circondavano una ragazza nuova.
“Rosanna, Rosanna!” le dicevano. Mi avvicinai e mi sedetti con loro. Le ragazze si erano messe tutte il rossetto come Rosanna, che aveva le labbra tutte pitturate e portava delle scarpe bianche col mezzo tacco e sembrava più la vecchia di tutte, sui diciotto diciannove anni.
Rosanna era stata sfollata a Sorano fino a pochi mesi prima ed era tornata a trovarle da Torino.
“Cos’è tutto questo sfolgorio di rossetti?” chiedeva Rosanna sorridendo. Le ragazze, beate, ridevano rovesciando il capo all’indietro.
“Anche lei è di Torino”, disse a un certo punto una delle ragazze indicandomi con noncuranza, come se non fossi degna di attirare l’attenzione di Rosanna.
Invece Rosanna si rivolse a me e mi chiese:
“Dove abiti a Torino?”. Tutte le ragazze si girarono verso di me dato che Rosanna mi aveva degnato della sua attenzione.
“In piazza Rayneri” risposi io. Tutte le ragazze si girano verso Rosanna attendendo il responso.
“In piazza Rayneri” disse lei, “mai sentita nominare. So che esiste una scuola Rayneri, ma non una piazza”.
Le mie azioni che per un momento erano parse risollevarsi, ricaddero miseramente. Le ragazze alzarono le spalle e distolsero lo sguardo da me.
Rosanna non conosceva neppure il nome della piazza dove abitavo, forse quella piazza non esisteva neppure, forse me l’ero addirittura inventata, doveva essere una piazza assolutamente insignificante se Rosanna non l’aveva mai sentita nominare.
Mi sentii come un giocattolo, preso in mano per un momento da una bambina col vestito ricamato e coi boccoli e poi gettato in un canto con disprezzo perché privo d’interesse.
Visto che non avevo avuto l’approvazione di Rosanna, decisi che era meglio andare subito in giro con Piera libera per i prati, lontana da quelle smorfiose.

A Sorano mia madre, passati i primi entusiasmi per le primule e le viole e il soffitto a cassettoni blu e oro, cominciò a rimpiangere Roddino e la Trattoria dei Cacciatori.
Si sentiva isolata nella quiete ovattata della sua nuova cucina, mentre i contadini della casa accanto sembravano ignorare del tutto la guerra, le rappresaglie e i rastrellamenti, e badavano soltanto ai campi e ai raccolti.
Si sentiva sola, torturata da pensieri angosciosi per gli amici di cui non aveva più notizie e per la sorte di due vecchie zie portate via dai tedeschi.
In realtà in quel periodo gli avvenimenti si stavano accavallando vorticosamente.
Il 12 aprile era morto improvvisamente il Presidente Roosvelt e il 23 aprile i Russi erano entrati in Berlino. Gli alleati avevano ripreso l’offensiva in Italia e dilagavano ovunque. Genova, Milano e Torino erano insorte e molte località erano state liberate dai partigiani.
Mia madre, seduta nella cucina di Sorano, ascoltava le stazioni di Genova libera e di Milano libera. I partigiani elle langhe erano scesi in aiuto a Torino dove ancora si combatteva.
“I partigiani delle langhe, i nostri partigiani”, diceva mia madre con voce commossa e si sentiva impotente e inutile.
Diceva che le sarebbe piaciuto muoversi, piangere, agire, e invece rimaneva lì seduta come intontita, senza riuscire ad abbandonare le vesti della signora Paderno dissimulatrice e rassegnata. Infine decidemmo di andare tutti ad Alba.
“29 aprile 1945. Ieri sono andata ad Alba con papà e mamma….. Mentre andavamo giù per lo stradone incontrammo della gente che ci disse che c’era l’armistizio e noi seguitammo la strada tutti contenti.
Alba era tutta imbandierata e anche noi siamo andati in un negozio e abbiamo comprato un pezzetto di nastro tricolore e ce lo siamo messi all’occhiello. Poi siamo andati in una pasticceria e abbiamo mangiato due bignole e un pezzo di cioccolato.
Purtroppo invece la guerra non è ancora finita”.
Era il 28 aprile e in quello stesso giorno Benito Mussolini venne giustiziato.
Mia nonna scriveva:” 29 aprile 45. Ieri sera la radio ha annunciato che gli americani sono entrati in Torino. I cadaveri di Mussolini e compagni sono stati portati a Milano ove verranno seppelliti senza onori. E’ la vendetta del popolo…..
Ora si attende di ora in ora la capitolazione della Germania, segnando così la fine di questa immane tragedia che ha travolto uomini e cose devastando tutte le più belle città. Si vocifera che Hitler sia morto, è un vero peccato che questo non sia avvenuto sei mesi fa, avrebbe risparmiato lutti e rovine”.
Anche mia madre si era messa ad annotare gli avvenimenti che si susseguivano, le sue impressioni e i suoi vari stati d’animo su un quaderno con la copertina di tela cerata azzurra.
Il giorno 2 maggio 45 scriveva: ”Si sono spalancati i pesanti cancelli della mia prigione, ma io non mi muovo. Mi sento libera e ne godo,  e tuttavia non mi decido ad uscire….. Che dicevo sempre a Lilina? ”Quando verrà il gran giorno voglio un abito da giullare con tanti campanellini perché ogni membro del mio corpo possa avere una voce per esprimere la mia gioia”.
Non ho messo l’abito da giullare e nemmeno la mia voce squilla, perché?. Non so, ma questa casa di Sorano è ovattata di silenzio e indifferenza”.
La sera dello stesso giorno il giornale radio delle 20 annunciò che la guerra in Italia era finita con la resa incondizionata delle truppe tedesche e fasciste.
Mia madre si precipitò fuori per comunicare la notizia ai vicini, ma i contadini della casa accanto non ebbero nessuna reazione. Mia madre tornò a casa mortificata.
Quell’inizio di maggio fu freddissimo e ventoso, cadde persino un po’ di neve. Il primo maggio era stato annunciato il suicidio di Hitler e mia madre attribuiva il gelo e il vento di quei giorni alla discesa agli inferi dello spirito demoniaco di Hitler.
Però le parevano dei segni troppo deboli, diceva che si sarebbero dovuti sentire dei boati e gli urli di gaudio delle potenze infernali, e così mia madre temeva che la notizia fosse falsa e che Hitler rispuntasse per rimettersi alla testa del popolo tedesco.
Per fortuna era tutto vero, e la radio diede l’annuncio che il giorno di domenica 6 maggio le truppe partigiane sarebbero sfilate in solenne parata per le vie delle città che avevano liberato. Era l'ultima soddisfazione che gli Alleati avrebbero concesso loro, poi avrebbero ritirato le armi e rimandato tutti a casa.
Il loro compio era finito, grazie ragazzi, ed ora tutti in licenza.
Quel 6 di maggio per la festa della Liberazione andammo ad Alba. La gente era allegra, festante, ballava e si abbracciava per strada. C’erano dei banchetti dove vendevano il torrone e anche noi tre ne comprammo una stecca facendo un eccezione alla nostra consueta austerità.
Ricordo la felicità di mio padre e mia madre, felicità che io condividevo solo per riflesso, perché per me la fine della guerra non significava nessun cambiamento, si cominciava però a parlare di un nostro ritorno a Torino, ritorno che io vedevo remoto e avvolto nelle nebbie dell’incertezza.
Io non so se quella primavera e quell’estate del ’45 siano state particolarmente calde e soleggiate, so soltanto che di quella primavera e di quell’estate ricordo solo giornate di sole, tanto doveva essere solare e lieta l’atmosfera di casa nostra per la guerra finita e la fine delle persecuzioni, e le speranze e i progetti per il futuro e la prospettiva del ritorno a casa.
Mia nonna invece non la vedeva così rosea la fine della guerra, aspettava suo figlio dal “lungo esilio” e scriveva:
“Ormai sono tutti assetati di vendetta e purtroppo ovunque si verificano delle crudeltà che non hanno riscontro che all’epoca dell’Inquisizione. Non avrei mai creduto che si potesse arrivare a simili eccessi nel secolo ventesimo”. E ancora non si sapevano tante cose….

In una mattina di sole, a fine maggio o ai primi di giugno dell’anno 1945, mia madre ed io c’incamminammo per Roddino dove eravamo state invitate a pranzo dalla signora Palmina. Attraverso quali canali ci fosse arrivato quell’invito non lo so, ma penso a quanto poco affanno e poca ansia ci fosse nella nostra vita allora, per partircene di casa tranquille una mattina per percorrere a piedi otto chilometri all’andata e altrettanti al ritorno semplicemente per andare a pranzo a casa di amici.
Arrivammo a Roddino per l’ora di pranzo, mia madre sorridente, io con un mazzolino di fiori di campo che avevo raccolto per strada e Fido al seguito, che non ci abbandonava mai da quando avevamo preso l’abitudine di rifilargli sovente dei pezzi di pane. Mia madre andò a salutare tutti, Marianìn, il marito, Piera e Luciano, e a tutti finalmente era stato rivelato il nostro vero cognome e il segreto delle nostre identità false.
Nessuno ci fece gran caso, neppure don Rinaldi, il quale ci disse che lui l’aveva sempre saputo che noi eravamo ebrei, l’aveva capito dal cognome falso, perché Paderno è il nome di un paese, e gli ebrei, si sa, hanno sovente per cognome il nome di un paese o di una città, ma, aveva aggiunto con un gran sorriso sulla sua faccia rotonda, non eravamo forse tutti figli di Dio?.
Io comunque ero rimasta Lillina e mia madre la signora Paderno.
Dopo i saluti ci mettemmo a tavola e io vedevo che Giorgio era tutto eccitato, e che lui e la signora Palmina si lanciavano ogni tanto uno sguardo d’intesa.
Alla fine del pranzo la signora Palmina s’alzò per andare a prendere una torta preparata per l’occasione, che doveva costituire la grande sorpresa del pranzo e che aveva messa a freddare sul balcone, ma ahimè trovò il piatto vuoto.
Guardammo subito Fido, che già da un po’ di tempo se ne stava stranamente quieto e accucciato in un angolo, senza l’agitazione che lo caratterizzava in presenza del cibo. Quando s’accorse di essere stato scoperto, chinò la testa tra le zampe in attesa del peggio, ma noi non lo sgridammo né lo picchiammo, e sulla strada del ritorno verso Sorano io realizzai come anche un cane può essere felice. Lo si vedeva dal modo in cui camminava, da come muoveva la testa e la coda. Aveva fatto certamente il pasto migliore di tutta la sua vita e non era stato neppure preso a calci anche se sapeva di meritarselo.
Fido era felice, e arrivato a casa comunicò in qualche modo la sua felicità a Pulìn, perché da allora non potemmo più muovere un passo senza averli tutti e due alle calcagna.
“Che cosa si saranno detti?” si chiedeva mia madre, “forse Pulìn avrà annusato Fido e sentito un profumo paradisiaco? Ma era possibile dopo tante ore?”.
Il mistero ovviamente non lo svelammo mai, ma in compenso la storia della torta e di Fido venne da me riciclata in vari temi alle elementari e alle medie e alla fine costituì il soggetto di un raccontino “La scorpacciata di Fido”, che fu pubblicato sul giornalino per ragazzi che allora leggevo e che dedicava una pagina alle composizioni dei lettori.

Una mattina mi svegliai dicendo che avevo sognato che zio Dario tornava a casa.
Ormai potevo chiamarlo così, “zio Dario”, e i miei nonni, che in quel periodo erano ospiti da noi, erano finalmente tornati ad essere i miei nonni, da Cravanzana a Sorano e non solo più fino a Ceretto.
Mia alzai e andai a giocare nel cortile. Ad un certo punto vidi avanzare una figura nota sorridente e abbronzata.
“E’ arrivato zio Dario!”, mi misi a gridare, mentre mia madre e mia nonna uscivano di casa con le braccia alzate e le voci lagrimose.
Osservai con distacco i baci, gli abbracci, le lacrime, e ascoltai con orecchio distratto le storie che mio zio raccontava sul suo arrivo, sul soggiorno in Svizzera, su come aveva faticato a sapere dove ci eravamo stabiliti e a raggiungerci. La mia concentrazione era concentrata sul viso radioso di mia madre e la faccia estasiata di mia nonna ancora incredula, gli occhi umidi e la bocca semiaperta. Finalmente venni chiamata in causa:
“Ma lo sai che stanotte la Ilia ha sognato che arrivavi?”, gli disse mia madre facendomi un cenno e stringendomi a sé. Anch’io ero diventata di nuovo Ilia, solo occasionalmente Lillina. Se volevo tornare ad essere Lillina dovevo tornare a Roddino alla Trattoria dei Cacciatori.
Da quel giorno mi furono attribuite facoltà di preveggenza di cui a dire il vero non diedi altre dimostrazioni. La medium di famiglia era in realtà mia madre, a cui ogni tanto compariva in sogno una donna velata che le dava informazioni e suggerimenti che si rivelavano sempre esatti.
Quando appena sottovoce si accennava alla possibilità di uno sbarco delle forze anglo-americane sul continente, la donna velata apparve una notte a mia madre e le comunicò la data esatta del futuro sbarco in Normandia.
Comparve ancora qualche anno dopo per rivelarle la realtà di situazioni apparentemente senza spiegazioni.
L’ultima rivelazione mia madre l’ebbe la notte prima di venire investita da un’automobile e di essere sbattuta come un sacco di stracci sul selciato di una strada.
Quello che le apparve quella notte non me lo volle mai dire, ma mi disse che era una cosa orribile e con la mano cercava di scacciarne il ricordo, mentre giaceva nel letto che non avrebbe più potuto abbandonare.
Forse le era stato rivelato l’orrore della sua morte e della sua lunga agonia, ma quella volta non le servì a modificare il suo destino.

La guerra era finita e i miei cominciarono a fare progetti sul nostro ritorno a casa. La Bonaglia si preparava ormai ad andarsene, suo marito era una persona conosciuta e i partigiani l’avevano ammazzato quando già la guerra era finita. Lei e le bimbe avrebbero dovuto traslocare altrove.
Credo che a poche persone nella vita sia concessa la soddisfazione, se soddisfazione si può chiamare, di assistere al completo annientamento del nemico.
Questo fu concesso a mia madre, che andò di persona ad assistere al trasloco della Bonaglia e sedette, giovane splendente e vittoriosa, su una sedia della sua cucina ad osservare una Bonaglia atterrata e piangente che impacchettava le sue cose, controllando che non si portasse via anche le nostre.
Ad un certo punto la Bonaglia prese una scatola di metallo in cui veniva conservato il caffè, una scatola di metallo blu con i riflessi verdi che era sempre stata nella nostra cucina e che veniva chiamata scatola del pavone.
Mia madre puntò il dito e gliela fece lasciare. Poi se ne pentì e sovente, quando ormai eravamo nuovamente installati a casa nostra, lei prendeva in mano la scatola del pavone per preparare il caffè, mi diceva:” Sono stata meschina con la Bonaglia, potevo lasciargliela questa scatola, non aveva nessuna importanza e nessun valore”.
Mia madre non buttò mai via la scatola del pavone, un po’ perché era uno di quegli oggetti che davano l’idea di casa, come la scatola dei biscotti e quella dei bottoni, e un po’ perché a guardarla le suonava ogni volta da ammonimento, poiché non si era comportata secondo gli insegnamenti dei sacri testi, per cui un ebreo deve si ricordare quel che gli ha fatto Amalèk, ma non deve mai gioire dell’umiliazione del suo nemico.
Andata via la Bonaglia, cominciammo ad andare ogni tanto a Torino per riordinare la casa prima di ritornarci definitivamente.
Quell’alloggio a me sembrava grandissimo, mentre in realtà era composto di quattro stanze, neppure molto grandi, e di una cucina. Ero anche impressionata dalla quantità di acqua che usciva dai rubinetti, e che paragonata al filo dell’enteroclisma sembrava addirittura una cascata, inoltre mi pareva meraviglioso che si potesse scegliere di lavarsi con l’acqua calda oppure con l’acqua fredda.
Ora avrei dovuto anch’io una cameretta per me, con un letto un tavolino ed un armadio, una cameretta che mia madre chiamava pomposamente il living, perché era anche la camera dove si cuciva e dove ci si fermava a chiacchierare.
Un giorno, frugando in un cassettino di quella che sarebbe diventata la mia scrivania, trovai un quaderno a righe delle elementari intestato a Resi Bonaglia.
Il mio cuore si mise battere forte: ecco lì una prova tangibile che altre persone avevano vissuto a casa mia, che un’altra bambina si era seduta a fare i compiti su quella stessa sedia su cui ero seduta io, scrivendo su un quaderno con la copertina nera come i miei.
C’erano dei pensierini scritti su quel quaderno e dei disegnini puerili, figure stilizzate, casette, più o meno come le disegnavo io, anche Resi Bonaglia, come me, non doveva essere troppo forte in disegno.
C’erano anche alcune considerazioni di tipo personale: Resi è stanca, Resi oggi ha giocato con Pina, probabilmente era una via di mezzo tra un quaderno di scuola e un diario, e essere messa di fronte così all’improvviso a una realtà tanto simile alla mia, ma riferita a persone pensate sempre come estranee e nemiche, mi turbò profondamente.
Guardai un po’ di volte il quaderno di Resi e infine lo buttai via.
Non è possibile vivere con il lato umano del nemico sconfitto, perché vien voglia di cercarlo, parlargli, spiegargli. Invece pensai: adesso è il mio turno cara Resi, magari eri una bambina simpatica, magari avremmo anche potuto essere amiche, ma adesso devi sparire dalla mia vita.

Nonostante il fascino della novità e nonostante i lussi che sembrava promettere la vita di città, io vivevo in uno stato d’animo diviso tra la contentezza e il rimpianto.
Cominciavo già a rimpiangere i lunghi pomeriggi a spasso con Piera in assoluta libertà, ed ero sicura che a Torino non avrei più potuto andarmene a zonzo da sola.
Già si parlava delle difficoltà ad attraversare le strade con le macchine e i tram, dell’impossibilità di uscire senza essere accompagnata. Inoltre avrei cominciato ad andare alla scuola pubblica, come tutti gli altri bambini, e per questo mia madre mi aveva portata a Roddino a sostenere da privatista l’esame di ammissione alla terza elementare.
Anche mia madre avrebbe ripreso l’insegnamento l’autunno successivo. Era stata reintegrata e le avevano riconosciuto gli anni perduti a causa delle leggi razziali.
Fu perciò da collega a collega che lei andò a parlare alla maestra della scuola di Roddino dove avrei sostenuto l’esame.
Quella mattina io sedevo sola in un’aula piena di banchi e di cartelloni sulle pareti con i disegni dei bambini, disegni che testimoniavano quanta vita fosse stata vissuta in quell’aula, vita di bambini tra bambini, vita a cui non avevo partecipato, mentre adesso mi trovavo lì quando tutti se ne erano andati, ed io ero lì per fare le cose che loro avevano fatto per tutto l’anno.
Guardavo mia madre che parlava lieta e disinvolta con la collega, una donna bruna e graziosa, e mi sembrava assurdo di essere lì a sostenere una prova, con mia madre che parlava con la maestra e io che dovevo fare il problemino e scrivere dei pensierini sul cane. Così scrissi delle scemenze , ordinate e in bella scrittura ma scemenze, il cane è fedele, vi sono molte specie di cani e così via, e invece ne avrei avute tante di cose da raccontare sui cani, e di Fido e di Pulìn, tante cose avrei potuto dire, ma in quelle condizioni mi sentii bloccata.
La sentivo una situazione di privilegio che non avevo cercato e che non gradivo, e che trovavo oltre a tutto molto poco stimolante. Se ci fossero stati anche gli altri bambini, allora si che avrei scritto, raccontato, cercato di fare un bel tema per avere la lode della maestra e la considerazione dei miei compagni.
Comunque fui ammessa alla terza elementare.

La vita cominciava a riprendere il suo corso dopo l’interruzione della guerra.
I miei nonni apparivano stanchi e improvvisamente invecchiati e non ripresero più la vita di prima. Vendettero il loro negozio di cui mia nonna era tanto orgogliosa.
“Ci venivano i giornalisti della Stampa e tutte le mattine Valletta mandava il suo cameriere a prendere il colletto e i polsini nuovi per la camicia. E ci veniva anche Spazzapàn”, mi diceva mia nonna con gli occhi grigio azzurri un po’ sognanti.
Da Spazzapàn, che mio nonno chiamava alla piemontese Spassapàn, avevano comprato un quadro, una natura morta che io trovavo bellissima.
Mia nonna mi raccontava volentieri del negozio e di una volta che Angelo Viziano, un giornalista della Stampa, l’aveva presa sottobraccio e l’aveva portata davanti a uno specchio:
“Vediamo se facciamo una bella coppia”, le aveva detto.
Anche il fratello di mio nonno faceva il giornalista ed era a quel tempo corrispondente all’estero, e la casa dei miei nonni era il suo punto di riferimento quando si trovava a Torino e non era ancora sposato.
Una volta aveva intervistato Hitler prima che diventasse cancelliere. Hitler aveva cominciato a sputare il suo livore contro gli ebrei e lo zio gli aveva detto di essere ebreo. Hitler gli aveva risposto che non era possibile perché lui gli ebrei li riconosceva dall’odore.
Ma dopo la guerra i miei nonni traslocarono da via Cernaia, dove c’era il loro negozio e dove avevano vissuto una vita, e si rintanarono in un alloggio buio di una casa vecchia del centro di Torino in via S. Francesco da Paola.
Non frequentarono più il fratello di mio nonno, che era tornato dalla Svizzera dove aveva trascorso gli anni della guerra ed era ormai un giornalista famoso, che sarebbe diventato di lì a pochi anni direttore della Stampa.
Si sentivano stanchi e umiliati e i miei nonni non avevano voglia di ricominciare.
Mia madre rimproverava mia nonna perché non aveva ringraziato gli zii che avevano ospitato Dario per qualche tempo quando era scappato in svizzera, ma mia nonna alzava le spalle, perché ormai era diventata una persona negativa dall’atteggiamento passivo.
Mia madre si consolò dando allo zio giornalista il soprannome “il parente celebre”, e così veniva chiamato a casa nostra le poche volte che se ne parlava.

Mia nonna continuò a scrivere i suoi pensieri sulla sua agendina blu anche dopo la guerra, e li fece precedere da un titolo: “Avvenimenti posteriori alla guerra”.
“26 luglio 1945. La guerra è finita da più di due mesi. Abbiamo riconquistato la libertà e la nostra vera personalità, ma la vita è molto difficile.
Siamo stati a Torino dall’11meggio all’8 giugno alloggiando all’albergo Saluzzo in via Massena….Ho passato circa un mese molto triste e preoccupata col vivo desiderio di tornare in campagna….
Chissà come passeremo l’inverno? La vita è sempre più cara, i prezzi di tutte le derrate sono iperbolici, quasi incredibili, come ce la caveremo?. Chi lo sa?”.
“2 agosto 1945. Papà e Dario sono partiti per Torino e da cinque giorni non ho più avuto notizie. Sono molto sola e ho dormito due notti da sola nella casa….
Spero che stasera torni qualcuno, non so proprio cosa pensare di questo soggiorno prolungato a Torino, spero non sia dovuto a disgrazie.
Ieri sera mentre attendevo che la signora di Savona tornasse, mi sedetti al buio davanti alla casa e vi rimasi più di mezz’ora.
C’era un gran silenzio, non si sentiva che il cri-cri del grillo o della cicala.”
Gli scritti di mia nonna posteriori alla guerra riflettono solo tristezza e preoccupazione, non c’è un goccio d’ottimismo né di entusiasmo per il futuro, mia nonna si vedeva ormai in fase discendente, e nonostante fosse scampata con la sua famiglia alla guerra e alle persecuzioni, la guerra l’aveva stremata e si erano insinuati in lei il timore e l’inquietudine tipici di chi si sente invecchiare e non trova in sé le risorse e lo slancio per affrontare situazioni nuove con tutte le loro difficoltà.

Mio padre e mia madre iniziarono la loro vita matrimoniale praticamente dopo la guerra, dato che si erano sposati quasi alla vigilia delle leggi razziali e si erano subito sentiti braccati, perseguitati, e in seguito si erano solo preoccupati di sopravvivere.
Mio padre riprese il lavoro e mia madre si iscrisse di nuovo alla Procoltura, aspettando con gioia che iniziasse l'anno scolastico per poter riprendere l'insegnamento. Intanto cercava di riannodare i fili che si erano spezzati e di ritornare alle vecchie abitudini. Per questo si diede da fare a cercare una donna di servizio fissa come era abituata ad avere prima della guerra.
Trovò una ragazza di campagna che desiderava andare a vivere in città e che si chiamava Elsa. Elsa era molto graziosa ed elegante, e vestita di nero col suo grembiulino bianco faceva un’ottima figura, ma non aveva voglia di lavorare.
Diceva sempre che doveva andare da sua zia a Sassi. “Mi ha telefonato mia zia di Sassi”, ci diceva continuamente con aria solenne. Sembrava che alle richieste della zia di Sassi non fosse ammessa replica, che non si potesse opporre nessuna condizione e tanto meno un rifiuto.
Mia madre dopo poche settimane si stufò. Elsa non le piaceva e poi non sopportava più una donna fissa, le dava fastidio avere un’estranea in casa tutto il giorno. La guerra aveva cambiato le nostre esigenze e le nostre abitudini.
Bene o male mia madre aveva imparato a far da mangiare e ad occuparsi della casa.
Non era più la ragazza sprovveduta che si era sposata senza saper neppure cuocere un uovo. Aveva la sensazione, mia madre, di aver superato un esame molto difficile, e reintegrata nella sua vita, nel suo lavoro, con una bambina ormai grandicella, si sentiva più libera e sicura.
Decise perciò di prendere una donna a mezzo servizio e così in casa nostra entrò Marie.
Marie era alta e grossa con occhi piccoli e chiari, il colorito acceso e i capelli arricciati in permanenti sempre troppo strette, “sciàse”, per dirla alla piemontese.
“Io non mi chiamo Maria, mi chiamo Marie”, diceva con orgoglio. In effetti era nata in Francia da madre francese e padre italiano, me era ormai una perfetta piemontese.
I primi giorni eravamo rimasti tutti a bocca aperta di fronte all’efficienza di Marie, che eseguiva in pochissimo tempo i lavori che le venivano assegnati, ricomparendo subito dopo dicendo “comandi” a mia madre che ne rimaneva stupefatta ed ammirata.
Ma Marie non era soltanto quello che le signore definiscono “una donna finita”, era anche una fonte inesauribile di racconti, e ci incantava con le storie della sua vita che a me bambina parevano straordinarie. Aveva avuto per anni un banco al mercato di Porta Palazzo, il più famoso di Torino, dove affermava di conoscere tutti e di essere da tutti rispettata. Ci invitava ad andare per acquisti, possibilmente in sua compagnia, perché, diceva, la regola del mercato era: “An chilu a gnùn, noeuv ettu aj amìs, oeut ettu a tùti”, cioè un chilo a nessuno, nove etti agli amici e otto etti a tutti.
Ma lei, ridendo e scoprendo le gengive, diceva di conoscere qualcuno che per lei poteva anche arrivare a nove etti e mezzo.
Marie aveva avuto un marito con cui aveva aperto un albergo, e un figlio, morto sui vent’anni. Sia del marito, ormai defunto, che del figlio, parlava poco e senza sospiri di rimpianto.
Durante il periodo dell’albergo aveva conosciuto tantissima gente, fatti e misfatti di mezza Torino, che amava raccontare a mia madre fidando nella sua discrezione.
Marie aveva i pomelli delle guance sempre troppo rossi e gli occhi piccoli erano sovente un po' lucidi. Colpa della barbera, compagna fedele e fin troppo assidua delle vicissitudini della sua vita.
Di tutte le storie che Marie raccontava, a me ne era rimasta impressa soprattutto una, che le era successa quando era poco più che adolescente e faceva la cameriera in un albergo di Ceresole Reale. In quell’albergo era venuta a trascorrere qualche giorno la Regina Margherita. Un giorno, mentre la Regina era fuori per una passeggiata, Marie, facendo le pulizie nell’appartamento con altre camerierine, si incantarono a guardare i vestiti della Regina.
Uno piacque a Marie in modo particolare, tanto che le amiche la spinsero ad indossarlo. Così, mentre tra gridolini e risate soffoccate delle ragazze, Marie si osservava allo specchio in abito regale, arrivò inaspettatamente la Regina.
Paura, lacrime, e Marie si buttò in ginocchio davanti alla sovrana chiedendole perdono.
“Povera piccola”, disse la Regina, “ti piace?. Prendilo, è tuo”.
Questa storia mi piaceva immensamente, l’idea di vivere una favola era già allora in me un’aspirazione profonda, e mi spingeva ad estraniarmi dalla realtà che in genere non mi piaceva e che preferivo aggirare con la fantasia.
Nonostante quest’avventura da fiaba, Marie sosteneva di non essere monarchica e di aver votato per la repubblica.
Marie rimase in casa nostra per più di dieci anni, e se ne andò soltanto quando gli anni, e soprattutto l’alcool, avevano fatto di lei una donna troppo magra con le mani scosse da un tremito violento e continuo.

 

Per me invece, passata l’euforia per le novità, il ritorno a Torino fu triste.
Torino era stata dilaniata dai bombardamenti e camminando per la città si vedevano ovunque case sventrate con ancora ben in evidenza tracce di vita vissuta. Mi ricordo di una casa in via Cibrario a cui le bombe avevano strappato via un lato, e si vedevano gli interni delle camere in cui era rimasta intatta la parete di fondo. In una in particolare si notava una tappezzeria a fiorellini, con un quadro ancora appeso miracolosamente al muro.
Ogni volta che guardavo quella tappezzeria e quel quadro, mi sforzavo di pensare a come doveva essere la stanza quand’era tutta intera, con la sua tappezzeria a fiorellini e la gente seduta dentro a parlare. E pensavo a quel quadro che aveva visto e sentito tutto quello che era successo in quella stanza, e che adesso vedeva la strada, i tram, la gente che camminava. Pensavo a come era cambiata la vita per quel quadro, l’intimità di una stanza prima con i segreti di tante vite, e il chiasso e la promiscuità della strada poi, e lui sempre lì appeso a quel muro, di vedetta, come se nulla fosse accaduto.
Cercavo di pensare a come mi sarei sentita io al suo posto, certo non sarei rimasta così immobile e ferma ad osservare il trascorrere dei giorni. Già, ma io ero una bambina, non un quadro, un oggetto, anche se per me gli oggetti avevano fin da allora un loro linguaggio, un loro modo di esprimersi, e a seconda di come erano disposti e dalla luce che emanavano, io traevo da essi comunicazioni e silenziosi messaggi.
Ma la compagnia delle cose e degli oggetti non poteva essere sufficiente a una bambina di sette anni. Mi sentivo improvvisamente isolata, una bambina che viveva sempre tra adulti e ritornai a poco a poco ad essere una bambina solitaria, ma con un gran desiderio di amici bambini e soprattutto di un’amica del cuore con cui confidarsi.
Invece ero sempre più coinvolta nella vita dei miei genitori che mi portavano con loro dappertutto perché non sapevano dove lasciarmi, dato che i loro amici avevano soprattutto figli maschi, oppure, come i Boari, non erano ancora sposati.
Fu così che cominciai a desiderare forsennatamente un fratellino o una sorellina, e osservavo sempre la pancia di mia madre per vedere se si gonfiava.
Lei mi aveva spiegato bene come i bambini crescessero nella pancia della mamma e come ne uscissero, su come ne entrassero invece, era rimasta piuttosto evasiva. Mi erano stati fatti vaghi accenni a fiori e pollini vaganti, a pericolosi incontri troppo ravvicinati, ma io non avevo le idee affatto chiare.
D’altra parte per fortuna ero abbastanza piccola, e non ero ancora preda delle curiosità morbose che mi avrebbero investita negli anni seguenti circa gli accadimenti sessuali.
Mi bastava quello che sapevo, e una volta che vidi mia madre con il ventre leggermente arrotondato, vissi alcuni giorni in stato di beatitudine.
“Ci siamo”, pensavo, “questa volta avrò un fratellino o una sorellina”.
Quando finalmente osai rivelare le mie certezze a mia madre, lei mi guardò con un’espressione talmente trasecolata, che mi fece capire che l’idea di avere un altro figlio era mille miglia dalla sua mente.
“Che cosa posso farci, non è venuto”, mi diceva quando già adulta io le rinfacciavo la mia solitudine di figlia unica.
 

Oltre alla solitudine, il ritorno a Torino portò prepotentemente nella mia vita la guerra, quella guerra, che io in fondo avevo vissuto senza grandi traumi e come una condizione naturale e accettabile nella semplicità della vita paesana, e che adesso invece, quando ormai tutti si rallegravano perché era finita, mi era piombata brutalmente addosso con tutto il suo orrore.
Per casa cominciavano a circolare dei giornali illustrati con le immagini dei campi di concentramento, dei mucchi di cadaveri, degli scheletri viventi con la descrizione delle brutalità e delle torture a cui erano sottoposti.
Quelle immagini e quei racconti così crudi, che rendevano i miei genitori consapevoli della grande fortuna che avevano avuto ad esserne usciti vivi, destavano in me orrore e ribrezzo. Perdevo l’appetito, soffrivo di nausee, faticavo ad addormentarmi la sera. E poiché la guerra la soffrii quando era già finita, ne soffrii doppiamente perché in quella sofferenza non fui compresa, perché anche chi cercava di medicare le ferite e di rimettere insieme i pezzi di vita, provava comunque sollievo per la libertà ritrovata e la fine delle ostilità e della paura. Infatti mia madre mi diceva:
“Pensa che bello!. Adesso è tutto finito e possiamo addormentarci tranquilli senza aver più paura dei bombardamenti”.
Come facevo a dire che io invece dei bombardamenti avevo tutt’altro che un cattivo ricordo? Trovavo eccitante il suono delle sirene, il correre rapido in cantina, spesse volte in pigiama e vestaglia insieme a tutti gli inquilini della casa, affratellati in un’improvvisa solidarietà di fronte al pericolo comune.
Ci stipavamo nei corridoi male illuminati della cantina, con l’odore di uffa e i grossi mattoni sporgenti dai muri, e tutti parlavano, raccontavano di altri bombardamenti, di storie di conoscenti. Io ero l’unica bambina piccola, e come tale venivo trattata con gentilezze e sorrisi. Mi sentivo tranquilla e protetta.
Poi suonava la sirena del cessato allarme e ce ne tornavamo tutti nei nostri alloggi che fortunatamente non furono mai danneggiati.
Per me i bombardamenti erano quasi un diversivo piacevole, ma come facevo a dirlo quando vedevo continuamente in giro case sventrate e sentivo la gente che si disperava per la distruzione della sua casa?.
Mi sentivo una nota stonata nell’alleluia generale, perché non riuscivo a partecipare a tutto quel rallegrarsi, e nello stesso tempo mi sentivo in colpa perché non lo facevo, mentre a me pareva di aver improvvisamente perso tutto il mio mondo di bambina, la mia autonomia, la mia indipendenza, un certo modo di sorridente e disteso di stabilire i rapporti.
Per esempio a Roddino e a Sorano la spesa la facevamo dai contadini, o andavamo per i campi a procurarci quello di cui avevamo bisogno. L’unico negozio che io ricordassi era quello del fornaio di Roddino, lo schiavo bianco.
A Torino invece, nei periodi di vacanza, partivamo con mia madre tutte le mattine per andare al mercato quello di piazza Benefica, oppure, quando avevamo più tempo, quello di piazza Barcellona oltre via S. Donato.
In piazza Barcellona tutti gridavano, sbraitavano, per convincere “le fumne” a comprare la loro merce. C’era un tizio che si chiamava Abramo e vendeva i carciofi. Ne teneva uno all’occhiello della giacca, aperto come un fiore, e saltava, gridava, fumava, tutto per vendere i suoi carciofi. Vicino a lui un vecchio col berretto in testa risaltava per la sua immobilità.
“Oh che bei bulè, che bei bulè, che bei bulè”, ripeteva con la faccia senza espressione e sempre con la stessa cantilena di fronte al suo banco pieno di funghi. Io un po’ ero divertita e incuriosita da tutto quell’agitarsi e un po’ mi stancavo per il chiasso e la confusione a cui non ero abituata.
Una mattina stavamo scegliendo delle mele ad un banco di frutta, quando sentii un gran gridare e vidi la proprietaria del banco che stava insultando e minacciando con le mani una vecchia, che stava tremando di vergogna e di paura, il viso dai contorni già sfatti tutto cosparso di una strana poltiglia giallastra.
Pensavo che la vecchia avesse vomitato per la paura, mentre la poltiglia gialla non era altro che una mela marcia che la venditrice le aveva buttato sulla faccia per sfregio perché l’aveva colta a rubare due mele.
La vista di quella vecchia umiliata e deturpata, e di tutto l’odio e il disprezzo che la venditrice le vomitava addosso, mi turbarono profondamente.
Trovai quel comportamento esageratamente sproporzionato al peccato di cui la vecchia si era macchiata. Io e Piera non eravamo andate tante volte a rubare la frutta dagli alberi?. Si, e i contadini qualche volta ci sgridavano e ci cacciavano via, ma mi sembravano le sgridate dei miei genitori, non avvertivo l’ostilità e lo sprezzo che avevo colto in quella donna del mercato. Al solito le mie impressioni e le mie sensazioni non si accordavano con quelle degli adulti, e tutto nella mia nuova vita mi sembrava più urtante, più difficile e più violento.
Quella mattina io ero uscita con mia madre lietamente, come per una passeggiata, e tornavo a casa con lo stomaco contratto ed un senso di nausea.
Lo scontro con la vita di città fu quindi traumatico, ed io ne risentii talmente che mi ammalai d’itterizia. Il pediatra non lo capì e attribuì le mie nausee e le mie inappetenze a fenomeni nervosi, e disse a mia madre di non darmi retta e di sforzarmi a mangiare. Lei seguì a puntino, solleticata nelle sue tendenze all’educazione austera e senza cedimenti, e negli intervalli dei miei attacchi di nausea, mi preparava un uovo sbattuto con lo zucchero che, come è noto, è il cibo migliore per chi soffre di fegato. Così alla fine le cornee mi diventarono gialle e mia madre mi fece vedere al pediatra il quale alla fine capì. “Strano”, disse battendosi una mano sulla zucca pelata “aveva tutti i sintomi di una cosa nervosa”, e lo disse come se un disturbo nervoso non fosse meritevole di nessuna attenzione.
Così finalmente niente più uova e sughi, ma cibi in bianco, pollo bollito, verdure lesse con olio e limone, tutte le leccornie che io sognavo da quando era iniziata la mia malattia. Guarii, ma il senso di disagio rimase.

 

Nanda si sposò poco dopo la fine della guerra. Fu un matrimonio semplice e tutti accompagnammo a piedi la sposa in chiesa, e Nanda indossava un vestito corto bianco con la gonna a corolla e delle scarpe alte con la suola di sughero.
Ricordo che una delle suole si era staccata poco prima di uscire, e l’onnipresente Roby l’aveva incollata interrompendo per quella mattina la fabbricazione dei cialdini.
“Roby sta ferrando la sposa”, diceva mio zio Dario, mentre l’altro infilava i chiodi nella suola battendoli con il martello.
Uscimmo in corso Oporto e io presi sottobraccio Nanda, camminavamo allegri ridendo come se fossimo usciti per una passeggiata.
Nanda amava ridere e scherzare, amava portare golf morbidi di pelosa lana d’angora che erano sempre impregnati di un profumo penetrante, e in mano teneva sempre una “trousse”, una borsettina rigida, rettangolare, che si chiudeva a scatto e da cui usciva un lembo di un fazzolettino ricamato.
Anche Bonifanti si era sposato. Aveva trovato la sua sposa in Sardegna, una ragazza con gli occhi neri che si chiamava Maria Chiara. I Boari la accolsero con calore e la ribattezzarono Marichì, prendendola un po’ in giro per il suo accento sardo piuttosto marcato.
Marichì era molto riservata, ma a poco a poco si lasciò contagiare dall’allegra confusione della sua nuova famiglia.
Mimma invece era morta prima della fine della guerra e Gianni le era rimasto accanto fino all’ultimo e anche papà Boari era morto. La mamma di Mimma era tornata da sola a Firenze.
Gianni era riuscito ad entrare alla Rai (la Radio Audizioni Italia che dopo la fine della guerra aveva sostituito l’Eiar), proprio come lui desiderava, e si muoveva in quell’ambiente così difficile con il consueto garbo e una disinvolta naturalezza.
Alla radio allora era in voga una trasmissione “la bisarca”, con battute comiche e macchiette, e lui scriveva alcune scene precedute da una sigla musicale che diceva “nell’angolo, nell’angolo”, e aveva avuto un certo successo, tanto che qualche volta si sentiva canterellare in giro la sua sigla, era quasi diventato un modo di dire se qualcuno faceva qualcosa di scorretto.
Qualche volta, la sera dopo cena, andavamo a casa dei Boari. In genere c’era sempre parecchia gente, gente che lavorava alla Rai e anche parecchie ragazze perché Gianni cercava moglie.
“Me le bocciano tutte”, diceva lui con aria tranquilla riferendosi al resto della famiglia, madre e sorella in primis, “una perché ha il sedere troppo basso, l’altra perché ha la risata troppo stupida”, ma lui in realtà non se ne preoccupava affatto, perché quando poi trovò Annie non badò più a nessuno e se la sposò.
Annie era una ragazza graziosa a cui piacevano molto i ninnoli e gli oggetti per agghindare la casa. Quando ormai lei e Gianni si erano fidanzati, aveva comprato un abat-jour col paralume rosa su cui era disegnata una finestra con le persiane aperte che davano in un salotto.
Quando si accendeva la luce , il paralume emanava un colore caldo, luminoso, e anche quel finto interno sembrava una stanza viva ed accogliente.. Annie aveva portato quella lampada in corso Oporto e io ne ero rimasta affascinata. Le sere che andavamo da loro, io mi sedevo vicino al tavolino su cui poggiava la lampada e non staccavo gli occhi da quel paralume rosa con la luce e le persiane che si aprivano nel salotto. Mi sentivo avvolta anch’io dal calore di quella luce rosa e facevo finta di essere seduta in quel salotto che mi sembrava così accogliente, così illuminato. Pensavo che se avessi avuto una casa mia, avrei voluto anch’io una lampada così.
Mia madre si trovava bene dai Boari, e amava quelle serate perché diceva che erano allegre senza mai essere volgari.
Io al solito ero l’unica bambina, e quando arrivavo in mezzo a quella gente che a me pareva elegante, mi sentivo terribilmente goffa. I miei mi avevano fatto fare per l’inverno un terribile cappotto color fucsia con l’interno rivestito di pelliccia di agnello color marrone, e io trovavo il mio aspetto veramente deprimente con quel cappotto gonfio e rigido da cui uscivano due gambette rivestite di calze marroni pesanti, e ogni volta che arrivavo distoglievo subito lo sguardo dallo specchio dell’entrata che mi rimandava impietoso la mia figura.
Passavo la sera guardando gli altri ridere, chiacchierare, mentre alcune coppie ballavano al centro della grande stanza d’angolo della casa di corso Oporto che veniva svuotata dei mobili. Rimanevano soltanto delle sedie tutt’intorno alla stanza, un tavolino con il giradischi e un divano, dove i fidanzati di turno andavano a sbaciucchiarsi.
Un giorno mamma Lina comprò un pianoforte bianco a coda che aveva trovato d’occasione. Nessuno sapeva suonarlo, ma lei era felice perché andava pazza per i pianoforti. Io avevo iniziato a prendere lezioni di piano e mi facevano sempre suonare, e stranamente io lo facevo con naturalezza, poiché mi sentivo allora talmente insignificante, che non ero stata ancora inquinata dai germi dell’orgoglio e della presunzione che generano i timori della “brutta figura”.
Così cercavo di ricordare a memoria “la gavottina della bambola” o altri pezzetti che costituivano tutto il mio repertorio.
Qualche volta invece i Boari venivano a casa nostra e si discuteva di politica.
Ricordo quelle discussioni che duravano serate intere tra nuvole di fumo e voci concitate, e oggi mi chiedo di cosa discutessero con tanta veemenza dato che erano tutti della stessa idea, erano tutti del partito d’Azione.
A un certo punto Enzo, il marito di Nanda, decise di passare ai socialisti di Nenni, e sembrò che la casa stesse per saltare in aria quella sera che ne parlarono a casa nostra, tanto le voci erano alterate, le sigarette fumate a metà e poi messe a tacere nel posacenere.
Io sedevo in un angolo della stanza in modo da poter andare e venire senza dare nell’occhio, e a forza di discorsi ero diventata anch’io una fervente sostenitrice del partito d’Azione. Ero una bambina che neppure a otto anni parlava come un adulto, ma non sapeva divertirsi e giocare a moscacieca con gli altri bambini.
Vivendo sempre insieme agli adulti, cominciai ad osservare cosa facevano, come si comportavano questi adulti che mi sembravano così sicuri, che sapevano sempre cosa dire e come comportarsi, che venivano ascoltati quando parlavano, che esprimevano opinioni da tutti rispettate e i cui scatti d’ira venivano giustificati, mentre a me pareva che venissero perdonate e giustificate molte meno cose e che le mie opinioni non fossero tenute nella giusta considerazione.
Così cominciai ad acquistarmi la fama di una a cui non sfuggiva mai niente, che notava tutto, e che si ricordava tutto, “una bambina terribile mia cara”, come mi disse, anni dopo, una nostra amica.

 

Nell’ottobre del ’45 erano cominciate le scuole ed io iniziai la terza elementare. Ero stata iscritta nella stessa scuola dove insegnava mia madre, la scuola Federico Sclopis in via del Carmine, oltre piazza Statuto. In questo modo io andavo e tornavo da scuola con mia madre. Sapevo ormai che attraversare piazza Statuto da sola era una cosa inattuabile e che per poterlo fare dovevano passare parecchi anni.
Così non riuscii a fare amicizia con le mie compagne di scuola che vivevano tutte al di là della piazza, verso via Garibaldi, non potevo andare a trovarle o andare a fare i compiti da loro perché era considerato troppo scomodo.
Mia madre, che aveva attraversato con indifferenza le Langhe per andare a pranzo dalla signora Palmina, trovava che attraversare due volte in un pomeriggio piazza Statuto per accompagnarmi e riprendermi, fosse un’inconcepibile perdita di tempo.
La mentalità cittadina si era già impadronita di lei in quel pigro autunno del ’45.
Io non portavo più le treccine col fermaglio e il fiocco bianco, portavo i capelli corti con una frangetta, molto più rapida da pettinare la mattina.
La mia maestra era una donna severa, all’ antica, con i capelli striati di grigio raccolti in una crocchia sulla nuca e occhi molto scuri molto vivi, che spiccavano nel viso già segnato, ostentatamente senza trucco. Era vestita con un grembiule nero rischiarato da un colletto di pizzo bianco, e pretendeva che anche noi avessimo tutte un colletto bianco sul grembiulino e il fiocco blu savoia annodato davanti.
A me la mia maestra sembrava una vecchia, così sempre vestita di scuro e col portamento un po’ curvo. In realtà forse aveva solo poco più di quarant’anni, perché aveva un figlio ventenne di cui ogni tanto parlava con devozione, e un marito, di cui invece non parlava mai e che figurava solo nel suo doppio cognome. Non era vedova, ma si mormorava che fosse separata, una situazione per quei tempi quasi scandalosa. E mi chiedo oggi cosa si nascondesse dietro quegli occhi grandi dallo sguardo tanto intenso, mortificati dalla pettinatura e dagli abiti da vecchia, e quali sconfitte brucianti celasse la sua maniacale religiosità che confinava col bigottismo.
Era una maestra molto esigente riguardo all’ordine del nostro vestiario, alla precisione nei compiti e nella calligrafia, e aveva un culto quasi religioso per i quaderni di bella che dovevano essere tre, uno con la copertina blu, uno con la copertina verde e uno con la copertina rossa. Su ogni quaderno doveva essere incollata, dritta e perfettamente in centro un ‘etichetta, su cui lei personalmente scriveva i nostri nomi in grassetto.
I quaderni di bella venivano conservati in tre pile perfettamente regolari in un armadio a muro che avevamo in classe, e venivano tirati fuori solennemente uno alla volta dalla capoclasse al momento del bisogno.
La nostra maestra passava ore con le guance arrossate per la fatica a correggere i nostri quaderni di bella, il volto seminascosto dalla pila dei quaderni corretti e quella dei quaderni da correggere, mentre noi eseguivamo qualche disegno o qualche esercizio che ci veniva assegnato per tenerci tranquille.
Trovavo la scuola buia e triste. La nostra aula aveva tre grandi finestre coperte di polvere che filtravano l’aria grigia delle mattine grigie dell’autunno e dell’inverno torinesi. I nostri banchi erano montati su una pedana e avevano dei seggiolini stretti e un ripiano con un foro al centro che serviva da calamaio.
Tutte le mattine prima dell’inizio delle lezioni, arrivava la bidella Rina, grassa, coi capelli unti ben tirati indietro e un contenitore di metallo in mano che serviva a contenere l’inchiostro e che era fornito di un lungo becco con cui l’inchiostro veniva versato nei nostri calamai scavati nel ripiano dei banchi.
Noi intingevamo nei calamai i nostri pennini che scricchiolavano sulla carta, e che alla minima imperfezione della loro punta, spandevano una pioggia di minutissime goccioline di inchiostro intorno alle parole che stavamo scrivendo.
La perfezione dei pennini era il primo dovere di una alunna modello.
Io mi impazientivo a queste prove di precisione e di bella calligrafia, e osservavo le mie compagne più abituate di me alla disciplina della scuola, che scrivevano lente e attente sui loro quaderni.
C’era Longo con le treccine ben legate da due fiocchi azzurri e una riga nera a metà del collo, esattamente dove smetteva di lavarsi, c’era Gianola con la sua faccia rubiconda e soddisfatta e una famiglia ricca di fratelli, cugini e parenti che riempivano le sue giornate di corse e di giochi in comune, giornate esattamente opposte alle mie, segnate dall’introspezione e dalla solitudine.
C’era Acquaviva dalle lunghe trecce nere e dagli occhi azzurri, magra e spigolosa, che soffriva di crisi epilettiche. La vedevo ogni tanto irrigidirsi e contrarsi afferrandosi al banco con le mani. Non capivo il perché di quel comportamento e nessuno pareva notarlo, neppure la maestra, e Acquaviva alla fine delle sue crisi si rimetteva tranquillamente a scrivere come se nulla fosse successo.
Io avevo preso una cotta infantile per Actis, una bambina magra con i capelli corti e crespi, che parlava con una voce decisa e che trattava tutti con una cordialità sicura, senza rossori, senza occhi bassi e senza smorfie. Io smaniavo per andare a giocare a casa di Actis, che naturalmente abitava oltre piazza Statuto, e le avevo anche chiesto di venire qualche volta a fare i compiti a casa mia.
Lei aveva sempre rifiutato, e mia madre, con la ferita ancora bruciante per l’emarginazione subita a causa delle leggi razziali, mi disse di non insistere, chissà magari forse, i genitori di Actis non volevano frequentare degli ebrei.
Può anche darsi che avesse ragione, ma non avrebbe dovuto dirmelo, perché questo aumentò il mio senso di insicurezza e di estraniamento.
Finalmente un pomeriggio riuscii ad essere invitata a casa di Actis.
E’ bene che ogni tanto i nostri sogni si realizzino, per valutare la beffarda diseguaglianza che esiste tra sogno e realtà, e imparare ad accettarla con un benevolo risolino interno. Ma neppure la delusione più cocente ci deve impedire di continuare a carezzare i nostri sogni e coltivarli come una pianta preziosa che ci nutre e rende meno amara la nostra vita, e anche se i sogni restano sogni e sappiamo che sognare non è altro che la nostra scelta per sopravvivere, basta essere consapevoli in ogni momento che la vita non si dipanerà mai così soavemente come nei sogni e accettarlo con grazia.
Io allora credevo che i miei sogni facessero parte della realtà. Così, tutta eccitata, andai quel pomeriggio a giocare da Actis, sognando giochi di bambina, e confidenze e sensazioni da condividere.
Trovai invece un maschiaccio, che aveva invitato un’altra compagna maschiaccio come lei, e per tutto il pomeriggio Actis ci costrinse a giocare alla guerra, a innalzare barricate, a imbracciare fucili di latta, a marciare a passo cadenzato mentre i suoi occhi brillavano, e lei, le guance arrossate per l’eccitazione, mimava atteggiamenti militareschi, impartendo ordini all’altra, che li seguiva senza fiatare, e a me, fiacca e indolente, che non vedevo l’ora che arrivasse mia madre a prendermi e portarmi via.
Così finì di botto la mia cotta per Actis, come una mela troppo matura cade con un tonfo dall' albero.

 

Uno dei primi problemi che si presentarono a scuola oltre a quello dell’ordine e della calligrafia, fu l’insegnamento della religione.
In classe, oltre a me che ero ebrea, c’era una bambina protestante, e la maestra decise, con uno spirito ecumenico che apparentemente contrastava con la rigidezza della sua osservanza cattolica, e che soprattutto era singolare dato i tempi, che ciascuna di noi due dovesse studiare il suo libro di catechismo un argomento per volta, e che poi andasse a ripeterlo alla cattedra a lei e a tutta la classe.
Mia madre trovò l’idea molto intelligente e aperta , ma io ero piena di complessi ed ero a disagio.
Per la prima volta non ero più “una come gli altri”, “ma una tra gli altri”, e mi accorgevo che vivere la mia identità era molto più difficile che fingere di averne un’altra.
La bambina protestante se la cavava facilmente studiando ogni volta a memoria un pezzo di salmo che andava a recitare davanti alla maestra con aria solenne, io invece avevo un libriccino che spiegava i primi rudimenti della religione ebraica ed era pieno di parole in ebraico, perché in ebraico dovevano essere indicati i nomi delle festività, degli oggetti sacri, ed io temevo che le mie compagne mi avrebbero preso in giro quando io avessi pronunciato quelle parole astruse dal suono così aspro.
Così procedevo con lentezza cercando di evitare il capitoletto dal titolo impronunciabile: i tefillìm, i zizziòd e la mezzuzà.
I “teffillim”, leggevo sul mio libretto di lezioni di catechismo, “sono due scatolette di cartapecora a cui stanno appese delle correggiuole per fermarle al braccio e sulla fronte”. Seguiva una lunga descrizione dei vari scompartimenti delle scatolette e delle strisce che componevano le correggiuole.
I “zizziòd” o fimbrie sono fiocchi di lana bianca, composti di quattro fili addoppiati, dei quali uno, più lungo, si avvolge attorno agli altri in modo da formare, col numero dei giri, il numero corrispondente al valore numerico delle quattro lettere che compongono il nome di Dio.
I zizziòd hanno 39 nodi, perché 39 è il valore numerico della somma delle lettere che compongono la frase: “Dio è uno”.
La “mezzuzà” mi era più famigliare. Anche noi avevamo, come ogni famiglia ebrea, il nostro astuccio d’argento appeso sullo stipite della porta.
Ma io leggevo tutte queste cose non con i miei occhi, ma con quelli curiosi e penetranti della mia maestra o con quelli distratti e irridenti delle mie compagne, e pensavo solo all’effetto che la mia esposizione avrebbe fatto su di loro.
Non avevo ancora nessun senso di appartenenza all’ebraismo e neppure la capacità di discernere e di rimanere affascinata, come avvenne in anni più tardi, dal mistero della solennità gestuale che si identifica sempre con un numero simbolico. La ginnastica dei numeri e il significato della numerologia diventarono solo in seguito parte integrante del mio modo d’essere.
Ma allora ahimè pensavo soltanto a nascondere, simulare e celare tutto quanto riguardava le mie origini.
Se fossi riuscita a fare le mie lezioncine con semplicità e sicurezza, avrei probabilmente evitato le risatine soffocate che coglievo qualche volta alla descrizione delle mie pratiche religiose, o avrei potuto semplicemente infischiarmene, ma la lunga abitudine a nascondere come colpa tutto quello che riguardava la mia ebraicità, mi aveva reso pavida e vergognosa, e così aspettavo sempre con l’ansia l’ora di religione, cercando di esporre le mie cose in modo da scivolare il più possibile inosservata.

Un altro motivo che mi teneva in tensione era il fatto che mia madre fosse insegnante nella mia stessa scuola. Ero segnata a dito quando salivo le scale la mattina o passeggiavo nei corridoi nell’intervallo, “la figlia della maestra, la figlia della maestra”, sentivo sussurrare alle mie spalle, inoltre quando ogni tanto mia madre veniva nella nostra classe per parlare con la mia insegnante, dovevamo scattare tutte in piedi.
Alcune mie compagne in questa occasione mi guardavano ridacchiando e io, anziché trarre da questa situazione motivo di sicurezza e orgoglio, ne ricavavo una mesta conferma della mia diversità sempre e comunque ribadita.
Mia madre non andava ai colloqui che la maestra concedeva alle altre madri, e una volta che io presi un’insufficienza, cosa che non si era ancora mai verificata, la maestra mandò a chiamare mia madre che venne in classe con aria allarmata, e di fronte alle alunne tutte in piedi si parlò di questa scandalosa anomalia di cui mi ero macchiata.
Io, che ero quasi stata contenta di quella insufficienza che mi metteva alla pari con la maggior parte delle mie compagne che ne prendevano sovente, rimasi disgustata. Ero stata abituata a studiare a casa con un’ insegnante tutta per me, e mi trovavo molto avanti rispetto alle mie compagne che avevano frequentato le scuole in un periodo di guerra e sconvolgimenti.
Trovavo gli esercizi di matematica facilissimi, i pensierini che dettava la maestra puerili. I voti inferiori all’otto erano considerati da mia madre brutti voti.
Per questo mi ero rallegrata di quella insufficienza. Dunque era possibile, poteva capitare anche a me quello che succedeva agli altri, alle mie compagne. Però pensai che sarebbe stato molto meglio se la maestra gliene avesse parlato prendendola da parte, anziché chiamarla in classe con timpani e suoni, tanto più che anche mia madre pareva perplessa dall’aria drammatica e la concitazione con cui la maestra sventolava il mio disgraziato compito, additando più volte con l’indice le orribili sviste che avevano fatto crollare miseramente la mia fama di alunna brillante senza cedimenti.
Così cominciai a manifestare insofferenza, insofferenza per la severa disciplina di condotta, insofferenza per i castighi dati su indicazione della capoclasse, che riferiva alla maestra chi si era comportato male quando lei si assentava.
“Dà ascolto solo alle spie, le piacciono le spione”, sibilavo a mia madre mentre ritornavamo a casa insieme.
“E’ un’ottima maestra” tagliava corto mia madre.

Io ero brava in italiano e i miei temi venivano sovente letti in classe. Una volta parlando di mia madre, misi tra parentesi un mio giudizio su di lei “cuore duro!”, con un punto esclamativo. Era una frase che usciva dagli schemi di maniera grondanti buoni sentimenti che la mia maestra tanto amava.
Il tema piacque, e mentre la maestra stava leggendo in classe, arrivò il Direttore. Tutte scattammo in piedi, e la maestra gli fece vedere il tema con la frase incriminata. Insieme risero, confabularono, e il Direttore mi chiamò alla cattedra di fronte alla scolaresca sempre dritta in piedi per chiedermi se avessi scritto quella frase per scherzo o sul serio. Se io fossi stata coraggiosa fino in fondo avrei dovuto dire: “L’ho scritta sul serio!”,, perché in effetti era così che la pensavo, invece sentii che le mie labbra si schiudevano in un sorriso melenso e un po’ idiota a causa di un dente mancante sul davanti per il cambio dei denti, mentre una voce sciropposa (la mia) diceva:
“No, l’ho detto per scherzo!”.
Era quello che ci si aspettava che dicessi. La maestra e il Direttore sorrisero concilianti (spiritosa la bambina), e io decisi con quella scarsa indulgenza verso me stessa che mi avrebbe tormentata per tutta la vita, che, visto che non avevo avuto il coraggio di sostenere una mia opinione, avrei fatto i temi come li voleva la maestra.
“La mia maestra non è contenta se non si finiscono i temi così: ”per fare contenti i miei genitori e la mia maestra che fanno tanti sacrifici per me”, avevo detto una volta sarcasticamente a mia madre. Bene, pensai, adesso li finirò tutti così.
Quanto poi riuscissi a mettere in atto il mio proposito non so, ma certamente feci molte concessioni a una retorica che non mi convinceva e che non faceva parte della mia natura e della mia sensibilità.
Il pomeriggio facevo i compiti con grande rapidità, perché mi divertivo e imparavo in fretta, l’unica croce era la calligrafia di cui la mia maestra non era mai soddisfatta.
Alcune volte guardavo mia madre correggere i compiti delle sue allieve. Cominciai anch’io a riconoscerle dalla scrittura, quella ordinata e perfetta, quella disordinata ma intelligente che non sbagliava mai un problema, quella ordinata ma ottusa. Cercavo di immaginare le facce dalle loro scritture, e osservavo attentamente mia madre che metteva i segni con la matita blu e rossa e poi li contava per dare il voto.
Altre volte accompagnavo mia madre in giro per commissioni. Mia madre attraversava allora un momento di grande fioritura fisica che rifletteva la sua felicità interiore. “Dio ci ha fatto uscire illesi dai tedeschi e dagli inglesi”, mi ripeteva sempre perché le rime le piacevano.
Le piaceva farsi fare molti vestiti e io la accompagnavo dalla sarta, si faceva fare le scarpe su misura e io la accompagnavo dal calzolaio, che disegnava premuroso il contorno del suo piede su una specie di cartone che doveva servire da modello. Una volta le dissi:
“Ma non ti fai fare troppe scarpe?”.
“Hai ragione, forse sto esagerando” mi rispose, ma quello era il momento del suo trionfo.

Una mattina con la scuola ci portarono in visita al Duomo e alla Cappella della Sindone. Quando arrivammo in vista della Cappella, io la osservai e dissi che non mi piaceva perché mi ricordava la base di un carciofo.
Le mie compagne mi guardarono come se avessi bestemmiato orrendamente.
“Un carciofo, la Cappella della Santa Sindone un carciofo!”, ripetevano tra loro scandalizzate guardandomi con riprovazione. Corgnati, una mia compagna dalla faccia tonda e allegra, incorniciata da un caschetto di capelli lisci e fini, tagliò corto alzando le spalle:
“Daie nèn da ment”, disse alla mia esterrefatta compagna di banco”chila li l’è màc n’ebrea”.
Provai il solito colpo allo stomaco che provavo quando veniva tirata in ballo la mia religione. Non ci sarebbe stato niente di strano in quella frase se lei avesse detto semplicemente:
“Non darle retta, lei è ebrea”, invece quel màc n’ebrea, solo un ebrea, detto con tono altamente spregiativo, mi ferì profondamente. Mi ferì perché al solito io avevo parlato a ruota libera dicendo quello che pensavo, ma senza nessuna intenzione di disprezzo, avrei detto la stessa cosa di una sinagoga se mi avesse ricordato un carciofo, invece nell’espressione del viso di Corgnati e nella sua frase c’era l’intenzione ben precisa di ferire e offendere.
Ci riuscì, perché io me ne stetti zitta e mortificata per il resto della gita, e di quella visita non ricordo altro.
 

Quando cominciarono le giornate fredde, installammo nell’ingresso di casa una stufa grigia di ghisa. La stufa aveva uno sportellino sul davanti e una serie di cerchi concentrici come coperchio. Era sempre rovente, e il pomeriggio e la sera ci sedevamo intorno alla stufa con la radio accesa oppure rimanevamo li a chiacchierare.
Se qualcuno veniva a trovarci, stavamo tutti nell’ingresso alla buona, senza nessuna formalità. I termosifoni non funzionavano ancora in quel primo inverno dopo la guerra, ma nessuno se ne lamentava. Non eravamo forse scampati alla guerra e alle persecuzioni?. Non eravamo forse usciti illesi dai tedeschi e dagli inglesi?.
Anche se la qualità della nostra vita in città era sotto molti aspetti migliorata, c’erano ancora molte cose che ci ricordavano la guerra appena terminata.
Quello che mi aveva colpito di più era il fatto di dover comprare il pane con la tessera. Avevamo due tessere, una per il pane bianco una per il pane nero.
A seconda di quanto ne compravamo, la panettiera ritagliava i tagliandi e li riponeva in due scatole diverse, una con i tagliandi per il pane bianco e una con quelli per il pane nero.
Mia madre rimpiangeva il pane bianco e la toma di Roddino, l’insalata che andavamo a raccogliere nei prati e le uova, che a sentir lei in campagna avevano un altro sapore.
Io invece rimpiangevo la libertà di Sorano e la vita in comune di Roddino, con continui scambi e chiacchiere con i vicini di camera.
Trovavo noiosa e triste la vita di Torino, ma non osavo dirlo, vedevo l’espressione lietamente soddisfatta dei miei genitori e cercavo di adeguarmi, non mi pareva di aver diritto a sensazioni e sentimenti diversi o addirittura opposti ai loro, ero certa che se mi fossi lamentata avrei provocato stupore e disappunto, come una nota stonata in una melodia armoniosa.
Così mi abituai a non dire e a non considerare le cose che per me erano importanti, e a dire e a tener conto di quelle che per me non lo erano, continuando per anni una sorta di finzione che alimentava le mie insicurezze e che mi spingeva a rifugiarmi nei sogli e nelle fantasie.
Leggevo molto e sovente fingevo di vivere con i personaggi dei libri che leggevo, con i quali parlavo e che parevano accettarmi con semplicità nel loro mondo.
Anche se cercavo di stabilire contatti e di avere delle amiche, non amavo la realtà, mi sentivo spesso un’estranea capitata nelle situazioni come per caso e che non vedeva l’ora di andare via.
Non sapevo considerare i fatti reali con il giusto distacco, non sapevo cosa volesse dire prendere le cose con filosofia. Mi buttavo invece nei rapporti con le persone a capofitto, ed era fatale che ricevessi spesso delle delusioni.
L’urto con la realtà così diversa dai miei sogni, mi procurava sofferenze vivissime e ferite sanguinanti che curavo rituffandomi nelle fantasie, perché solo li ero sicura e disinvolta e solo lì tutti si comportavano come io desideravo.
 

Poco dopo la fine della guerra mio padre aveva ricevuto una lettera da Roma con notizie di tutta la sua famiglia. Erano tutti fortunatamente scampati al massacro, e per la prima volta vidi mio padre con gli occhi rossi mentre stringeva in mano la lettera dei genitori e la leggeva a mia madre.
Accompagnato da Bonifanti che forse avrebbe desiderato estendere la vendita dei suoi cialdini, mio padre riuscì d arrivare fino a Roma e a riabbracciare i suoi genitori, i suoi fratelli e sua sorella.
Adesso non vedeva l’ora di ritornare a Roma con mia madre e me per far vedere a tutti come ero cresciuta e per farmi conoscere tutta una parte della famiglia che io non ricordavo neppure di avere.
Mio padre decise che saremmo partiti all’inizio delle vacanze di Natale (anno 1945), ma aveva fatto i conti senza l’oste, che in questo caso era impersonato da me bambina.
Una delle prime reazioni all’impatto con la scuola pubblica, era stato quello di prendere le cosidette “malattie da bambini”. Io ero vissuta fino ad allora come in un acquario, immersa nell’aria buona della campagna e studiando in casa, così alla metà di dicembre del mio primo anno scolastico ufficiale, mi presi il morbillo. Il dottore si raccomandò che non mi strapazzassi durante la convalescenza, e mio padre, che a quel viaggio teneva moltissimo, decise di prendere il vagone letto.
Passammo due notti e due giorni in quel vagone su un treno che era quasi sempre fermo, e poi proseguiva lentamente sui ponti e sui binari bombardati e impiegammo quasi 48 ore per arrivare a Roma.
Fummo accolti calorosamente da tutti e ci sistemammo a casa dei miei nonni, il nonno ottantenne sofferente di cuore, e la nonna di poco più giovane che si vestiva come se ne avesse più di cento.
Erano due figure antiche, rispettate dai tre figli maschi e dalla figlia che viveva con loro.
Ci fu un gran raccontare, un ritrovarsi, più per i miei genitori che per me.
Mi trovai improvvisamente in un’atmosfera calda e rumorosa, dove tutto quello che si diceva o si faceva veniva accettato come facente parte della saga famigliare, e come tale accolto e rispettato. Anche le sgridate e le sfuriate improvvise erano senza seguito, erano moti d’impazienza che non intaccavano per nulla il senso di solida appartenenza al gruppo famigliare.
Trovai dei cugini, tutti più vecchi di me, eccetto una cuginetta piccolina con cui un giorno giocai al mercato.
“20 lire li carciofi,20 lire li carciofi”, continuava a dire . Anche lei la mattina andava con sua madre al mercato e mi resi conto che i nostri mercati appartenevano a universi linguistici differenti. Abramo, il venditore di carciofi di piazza Barcellona, nelle sue sceneggiate mattinali, non parlava mai de “li carciofi”.
Anche i miei zii, come noi, avevano molte cose da raccontare.
Uno dei miei zii, nascosti i bambini presso conoscenti, era rimasto chiuso per sei mesi con sua moglie in un appartamento disabitato, un appartamento che si trovava sopra un ufficio, per cui erano costretti a rimanere immobili e in silenzio per tutto il giorno, senza poter neppure andare in bagno. Verso sera, quando l’ufficio chiudeva, una donna fidata veniva a portar loro del cibo e a vedere di cosa avessero bisogno.
Essendo solo in due in quell’appartamento, non ebbero per fortuna lo stesso destino di Anna Frank e della sua famiglia ad Amsterdam e riuscirono a salvarsi.
Tutti concordavano sul fatto che se Roma non fosse stata liberata nel giugno del ’44 probabilmente non sarebbero sopravvissuti. Se tutta l’europa fosse stata liberata nel giugno del ’44 migliaia di vite umane sarebbero state salvate, tra cui anche i Frank di Amsterdam.
L’altro mio zio era stato cacciato dalla magistratura a causa delle leggi razziali e si era messo a fare il rappresentante, dopo essersi procurato delle carte d’identità false su cui aveva messo le generalità di un suo collega defunto.
Si ricordava che la moglie del collega si chiamava Giulia, ma per fortuna non se ne ricordava il cognome, perché quando nel gennaio del 44 andò all’anagrafe a denunciare la nascita di mia cuginetta Giuliana Marini, trovò allo sportello la vedova Marini la quale, come vide i documenti di mio zio, giunse le mani:
“Mio Dio, lei si chiama Guido Marini, proprio come il mio povero marito, e anche sua moglie si chiama come me, che combinazione!”.
Mio zio sorrise sudando freddo, fingendo di partecipare allo stupore dell’altra.
Il che dimostra come tutto può succedere sempre e in qualsiasi momento.

Mia zia e la sua famiglia si erano rifugiati presso una loro amica e a casa erano rimasti i miei due nonni, tanto dicevano, a chi volete che interessino due vecchi come noi.
La mattina dell’ottobre ’43 in cui i tedeschi compirono la famosa retata nella zona del ghetto, battendo poi la città palmo a palmo alla ricerca degli ebrei rimasti, mio zio andò a comprare le sigarette, e mentre era in fila sentì parlare di camion di tedeschi che portavano via gli ebrei dall’antico ghetto e corse subito a telefonare ai miei nonni dicendogli di uscire di casa il più presto possibile.
Mia nonna nicchiava, disse che mio nonno era sofferente, che idea uscire al mattino pesto, che esagerazione con mio nonno malato di cuore, chi avrebbe portato via due poveri vecchi?.
Questo fu l’ingenuo ragionamento di centinaia di persone anziane che non riuscivano ad immaginare perché i tedeschi provassero per loro lo stesso diabolico e nefasto interessamento che avevano verso qualsiasi cittadino di “razza ebraica”, e prima che potessero riaversi dalla stupefazione e dall’orrore, furono sbattuti su camion, spinti nei vagoni blindati e gettati nelle camere a gas, moribondi o vivi che fossero.
Mio zio aveva il grande merito di capire immediatamente le situazioni e di impugnarle.
Intuì tutto il pericolo e la drammaticità del momento e si mise a telefonare ai miei nonni ogni cinque minuti strepitando. “Ma come, siete ancora lì?. Fuori, fuori, uscite, allontanatevi da casa!”.
Così finalmente uscirono di casa i miei vecchi nonni che camminavano con il bastone e non sapevano dove andare. Decisero di salire su un tram, e presero la circolare perché faceva un giro molto lungo e loro potevano starsene tranquillamente seduti fino al capolinea.
Mia nonna Rachele, la pasionaria, con i suoi vestiti lunghi neri e il cappellino con le decorazioni di tulle arricciato e di violette, che le si metteva sempre di sghimbescio per la gran passione che metteva nel gestire e nel muoversi, si mise subito a parlare col bigliettaio confidandogli le sue pene.
“Ma guardi un po’ due poveri vecchi, sbattuti via da casa la mattina presto senza saper dove andare. E sa perché? perché siamo ebrei”.
Beata ingenuità che per una volta non fu punita, perché per fortuna in quel tram non c’era nessun delinquente assetato di sangue che avesse intenzione di fare la spia.
I miei nonni scesero al capolinea, e poiché non avevano fatto colazione si sedettero a un bar, “ dove prendemmo una bella cioccolata coi biscotti”, raccontava con golosità mia nonna che sembrava riassaporarli ogni volta che ne parlava quella cioccolata e quei biscotti, mangiati in quantità e senza fretta in barba all’economia di guerra in quella giornata senza regole.
Vagarono tutto il giorno, e al pomeriggio stanchi di girovagare, decisero di telefonare a casa per avere notizie. A casa c’era la donna di servizio, che era cattolica, nonostante le leggi razziali vietassero agli “ariani” di andare a servizio dagli ebrei.
La donna disse che non era venuto nessuno e che lei aveva preparato un brodo caldo per quando fossero tornati a casa. Mentre stavano parlando i tedeschi bussarono alla porta e la conversazione fu interrotta. Così mia nonna seppe che i tedeschi erano arrivati e li stavano cercando. La donna fu portata via, ma per fortuna fu rilasciata quando videro che non era ebrea.
I miei nonni ripresero la circolare e ritornarono a casa.

“ Appena arrivata, ho messo a letto tuo nonno che aveva un po’ di febbre e gli ho dato una bella tazza di brodo caldo”, mi raccontava mia nonna.
Così quella tragica giornata dell’ottobre del ’43 fu per mia nonna punteggiata da due tazze di liquidi caldi e confortanti, la cioccolata al mattino e il brodo alla sera.
La venuta dei tedeschi l’aveva però allarmata, perché si era resa conto che erano ricercati ed erano sfuggiti per caso tra le maglie della rete, e così dopo cena s’attaccò al telefono e chiamò il medico di famiglia che li conosceva da anni.
Con il suo aiuto riuscì a far ricoverare l’indomani in ospedale mio nonno sotto falso nome e riuscì a trovare per lei stessa una sistemazione provvisoria a casa di una conoscente.
Fu provvidenziale, perché i tedeschi ritornarono. Dopo la grande retata continuarono la loro caccia per giorni, casa per casa….
I miei zii e i miei nonni possedevano una vasta rete di amicizie e conoscenze con cui vi era u fitto intersecarsi di gentilezze e favori dati e ricevuti, e fu così che trovarono delle persone in temporanee difficoltà economiche che occuparono il loro alloggio e s’incaricarono di custodire le loro cose fino alla fine della guerra.
I beni degli ebrei, scappati o deportati che fossero, erano considerati per legge proprietà pubblica e chiunque poteva appropriarsene.
Per questo la nostra casa era stata occupate dai Bonaglia, una legge sciagurata gliene dava diritto.
Mia zia giungendo le mani, diceva: “Niente, non avevamo capito niente. Lo sapete cosa pensavo io?. Pensavo: beh, se mi prendono pazienza, dicono che ci mandano a lavorare in un campo di lavoro, a me il lavoro non ha mai fatto paura, vuol dire che ne approfitterò per vedere un po’ di Germania che ancora non conosco. Avete capito cosa pensavo?. Non avevamo capito niente, non sapevamo niente.”
Adesso sapevano, adesso sapevano.
Un suo cognato col figlio erano stati deportati ad Auschwitz e solo il figlio Emilio era tornato.
Emilio veniva tutte le sere a casa dei miei nonni per salutare gli zii e stare un po’ in compagnia, e tutte le sere lo facevano raccontare.
Lui raccontava di come era stato preso, di come era arrivato nel lager, del suo soggiorno e di quando erano arrivati i russi a liberarli. Emilio era un ragazzo buono che non indulgeva nei racconti di orrore, infatti di quei racconti io ricordo molto poco, eccetto di una volta che con dei compagni si erano passati dei pezzi di patata cruda attraverso un pertugio della latrina per cercare di calmare la fame.
Così la sera eravamo seduti tutti in circolo intorno ad Emilio che sedeva al centro, e quando veniva il momento del racconto della liberazione del campo, mio nonno Giulio voleva che Emilio si girasse verso di lui.
Voleva essere sicuro di sentirlo bene mio nonno il racconto della salvezza, e Emilio obbediente si girava verso di lui, che lo fissava coi suoi occhi infossati e intenti da vecchio, occhi che a poco a poco diventavano rossi per l’emozione e da cui a volte scendeva, lenta e faticosa, una lacrima.
Poiché Emilio era una persona semplice, accettò con semplicità il suo destino e la crudeltà senza giustificazioni dei suoi aguzzini, e riuscì a ricostruirsi una vita normale.
Però alcune volte, specie nei primi anni dopo la guerra, io videvo ogni tanto nei suoi occhi un’ espressione intensa e disperata. L’intensità e la disperazione di quello sguardo mi colpirono, e notai la stessa disperata intensità nello sguardo di altre due persone, in quello di una donna anch’essa reduce da Auschwitz e negli occhi della vedova di uno dei fratelli Rosselli, che incontrammo per caso un’estate due anni dopo la fine della guerra.
Erano sguardi di persone che pareva non vedere nulla di quanto succedeva intorno al di fuori del loro mondo fatto di ricordi strazianti.
L’ambiente della mia famiglia romana era caldo rumoroso e affettuoso. Tutti partecipavano a quanto succedeva agli altri con esclamazioni, commenti, consigli.
Non ero abituata ad essere circondata da tanta attenzione se ero stanca, se avevo una linea di febbre, se non avevo fame.
I miei cugini mi trattavano i modo amichevolmente affettuoso, e mia zia organizzò in mio onore una festa di bambini in occasione della Befana, e mi vestì con un bel costume fatto da lei, e mi mise del rossetto sulle labbra e mi diede un cestello con dei piccoli doni da distribuire agli invitati. Voleva che mi sentissi la reginetta della festa. Io invece ero imbarazzatissima per il vestito, per il rossetto, per tutta quella gente che non conoscevo e che sembrava invece conoscermi perfettamente, per i sorrisi che non avevo il coraggio di ricambiare, per i complimenti a cui non ero abituata e che mi sembravano eccessivi.
Era un’irruzione improvvisa di un mondo nuovo, che però in qualche modo mi apparteneva, nel mondo in cui avevo vissuto fino a quel momento e che sentivo a loro estraneo, sconosciuto.
Se avessi raccontato ai miei cugini della campagna, di Fido, di Pulin, di Piera, della signora Palmina, delle nostre andate a messa, del mio disagio a scuola nello spiegare la mia religione, del mio senso di diversità e di solitudine, sentivo che non sarei stata capita.
I miei parenti erano dei cittadini, romani per giunta, e consideravano tutto ciò che era campagnolo, piemontesi inclusi, come "“buzzurro"” inoltre erano degli ebrei convinti e orgogliosi di esserlo.
Mia nonna diceva tutti i giorni le preghiere in ebraico con gli occhiali sul naso, leggendo il libro che ormai conosceva a memoria senza bisogno di traduzioni italiane accanto, come avevano invece i nostri libri di preghiere. Verso il tramonto, qualunque cosa stesse facendo, l’interrompeva per andare a dire la preghiera della sera, che recitava rivolta verso oriente, verso Gerusalemme.
La casa di mia nonna si trovava nel centro di Roma, e tutti quelli che passavano di lì, parenti e conoscenti, venivano a dare un saluto, perché mia nonna era sempre disponibile e lieta di avere visite ed era sempre a casa.
“Non sono mai stata bella, ma piacevo per il mio carattere”, mi disse una volta che le chiesi se da giovane era bella.
Così per casa circolavano tante persone, fatte sedere pomposamente in salotto se considerate di riguardo, o costrette a seguire mia nonna nelle sue faccende, anche in cucina, se in confidenza. Ma tutti, nell’eloquio appassionato di mia nonna, erano chamati “amore mio” o “core mio”.
Non era certo il luogo per coltivare introspezione e solitudine.

Tornai da quel soggiorno romano eccitata e frastornata. Ero eccitata da tutte le persone nuove che avevo visto e conosciuto, dal diverso modo di vivere, più libero e senza regole rigide, con orari fluttuanti e irregolari che si uniformavano ai ritmi variabili e imprevedibili della vita romana.
Però ero anche frastornata, e una parte di me anelava ritornare alla quiete della mia stanza, alle regole prestabilite, al tempo dedicato alle letture e alle fantasticherie.
Tornai senza troppi rimpianti alla monotonia della vita di Torino e ai miei parenti torinesi.
Anche alla mia nonna di Torino chiesi se da giovane era stata bella.
“No”, mi rispose “ero brutta, e adesso che sono vecchia sono ancora più brutta, sembro una strega”. Non era affatto stata brutta mia nonna, da quel che si poteva vedere dalle fotografie, e non era brutta neanche da vecchia, con la sua figura asciutta e gli occhi grigio-azzurri un po’ sognanti, era un atteggiamento dell’animo il suo, sopraggiunto con la vecchiaia e con la guerra, totalmente opposto a quello della mia nonna di Roma.
Eppure le caratteristiche di entrambe erano già ben impresse nel mio patrimonio genetico e cozzarono insieme durante tutta la mia vita, senza che riuscissi a far prevalere quelle dell'una o dell'altra.
Anche se ero rimasta affascinata dalla vita, dal movimento e dal calore della mia famiglia romana, neppure a Roma avevo trovato una realtà in cui inserirmi con naturalezza.
Così tra indecisioni e insicurezze, improvvise e lancinanti sofferenze e altrettanti improvvisi soprassalti di gioia, passarono gli anni delle elementari, passò l’infanzia.
Non posso dire di avere della mia infanzia molti buoni ricordi. C’è un unico periodo che ricordo colorato, con impressioni di vivacità, di allegria e di comunità di vita, con la presenza costante di mia madre accanto a me, ed è il periodo passato a Roddino d’Alba, alla Trattoria dei Cacciatori.


Mentre finivo di rileggere questo manoscritto è avvenuto l’attacco alle torri gemelle di New York.
Improvvisamente tutto quello che avevo scritto mi è apparso lontano e opaco di fronte al nuovo ciclo che si è aperto, con i suoi strascichi di violenza e di orrore.
Gli ebrei sono di nuovo al centro di un nodo di odio e il loro piccolo stato e chiunque gli sia amico sarà di nuovo oggetto di persecuzione.
La storia ha dimostrato che l’antisemitismo, la caccia e il vilipendio degli ebrei sono la spia che indica la decadenza morale e civile di un popolo, ma nessuno sembra averne memoria.
Il nuovo Hitler ha una figura ieratica, neri occhi vellutati, ma il suo cuore è pieno di odio e la sua mente ha deliri di potenza. Ha centinaia di milioni di seguaci sparsi per il mondo come mine vaganti.
La sincerità. L’amore per la libertà, il coraggio, le virtù che brillano al sole, non servono più.
Occorrono l’intrigo, la doppiezza, la capacità d’ingannare, di aggirare e di colpire a tradimento.
Dice il Talmud:”Quello che coltivai con odio crebbe rapidamente, ma la pioggia lo distrusse. Quello che coltivai con amore germinò lentamente, maturò tardi, ma i suoi frutti furono ricchi e rigogliosi.”
E adesso che avverrà?. Questa esplosione inaspettata di violenza ci ha svegliato tutti dal letargo e dalla finta illusione di quiete duratura in cui credevamo di vivere.
Gli ebrei dicono che l’esistenza del mondo poggia sulle spalle di trentasei Giusti e che ciascuno di loro sopporta la trentaseiesima parte del fardello del mondo intero. Speriamo che reggano poiché, “se anche tutto il mondo divenisse folle, nessuno di loro deve allontanarsi neppure di una spanna dal posto nel quale Dio lo ha posto”.
Sento le loro spalle tremare e i loro occhi appannarsi di fronte a tutto l’odio, la violenza e l’ipocrisia che contaminano il mondo.
Pochi mesi prima di essere deportata Anna Frank scriveva:” Quando guardo il cielo sento che tutto volgerà nuovamente al bene e che ritorneranno la pace e la serenità”.
Oggi non mi pare di poter pensare una cosa simile. Se l’avvento di Hitler, di Stalin, se gli orrori e le morti che hanno punteggiato tutto il secolo scorso hanno prodotto solo l’11 settembre, quando guardo il cielo mi sento solo una persona che ha alzato la testa per guardare il cielo.
Non so se tutto l’universo a un certo punto esploderà, e non so neppure se e a che prezzo potremo provare di nuovo un senso di sicurezza nell’avvenire senza questi sentimenti di timore e precarietà.
Anch’io adesso, quando mi sveglio al mattino, provo sovente un “serrement du coeur”, pensando alla situazione del mondo e al nostro futuro, esattamente come succedeva a mia nonna circa sessant’anni fa, perché tra tante parole mi sembra soltanto che si cerchi disperatamente di ritardare una tragedia di dimensioni cosmiche.
Spero veramente di sbagliarmi e solo il futuro lo dirà.

Emilia Piperno