I primi giorni del gennaio del 1943,
durante l’infuriare della seconda guerra mondiale, i miei genitori decisero
di lasciare Torino a causa dei bombardamenti che stavano devastando la
città.
Trovarono alloggio a Luserna S. Giovanni in un quartiere che si chiamava
“Borg d’i sangrìn”, borgo dei dispiaceri, nome che la diceva lunga sulla
maestosità del luogo.
Non so perché i miei avessero deciso di sistemarsi in un posto così
orribile, in un alloggio squallido di una casa vecchia con un cortile grigio
su cui guardavano altre case grigie.. Proprio non me lo so spiegare dato che
le nostre condizioni economiche non erano così disastrate, forse faceva
parte di una mentalità da “cupio dissolvi”, dovuta all’umiliazione e
all’avvilimento causati dalle leggi razziali, che avevano colpito ed
emarginato i cittadini di “razza ebraica” sin dal 1938, o forse in quella
casa brutta e buia speravano di mimetizzarsi meglio, nascondendosi in una
tana in attesa di giorni migliori.
I primi tempi dopo il trasferimento i miei genitori sovente si assentavano
nel pomeriggio, andavano a Torino a prelevare da casa oggetti di valore,
argenteria, gioielli, per nasconderle a casa di conoscenti valdesi.
Molti valdesi in quel periodo si incaricarono di custodire i beni degli
ebrei, e furono pochi quelli che approfittarono della situazione.
Nacque così a Torino un sodalizio tra ebrei e valdesi, sodalizio che
continuò anche dopo la guerra, quando molti valdesi mandarono i loro figli
alla scuola ebraica di Torino.
Allora, per riempire i pomeriggi in cui i miei genitori si assentavano, mia
madre aveva trovato una signorina che doveva portarmi a spasso e insegnarmi
il francese.
Io allora ero una bambina un po’ selvatica e solitaria cresciuta in mezzo
agli adulti.
Portavo due treccine sul capo fissate da un fermaglio e sovrastate da un
grande fiocco bianco, era stata quella l’unica pettinatura con cui mia madre
era riuscita ad imbrigliare i miei capelli dritti e ribelli. Dapprima nessun
fermaglio era riuscito a tenere appiattite sulla testa quelle due treccine,
ma alla fine mia madre comprò riluttante un grosso e robusto fermaglio
tedesco che riuscì finalmente all’uopo.
Lo chiamavamo tedescone, e mi stringeva i capelli talmente forte, che mi
lasciava indolenzito tutto il cuoio capelluto.
Io, quei pomeriggi con la signorina del francese, li trovavo noiosissimi.
Andavamo a spasso insieme e la signorina m’indicava tutto quello che
vedevamo passeggiando, oggetti, animali e piante, mi traduceva i loro nomi
in francese e io dovevo ripeterli.
Non avevo nessuna voglia d’imparare il francese, un po’ perché ero inquieta
per l’assenza dei miei genitori, e un po’ perché non capivo l’utilità di
mettermi in testa quelle parole strane dato che non avevo ancora 5 anni,
però non mi sarei mai sognata di dire “non ne ho voglia”, era una frase che
mia madre non avrebbe accettato.
Così imparai stancamente le prime parole di francese.
Un giorno la mia insegnante, per dimostrare ai miei genitori che non
sprecavano tempo e denaro, mi insegnò una frase intera che avrei dovuto
recitare al loro ritorno.
La frase diceva così: “Mon cher papa, ma cher maman, je suis contente que
vous etes arrives”.
La signorina me la fece ripetere per tutto il pomeriggio e la sera del mio
debutto non riscossi il successo sperato, e anche se i miei genitori si
congratularono con me, io capii che erano distratti, che c’erano altre cose
per loro ben più importanti di me e delle mie frasi di francese.
Quella casa di “Borg d’i sangrìn”,
nonostante il suo squallore, si rivelò una casa molto viva. Non eravamo i
soli sfollati, anche altra gente si era rifugiata lì per sfuggire ai
bombardamenti.
C’era Sandra, una bellissima donna vedova di un aviatore, che viveva con la
madre e i suoi due bambini, Marcella e Rodolfo, con cui io ogni tanto
giocavo.
Sandra era gentile, sempre sorridente, con delle belle labbra truccate di un
color rosso acceso, aveva l’aria contenta, era giovane, bela e splendente e
mia madre diceva che era anche molto buona. Si era fatta un amico, un bel
ragazzo anche lui, che ogni tanto veniva a trovarla.
Un giorno, in un grande alloggio al pian terreno, si installarono i Boari.
L’amicizia coi Boari fu la luce che illuminò il periodo cupo della guerra, e
fu importante soprattutto per mai madre, le asciugò molte lacrime e le evitò
di versarne altre. I Boari erano un gruppo allegro e composito, ma di
un’allegria non banale, e passavano lietamente tra i drammi della vita senza
perdere il loro spirito e il loro buon umore. Quello che i miei genitori, e
in particolare mia madre amavano in loro, era il loro stile di vita un po’
bohémien, la loro assoluta mancanza di conformismo.
Capo famiglia era mamma Lina, una signora dai capelli nerissimi annodati in
due grosse trecce attorno alla testa, che si occupava con aria energica e
decisa dell’andamento della casa e di un marito malato che era sovente a
letto.
I Boari avevano due figli, Gianni e Nanda. Anche Nanda aveva delle grosse
trecce annodate sul capo, ma non così nere come quelle di sua madre, erano
castane con riflessi chiari, e aveva grandi occhi verdi bellissimi ed
espressivi e una risata allegra, comunicativa.
Gianni assomigliava a sua madre, aveva i capelli neri, ondulati e gli occhi
scuri come i suoi, ma il suo sguardo era meno accigliato di quello della
madre, più vellutato e più dolce. Era molto curato nell’aspetto e aveva modi
garbati e suadenti.
Per la casa girava anche il signor Bonifanti, un uomo sulla quarantina,
buffo, quasi calvo e con i baffetti a spazzola, ed era, a sentire i miei
genitori, molto spiritoso.
I Boari arrivavano da Firenze e da Firenze avevano portato con loro la
fidanzata di Gianni, Mimma, con la madre. Le due donne erano rimaste sole e
Mimma stava lentamente consumandosi per una tubercolosi ossea. Mimma aveva
lunghi capelli lisci, occhi scuri ed enormi nel viso smagrito. Era ormai
quasi uno scheletro, tenuto in vita dall’amore e dalle premure di Gianni.
I boari erano innamorati di Firenze e cantavano sempre canzoni di Spadaio
“Partivo una mattina col vapore…” “La porti un bacione a Firenze…”.
Nanda e mamma Lina cantavano sovente: “I’ciò la mia biondina, un sarà
scicche, l’è forse un po’ cialtrona, ma io l’amo e senza reticenze, perché
l’è come l’è di Firenze”.
I Boari erano innamorati del parlar toscano e dicevano che i fiorentini e i
toscani in genere parlavano come poeti. Raccontavano sempre la storiella del
contadino della campagna senese a cui era stata chiesta l’indicazione della
strada per Siena. “La passi il ponte, la varchi il monte e Siena le parrà di
fronte” aveva risposto il contadino.
Questa risposta mi aveva incantata e sovente, saltando sull’acciottolato
grigio del cortile della casa del “Borg d’i sangrìn”, continuavo a ripetere:
. “La passi il ponte, la varchi il monte…..”, e mi immaginavo una campagna
aperta e assolata, mentre un contadino col cappello marrone indicava
cantando la strada.
In anni più tardi, mia madre si chiese
sovente pensando a quei tempi, come non si fosse resa conto del dramma di
Mimma, che assisteva silenziosa ai nostri canti e alle nostre risate, quando
aveva poco più di vent’anni e sapeva di dover morire.
“E pensa a sua madre”, mi diceva “povera donna”.
La mamma di Mimma aveva i capelli tirati indietro in una crocchia e cuciva
tutti i giorni con gli occhiali sul naso. Sapeva fare molto bene certe
frittelle dolci, e sovente le chiedevano “le frittelle, le frittelle”, e
tutti gridavano battendo le mani. Lei alzava gli occhi al cielo, posava in
silenzio il suo cucito e andava in cucina ad impastare.
“Povera donna” diceva mia madre “certo che io non capivo proprio niente”.
Mia madre allora non aveva ancora trent’anni, e le erano piombate sulla
testa subito dopo la mia nascita, le leggi razziali, che l’avevano cacciata
dal lavoro, dalla sua amata Procoltura e da ogni tipo di partecipazione
pubblica, e infine la guerra. Non aveva occhi che per i suoi problemi.
Io ascoltavo distratta, le canzoni e le risate che si facevano sovente
seduti attorno alla tavola in casa dei Boari, dove oltre a noi veniva spesso
anche Sandra, che i Boari chiamavano Fiandra, con la sua bocca rossa e
ridente, sola o in compagnia.
La mia attenzione però era soprattutto attratta da Gianni e Mimma, seduti
discosti su un divano a coccolarsi e guardarsi negli occhi.
Io non avevo ancora cinque anni, ma era già molto forte in me la suggestione
del grande amore. Gianni si occupava esclusivamente di Mimma, la
accarezzava, la baciava, e quando uscivamo a fare due passi, le teneva il
braccio e camminava a passettini brevi e corti, leggermente strisciati come
faceva lei, e appena vedeva un sasso, un ruscelletto, la prendeva in braccio
e sembrava che sollevasse una piuma.
Io camminavo dietro di loro, piano,piano uniformando il mio passo ai loro
passetti lenti, gli occhi incollati a quei due che neanche mi vedevano.
Mia madre diceva che Gianni era un po’ artista e cercava di fare della sua
vita un’ opera d’arte. Si era fabbricato da solo una carta d’identità falsa
in modo perfetto, costruendosi i timbri, mettendo insieme le lettere, un
collage senza difetti che gli aveva permesso di non partire per il fronte.
Mamma Lina era un’ebrea d’origine tedesca convertita al cattolicesimo, ma
sulle sue carte figurava ancora scritto il suo cognome ebraico. Gianni
ignorava del tutto questo ascendente, su cui anzi qualche volte ironizzava
con un certo distacco, Nanda invece ne era molto compresa, tanto da
osservare ogni anno il digiuno del Kippur.
Vivevamo tutti così un po’ sospesi, lasciando che passasse il tempo finché
la guerra non fosse finita e non fossero tornati tempi migliori.
Mio padre continuava a fare avanti e
indietro con Torino, e dopo un po’ di tempo erano venuti a stabilirsi a
Lucerna anche i miei nonni insieme a mio zio Dario (mio padre, sich…n.d.r.),
che si era laureato in gran fretta così come mia madre, prima che le leggi
razziali li chiudessero definitivamente fuori dall’università.
Mia nonna annotò così il suo arrivo a Lucerna in un’agendina intitolata
solennemente: “ Ricordi di guerra”
“Gennaio 1943: ci siamo stabiliti a Lucerna in un’ orrida casa diroccata con
le finestre simili a quelle delle prigioni”.
Così passò l’inverno e poi l’estate e arrivò l’8 settembre con i suoi brevi
attimi di euforia. E poi i tedeschi e l’annuncio che tutti gli ebrei
dovevano essere deportati in campo di concentramento. I miei genitori e i
miei nonni capirono che l’unica cosa da fare era andare via da Lucerna e
procurarsi dei documenti falsi.
Mia madre era terrorizzata, voleva andare via da Lucerna il più presto
possibile perché lì eravamo conosciuti e avrebbero potuto trovarci subito e
anche le carte false sarebbero parse assurde in tutto il loro valore
effimero.
Mentre si facevano i preparativi per andare via da Lucerna, l’atmosfera in
casa era tesissima, tanto che io mi ammalai e mi venne la febbre molto alta.
Sentivo che la mia malattia era un disturbo, anche la mia esistenza era un
disturbo, tanto che un pomeriggio, mentre tutti si affaccendavano per la
partenza, quando sentii borbottare “Ci mancava anche la febbre”,mi alzai
tutta rossa a sedere sul letto e gridai “Ma come si fa a stare bene in una
casa così!”
La frase venne annotata, non so se ebbe qualche effetto, ma mia madre se la
ricordò per anni.
Mia nonna scrisse sulla sua agenda: “1° dicembre 1943 data tragica. Addii
accorati la mattina di questo infausto giorno. Adri, Ennio, Dario e la
piccola ci hanno lasciati e si sono diretti nelle langhe senza avere una
meta. Mio marito ed io, carichi dei nostri bagagli, abbiamo peregrinato per
5 giorni sotto la pioggia senza casa né tetto, visitando qualche baita
inospitale in cui non abbiamo trovato rifugio.”
Infine i miei genitori e i miei nonni
decisero di andare a Monforte d’alba dove viveva Atonia. Atonia era stata
per anni governante a casa dei miei nonni, ed era rimasta molto legata a mia
nonna anche dopo che si era sposata ed era andata a vivere a Manforte.
Atonia aveva chiamata una delle sue figlie Adriana, come mia madre, L’ultima
che si chiamava Iolanda era invece quasi mia coetanea e avevamo spesso
giocato insieme.
Atonia e la sua famiglia vivevano in una grande cascina che aveva attorno
molti vigneti.
Andammo quindi a Manforte d’Alba i miei nonni, mio zio Dario, i miei
genitori ed io, e rimanemmo li un po’ di giorni cercando una qualche
sistemazione.
Non ricordo nulla di quel soggiorno, eccetto l’impressione molto netta di
una cena con una grande tavola apparecchiata dove sedevano molte persone e
dove i miei genitori e i miei nonni avevano la testa china. Avevo la
sensazione ben precisa che sia i miei genitori che i miei nonni si
sentissero in qualche modo umiliati e avviliti e che la loro presenza non
fosse gradita, ma tollerata.
A un certo punto mandarono me e Iolanda a giocare nel cortile, e anche il
modo in cui me lo dissero era diverso dal solito. Io ero abituata ad essere
trattata come la signorina di città che veniva in visita in campagna accolta
con tutti gli onori, invece quella sera mi sentii una piccola scocciatrice
che dovevano togliersi di torno e cercare di non dare fastidio.
Ne ricavai una sensazione d’inferiorità per me e la mia famiglia, una
sensazione nuova e spiacevole, che mi diede un senso di insicurezza e di
angoscia sottile.
Solo quella sera ricordo di quel soggiorno, durante il quale invece
l’attività fu febbrile, e portò a una sistemazione per tutta la famiglia e
all’indaginosa fabbricazione delle carte false.
L’idea di cambiare nome, cognome, indirizzo e luogo di nascita, così, tutto
a un tratto da un giorno all’altro, fu scioccante soprattutto per i miei
nonni, i quali infatti cercarono di cambiare il meno possibile, e da
Debenedetti passarono a Benedetti. Mio zio prese invece il nome di Mario
Spano nato in Sardegna.
Noi da Piperno diventammo Paterno. Mio padre Ennio diventò Enrico e mia
madre Diana Rossi fu Rino, nata a Maglie in provincia di Lecce.
In un primo tempo mia madre figurò figlia di N.N., ossia di padre ignoto,
tanto per evitare un altro nome da ricordare, ma la cosa a mio padre non
garbò affatto, disse che saremmo andati a vivere in un paese, dove questo
fatto sarebbe stato subito notato e avrebbe generato delle chiacchiere, che
era proprio quello che si voleva evitare.
Così mio nonno divenne fu Rino.
Mio padre non volle rinunciare alla sua origine romana e anch’io figurai
nata a Roma.
Roma non era ancora stata liberata dagli alleati, ma si sperava che lo
sarebbe stata presto e le nostre origini dovevano figurare il più lontane
possibili, nebulose e praticamente impossibili da verificare.
Non riuscii mai a spiegarmi perché mio zio, che continuò a proclamarsi
figlio dei miei nonni, si chiamasse Mario Spano mentre i miei nonni si
chiamavano Benedetti, e quando gli chiesi qualche spiegazione in anni
recenti, mi rispose che quel nome era frutto della vivace fantasia di mia
madre, e che tanto tutti sapevano tutto di noi, e che insomma non se lo
ricordava,e così mi resi conto che non era possibile ripercorrere i cammini
mentali che ci portarono ad assumere delle generalità così palesemente
assurde.
In realtà mio padre continuò a chiamare mia madre Adriana anziché Diana, e a
chiunque chiedesse spiegazioni rispondeva che Diana era stato il nome di una
cagna che lui aveva avuto quando era ancora bambino e a cui aveva voluto
molto bene, e siccome aveva sofferto tanto quando era morta, e siccome
questo nome gli ricordava il suo cane, lui non voleva chiamare mia madre
così.
A me questa storia del cane non convinceva affatto e mi ci arrovellavo
sopra.
Avevo notato che mio padre non amava le bestie e non degnava di nessuna
attenzione né i cani né alcun altro animale, e mi scervellavo ad immaginare
come doveva essere stata questa cagna che si chiamava Diana, a cui mio padre
era stato tanto affezionato da non poter più neppure pronunciare il suo
nome.
Me la immaginavo, non so perché, una cagna grande di pelo marrone e con le
orecchie lunghe e ne ero anche un po’ gelosa.
Ero gelosa di questo rapporto così particolare di cui nessuno parlava mai e
che mio padre non aveva mai citato tra i suoi ricordi d’infanzia e di
adolescenza.
Assunte le nostre nuove generalità ci
sistemammo. Io, i miei genitori e mio zio Mario Spano ci stabilimmo a
Rodino, in due diverse camere di un albergo che faceva anche da ristorante e
che si chiamava Trattoria dei Cacciatori, i miei nonni, invece, trovarono
una camera a Cravanzana in un alloggio in coabitazione.
La padrona della Trattoria dei Cacciatori si chiamava Marianìn, e gestiva
l’albergo con l’aiuto, si fa per dire, di un marito taciturno e vinto che
teneva sempre il cappello in testa,del figlio Luciano, un bel ragazzo bruno
coi capelli vistosamente ondulati, e della figlia Piera, una ragazza bionda
molto carina dall’espressione spesso corrucciata. Dalla sua bocca, sempre
perfettamente truccata, uscivano parolacce terribili e insulti, per lo più
indirizzati alla madre che pretendeva aiuto per i lavori domestici.
Una volta Marianìn la chiamò ripetutamente dal cortile. Vidi Piera arrivare
di corsa sul balcone dove ero seduta io, la testina bionda accuratamente
pettinata e la bocca truccata, sporgersi dalla ringhiera e urlare con quanto
fiato aveva in corpo: “Merda!”, e altrettanto rapidamente sparire. Rimasi
folgorata. Una parola così a casa mia non si sarebbe mai potuta pronunciare,
invece Piera l’aveva gridata così, tranquillamente, e sua madre era rimasta
zitta, pietrificata nel cortile, e poi era rientrata tristemente a casa in
silenzio.
Luciano invece si era arruolato nei partigiani, un po’ perché non avrebbe
saputo cos’altro fare, un po’ per darsi arie con le ragazze. Comandava un
gruppetto di giovanotti come lui e la sua frase preferita era “Curagi, fieùi,
scapùma”, coraggio ragazzi scappiamo, pronunciata ogni volta che nei
dintorni comparivano i tedeschi o i fascisti.
Noi tre dunque ci installammo in una
camera dove c’era un letto matrimoniale con la spalliera nera in ferro, una
brandina per me nella parete opposta, un piccolo tavolo dove mangiare,
leggere e fare i compiti, e un ripiano con un fornellino elettrico dove mia
madre cucinava. Per lavarsi c’era un catino con la brocca per l’acqua.
L’acqua bisognava prendersela nel pozzo che era situato nel cortile. Il
gabinetto, comune, era sul balcone.
Mio padre cominciò a dire che nel catino non si sarebbe lavato, perché mio
padre considerava lavarsi nel catino il massimo della degradazione.
“Non voglio sciacquarmi nell’acqua sporca”, ripeteva. Lui voleva l’acqua
corrente, così la prima volta che andò a Torino prese un enteroclisma e lo
appese sulla parete vicino al letto. Tenevamo in camera due secchi
dell’acqua del pozzo, e con quella si cucinava e si riempiva l’enteroclisma
per lavarci.
Quando si apriva il rubinetto, un filino d’acqua scendeva nelle nostre mani
riunite a coppa. Occorreva qualche minuto per riempirle, ma mio padre era
contento perché così si lavava con l’acqua corrente. Per parecchio tempo,
per me, il concetto di acqua corrente restò legato al filino d’acqua che
scendeva da qual cilindro di vetro con le guarnizioni di gomma arancione, e
mi arrabbiavo e mi offendevo quando qualcuno rideva vedendoci usare
l’enteroclisma per lavarci le mani.
Perché per ogni bambino
la verità, l’assoluto, il
mondo, è la realtà della sua casa.
Sul letto dei miei genitori e sulla mia
brandina erano appesi due quadri con l’immagine di Gesù Cristo e della
Madonna. Avevano una cornice nera, ovale. La Madonna era vestita con un
manto azzurro, mentre Gesù aveva una tunica marrone, e in entrambi il
vestito era aperto a livello del cuore. Il cuore della Madonna era
marroncino attraversato da una striscia azzurra con dei cuoricini rossi
disegnati in fila, mentre quello di Gesù era rosso, ma con la stessa
striscia di cuoricini azzurri. La sera, sdraiata nella branda, io non
riuscivo a staccare gli occhio da quei quadretti.
Non sapevo decidere se preferivo il cuore marroncino della Madonna o quello
rosso fuoco di Gesù, ma una cosa m’affascinava in tutti e due, ed era quella
striscia colorata con i cuoricini rossi colorati dentro. Mi chiedevo se
anche il mio cuore, che sentivo battere sotto le mie dita quando le posavo
sulla giacca del pigiamino, fosse attraversato da una striscia colorata con
tanti cuoricini dentro. Avrei dato non so cosa per avere anch’io un cuore
fatto così.
Queste immagini si trovano ancora oggi in qualche vecchia casa di contadini,
e quando mi è capitato di rivederle dopo anni, ho provato delle sensazioni
forti di voci, di odori e di atmosfere rimaste sepolte in qualche angolo
sconosciuto della mente e dei sensi.
Nella camera di fronte alla nostra vivevano i Nicola. Lui, il marito, l’aria
perennemente aggrondata, teneva sempre un berretto in testa, parlava
esclusivamente in dialetto piemontese ed era, a sentire i miei genitori,
molto spiritoso.
La moglie Palmina, grassa e mansueta, era la sorella di Marianìn la padrona
dell’albergo. Avevano un figlio, Giorgio, mio coetaneo, che diventò presto
mio compagno di giochi.
La signora Palmina era ridente e allegra e la mattina, facendo i lavori,
spesso cantava canzoni d’amore. Erano canzoni liete, mai struggenti, una in
particolare, parlava di una donna lasciata dall’amato, che anziché
disperarsi e lacrimare, rispondeva così all’ingrato che non voleva vederla
più:
“Amici ne ho tanti, starò senza di tu”.
La grammatica è la grammatica, ma la rima, si sa, in una canzone d’amore è
tutto.
Quando cominciò a fare freddo, scaldavamo
la stanza con una stufetta che andava a legna o a carbone, a seconda di cosa
si trovava, e anche se la stufetta era sempre rovente la stanza si
riscaldava appena. Nicola sedeva corrucciato davanti alla sua “stùva”, il
berretto sempre calato in testa: “Sta stùva va a giàsa”, diceva perché
secondo lui la stufa non scaldava mai abbastanza.
Mia madre s’era comprata una macchina per fare la pasta, dato che la farina
era abbastanza facile da trovare, e ne magnificava le comodità alla signora
Palmina. Nicola, lui, sogghignava. “Che machina d’la pasta”, diceva
sarcastico, “ma che machina, mi l’uai mia fumna che l’ha dui bràs ch’asmìu
dui para chèr”.
Mio padre rise per anni ricordando Nicola che aveva la stufa che andava a
ghiaccio e la moglie con le braccia grosse come paracarri.
In realtà fare la pasta con la macchina era abbastanza faticoso. Guardavo
con attenzione mia madre impastare la farina con l’acqua, e in casi
eccezionali aggiungerci un uovo, e ottenere il primo foglio spesso che
veniva inserito a fatica nella macchina. Girando una manovella con forza, il
foglio usciva più omogeneo, appiattito e allargato. Si infilava allora in
una scanalatura più piccola e così avanti finché si aveva un foglio grande e
sottile. A questo punto venivano inserite le rotelle con la forma di pasta
desiderata. Si passava dentro il foglio, e uscivano le tagliatelle che
venivano allineate in bell’ordine sul tavolo.
Poi cuocevamo le tagliatelle sul forellino condendole con olio di nocciole
che era l’unico olio che potevamo procurarci. Siccome il gusto delle
tagliatelle non si sposava con quello dell’olio di nocciole, mia madre aveva
provato a scremare il latte e a sbattere la panna in un barattolino per fare
il burro.
Dopo aver agitato il barattolo tutto il pomeriggio, era venuta fuori una
noce semisolida di burro che non valeva certo tutta la fatica che era
costata, per cui da quel giorno mia madre decise di condire la pasta con la
panna del latte, “tout court”.
“Che strazio questa pasta”, commentava mia madre che per il resto della sua
vita ne mangiò sempre pochissima, perché diceva che si era nauseato con
quelle tagliatelle appiccicose e poco condite che mangiavamo così spesso a
Roddino.
In realtà eravamo dei privilegiati ad avere della farina e il pane bianco
che acquistavamo ogni mattina dal panettiere in fondo alla strada. Il pane
ce lo serviva una donna allegra e florida, mentre suo marito, il fornaio,
era pallido e magro e tutto coperto di farina. Infornava senza sosta una
grande pala con i panini crudi ben allineati sopra.
Mia madre l’aveva soprannominato lo schiavo bianco. Il pane bianco spesso lo
mangiavamo con la toma che acquistavamo nelle cascine dei dintorni. La toma
aumentava sempre di prezzo e i contadini si lamentavano e sospiravano: “ Che
tempi!. Guardi a quanto dobbiamo vendere la toma!”. Sembrava dovessero
pagarla loro. La toma migliore la vendeva una contadina che abitava un po’
fuori del paese, alta, magra, l’aria sfiancata, che teneva sempre un bimbo
in collo.
C’è una foto di me allora, in piedi nel prato davanti alla casa della
contadina.
Si vede la figura sfuocata di una bambina con un grande fiocco bianco un po’
floscio sulla testa, una mela già morsicata in mano, una gonnellina corta e
un golfino troppo stretto, insomma una bambina di guerra, che aveva smesso
molto presto i vestitini ricamati a nido d’ape e le scarpine di pelle
bianca.
Un pomeriggio in cui eravamo andati al solito a comprare la toma, trovammo
una coppia, marito e moglie, che stavano parlando con la contadina.
Salutarono mio padre a mezza bocca e la contadina s’affrettò a spiegarci che
venivano anche loro da Torino e che erano degli sfollati come noi. Uscendo
mio padre disse a mia madre che era rimasta fuori: “Sai chi c’era dentro? O.
Levi. Io lo conoscevo, quasi quasi vado a salutarlo”. Mio padre ritornò
nella cascina e con una scusa riuscì a rimanere solo con i nuovi venuti.
“Scusi”, disse all’uomo, “lei è Levi vero?”
“Si” rispose altro mentre la moglie taceva pallida come una morta.
“Non si preoccupi” le disse mio padre “io sono Piperno”.
La signora riprese colore. Dissero che si erano stabiliti lì con i loro
figli, e che l’ultima, di pochi mesi, l’avevano messa a balia dalla
contadina che l’avrebbe allattata insieme al bambino che teneva sempre in
collo.
La signora Levi per l’agitazione e le ansie non aveva più latte, e l’uso di
dare i bambini a balia era ancora abbastanza diffuso.
Così incominciammo a frequentarci coi signori Levi e io giocavo con Dede che
era la maggiore di me di due anni. Dede era una bambina di poche parole, ma
molto più sveglia di me. Sapeva capire le situazioni e per questo venne
iscritta subito alla scuola elementare di Rodino.
Anch’io avrei dovuto andare a scuola e fare la prima elementare, ma mia
madre, con la scusa che era maestra, disse che mi avrebbe insegnato lei
stessa a casa.
In realtà io sapevo già leggere e scrivere, e la vera ragione per cui mia
madre non voleva che andassi a scuola era perché aveva paura che io mi
lasciassi sfuggire qualche frase compromettente o che facessi qualche
domanda fuori luogo.
In effetti io avevo frequentato un anno all’asilo ebraico, ma di quell’anno
apparentemente non ricordavo nulla, ed era proprio quel nulla che spaventava
mia madre, che lo intuiva come una bomba innescata che poteva esplodere in
ogni momento con delle conseguenze al di fuori del suo controllo.
Una volta in fatti Dede raccontò che avevano portato tutti i bambini a fare
la comunione.
“E tu che cosa hai fatto?” le chiese mia madre.
“Ho visto come facevano gli altri e l’ho fatto anch’io” rispose Dede
tranquilla.
Sentii palpabile l'ammirazione di mia madre per la giudiziosità di Dede e
nello stesso tempo avvertii con chiarezza che mia madre sapeva, come me
d’altronde, che le mie reazioni sarebbero state del tutto opposte. Io mi
sarei affrettata a dire che non avevo mai fatto la comunione, che non sapevo
come si faceva, avrei chiesto e dato pericolose spiegazioni. Non mi sarei
mai comportata come Dede.
Sentii su di me il peso di un giudizio negativo che riguardava tutto il mio
modo di essere e comportarmi, spesso imprudente e poco saggio, e che dato il
momento poteva essere molto pericoloso.
Un’altra volta con Dede avevamo inventato
un giochino. Avevamo messo a nudo la radice di un grosso albero che cresceva
davanti alla loro casa, ne avevamo scalzato via la terra sopra e sotto, così
che la radice aveva assunto l’aspetto di un ponticello.
Avevamo stabilito che la prima che fosse riuscita a passare sul ponte senza
che l’altra fosse riuscita a prenderla avrebbe vinto, se invece fosse stata
toccata mentre passava sul ponticello avrebbe dovuto pagare pegno.
Questo gioco ci costrinse a sorvegliarci l’un l’altra per più giorni e alla
lunga io mi stufai, mi pareva un gioco stupido, anche perché tutte le volte
che cercavo di passare, Dede mi pizzicava. Anch’io però ero riuscita a non
farla passare.
Poi passarono alcuni giorni di quiete e dentro di me avevo deciso che il
gioco era finito. Che probabilmente anche Dede si era stufata, ma
improvvisamente un pomeriggio, mentre ero seduta tranquilla accanto a mia
madre che chiacchierava con la signora Levi, Dede uscì di corsa e passò
velocissima sul ponticello con una risata allegra, beffarda.
Io le feci cenno come per dire “non me ne importa niente” , ma non era vero.
La sconfitta mi bruciò moltissimo, e soprattutto mi bruciò la sua
sghignazzata di vittoria. Ancora una volta mi sentii inetta di fronte a Dede,
senza la sua astuzia e la sua prontezza nel saper capire e sfruttare le
situazioni.
Così bisognava essere quando ci s’impegnava in una sfida, sempre vigili e
attenti a capire il momento giusto per sconfiggere l’avversario. Ne trassi
melanconiche deduzioni sulle mia capacità e altrettanto melanconiche
previsioni per il mio futuro.
Dede non era la mia unica compagna di giochi, a casa c’era Giorgio il figlio
della signora Palmina. Giorgio era un bambino grasso e allegro che non aveva
voglia di studiare. Ogni tanto, quando prendeva un brutto voto, mia madre
gli dava qualche ripetizione. Così ci sedevamo tutti e tre intorno alla
tavola, Giorgio mia madre ed io, a fare i compiti.
Finito di studiare mia madre sovente ci raccontava delle fiabe, di Andersen,
dei Fratelli Grimm o addirittura inventate da lei, ma ogni tanto non ne
aveva voglia, e io allora cominciavo a frignare e Giorgio a implorare: “E ce
la conti signora Paderno e ce la conti!”.
Questa frase rimase famosa in famiglia, tanto che per anni, quando mia madre
usciva con le sue amiche o andava a qualche conferenza e al ritorno era
avara di cronache e resoconti, mio padre ed io le giravamo intorno dicendo:
“E ce la conti signora Paderno e ce la conti!”.
Oltre ai compiti e alle favole Giorgio ed io passavamo anche
molto tempo a giocare, e lui sovente mi faceva arrabbiare perché era
prepotente. Una volta eravamo seduti insieme sul balcone che dava sull’aia e
sentivamo passare gli aerei, aerei da combattimento con il loro
caratteristico minaccioso rimbombo, che è rimasto dentro di me come uno dei
suoni caratteristici della mia infanzia.
“A quest’ora tuo papà è già morto”, mi disse Giorgio guardando il cielo.
“E il tuo?” chiesi io seccata.
“Oh il mio morirà tra mezz’ora”, rispose lui con tono sicuro. I nostri padri
erano partiti in bicicletta la mattina presto alla volta di Alba, e di lì
avrebbero preso il treno per Torino. Ero scocciata che Giorgio trovasse
logico che mio padre morisse per primo.
I bombardamenti sulla ferrovia erano frequenti. Una volta mia madre
aspettava mio padre per la sera e mio padre non arrivò.
Si sparse la voce di un grande bombardamento su Torino con molti morti e le
ferrovie interrotte. Mia madre, senza alcuna possibilità di avere notizie,
era talmente disperata che fece un voto alla Madonna. Mio padre l’indomani
tornò.
Molti anni dopo mia madre mi diceva: “Ma ci pensi ho fatto un voto alla
Madonna e lei mi ha esaudito. Un’altra persona al mio posto magari si
sarebbe convertita”.
“Ma va”, le dicevo io, “in fondo è una madre ebrea che ha fatto un favore ad
un’altra madre ebrea”.
Noi allora vivendo in paese dovevamo andare tutte le domeniche a messa.
Le messe le officiava don Rinaldi, un prete grasso col viso pasciuto e
rubicondo, che quando dal pulpito parlava degli orrori della guerra diceva:
“Fa pena, sapete, fa pena”.
I miei genitori trovavano molto comico il contrasto tra l’espressione
compunta e la faccia rubizza del prete, tanto che da allora, quando la
guerra era già finita da un pezzo, ogni volta che sentivamo annunci di
disgrazie o di catastrofi nel mondo, commentavamo: “Fa pena, sapete, fa
pena”.
Quando si verificava un bombardamento
particolarmente violento, tutte le donne del paese venivano convocate da don
Rinaldo a dire il rosario. Mia madre la prima volta ci andò riluttante non
sapendo che scusa trovare per tirarsi indietro, ma poi disse che trovava
estremamente rilassante ripetere cantilenando in coro le stesse preghiere
per tanto tempo.
“Non ho mai detto tanti scemàn tutti insieme”, mi disse anni dopo, “però
dicevo anche i Pater noster”.
Mia madre, in mezzo ai Pater noster e le Ave marie del rosario, recitava a
mezza bocca lo “scemàn Israel”, la professione di fede di ogni ebreo, per
sentirsi giustificata e farsi perdonare dal Dio unico e geloso la sua
involontaria vita di marrana.
Essere ebreo non è solo appartenere a una religione, è un cammino difficile
in cui non ci si aspetta né comprensione né indulgenza.
Anche Dio spesso è severo col suo popolo, impartisce ordini, impone
precetti, e la pietà e il perdono quando arrivano, fanno sempre parte dello
stesso vento impetuoso che può carezzare o distruggere.
Così mia madre, dopo le angosce e lo smarrimento provocatole dalle leggi
razziali e dalle discriminazioni che ne erano seguite, si abbandonava con
sollievo alla coralità consolatoria della religione cattolica. Sperimentava
l’immediato conforto della preghiera comune nella comunità paesana, e si
sentiva finalmente una tra gli altri, una che faceva parte della maggioranza
e non di una minoranza braccata e perseguitata.
Era dolce dimenticare per qualche momento di appartenere al popolo eletto,
custode di un patrimonio spirituale così difficile da conservare e da
difendere.
Tornata a casa dopo il rosario, mia madre ripeteva imitando le “e” dilatate
delle langarole “gementi piangenti in questa valle di lacrime”.
Anch’io mi sentivo investita da un grande afflato religioso e volevo sempre
andare in chiesa e al pomeriggio volevo anche andare ai Vespri.
Mia madre mi frenava. Una volta, con quell’aria severa che aveva sempre
quando si parlava di argomenti delicati, mi chiese:
“Ma tu lo sai fare il segno della croce?”.
Io lo feci, ma al contrario, nessuno me lo aveva mai insegnato.
“Ma no”, disse mia madre “non così”, e mi insegnò come fare, sempre col viso
severo e le labbra strette.
Ogni tanto andavamo, naturalmente a piedi, a trovare i miei
nonni a Cravanzana, i miei nonni che in realtà non erano i miei nonni, ma i
genitori Benedetti di mio zio Mario Spano, che in realtà non era neppure mio
zio, dato che figurava come fratello della prima moglie di mio padre.
Infatti Nicola, che non era stupido, aveva chiesto a mio padre come mai
dicesse sempre “mio cognato” quando parlava di Mario Spano dato che mia
madre si chiamava Diana Rossi. Mio padre preso alla sprovvista, aveva
risposto:
“Perché è il fratello della mia prima moglie”, ragion per cui ogni volta che
si parlava di mogli e matrimoni, Nicola apostrofava mio padre come “chiel
ch’as’nitend”, lei che se ne intende.
Anche l’eccessiva confidenza tra mia madre e Mario Spano era stata notata, e
alcune volte che mio padre era andato a Torino e noi tre eravamo rimasti a
Rodino, la gente in paese mormorava. Da allora mio zio e mio padre partivano
sempre insieme, oppure mio zio, in assenza di mio padre, andava qualche
giorno dai nonni.
Qualche volta andavamo tutti a trovare questi parenti misteriosi. I miei
nonni avevano allora tra i 50 e i 60 anni, e certo per loro fu un
grandissimo sforzo adattarsi a vivere insieme a degli sconosciuti,
specialmente per mio nonno che amava lavarsi e vestirsi con cura, e portava
l’orologio d’oro nel taschino del panciotto con la catena ciondolante sul
petto e la scatoletta d’argento delle mentine sempre in tasca.
Quando partivamo le indicazioni erano ben precise: dovevamo oltrepassare due
colline per arrivare a Cravanzana, ma solo dopo la prima collina, arrivati a
Ceretto, si poteva dire “nonni”. Prima era severamente proibito, andavamo
dal Furino e da sua moglie. Mia madre infatti, che figurava orfana di padre
figlia di fu Rino, quando parlava di suo padre lo chiamava Furino.
Io ero molto intransigente sulle indicazioni che mi venivano date. Se
durante la strada, prima della collina di Ceretto, mia madre o lo zio Mario
parlando dei nonni dicevano “mamma” o “papà”, io li redarguivo subito con
aria severa:
“Silenzio!” dicevo, “non si può ancora dire mamma e papà”.
A Cravanzana rimanevamo ospiti dei nonni per qualche giorno. Dormivamo in un
unico letto, mio padre, mia madre ed io, mentre mio zio Mario dormiva su una
branda in cucina. Come riuscissimo a convivere tutti in così poco spazio, mi
riesce oggi incredibile da immaginare, ma per fortuna mia nonna era molto
curiosa del suo prossimo e sempre pronta ad entusiasmarsi per quello che
facevano gli altri, soprattutto se erano estranei alla famiglia.
I miei nonni vivevano con una signora di Savona che secondo mia nonna era
una cuoca eccezionale, la quale fin dal mattino preparava i suoi intingoli
per il marito, la figlia, due nipoti e il genero. La cucina e il “putagè”
erano in comune e così la tavola dove mangiavamo.
Il genero della signora di Savona che mia nonna chiamava la “savuneisa”,
viveva con un piede perennemente fasciato, probabilmente una scusa per non
partire per il fronte.
L’uomo teneva sempre il piede posato su una sedia durante i pasti e se lo
toccava continuamente, e mio padre faceva fatica a sopportarlo e diceva che
gli faceva senso.
Ricordo questa grandissima tavolata (eravamo in 12), un gruppo di estranei
messi lì insieme a caso, a dividersi la cucina e le chiacchiere famigliari.
Scriveva mia nonna: “bisogna aver pazienza ed adattarsi. Tabula rasa della
vita civile, disse il duce dell’ Italia fascista e in questo è riuscito in
pieno.”
Dopo pranzo qualche volta andavamo a passeggiare nei boschi e io facevo il
verso a mia nonna Gina che si entusiasmava per un nonnulla.
“Oh le castagne, quante castagne e le nocciole per fare l’olio! Ah il
ginepro da mettere nel vino e i cucurucu per accendere la stufa!”. I
cucurucu in dialetto piemontese erano le pigne, che noi in realtà non
raccoglievamo perché bruciavano troppo in fretta e facevano troppo volume.
Le nocciole e le castagne erano una componente importante del nostro vitto.
Le nocciole le portavamo al frantoio che ne ricavava l’olio con cui
cucinavamo e condivamo l’insalata, un olio con un gusto un po’ speciale, a
cui dovemmo abituarci dato che mancava l’olio d’oliva. Il resto delle
nocciole spremute ci veniva restituito sotto forma di “panèt”, una specie di
tortino duro e molto stopposo, che in genere veniva dato alle galline e che
a me invece piaceva e che mangiavo lentamente, boccone dopo boccone.
Quando venivamo via da Cravanzana, i miei nonni ci accompagnavano indietro
per un pezzo, scendevano dalla collina di Cravanzana fino al fiume Belbo e
qualche volta risalivano fino quasi a Ceretto, poi dovevano scomparire nel
nulla, anche nella nostra memoria, e diventare altre persone.
Ogni tanto a Cravanzana andava soltanto mio
zio Mario Spano, e una volta, mentre era lì per qualche giorno, vi fu un
rastrellamento ad opera dei tedeschi e dei repubblichini.
Tutti gli uomini ancora validi vennero caricati su un camion e con loro
anche mio zio.
Mio nonno non si diede per vinto. Cominciò ad andare da uno all’altro
dicendo che lui era vecchio, che suo figlio era il suo solo sostentamento,
quel figlio che si chiamava Spano mentre lui si chiamava Benedetti.
Mio nonno non ci pensava, gli interessava una cosa sola, che suo figlio
scendesse da quel camion. Tirava per la manica i tedeschi, i repubblichini,
che lo strattonavano e gli rispondevano male e a tutti lui indicava mio zio
seduto là sul camion.
Ci sono momenti nella vita in cui ogni avvenimento è assurdamente e
sfacciatamente casuale.
Mio nonno quella mattina stava scocciando tutti perché facessero scendere
suo figlio dal camion dei tedeschi. Secondo la logica di quei tempi, avrebbe
potuto trovare qualcuno che lo buttasse a terra con una spinta o che
addirittura gli sparasse in testa per farlo tacere, e così suo figlio
sarebbe rimasto sul camion andando incontro al suo destino di orrore, oppure
poteva trovare qualche tedesco zelante che chiedesse i documenti a lui e a
suo figlio,e in questo caso probabilmente sarebbe salito anche lui su quel
camion, e insieme si sarebbero diretti verso il buio.
Fortuna volle che incontrasse un repubblichino particolarmente ragionevole
che a un certo punto sbottò: “ E basta, fatelo stare zitto, fategli scendere
‘sto figlio e non se ne parli più”.
Mio zio scese rapidamente senza farsi pregare e tornò subito a Rodino.
Il giorno dopo partì con mio padre per Torino e insieme riuscirono a
mettersi in contatto con una cugina che viveva ad Aosta e che conosceva
alcuni contrabbandieri disposti ad accompagnare i profughi in Svizzera.
E così mio zio Mario Spano sparì da un giorno all’altro e non ne sapemmo più
nulla fino alla fine della guerra.
Per anni a casa venne raccontata e commentata questa storia.
“Tuo padre ti ha dato la vita due volte”, diceva sempre mia madre a mio zio,
alludendo al fatto che era riuscito a toglierlo dalle grinfie dei tedeschi,
e poi pensavamo a quei contrabbandieri che quasi ogni giorno rischiavano la
pelle per una cifra che secondo noi non valeva il rischio che ogni volta
correvano.
Io mi feci raccontare molte volte da mio zio la sua attraversata notturna
quando lui tornò a guerra finita. Mio zio per fortuna era un buon alpinista,
abituato alle gite e alle escursioni in montagna, così riuscì a farsi a
piedi il tragitto Aosta-Gran S.Bernardo seguendo sentieri lunghi e tortuosi
per non essere preso. Per parecchie ore camminò spedito in silenzio dietro
alla sua guida.
A un certo punto vide l’uomo affrettare il passo, mentre contemporaneamente
si udiva un gran latrare di cani.
Senza che fosse pronunciata parola, mio zio capì che erano in vicinanza
delle pattuglie tedesche poste in vicinanza del confine. Continuarono a
camminare così una mezz’ora sulla neve gelata.
“È stata la mezz’ora più lunga della mia vita”, diceva sempre mio zio a
questo punto del racconto.
“Pensa”, dicevo io rabbrividendo di emozione, “ se quel tizio fosse stato un
traditore che dopo aver preso i soldi ti avesse portato dritto dai tedeschi.
Nessuno l’avrebbe mai saputo”.
In effetti avrebbero potuto scoprirli in qualsiasi momento e a me piaceva
immaginare quelle situazioni drammatiche e pericolose, mentre me ne stavo
protetta nel guscio della mia vita ritrovata.
“Per fortuna non è andata così”, mi rispondeva mio zio, “certo ero nelle sue
mani, ma è accaduto rare volte che qualcuno tradisse, erano quasi sempre
persone fidate che non lo facevano solo per soldi”
“E poi”, chiedevo io, “cosa è successo?”.
“È successo che quando siamo arrivati in vista del territorio svizzero, lui
mi ha lasciato all’Ospizio del Gran S. Bernardo ed è tornato indietro”.
Così mio zio, con il suo nome assurdo e i suoi documenti assurdamente falsi,
riuscì a salvarsi perché così volle il destino.
La Trattoria dei Cacciatori era un posto di
grande passaggio. Un giorno c’erano i partigiani, un giorno i repubblichini,
oppure i tedeschi, oppure quelli della Muti che vestivano tute mimetiche e
portavano un basco, per cui in paese li avevano soprannominate “le tume
grase” o “cui d’la berta”.
Anche noi bambini giocavamo sempre a fare i partigiani e i tedeschi. L’eroe
partigiano della zona si chiamava Lulù e si diceva fosse di nazionalità
francese.
Una sera Lulù era venuto alla Trattoria dei Cacciatori. Ricordo una gran
tavolata vociante e allegra, con Luciano, il figlio di Marianìn, che la
faceva da padrone con un sorriso soddisfatto e i suoi capelli ondulati
spalmati di brillantina, mentre Lulù sedeva capotavola pallidissimo e
silenzioso.
Lulù aveva occhi chiari e capelli nerissimi, era piccolo e magro e sembrava
lontano e assente, estraneo a tutto quel chiasso e a quell’allegria dovuti
soprattutto alla sua presenza. In piedi, con le mani appoggiate alla
spalliera della sedia di Lulù, stava Toiu, il suo luogotenente, con un’aria
di possesso tracotante, il viso sprizzante una certa grossolanità
ridanciana. Toiu pareva dire: “Il numero due sono io, e quello che Lulù dice
a me non lo dice a nessuno”.
Lulù era diventato molto popolare per il suo coraggio.
“Ha un gran fegato”, diceva sempre mia madre. Compiva la maggior parte dei
suoi colpi da solo, spesso indossando una divisa tedesca.
Una volta, sui muri di Dogliani, era comparsa una scritta: “Lulù ti
aspettiamo”, e lui sotto aveva aggiunto di sua mano: “Anch’io vi aspetto”.
Ma i suoi continui travestimenti e le sue gesta da eroe solitario gli furono
fatali.
Lulù girava in lungo e in largo per le colline delle Langhe con la sua
motocicletta, e un giorno, mentre correva vestito da tedesco, si imbatté in
una pattuglia di partigiani che gli intimarono l’alt.
Lulù si fermò, e mentre stava dicendo: “Non mi sparate sono Lulù”, una
scarica di mitra lo uccise sul colpo. Questa almeno fu la storia che girò di
bocca in bocca, e un senso di lutto e di sgomento fece seguito alla sua
morte, sottolineata dal gaudio dei suoi avversari.
Con la presenza di Lulù nei dintorni ci sentivamo tutti più protetti, e
l’eco delle sue gesta e la continua sfida lanciata dal suo coraggio si
riflettevano su di noi, illuminando di luce riflessa le nostre giornate
scure passate accanto alla stufa.
Anche Giorgio ed io giocavamo ai partigiani, e Giorgio voleva sempre fare
Lulù, mentre a me toccava la parte di Toiu che io consideravo una figura
umiliante di subalterno.
Ricordare la persona di Toiu mi procurava un senso di malessere, tanto mi
erano estranei i suoi tratti volgari e la sua allegria facilona. Faticavo a
parlare e a muovermi come se fossi Toiu, ma Giorgio era più prepotente, e in
qualche modo vago e oscuro avvertivo in lui una maggiore forza fisica e
quindi un maggior potere, il che mi rendeva incapace di andare al di là di
qualche debole e infruttuosa protesta. Inoltre mi sentivo troppo insicura
per impormi, sentivo che c’era in me qualcosa di non ben chiaro, qualcosa
che doveva essere assolutamente celato e che mi rendeva diversa dagli altri.
Mia madre mi aveva detto che durante la guerra tutti cambiavano cognome, che
era la regola, e che tutti dovevano nascondersi. Io le avevo subito chiesto:
“E Giorgio allora come si chiamava prima della guerra?”. Mia madre mi aveva
guardato con occhi terrorizzati.
“Guardati bene dal chiederglielo”, mi aveva detto con voce gelida e gli
occhi a fessura, “è un segreto importantissimo che non bisogna assolutamente
raccontare a nessuno. Guai se si venissero a sapere i nomi veri della gente,
saremmo tutti fucilati!”.
Io rimasi in silenzio, folle di curiosità per il vero cognome di Giorgio, ma
non osai mai chiederglielo, lo sguardo di mia madre era stato
sufficientemente terribile.
Una volta la signora Palmina era venuta a trovarci e lei e mia madre
chiacchieravano sedute attorno alla tavola. Giorgio era andato a trovare un
suo compagno di scuola ed io , annoiata dei loro discorsi e della scarsa
attenzione che mi prodigavano, facevo i capricci, facevo la noiosa.
“Ma come sei cattiva Lillina”, mi disse la signora Palmina, “lo sai che se
sei così cattiva quando muori finisci all’inferno?”.
“A me non me ne importa niente”, risposi con aria di sfida, “perché tanto io
sono di un’altra religione”.
Ricordo il sorrisetto di mia madre, il tono apparentemente naturale, la cui
falsità però a me non sfuggiva:
“Ma cosa dici stupida?”, mi disse, e rivolta alla signora Palmina:
“Dice così perché è nata a Roma, e crede che essere romani significhi essere
di un’altra religione”.
“No, non è vero”, continuai io cocciuta.
Mia madre mi sferro un calcio sotto la tavola.
“Mamma”, replicai lagrimosa, “perché mi dai i calci?”.
“Io non ti do nessun calcio, ma che cosa dici?”, continuava mia madre con
finta allegria.
Più tardi rimaste sole, mia madre mi disse con voce apparentemente dolce, ma
a labbra quasi serrate: “Perché hai detto che sei di un’altra religione?. Tu
sei cattolica, come gli altri”.
”Ma gli ebrei non ci sono?” chiesi con voce esitante
“C’erano”, replicò mia madre con aria convinta, “c’erano una volta
nell’antichità, ma adesso non ce n’è più nessuno”.
Anni dopo mia madre ricordando questa storia commentava: “Non ti ho
raccontato una gran bugia, era vero che gli ebrei a quel tempo non
esistevano più, erano tutti apparentemente spariti”.
Allora però quella frase “tu sei cattolica come gli altri” mi suonò
rassicurante.
Dunque non era vero che c’era in me qualcosa di strano e di diverso, ero
come tutti, come gli altri, come Giorgio, come la signora Palmina, come
Piera, ma una parte di me non era convinta. Perché non andavo a scuola
anch’io come gli altri bambini?.Perché mia madre era così reticente a
portarmi in chiesa quando ne avevo voglia? Perché tutti quei segreti sul mio
vero nome?
Io non avevo allora ricordi chiari, ma solo immagini confuse di qualcosa di
lontano, di diverso dal mondo in cui vivevo in quel momento e di cui mi si
diceva facessi parte come gli altri, come tutti.
Così insensibilmente maturò in me la convinzione che nel mio modo di essere,
nel mio nome e in tutto quello che mi riguardava doveva esserci qualcosa di
terribile, qualcosa di cui vergognarsi e che doveva essere assolutamente
celato, perché se gli altri ne fossero venuti a conoscenza sarei stata
cacciata, oppure sarei stata presa caricata su un camion verso un destino di
orrore e di morte.
Questa frase “l’hanno caricato su un camion”, oppure “li hanno portati via
su un camion”, veniva pronunciata intorno a me a bassa voce, quando in giro
c’erano i rastrellamenti dei tedeschi, e quella frase era per me sinonimo di
minaccia e di buio.
Anch’io mi sentivo una, che per qualche motivo oscuro che non conoscevo,
poteva essere da un momento all’altro caricata su un camion.
Queste sensazioni provocarono in me una tendenza all’isolamento e
l’incapacità di stare in mezzo agli altri sentendomi parte di un gruppo, di
una comunità, mi diedero un senso di perenne disagio e nello stesso di
malcelato orgoglio nel sentirmi diversa, a parte, ogni volta che mi trovavo
in mezzo alla gente.
Alla Trattoria dei Cacciatori le serate non
erano sempre allegre come la sera in cui era venuto a cena Lulù. Ogni tanto
arrivavano i repubblichini carichi di armi e in genere di pessimo umore.
Venivano serviti in modo rapido e silenzioso da Marianìn e da Piera, mentre
Luciano scappava sulle colline e il marito si metteva a letto.
La bellezza di Piera serviva in genere a sgelare l’ambiente, ma sovente i
soldati non pagavano il conto e le donne brontolavano. Lo stesso scontento
destavano le “tume grase”, quelli della Muti, mentre un gelido terrore si
spandeva in tutto l’albergo quando arrivavano i tedeschi.
Una notte mia madre ed io eravamo sole e stavamo dormendo, quando fummo
svegliate da un tramestio e da uno sferragliare di armi. A un certo punto
vennero battuti dei colpi alla nostra porta, e prima che noi potessimo
reagire, la porta venne aperta con violenza e contemporaneamente venne
accesa la luce.
Io balzai a sedere sulla mia brandina e vidi un soldato tedesco armato di
tutto punto, con l’elmetto e gli occhiali che gli davano un’aria distinta,
il quale alla vista di una donna e di una bambina, borbottò una specie di
scusa e richiuse la porta. Quel gruppo di tedeschi si comportò in modo molto
civile, e Marianìn non finiva più di magnificare l’educazione del comandante
della pattuglia, che si era perfino scusato per averle costrette di notte a
preparar loro qualcosa da mangiare, e poi aveva chiesto il conto e pagato
tutto fino all’ultimo centesimo.
“Dipende tutto dal comandante” sentenziò mia madre, “comunque è sempre
meglio quando arriva la Wermacht”.
Io raccontai questo avvenimento sul mio diario: “18 novembre 1944. L’altra
notte sono arrivati i tedeschi. Dicevano plaffe plaffe e io non capivo
niente. Avevo paura del rumore dei camion e Giorgio è venuto a dormire nella
mia stanza.”
Mi piaceva scrivere come compito o esercizio di tema una specie di diario
raccontando tutto quello che facevamo e che ci succedeva.
Fu così che imparai a raccontare per iscritto gli avvenimenti delle mie
giornate conservando un prezioso ricordo di quegli anni.
“I° maggio 44. Sono stata a letto 4 giorni con la febbre. Ora mi sento
ancora debole. Mi rincresce perché è venuta Nanda e io non ho potuto andare
a passeggio con lei”.
“3 maggio 44. Il fratello di Marina si chiama Renato. Marina è una bimba
piccola che è a balia a S. Lorenzo. Renato da tanti baci a tutti, parla da
bamboccio e chiama la mia mamma signora Padella e il mio papà signor Padello”.
“30 maggio 44. Oggi a casa di Bruna ho visto i bachi da seta. Stavano fermi
fermi sopra uno strato di foglie di gelso perché dormivano. A vederli
sembrano tanti bastoncini bianchicci con un grosso punto bianco sulla cima”.
“4 giugno 44. Anche oggi sono passati gli aeroplani. Dove saranno andati?.
Quando sento il rombo dei motori sento un brivido di paura, eppure a vederli
sono tanto belli, sembrano giocattoli d’argento”.
“8 agosto 44. Stamattina per la prima volta ho visto la trebbiatrice.
Sull’aia c’era un gran movimento. Tutti i bambini erano sul balcone tutti
contenti. La macchina separa i chicchi dalla paglia, funziona facendo un
gran rumore”.
“15 settembre 44. Dora ha due bei cuccioli. Sono tanto graziosi e giocano
come bambini; uno ha il pelo dorato e l’altro l’ha nero. Ieri li ho visti in
mezzo all’aia che succhiavano il latte dalla mamma”…
“5 ottobre 44. Ieri sono di nuovo andata per nocciolini, bisogna andare nei
boschi in mezzo alle spine per trovarne; ci sono tanti gusci bucati perché
gli scoiattoli sono molto golosi. Tutti vanno a cogliere nocciolini per fare
l’olio.”
“8 novembre 44. Oggi per la seconda volta sono andata dall’Oriavolo a fare
legna. Io ho raccolto una fascinotta e me la sono trascinata fino a casa. Ho
visto uno stormo di cornacchie; la gente dice che portano la neve, ora
invece l’aria è tiepida”.
“15 novembre 44. Oggi sono andata per insalata con Dede e Carlo. Io ho
raccolto un po’ di sarsèt col coltellino di Dede perché mia mamma aveva
paura che mi tagliassi e non me l’ha dato”.
Quando terminava l’inverno, l’aria si faceva tiepida e poi arrivava il caldo
e con il caldo la stanza era sempre piena di mosche.
Per evitare il fastidio degli insetti, dato che la nostra camera dava su
un’aia dove razzolavano le galline e dove si apriva la stalla della cascina
di fronte, mio padre si era costruito una zanzariera avvolgendo tutto il
letto di tulle bianco.
Durante i mesi caldi, mio padre quando era a Roddino si riposava dopo pranzo
sotto la zanzariera, e un caldo pomeriggio del luglio del 1944, un
repubblichino sudato e stracarico di armi bussò alla porta della nostra
stanza ed entrò.
Vide mio padre che dormiva tranquillo a torso nudo e con la bocca semiaperta
sotto la sua zanzariera nella camera ombrosa, e alla vista di tutta quella
beatitudine e di quel sereno abbandono diventò furioso, perché gli balzò
agli occhi il contrasto del suo incomodo destino di soldato con l’ingombro
di una divisa pesante ed il carico d’armi.
“Si alzi e venga con noi”, intimò a mio padre che lo guardava ancora
intontito.
“Subito subito, aspetti solo un attimo che mi vesta”, rispose gentilmente
mio padre e lo pregò di accomodarsi, dicendo a mia madre di offrirgli
dell’acqua fresca, del vino e invitandolo nello stesso tempo a liberarsi dei
suoi pesi con aria comprensiva e sollecita e con il calore che gli era
caratteristico.
L’uomo si calmò un poco, si schermì, poi si sedette e si tolse dalle spalle
il fucile mitragliatore e lo posò accanto alla sedia.
Mio padre intanto adagio adagio si vestiva, scusandosi per la lentezza
causata da certi suoi dolori, che secondo lui gli impedivano di muoversi
rapidamente, e intanto cercava di propiziarsi quell’estraneo seduto tutto
accigliato su una sedia della sua stanza.
Mio padre conosceva l’Italia palmo a palmo, e si vantava sempre di saper
dire da che città proveniva una persona se solo la sentiva pronunciare poche
parole.
Secondo mio padre l’italiano migliore era parlato ad Orbetello, perché gli
abitanti di Orbetello possedevano, secondo lui, la proprietà di linguaggio
dei toscani senza avere nessun accento regionale.
Il soldato accaldato seduto sulla sedia della nostra stanza invece era
emiliano.
“Ma lei è delle parti di Reggio Emilia”, disse subito mio padre con tono
cordiale appena l’altro ebbe pronunciato qualche parola, e lui asserì
rinfrancato.
Nominò il suo paese d’origine, che mio padre naturalmente conosceva e che
magnificò con competenza ricordandone alcune peculiarità, tra cui
naturalmente la simpatia degli abitanti. Intanto finiva lentamente di
vestirsi, sempre invitando l’altro a rilassarsi, a fare come se fosse a casa
sua.
Quando lo vide completamente a suo agio, si alzò in piedi e :
“Eccomi, sono pronto” gli disse.
A questo punto l’irritazione e la rabbia del repubblichino si erano
completamente placate, si sarebbe detto che lui avrebbe voluto restare con
noi anziché portarsi via mio padre.
Infatti gli chiese i documenti e poi lo salutò dandogli la mano, mentre mio
padre lo gratificava con uno dei suoi migliori sorrisi.
“Mammaa, io voglio andare a Montezemolo
dovee tutte le donne fanno all’amoore!”:
Così canta a squarciagola un ragazzo alto e grosso che abita nella cascina
di fronte mentre tira su il suo secchio dal pozzo. Ha in testa un berretto
con la visiera e gli stivali ai piedi per non infangarsi nella “pauta” che
circonda il pozzo.
La madre, così rumorosamente convocata, arriva accigliata, alta, maestosa,
vestita di grigio, due grosse trecce avvolte intorno alla testa e le galosce
nere.
Prende in silenzio il secchio pieno dalle mani del figlio e gliene consegna
uno vuoto, ritornando verso casa così pieno che versa, mentre il ragazzo a
gambe divaricate vicino al pozzo, nuovamente l’invoca cantando:
“Mammaa, io voglio andare a Montezemolo……”.
Alla Trattoria dei Cacciatori la vita era abbastanza varia, ricca di
chiacchiere, di pettegolezzi, di viste improvvise. Ogni tanto si spargevano
voci:
“Stanno per arrivare i tedeschi!, alla Morra sono arrivate le tume grase!”.
Un giorno dell’agosto ’44 arrivò un battaglione di repubblichini. Gli uomini
del paese scapparono tutti, ne rimasero solo due, mio padre e il signor
Levi, gli unici ebrei del paese. Avevano pensato che fosse meno
compromettente essere trovati tranquillamente a casa piuttosto che in fuga
per le colline, la loro posizione era già abbastanza precaria così, inoltre
si consideravano un po’ fuori dalla mischia dato che entrambi avevano
superato da qualche anno la quarantina.
Nel pomeriggio tutto sembrava tranquillo e noi tre decidemmo di andare a
fare una passeggiata. Camminavamo, ricordo, sullo stradone principale che
portava ad un edificio disabitato che faceva parte di un paese che si
chiamava la Pedaggera.
Passeggiavamo lentamente sotto il sole e mio padre mi teneva per mano.
Ad un certo punto vedemmo una mitragliatrice puntata sulla strada e accanto
ad essa un soldato in camicia nera steso sul prato al sole. Alla vista del
nostro terzetto, il soldato si alzò di scatto e corse verso mio padre a
braccia aperte:
“Oh finalmente un uomo!” disse, e lo abbracciò.
“Ma dove sono finiti gli uomini in questo paese?. E’ incredibile, ci sono
solo donne!” aggiunse.
Mio padre gli sorrise cordialmente senza dire nulla, pensando a quanto
eravamo stati imprudenti ad uscire, quando sarebbe stato molto più saggio
rimanere tappati in casa anche se faceva caldo e c’erano tante mosche,
comunque, dopo aver mostrato i nostri documenti, potemmo continuare
tranquillamente la nostra passeggiata.
Io ormai trovavo naturale camminare per le strade con le mitragliatrici
puntate, sentir parlare di morti, ammazzamenti e bombe. Gli uomini che
vedevo erano sovente armati e io non temevo le armi, le trovavo un naturale
complemento dei vari tipi di abbigliamento che vedevo in giro.
Ma nell’estate 1944 già erano presenti i segnali che indicavano la caduta e
la futura disfatta del mostro tedesco.
Il 5 giugno 1944 gli Alleati erano entrati in Roma e il 6 giugno era
avvenuto lo sbarco alleato in Normandia.
I partigiani avevano alzato la testa e cominciavano ad affiggere proclami.
Un manifesto del Comitato di Liberazione intimava la diserzione alle forze
della Repubblica Sociale Italiana entro il 12 giugno ’44 ore 24, e intanto
gli alleati arrivavano a Viterbo.
I manifesti con le grosse scritte in nero e i punti esclamativi eccitavano
la mia fantasia, e anch’io m’ero messa a scrivere dei foglietti pieni di
dichiarazioni che appendevo per tutta la stanza e che chiamavo
orgogliosamente “manifesti”.
Mia madre alla fine si era stufata e mi aveva sgridata piuttosto duramente,
e al solito io reagii all’imposizione con una protesta, per affermare la mia
autonomia e la mia indipendenza.
Scrissi il mio ultimo foglietto, il mio ultimo “manifesto” e lo appiccicai
alla persiana della nostra finestra, poi in silenzio presi mia madre per
mano e la portai a leggerlo.
Sul “manifesto” c’era scritto: “Sono stufa di avere una mamma così”.
Ritornò l’inverno , il freddo inverno 44-45
e i Russi marciavano su Berlino. Venne il Natale, vennero le feste. Mia
madre diceva a tutti che a Roma si festeggiava la Befana e che i regali si
scambiavano alla Befana e non a natale, così evitavamo tutte le storie su
Gesù bambino e io aspettavo i miei regali alla Befana senza protestare.
I miei genitori partirono per Torino il 2 gennaio, lasciandomi dai miei
nonni. Fu un periodo triste per quanto testimoniano gli scritti di mia
nonna:
“10 gennaio 1945. Giornata rigida dopo una forte nevicala dell’Epifania. Non
si vede intorno che neve e ghiaccio. La sera del 29/12 sono arrivati i
nostri (i nostri eravamo noi tre, unica ragione di vita dei miei nonni).
Sono ripartiti il 2 lasciando qui la piccola. Abbiamo passato un natale
tristissimo (5° natale di guerra) e anche l’anno è cominciato sotto pochi
buoni auspici. La guerra pare cominci ora e non se ne vede la fine. Chissà
se Adri e E. potranno ritornare con le strade cattive e ingombre di neve!.
Spero ci portino qualche notizia del nostro mondo passato da cui siamo
completamente isolati”.
“14 gennaio 1945. Ancora i nostri non sono venuti. Continua il gran freddo,
le strade sono tutte bianche di neve e gelate. L’altro giorno sono scivolata
e sono ancora tutta indolenzita. Questo è un rigido e terribile inverno….”
I miei nonni erano sovente di cattivo umore, specie mio nonno che aveva un
carattere introverso, intristito da un’incipiente sordità che andò man mano
peggiorando.
Entrambi soffrivano molto l’isolamento dalla loro casa e dalle loro
abitudini e forse intuivano che se anche fossero sopravvissuti che se anche
fossero sopravvissuti, nulla per loro sarebbe stato più come prima.
Il 27 maggio 1944 mia nonna aveva scritto: “il mattino presto, quando mi
sveglio alla realtà, sento un vero “serrement du coeur”, per usare la frase
francese come era di moda nell’800 quando la Francia era in auge…..
Il pensiero della famiglia smembrata, dell’isolamento in cui ci troviamo da
mesi, mi da veramente un senso di pena….”
Anch’io mi sentivo un po’ sola in quel gennaio 45 anche se giocavo coi
nipotini della signora di Savona, e aspettavo con ansia il ritorno a Roddino
dove l’atmosfera era più lieve e avevo i miei amichetti per giocare, e
anch’io scrissi qualche riga sul diario:
“11 gennaio 1945. Oggi è di nuovo giornata gelida. All’intorno non c’è che
neve e ghiaccio. Io attendo il ritorno del mio papà da Torino ove spero
abbia trovato i doni della Befana per me.”
“18 gennaio 1945” Nemmeno oggi è arrivato il mio papalino, forse non è
venuto perché le strade sono ingombre di neve gelata”.
“23 gennaio 1945. Sono venuti i miei genitori e mi hanno portato i doni
della Befana. La befana mi ha portato una bambola e un bel libro di fiabe,
Nanda mi ha mandato un bel cesto da lavoro e una lista di cioccolata,
un’altra signorina mi ha mandato un altro libro e un pacco di caramelle.
Sono stata felice e contenta di tutti questi doni. "
La bambola venne chiamata Elisabetta, era una bambola con gli occhi azzurri
dalle lunghe ciglia, e le palpebre si abbassavano quando la piegavo
all’indietro e aveva una gran massa di riccioli neri. Mia madre le cucì un
gonnellino di lana a quadretti con un ritaglio di un mio vestito e le fece
ai ferri un maglioncino azzurro che io trovavo molto carino. Così vestita
Elisabetta sembrava proprio una bella bambina con cui giocare e
chiacchierare. Avevo anche un piccolo carrozzino di legno per metterla a
dormire e un cagnetto di pelo grigio.
Ogni tanto caricavo Elisabetta nella carrozzina facendo finta che fosse
piccola e legavo con un cordino il cagnolino al manico della carrozzina e me
ne andavo in giro per la stanza fingendo di chiacchierare con altre signore.
Parlavo scuotendo qua e là la testa dicendo continuamente “mio marito, mio
marito”.
Altre volte, invece, giocavo con Elisabetta come se fosse stata una mia
coetanea e le facevo le mie confidenze.
Nanda veniva sovente a trovarci e mi portava sempre qualche regalino.
Ascoltava le storie di mia madre guadandola con i suoi grandi occhi verdi
bellissimi e intenti, che diventavano ogni tanto molto tristi come se stesse
per piangere, quasi presagisse la sua morte precoce.
In genere però era allegra e lei e mia madre si divertivano molto insieme.
Nanda era rimasta colpita dall’accento impastato e largo dei langaroli, e
quando veniva a trovarci, ci cantava le canzoni di Artuffo con l’accento
della Langa:
“Al me paìs, le levatrìs
as fàn i rìs an s’al cupìs
cul turnavìs, al me paìs.
L’è mej na dona dal Munfà, che tut tsi doni ch’ajè a Mìlan.
L’è mej na dona d’Mungardìn, che tut tsi doni ch’ajè a Turìn”
Mio padre a quei tempi si arrabattava per guadagnarsi da vivere:
erano poche ormai le persone che accettassero di assumere un ebreo alle loro
dipendenze e le carte false risultavano smaccatamente false ad un esame più
approfondito.
Quando si trovava a Torino per lavoro, mio padre andava tutte le sere a
dormire nella nostra casa di piazza Ryneri. Una sera, arrivando a casa,
venne bloccato dalla portinaia che gli disse che nel pomeriggio erano venuti
a cercarlo dei signori che non le erano piaciuti per niente e che avevano
detto che sarebbero ripassati la sera stessa. Mio padre a quell’ora non
sapeva dove andare e la portinaia gli offrì ospitalità.
Petronilla, la nostra portinaia, dormiva in un’unica stanza col marito ed
una figlia già adulta. Quella notte la figlia dormì nel letto con i genitori
e lasciò a mio padre la sua branda accanto al letto matrimoniale.
Per fortuna quella sera nessuno tornò a cercare mio padre che se ne andò via
la mattina presto e non tornò mai più a dormire a casa.
I miei sospettavano che l’ingrata visita fosse dovuta alla denuncia di un
nostro vicino di pianerottolo che si diceva fosse dell’OVRA.
Così il nostro alloggio, a parte gli oggetti di valore che i miei genitori
avevano messo al sicuro, restò a disposizione, e i fascisti ci misero dentro
un gerarca, un certo Bonaglia, che era stato un pugile abbastanza famoso e
poi aveva fatto carriera nel partito fascista.
I Bonaglia, marito moglie e due bambine, si installarono quindi nel nostro
alloggio di piazza Rayneri, dormendo nei nostri letti, mangiando nei nostri
piatti e usando le nostre stoviglie.
Mia madre un po’ si rodeva, e quando io facevo i capricci mi diceva:
“Guarda che ti mando dalla Bonaglia!”.
Quel nome, quella desinenza in "aglia", come tenaglia, marmaglia, battaglia,
suonava al mio orecchio terribilmente minacciosa.
Mio padre, dopo che il nostro alloggio era diventato impraticabile, quando
andava a Torino si fermava dai Boari, e cominciò ogni tanto a portare dei
messaggi a Enzo, il fidanzato di Nanda, che militava nel movimento
“Giustizia e Libertà”, i messaggi gli erano consegnati dai partigiani della
zona.
Mio padre a Roddino era stato nominato vicesindaco perché, gli avevano
detto, “a parla italiàn”, e lui si era impratichito a fabbricare licenze e
lasciapassare che ogni tanto ai partigiani del posto venivano utili. Di
quella sua carica pubblica e dei relativi benefici mi sono rimaste quattro
carte d’identità in bianco con l’intestazione della Repubblica sociale
italiana e con incollate le fotografie dei miei genitori e dei miei nonni.
Dovevano servire di scorta nel caso di una fuga improvvisa e di un nuovo
improvviso cambio d’identità.
Un giorno il signor Bonifanti, amico di
famiglia dei Boari, propose a mio padre di fare il rappresentante di
prodotti farmaceutici. Il signor Bonifanti aveva sognato tutta la vita di
fare il farmacista, non so se si fosse mai iscritto all’Università, se
avesse mai dato qualche esame, ma fabbricare farmaci era la sua segreta
passione. La guerra gli offrì l’occasione per realizzare il suo sogno.
In quel periodo le medicine erano scarse e si trovavano con difficoltà e le
farmacie erano in grado soltanto di confezionare prodotti basati su semplici
ricette galeniche.
Bonifanti inventò una polverina per curare il mal di testa e le nevralgie.
Avvolgendo un po’ della sua polverina in un’ostia creò i cialdini Bonifarma.
Lui cominciò a spacciarsi in giro come padrone di una piccola industria
farmaceutica, mentre in realtà i cialdini venivano fabbricati in una grande
stanza della casa dei Boari in corso Matteotti che allora si chiamava Oporto.
Il principale responsabile della fabbricazione e dell’impacchettamento dei
cialdini era Roby, un ragazzo silenzioso dai capelli bruni ondulati e dagli
occhi azzurri, che diventò in breve tempo il factotum dell’azienda.
Bonifanti si era anche fatto fare una fotografia in cui appariva in piedi
con aria solenne, vestito con giacca e cravatta e con in mano un bilancino
da farmacista.
Sotto la fotografia campeggiava una scritta: Prodotti Bonifarma.
Così si mise ad andare in giro con mio padre a piedi o in bicicletta per le
colline delle langhe a smerciare i suoi cialdini, che ebbero molto successo
e si vendevano come il pane. Dovevano certo possedere una qualità
fondamentale, quella di non nuocere.
Bonifanti era molto orgoglioso della sua formula, e in quel periodo in cui
non si riusciva a trovare quasi nulla, i cialdini fecero la sua fortuna e
concessero a noi la sopravvivenza.
Anche mio padre, come Binifanti, si era fatto crescere i baffi, a me è
rimasta una foto di loro due in piedi sorridenti con due borse di cuoio
gonfie fermi in mezzo a una strada.
Tra di noi, e soprattutto con i Boari, ogni tanto si scherzava sulla storia
dei prodotti Bonifarma. Come tutto quello che riguardava i Boari, anche la
fabbricazione dei cialdini era vista come una cosa gioiosa e divertente,
anche se in realtà il lavoro era febbrile e Bonifanti, famoso per il suo
spirito brillante, diventava a proposito dei cialdini terribilmente serio.
Così passavano i mesi in un’atmosfera che a me pareva,
nonostante tutto, serena.
Amavamo le langhe. Percorrevamo in lungo e in largo quei colli dolcemente
ondulati così cari a Pavese, camminavamo nei sentieri tra le vigne e nelle
strade lungo i campi coltivati a grano, prima verdissimi e poi
sfacciatamente gialli con le macchie dei papaveri e dei fiordalisi.
Osservavamo i colori delle varie stagioni, aspiravamo gli odori e vivevamo
coi ritmi della campagna.
In primavera andavamo nei campi con un coltellino per accogliere nei prati i
sarsèt da mangiare in insalata.
Con l’avvicinarsi dell’estate portavamo sempre con noi un cestino per
raccogliere le fragole e i mirtilli che poi mangiavamo a casa con il
pochissimo zucchero che c’era.
D’estate, dopo che il grano era stato falciato, andavamo a spigolare.
Raccoglievamo le numerose spighe lasciate a terra e ne facevamo dei fasci
che portavamo al mulino che ci regalava in cambio qualche manciata di
farina.
In autunno, all’epoca della vendemmia, andavamo ad aiutare i contadini a
raccogliere l’uva. Mentre si raccoglieva l’uva per deporla nei grandi cesti
posti per terra tra un filare e l’altro, ne assaggiavamo le varie qualità,
il dolcetto dagli acini piccoli e rotondi, la barbera con gli acini grossi,
duri e asprigni, e qualche volta il moscato bianco, con gli acini così
attaccati l’uno all’altro, che si dovevano mangiare a morsi come se fossero
state pannocchie.
Io non amavo molto quelle uve, che erano uve da vino più che da tavola,
andavo pazza invece per certe piccole pesche che si chiamavano pesche di
vigna, perché crescevano in alberelli tra i filari di vite. Erano pesche
piccole, dalla pelle aderente e vellutata, che si spaccavano facilmente in
due mostrando la polpa bianca e carnosa ed il cuore sanguigno. Erano gustose
e profumate, ma i contadini non le tenevano in gran peggio per cui potevo
farne grandi scorpacciate. Anche quelle piccole pesche, come molte cose di
quei tempi, sono scomparse, e i contadini delle Langhe oggi non le coltivano
più.
Dopo il periodo della vendemmia veniva quello delle castagne, che
raccoglievamo nei boschi in gran quantità per poi farle bollire sul
fornellino.
Le castagne erano lunghe da sbucciare, e si passavano ore nel pomeriggio o
dopo cena a chiacchierare sbucciando le castagne, e una tirava l’altra come
le ciliegie e il mucchio delle bucce nel piatto in centro alla tavola
diventava sempre più alto.
Un mattino fui svegliata da urla disumane. I contadini avevano deciso di
ammazzare un maiale e la povera bestia, non so se per il dolore o la paura,
lanciava delle urla che mi gelavano il sangue. A noi avevano promesso un po’
di salsiccia come un grosso favore e mia madre non osò rifiutare. Dati i
tempi rifiutare della salsiccia poteva sembrare non solo scortese, ma
sospetto.
Noi non eravamo degli ebrei osservanti anche se non avevamo mai mangiato
salsiccia. Quando chiedevano a mio padre se mangiava carne di maiale, lui
rispondeva con aria scandalizzata: “No, solo prosciutto”.
Il prosciutto godeva per lui di una specie di indulgenza plenaria tanto da
non essere più considerato parte del maiale.
I contadini lavorarono due giorni e infine un pomeriggio fummo invitati ad
andare a riscuotere quello che ci avevano promesso.
Entrammo in una stanza male illuminata, e subito un odore di sangue e grasso
mi prese alla gola e mi diede un senso di nausea. Dal soffitto pendevano i
budelli vuoti che sarebbero stati riempiti dal tritato della salsiccia. Io
uscii quasi subito, pensavo ancora alle urla del maiale e le trovavo
intonate alla cupezza della stanza e a quell’odore che mi pareva più di
morte che di cibo.
Mia madre uscì poco dopo con il suo pacchettino e alla sera fece cuocere le
salsicce e mise qualche patata a rosolare nel grasso della salsiccia che si
scioglieva al calore del fuoco. Trovammo il piatto squisito, una delle cose
più buone gustate in tempo di guerra.
Quando veniva l’inverno con tanta neve ci sentivamo staccati dal
mondo. Noi trascorremmo a Roddino due inverni, l’inverno 43-44 e il lungo
inverno 44-45, eppure i ricordini di Roddino sono quasi tutti ricordi di
sole, di prati verdi e di aria tiepida. Invece gli inverni erano lunghi e
freddi e per uscire dovevamo metterci gli scarponi da montagna che erano
sempre tutti inzaccherati.
Osservavo Piera, la figlia di Marianìn, che puliva e lucidava i suoi
scarponi come specchi, e la domenica, quando andava a messa, saltellava sui
pochi sassi che sporgevano dalla neve per non sporcarli.
Ricordo un tentativo infruttuoso di iniziazione allo sci.
Giorgio aveva un paio di sci, e sovente al pomeriggio si divertiva a
scendere da una collinetta innevata vicino a casa. I miei genitori vollero
che provassi anch’io, vedrai che ti divertirai dicevano.
Così un mattino, mentre Giorgio era a scuola, mio padre mi portò in cima
alla collinetta e mi agganciò gli sci che Giorgio mi aveva prestato. Gli
attacchi degli sci erano allora piuttosto duri da agganciare e mio padre si
sollevò tutto congestionato e con uno sbuffo mi disse:
“Adesso vai!”.
Io non sapevo cosa fare con quei due slittini lunghi e sottili attaccati ai
piedi e che oltretutto mi sembravano pesantissimi, tanto più che ero
convinta che gli sci fossero dotati di moto autonomo e che partissero da
soli portandomi fino in fondo alla discesa come facevano con Giorgio, invece
io rimasi in cima alla collina, immobile.
Ero delusa perché gli sci erano pesanti e sembravano aderire al suolo senza
nessuna intenzione di muoversi, d’altra parte nessuno mi aveva spiegato che
gli sci partono da soli soltanto in discesa, anche mio padre non aveva mai
messo un paio di sci ai piedi e probabilmente pensava anche lui che una
volta infilati, gli sci schizzassero per conto loro giù dalla collina.
Così io rimasi eretta e rigida in cima alla collinetta per parecchi minuti,
mentre mio padre continuava a dirmi: “Vai, vai!”, e alla fine sconsolato mi
sganciò gli sci e io, sollevata, me ne tornai a casa.
“Non si è mossa”, disse mio padre a mia madre al nostro ritorno a casa. Mia
madre si scandalizzò perché lei sapeva sciare, male, ma sapeva, però pensava
di non essere in grado di dare nessun consiglio, perché sciare come sciava
lei diceva, poteva impararlo chiunque.
Ne vennero tratte melanconiche deduzioni sulle mie attitudini sportive,
deduzioni che si rivelarono perfettamente esatte, ma che una volta tanto non
mi provocarono crisi di abbattimento.
A me di sciare non importava niente e così si chiuse l’argomento che si
riaprì dolorosamente qualche anno dopo, quando mi venne regalato un paio di
sci, e io cominciai faticose ascensioni con gli sci ai piedi su delle
collinette innevate e altrettanto faticose discese, sempre comunque troppo
rapide per rimettermi dalla fatica della salita, punteggiate da cadute che
mi lasciavano il sedere costantemente fradicio.
Una volta, dopo una grande nevicata, mio padre ed io tornavamo da Cravanzana,
e dopo aver già percorso parecchi chilometri nella neve, nei pressi di
Pedaggera, trovammo un tratto di strada intonso dove sembrava che nessuno
avesse ancora messo piede e dove la neve era alta più di un metro.
Mio padre si mise a camminare a passi lunghi e mi diceva di mettere piedi
dentro le sue orme, così non sarei rimasta seppellita nella neve che mi
arrivava sopra le spalle.
Io lo seguivo tutta seria, con fatica, perché le sue impronte erano troppo
distanziate per le mie gambe corte, ma alla fine riuscimmo a superare il
passaggio e potemmo camminare più liberamente.
Arrivati a casa non finiva più di lodarmi con la mamma per come ero stata
paziente e coraggiosa, perché non mi ero messa a piangere e non mi ero mai
voluta fermare. Io ero stupita di tutte quelle lodi, dato che mi era
sembrato normale cercare di arrivare a casa il più presto possibile e di
superare più in fretta che potevo quel passaggio difficile. Ero lusingata
dei complimenti di mio padre, anche se non capivo il perché di tanto
entusiasmo, e in effetti non capivo le reazioni degli adulti nei miei
confronti, mi sembravano spesso esagerate e fuori luogo sia nel bene che nel
male, come ad esempio era successo quella volta dei mastellini.
Eravamo andati a trovare i miei nonni a Cravanzana e dormivamo nella solita
stanza.
In quella stanza c'era un cassettone con sopra degli oggettini come
soprammobili. Io ero rimasta incantata davanti a due mastellini da bucato di
legno dipinto, uno piccolo e l’altro un po’ più grande che mi sembravano
bellissimi. Mi piaceva soprattutto quello più piccolo che trovavo perfetto
in tutti i particolari. Guarda che ti guarda, prima di partire non
resistetti e lo nascosi nella borsa di mio padre in mezzo alla biancheria.
Quando tornammo a Roddino e mio padre disfece la borsa, alla vista del
mastellino s’arrabbiò moltissimo e me ne disse di tutti i colori.
Mi disse che si vergognava di avere una figlia che rubava la roba degli
altri, che mai si sarebbe aspettato da me una cosa simile e così via. Alla
fine terminò dicendo che quando saremmo tornati a Cravanzana avrei
consegnato personalmente il mastellino con tutte le scuse del caso.
Io, invece di sentirmi mortificata e in colpa, mi seccai. Trovavo esagerata
la reazione di mio padre, quante storie pensavo, va bene non bisognava
prenderlo, e allora l’avrei restituito e rimesso a posto senza tante scene.
Invece, non appena ritornammo a Cravanzana, la scena di contrizione e scuse
dovetti bene o male recitarla, ma siccome non ero rimasta convinta della
gravità del mio peccato e del mea culpa che mi era stato imposto, decisi di
affermare la mia volontà e di dimostrare il mio dissenso prendendo il
mastellino più grosso che collocai nella borsa di mio padre bene in vista,
in modo che lo vedesse appena avesse aperto la borsa.
Questa volta mio padre non disse nulla, mi guardò soltanto, ma nel suo
sguardo colsi una delusione così grande, che finalmente mi vergognai e mi
sentii un verme. Questa volta lo rimettemmo a posto in silenzio, ma io ormai
mi ero sentita in colpa e non mi macchiai di altre ruberie.
Comunque rimase in me la convinzione che gli adulti avessero uno strano modo
di ragionare a cui io non avevo voglia di sottomettermi a meno che non ne
fossi personalmente convinta. Mia madre ogni tanto mi diceva tutta
arrabbiata:
“Ma come sei maleducata!”.
“E tu educami!”, le rispondevo provocatoria.
“E’ quello che sto cercando di fare senza riuscirci”, mi rispondeva lei
scuotendo la testa.
Nelle nostre uscite pomeridiane ci accompagnavamo spesso con i signori Levi.
Qualsiasi itinerario terminava dalla balia, perché la signora Levi voleva
vedere come stava la bambina e intanto compravamo il latte e la toma.
La balia era sempre più lunga e pallida, i capelli raccolti dietro:
“Ma dove lo prende il latte balia, dalla schiena?”, le chiedeva la signora
Levi, mentre osservava il petto scavato della balia, le sue mammelle
cadenti. La balia sorrideva con i pochi denti che le rimanevano. La bambina,
d’altra parte, era un fiore.
Così giorno dopo giorno, passò il lungo inverno del ’44, e all’inizio della
primavera del ’45 i miei genitori decisero di traslocare. Si intravedeva già
la fine della guerra, e per questo il nemico sconfitto si faceva sempre più
feroce, e i conflitti a fuoco, gli agguati e le relative rappresaglie non si
contavano più.
“6 febbraio 1945. Ieri abbiamo passato una giornata emozionante. Verso le 16
abbiamo sentito alcune raffiche di mitraglia. Quando siamo scesi alcuni
colpi di mortaio facevano tremare le pareti, i vetri tintinnavano e sembrava
che si rompessero. Per fortuna è tornata la calma e così abbiamo potuto
mangiare e dormire tranquillamente.”
Nonostante l’apparente serenità delle mie cronache, i miei genitori non
dovevano sentirsi sicuri, anche se non mi diedero mai una spiegazione chiara
sul perché del trasloco da un posto dove in fondo ci trovavamo tutti bene,
dissero che Roddino era un luogo troppo di passaggio e perciò diventato
pericoloso, dissero anche che desideravano andare in una casa più grande.
Fu così che ci trasferimmo a Sorano nella casetta dei custodi della villa
che si trovava nel parco di Fontanafredda.
Arrivammo quasi all’inizio della primavera e il parco era pieno di primule e
viole, grandi viole vellutate che io trovavo splendide e che raccoglievo
insieme con le primule. Mettevo questi mazzetti in un bicchiere che posavo
sul tavolino dove studiavo. Il pomeriggio, quando passeggiavo con mia madre
per i sentieri ombrosi del parco, mi pareva di vivere in un luogo fatato, mi
pareva che avrebbero potuto spuntare tutt’a un tratto degli gnomi vestiti di
rosso e magari una fatina col cappello a cono con una stella in cima e una
bacchetta magica in mano, proprio come l’aveva disegnata mia madre su una
fiaba che aveva scritto per me.
La casa era composta di una grande cucina e di una camera da letto. La
camera da letto aveva un soffitto a cassettone blu e oro. Tutte le mattine
mia madre svegliandosi passava qualche minuto in contemplazione di quel
soffitto.
“Ma ci pensi che dormiamo sotto un soffitto tutto bordato d’oro?”, mi diceva
con aria rapita. Io mi rannicchiavo felice nella mia brandina, allietata da
questa gran fortuna che ci benediceva facendoci vivere in una casa col
soffitto blu e oro, mentre fuori l’aria era tiepida di primavera e la guerra
stava per finire.
La porta della nostra casa si apriva su un’aia dove razzolavano dei polli e
dove circolavano due cani, Fido e Pulìn.
Fido era un cagnaccio bianco e nero, sempre in movimento e sempre affamato.
Ogni tanto, vedendolo continuamente in cerca di cibo, gli gettavamo del pane
che lui divorava con grande voracità. Aveva sempre fame, anche perché il
poco che c’era da mangiare i contadini lo davano a Pulìn, un cane vecchio,
grasso, zoppo e sordo, a cui i contadini parevano molto affezionati.
Io ero indignata da queste ingiustizie, non amavo Pulìn, che mi pareva tozzo
nel suo mantello a larghe chiazze bianche e marroni e che riceveva cibo e
persino carezze, mentre Fido veniva pigliato a calci per un nonnulla.
Naturalmente io tenevo per Fido, non solo perché lo ritenevo maltrattato, ma
anche perché amavo quel suo agitarsi, quel suo affannarsi, quel suo dimenare
la coda se gli si dava qualcosa da mangiare, contento dell’immediato, senza
odio e risentimento verso Pulìn che si mangiava i bocconi migliori e che
veniva trattato meglio.
Senza rendermene conto, era la vitalità e nello stesso tempo la saggezza di
Fido che mi conquistavano, perché pensavo che io al suo posto Pulìn l’avrei
come minimo morsicato.
Al pomeriggio per non rimanere chiusa in casa, cominciai a prendere
l’abitudine di accompagnare le contadine al pascolo. Andavo con delle
ragazzine più grandi di me, tra i dodici e i quattordici anni, che portavano
al pascolo le pecore e le capre. Con le mucche non volli mai andare, mi
facevano troppo paura.
Uscivamo dalla cascina con il nostro gregge belante e Fido e Pulìn al
seguito. Avevamo tutte un bastoncino con cui stuzzicare gli animali pigri
che restavano indietro. Arrivate al pascolo, ci stendevamo sull’erba mentre
le capre e le pecore brucavano e le ragazze parlavano tra loro con discorsi
in dialetto che non sempre seguivo.
Quando un animale si allontanava, si faceva la conta per stabilire chi
doveva arrampicarsi per i prati e riportarlo nel gregge, e non si sa bene
perché veniva sempre fuori il mio nome.
Io ero la più piccola, e non avendo tra le contadine né amiche né
protettrici, non osavo protestare. Mi ero si lamentata debolmente perché non
trovavo giusto che toccasse sempre a me, ma le ragazze avevano alzato le
spalle e non si erano curate di rispondermi. Allora al ritorno, seccata e
umiliata, mi sfogavo col mio bastoncino su quelle povere pecore e capre
belanti, dando ordini e facendole correre bacchettandole sulle zampe.
In genere mi lasciavano fare, eccetto che con Roseta, una pecora grossa e
lenta che camminava a fatica, lo sguardo umido e compreso. Mi dissero che
doveva avere un agnellino e io non capivo cosa volessero dire, non capivo
perché facessero tante carezze alla Roseta mentre trattavano malamente tute
le altre.
Un mattino lo capii. La Roseta era accucciata su un po’ di paglia, e vicino
a lei, gli occhi ancora chiusi, un tenero e tremolante agnellino bianco, che
il giorno dopo venne già al pascolo con noi, trotterellando sulle sue
zampette tremanti e belando flebilmente sempre attaccato alla madre.
Era così piccolo e indifeso, che neppure io osai maltrattarlo con il mio
bastoncino.
A un certo punto mi stufai di andare al pascolo con ragazze più grandi di me
che decidevano sempre tutto quello che dovevo fare, e mi trovai un’amica
tutta per me.
Si chiamava Piera, aveva circa cinque anni ed era la figlia più piccola dei
contadini della cascina accanto, i padroni di Fido e Pulìn.
Piera non sapeva quasi parlare, ma si dimostrò subito disposta a seguirmi
ciecamente ovunque andassi. Io sceglievo i giochi, gli itinerari dei nostri
lunghi vagabondaggi ed ero finalmente padrona della situazione.
Andavamo in giro per i prati tutto il giorno, rubavamo la frutta che cadeva
dagli alberi e ogni tanto i contadini ci minacciavano col rastrello.
Piera era una selvaggia con i capelli lunghi, biondi e spettinati ed io, con
le mie due treccine tenute a fatica dal tedescone e il fiocco bianco sempre
mezzo sfatto e stropicciato lo ero poco meno. Creammo però insieme un ferreo
sodalizio, privo di parole e chiacchiere, ma denso di accadimenti.
Stavamo fuori fino a tardi la sera e mio padre si arrabbiava. Una volta che
arrivai a casa che era quasi buio, mio padre mi accolse con un silenzio
carico di minaccia.
Mi annunciò che avrei cenato da sola su un tavolino in un angolo della
cucina con la faccia rivolta verso il muro. Mi parlò di questo castigo in
tono solenne, e io mi chiedevo stupita quale fosse la punizione.
Quella sera a cena c’era il signor Bonifanti e forse mio padre pensava che
mi sarei sentita doppiamente mortificata di fronte ad un estraneo. Invece io
ero quasi contenta di mangiarmene tranquilla per conto mio, senza essere
rimproverata se ero scomposta, se non mangiavo a bocca chiusa, e il fatto di
mangiare voltando le spalle agli altri guardando verso il muro non mi dava
nessun fastidio, perché mi tenevano compagnia i miei pensieri, i ricordi dei
vagabondaggi del pomeriggio, dei prati dove io e Piera ci buttavamo quando
eravamo stanche.
I miei genitori d’altra parte forse non avevano voglia d’infliggermi dei
castighi troppo severi per la mia disubbidienza, erano troppo contenti della
fine della guerra ormai prossima e facevano progetti e si divertivano alle
battute del signor Bonifanti.
Bonifanti si fermò qualche giorno ospite da noi e ogni tanto si sedeva su
una sedia nell’aia davanti alla nostra porta di casa. Si avvicinava Pulìn
zoppicando, grasso e curioso. Quando gli veniva accanto, Bonifanti gli
sollevava un orecchio e gli urlava dentro: "”Pulìn!", e Pulìn rimaneva
immobile, completamente insensibile nella sua sordità.
I giorni che pioveva o in cui non avevamo voglia di girovagare, Piera ed io
giocavamo a fare le brave donnine di casa. Prendevamo le mie pentoline, il
fornellino e mettevamo a cuocere pietanze succosissime a base di terra,
sassolini colorati e piccole foglioline. Poi versavamo queste leccornie sui
piatti costituiti da larghe foglie di nocciolo. Altre volte facevamo le
damine, staccavamo i petali dei fiori dei gerani e ce li incollavamo sulle
dita per simulare lo smalto rosso come quello delle signore.
Piera si uniformava ai miei desideri, ma non mi guardava con ammirazione,
era una mia seguace ma non una mia fan, e questo mi piaceva. Mi assecondava
sempre in quel suo modo selvatico e silenzioso, che ci faceva sentire
complici e profondamente legate.
Mia madre, che andava pazza per i soprannomi, chiamava Piera “l’amica P.”,
il che conferiva alle nostre spedizioni l’aria di una missione segreta che a
me piaceva moltissimo.
Un pomeriggio stavo per uscire con Piera per i soliti giri,
quando vidi tutte le ragazze con cui ero solita andare al pascolo sedute in
circolo, chi su una panca, chi per terra, circondavano una ragazza nuova.
“Rosanna, Rosanna!” le dicevano. Mi avvicinai e mi sedetti con loro. Le
ragazze si erano messe tutte il rossetto come Rosanna, che aveva le labbra
tutte pitturate e portava delle scarpe bianche col mezzo tacco e sembrava
più la vecchia di tutte, sui diciotto diciannove anni.
Rosanna era stata sfollata a Sorano fino a pochi mesi prima ed era tornata a
trovarle da Torino.
“Cos’è tutto questo sfolgorio di rossetti?” chiedeva Rosanna sorridendo. Le
ragazze, beate, ridevano rovesciando il capo all’indietro.
“Anche lei è di Torino”, disse a un certo punto una delle ragazze
indicandomi con noncuranza, come se non fossi degna di attirare l’attenzione
di Rosanna.
Invece Rosanna si rivolse a me e mi chiese:
“Dove abiti a Torino?”. Tutte le ragazze si girarono verso di me dato che
Rosanna mi aveva degnato della sua attenzione.
“In piazza Rayneri” risposi io. Tutte le ragazze si girano verso Rosanna
attendendo il responso.
“In piazza Rayneri” disse lei, “mai sentita nominare. So che esiste una
scuola Rayneri, ma non una piazza”.
Le mie azioni che per un momento erano parse risollevarsi, ricaddero
miseramente. Le ragazze alzarono le spalle e distolsero lo sguardo da me.
Rosanna non conosceva neppure il nome della piazza dove abitavo, forse
quella piazza non esisteva neppure, forse me l’ero addirittura inventata,
doveva essere una piazza assolutamente insignificante se Rosanna non l’aveva
mai sentita nominare.
Mi sentii come un giocattolo, preso in mano per un momento da una bambina
col vestito ricamato e coi boccoli e poi gettato in un canto con disprezzo
perché privo d’interesse.
Visto che non avevo avuto l’approvazione di Rosanna, decisi che era meglio
andare subito in giro con Piera libera per i prati, lontana da quelle
smorfiose.
A Sorano mia madre, passati i primi entusiasmi per le primule e le viole e
il soffitto a cassettoni blu e oro, cominciò a rimpiangere Roddino e la
Trattoria dei Cacciatori.
Si sentiva isolata nella quiete ovattata della sua nuova cucina, mentre i
contadini della casa accanto sembravano ignorare del tutto la guerra, le
rappresaglie e i rastrellamenti, e badavano soltanto ai campi e ai raccolti.
Si sentiva sola, torturata da pensieri angosciosi per gli amici di cui non
aveva più notizie e per la sorte di due vecchie zie portate via dai
tedeschi.
In realtà in quel periodo gli avvenimenti si stavano accavallando
vorticosamente.
Il 12 aprile era morto improvvisamente il Presidente Roosvelt e il 23 aprile
i Russi erano entrati in Berlino. Gli alleati avevano ripreso l’offensiva in
Italia e dilagavano ovunque. Genova, Milano e Torino erano insorte e molte
località erano state liberate dai partigiani.
Mia madre, seduta nella cucina di Sorano, ascoltava le stazioni di Genova
libera e di Milano libera. I partigiani elle langhe erano scesi in aiuto a
Torino dove ancora si combatteva.
“I partigiani delle langhe, i nostri partigiani”, diceva mia madre con voce
commossa e si sentiva impotente e inutile.
Diceva che le sarebbe piaciuto muoversi, piangere, agire, e invece rimaneva
lì seduta come intontita, senza riuscire ad abbandonare le vesti della
signora Paderno dissimulatrice e rassegnata. Infine decidemmo di andare
tutti ad Alba.
“29 aprile 1945. Ieri sono andata ad Alba con papà e mamma….. Mentre
andavamo giù per lo stradone incontrammo della gente che ci disse che c’era
l’armistizio e noi seguitammo la strada tutti contenti.
Alba era tutta imbandierata e anche noi siamo andati in un negozio e abbiamo
comprato un pezzetto di nastro tricolore e ce lo siamo messi all’occhiello.
Poi siamo andati in una pasticceria e abbiamo mangiato due bignole e un
pezzo di cioccolato.
Purtroppo invece la guerra non è ancora finita”.
Era il 28 aprile e in quello stesso giorno Benito Mussolini venne
giustiziato.
Mia nonna scriveva:” 29 aprile 45. Ieri sera la radio ha annunciato che gli
americani sono entrati in Torino. I cadaveri di Mussolini e compagni sono
stati portati a Milano ove verranno seppelliti senza onori. E’ la vendetta
del popolo…..
Ora si attende di ora in ora la capitolazione della Germania, segnando così
la fine di questa immane tragedia che ha travolto uomini e cose devastando
tutte le più belle città. Si vocifera che Hitler sia morto, è un vero
peccato che questo non sia avvenuto sei mesi fa, avrebbe risparmiato lutti e
rovine”.
Anche mia madre si era messa ad annotare gli avvenimenti che si
susseguivano, le sue impressioni e i suoi vari stati d’animo su un quaderno
con la copertina di tela cerata azzurra.
Il giorno 2 maggio 45 scriveva: ”Si sono spalancati i pesanti cancelli della
mia prigione, ma io non mi muovo. Mi sento libera e ne godo, e
tuttavia non mi decido ad uscire….. Che dicevo sempre a Lilina? ”Quando
verrà il gran giorno voglio un abito da giullare con tanti campanellini
perché ogni membro del mio corpo possa avere una voce per esprimere la mia
gioia”.
Non ho messo l’abito da giullare e nemmeno la mia voce squilla, perché?. Non
so, ma questa casa di Sorano è ovattata di silenzio e indifferenza”.
La sera dello stesso giorno il giornale radio delle 20 annunciò che la
guerra in Italia era finita con la resa incondizionata delle truppe tedesche
e fasciste.
Mia madre si precipitò fuori per comunicare la notizia ai vicini, ma i
contadini della casa accanto non ebbero nessuna reazione. Mia madre tornò a
casa mortificata.
Quell’inizio di maggio fu freddissimo e ventoso, cadde persino un po’ di
neve. Il primo maggio era stato annunciato il suicidio di Hitler e mia madre
attribuiva il gelo e il vento di quei giorni alla discesa agli inferi dello
spirito demoniaco di Hitler.
Però le parevano dei segni troppo deboli, diceva che si sarebbero dovuti
sentire dei boati e gli urli di gaudio delle potenze infernali, e così mia
madre temeva che la notizia fosse falsa e che Hitler rispuntasse per
rimettersi alla testa del popolo tedesco.
Per fortuna era tutto vero, e la radio diede l’annuncio che il giorno di
domenica 6 maggio le truppe partigiane sarebbero sfilate in solenne parata
per le vie delle città che avevano liberato. Era l'ultima soddisfazione che
gli Alleati avrebbero concesso loro, poi avrebbero ritirato le armi e
rimandato tutti a casa.
Il loro compio era finito, grazie ragazzi, ed ora tutti in licenza.
Quel 6 di maggio per la festa della Liberazione andammo ad Alba. La gente
era allegra, festante, ballava e si abbracciava per strada. C’erano dei
banchetti dove vendevano il torrone e anche noi tre ne comprammo una stecca
facendo un eccezione alla nostra consueta austerità.
Ricordo la felicità di mio padre e mia madre, felicità che io condividevo
solo per riflesso, perché per me la fine della guerra non significava nessun
cambiamento, si cominciava però a parlare di un nostro ritorno a Torino,
ritorno che io vedevo remoto e avvolto nelle nebbie dell’incertezza.
Io non so se quella primavera e quell’estate del ’45 siano state
particolarmente calde e soleggiate, so soltanto che di quella primavera e di
quell’estate ricordo solo giornate di sole, tanto doveva essere solare e
lieta l’atmosfera di casa nostra per la guerra finita e la fine delle
persecuzioni, e le speranze e i progetti per il futuro e la prospettiva del
ritorno a casa.
Mia nonna invece non la vedeva così rosea la fine della guerra, aspettava
suo figlio dal “lungo esilio” e scriveva:
“Ormai sono tutti assetati di vendetta e purtroppo ovunque si verificano
delle crudeltà che non hanno riscontro che all’epoca dell’Inquisizione. Non
avrei mai creduto che si potesse arrivare a simili eccessi nel secolo
ventesimo”. E ancora non si sapevano tante cose….
In una mattina di sole, a fine maggio o ai primi di giugno dell’anno 1945,
mia madre ed io c’incamminammo per Roddino dove eravamo state invitate a
pranzo dalla signora Palmina. Attraverso quali canali ci fosse arrivato
quell’invito non lo so, ma penso a quanto poco affanno e poca ansia ci fosse
nella nostra vita allora, per partircene di casa tranquille una mattina per
percorrere a piedi otto chilometri all’andata e altrettanti al ritorno
semplicemente per andare a pranzo a casa di amici.
Arrivammo a Roddino per l’ora di pranzo, mia madre sorridente, io con un
mazzolino di fiori di campo che avevo raccolto per strada e Fido al seguito,
che non ci abbandonava mai da quando avevamo preso l’abitudine di rifilargli
sovente dei pezzi di pane. Mia madre andò a salutare tutti, Marianìn, il
marito, Piera e Luciano, e a tutti finalmente era stato rivelato il nostro
vero cognome e il segreto delle nostre identità false.
Nessuno ci fece gran caso, neppure don Rinaldi, il quale ci disse che lui
l’aveva sempre saputo che noi eravamo ebrei, l’aveva capito dal cognome
falso, perché Paderno è il nome di un paese, e gli ebrei, si sa, hanno
sovente per cognome il nome di un paese o di una città, ma, aveva aggiunto
con un gran sorriso sulla sua faccia rotonda, non eravamo forse tutti figli
di Dio?.
Io comunque ero rimasta Lillina e mia madre la signora Paderno.
Dopo i saluti ci mettemmo a tavola e io vedevo che Giorgio era tutto
eccitato, e che lui e la signora Palmina si lanciavano ogni tanto uno
sguardo d’intesa.
Alla fine del pranzo la signora Palmina s’alzò per andare a prendere una
torta preparata per l’occasione, che doveva costituire la grande sorpresa
del pranzo e che aveva messa a freddare sul balcone, ma ahimè trovò il
piatto vuoto.
Guardammo subito Fido, che già da un po’ di tempo se ne stava stranamente
quieto e accucciato in un angolo, senza l’agitazione che lo caratterizzava
in presenza del cibo. Quando s’accorse di essere stato scoperto, chinò la
testa tra le zampe in attesa del peggio, ma noi non lo sgridammo né lo
picchiammo, e sulla strada del ritorno verso Sorano io realizzai come anche
un cane può essere felice. Lo si vedeva dal modo in cui camminava, da come
muoveva la testa e la coda. Aveva fatto certamente il pasto migliore di
tutta la sua vita e non era stato neppure preso a calci anche se sapeva di
meritarselo.
Fido era felice, e arrivato a casa comunicò in qualche modo la sua felicità
a Pulìn, perché da allora non potemmo più muovere un passo senza averli
tutti e due alle calcagna.
“Che cosa si saranno detti?” si chiedeva mia madre, “forse Pulìn avrà
annusato Fido e sentito un profumo paradisiaco? Ma era possibile dopo tante
ore?”.
Il mistero ovviamente non lo svelammo mai, ma in compenso la storia della
torta e di Fido venne da me riciclata in vari temi alle elementari e alle
medie e alla fine costituì il soggetto di un raccontino “La scorpacciata di
Fido”, che fu pubblicato sul giornalino per ragazzi che allora leggevo e che
dedicava una pagina alle composizioni dei lettori.
Una mattina mi svegliai dicendo che avevo sognato che zio Dario tornava a
casa.
Ormai potevo chiamarlo così, “zio Dario”, e i miei nonni, che in quel
periodo erano ospiti da noi, erano finalmente tornati ad essere i miei
nonni, da Cravanzana a Sorano e non solo più fino a Ceretto.
Mia alzai e andai a giocare nel cortile. Ad un certo punto vidi avanzare una
figura nota sorridente e abbronzata.
“E’ arrivato zio Dario!”, mi misi a gridare, mentre mia madre e mia nonna
uscivano di casa con le braccia alzate e le voci lagrimose.
Osservai con distacco i baci, gli abbracci, le lacrime, e ascoltai con
orecchio distratto le storie che mio zio raccontava sul suo arrivo, sul
soggiorno in Svizzera, su come aveva faticato a sapere dove ci eravamo
stabiliti e a raggiungerci. La mia concentrazione era concentrata sul viso
radioso di mia madre e la faccia estasiata di mia nonna ancora incredula,
gli occhi umidi e la bocca semiaperta. Finalmente venni chiamata in causa:
“Ma lo sai che stanotte la Ilia ha sognato che arrivavi?”, gli disse mia
madre facendomi un cenno e stringendomi a sé. Anch’io ero diventata di nuovo
Ilia, solo occasionalmente Lillina. Se volevo tornare ad essere Lillina
dovevo tornare a Roddino alla Trattoria dei Cacciatori.
Da quel giorno mi furono attribuite facoltà di preveggenza di cui a dire il
vero non diedi altre dimostrazioni. La medium di famiglia era in realtà mia
madre, a cui ogni tanto compariva in sogno una donna velata che le dava
informazioni e suggerimenti che si rivelavano sempre esatti.
Quando appena sottovoce si accennava alla possibilità di uno sbarco delle
forze anglo-americane sul continente, la donna velata apparve una notte a
mia madre e le comunicò la data esatta del futuro sbarco in Normandia.
Comparve ancora qualche anno dopo per rivelarle la realtà di situazioni
apparentemente senza spiegazioni.
L’ultima rivelazione mia madre l’ebbe la notte prima di venire investita da
un’automobile e di essere sbattuta come un sacco di stracci sul selciato di
una strada.
Quello che le apparve quella notte non me lo volle mai dire, ma mi disse che
era una cosa orribile e con la mano cercava di scacciarne il ricordo, mentre
giaceva nel letto che non avrebbe più potuto abbandonare.
Forse le era stato rivelato l’orrore della sua morte e della sua lunga
agonia, ma quella volta non le servì a modificare il suo destino.
La guerra era finita e i miei cominciarono a fare progetti sul nostro
ritorno a casa. La Bonaglia si preparava ormai ad andarsene, suo marito era
una persona conosciuta e i partigiani l’avevano ammazzato quando già la
guerra era finita. Lei e le bimbe avrebbero dovuto traslocare altrove.
Credo che a poche persone nella vita sia concessa la soddisfazione, se
soddisfazione si può chiamare, di assistere al completo annientamento del
nemico.
Questo fu concesso a mia madre, che andò di persona ad assistere al trasloco
della Bonaglia e sedette, giovane splendente e vittoriosa, su una sedia
della sua cucina ad osservare una Bonaglia atterrata e piangente che
impacchettava le sue cose, controllando che non si portasse via anche le
nostre.
Ad un certo punto la Bonaglia prese una scatola di metallo in cui veniva
conservato il caffè, una scatola di metallo blu con i riflessi verdi che era
sempre stata nella nostra cucina e che veniva chiamata scatola del pavone.
Mia madre puntò il dito e gliela fece lasciare. Poi se ne pentì e sovente,
quando ormai eravamo nuovamente installati a casa nostra, lei prendeva in
mano la scatola del pavone per preparare il caffè, mi diceva:” Sono stata
meschina con la Bonaglia, potevo lasciargliela questa scatola, non aveva
nessuna importanza e nessun valore”.
Mia madre non buttò mai via la scatola del pavone, un po’ perché era uno di
quegli oggetti che davano l’idea di casa, come la scatola dei biscotti e
quella dei bottoni, e un po’ perché a guardarla le suonava ogni volta da
ammonimento, poiché non si era comportata secondo gli insegnamenti dei sacri
testi, per cui un ebreo deve si ricordare quel che gli ha fatto Amalèk, ma
non deve mai gioire dell’umiliazione del suo nemico.
Andata via la Bonaglia, cominciammo ad andare ogni tanto a Torino per
riordinare la casa prima di ritornarci definitivamente.
Quell’alloggio a me sembrava grandissimo, mentre in realtà era composto di
quattro stanze, neppure molto grandi, e di una cucina. Ero anche
impressionata dalla quantità di acqua che usciva dai rubinetti, e che
paragonata al filo dell’enteroclisma sembrava addirittura una cascata,
inoltre mi pareva meraviglioso che si potesse scegliere di lavarsi con
l’acqua calda oppure con l’acqua fredda.
Ora avrei dovuto anch’io una cameretta per me, con un letto un tavolino ed
un armadio, una cameretta che mia madre chiamava pomposamente il living,
perché era anche la camera dove si cuciva e dove ci si fermava a
chiacchierare.
Un giorno, frugando in un cassettino di quella che sarebbe diventata la mia
scrivania, trovai un quaderno a righe delle elementari intestato a Resi
Bonaglia.
Il mio cuore si mise battere forte: ecco lì una prova tangibile che altre
persone avevano vissuto a casa mia, che un’altra bambina si era seduta a
fare i compiti su quella stessa sedia su cui ero seduta io, scrivendo su un
quaderno con la copertina nera come i miei.
C’erano dei pensierini scritti su quel quaderno e dei disegnini puerili,
figure stilizzate, casette, più o meno come le disegnavo io, anche Resi
Bonaglia, come me, non doveva essere troppo forte in disegno.
C’erano anche alcune considerazioni di tipo personale: Resi è stanca, Resi
oggi ha giocato con Pina, probabilmente era una via di mezzo tra un quaderno
di scuola e un diario, e essere messa di fronte così all’improvviso a una
realtà tanto simile alla mia, ma riferita a persone pensate sempre come
estranee e nemiche, mi turbò profondamente.
Guardai un po’ di volte il quaderno di Resi e infine lo buttai via.
Non è possibile vivere con il lato umano del nemico sconfitto, perché vien
voglia di cercarlo, parlargli, spiegargli. Invece pensai: adesso è il mio
turno cara Resi, magari eri una bambina simpatica, magari avremmo anche
potuto essere amiche, ma adesso devi sparire dalla mia vita.
Nonostante il fascino della novità e nonostante i lussi che
sembrava promettere la vita di città, io vivevo in uno stato d’animo diviso
tra la contentezza e il rimpianto.
Cominciavo già a rimpiangere i lunghi pomeriggi a spasso con Piera in
assoluta libertà, ed ero sicura che a Torino non avrei più potuto andarmene
a zonzo da sola.
Già si parlava delle difficoltà ad attraversare le strade con le macchine e
i tram, dell’impossibilità di uscire senza essere accompagnata. Inoltre
avrei cominciato ad andare alla scuola pubblica, come tutti gli altri
bambini, e per questo mia madre mi aveva portata a Roddino a sostenere da
privatista l’esame di ammissione alla terza elementare.
Anche mia madre avrebbe ripreso l’insegnamento l’autunno successivo. Era
stata reintegrata e le avevano riconosciuto gli anni perduti a causa delle
leggi razziali.
Fu perciò da collega a collega che lei andò a parlare alla maestra della
scuola di Roddino dove avrei sostenuto l’esame.
Quella mattina io sedevo sola in un’aula piena di banchi e di cartelloni
sulle pareti con i disegni dei bambini, disegni che testimoniavano quanta
vita fosse stata vissuta in quell’aula, vita di bambini tra bambini, vita a
cui non avevo partecipato, mentre adesso mi trovavo lì quando tutti se ne
erano andati, ed io ero lì per fare le cose che loro avevano fatto per tutto
l’anno.
Guardavo mia madre che parlava lieta e disinvolta con la collega, una donna
bruna e graziosa, e mi sembrava assurdo di essere lì a sostenere una prova,
con mia madre che parlava con la maestra e io che dovevo fare il problemino
e scrivere dei pensierini sul cane. Così scrissi delle scemenze , ordinate e
in bella scrittura ma scemenze, il cane è fedele, vi sono molte specie di
cani e così via, e invece ne avrei avute tante di cose da raccontare sui
cani, e di Fido e di Pulìn, tante cose avrei potuto dire, ma in quelle
condizioni mi sentii bloccata.
La sentivo una situazione di privilegio che non avevo cercato e che non
gradivo, e che trovavo oltre a tutto molto poco stimolante. Se ci fossero
stati anche gli altri bambini, allora si che avrei scritto, raccontato,
cercato di fare un bel tema per avere la lode della maestra e la
considerazione dei miei compagni.
Comunque fui ammessa alla terza elementare.
La vita cominciava a riprendere il suo corso dopo l’interruzione della
guerra.
I miei nonni apparivano stanchi e improvvisamente invecchiati e non
ripresero più la vita di prima. Vendettero il loro negozio di cui mia nonna
era tanto orgogliosa.
“Ci venivano i giornalisti della Stampa e tutte le mattine Valletta mandava
il suo cameriere a prendere il colletto e i polsini nuovi per la camicia. E
ci veniva anche Spazzapàn”, mi diceva mia nonna con gli occhi grigio azzurri
un po’ sognanti.
Da Spazzapàn, che mio nonno chiamava alla piemontese Spassapàn, avevano
comprato un quadro, una natura morta che io trovavo bellissima.
Mia nonna mi raccontava volentieri del negozio e di una volta che Angelo
Viziano, un giornalista della Stampa, l’aveva presa sottobraccio e l’aveva
portata davanti a uno specchio:
“Vediamo se facciamo una bella coppia”, le aveva detto.
Anche il fratello di mio nonno faceva il giornalista ed era a quel tempo
corrispondente all’estero, e la casa dei miei nonni era il suo punto di
riferimento quando si trovava a Torino e non era ancora sposato.
Una volta aveva intervistato Hitler prima che diventasse cancelliere. Hitler
aveva cominciato a sputare il suo livore contro gli ebrei e lo zio gli aveva
detto di essere ebreo. Hitler gli aveva risposto che non era possibile
perché lui gli ebrei li riconosceva dall’odore.
Ma dopo la guerra i miei nonni traslocarono da via Cernaia, dove c’era il
loro negozio e dove avevano vissuto una vita, e si rintanarono in un
alloggio buio di una casa vecchia del centro di Torino in via S. Francesco
da Paola.
Non frequentarono più il fratello di mio nonno, che era tornato dalla
Svizzera dove aveva trascorso gli anni della guerra ed era ormai un
giornalista famoso, che sarebbe diventato di lì a pochi anni direttore della
Stampa.
Si sentivano stanchi e umiliati e i miei nonni non avevano voglia di
ricominciare.
Mia madre rimproverava mia nonna perché non aveva ringraziato gli zii che
avevano ospitato Dario per qualche tempo quando era scappato in svizzera, ma
mia nonna alzava le spalle, perché ormai era diventata una persona negativa
dall’atteggiamento passivo.
Mia madre si consolò dando allo zio giornalista il soprannome “il parente
celebre”, e così veniva chiamato a casa nostra le poche volte che se ne
parlava.
Mia nonna continuò a scrivere i suoi pensieri sulla sua agendina blu anche
dopo la guerra, e li fece precedere da un titolo: “Avvenimenti posteriori
alla guerra”.
“26 luglio 1945. La guerra è finita da più di due mesi. Abbiamo
riconquistato la libertà e la nostra vera personalità, ma la vita è molto
difficile.
Siamo stati a Torino dall’11meggio all’8 giugno alloggiando all’albergo
Saluzzo in via Massena….Ho passato circa un mese molto triste e preoccupata
col vivo desiderio di tornare in campagna….
Chissà come passeremo l’inverno? La vita è sempre più cara, i prezzi di
tutte le derrate sono iperbolici, quasi incredibili, come ce la caveremo?.
Chi lo sa?”.
“2 agosto 1945. Papà e Dario sono partiti per Torino e da cinque giorni non
ho più avuto notizie. Sono molto sola e ho dormito due notti da sola nella
casa….
Spero che stasera torni qualcuno, non so proprio cosa pensare di questo
soggiorno prolungato a Torino, spero non sia dovuto a disgrazie.
Ieri sera mentre attendevo che la signora di Savona tornasse, mi sedetti al
buio davanti alla casa e vi rimasi più di mezz’ora.
C’era un gran silenzio, non si sentiva che il cri-cri del grillo o della
cicala.”
Gli scritti di mia nonna posteriori alla guerra riflettono solo tristezza e
preoccupazione, non c’è un goccio d’ottimismo né di entusiasmo per il
futuro, mia nonna si vedeva ormai in fase discendente, e nonostante fosse
scampata con la sua famiglia alla guerra e alle persecuzioni, la guerra
l’aveva stremata e si erano insinuati in lei il timore e l’inquietudine
tipici di chi si sente invecchiare e non trova in sé le risorse e lo slancio
per affrontare situazioni nuove con tutte le loro difficoltà.
Mio padre e mia madre iniziarono la loro vita matrimoniale praticamente dopo
la guerra, dato che si erano sposati quasi alla vigilia delle leggi razziali
e si erano subito sentiti braccati, perseguitati, e in seguito si erano solo
preoccupati di sopravvivere.
Mio padre riprese il lavoro e mia madre si iscrisse di nuovo alla Procoltura,
aspettando con gioia che iniziasse l'anno scolastico per poter riprendere
l'insegnamento. Intanto cercava di riannodare i fili che si erano spezzati e
di ritornare alle vecchie abitudini. Per questo si diede da fare a cercare
una donna di servizio fissa come era abituata ad avere prima della guerra.
Trovò una ragazza di campagna che desiderava andare a vivere in città e che
si chiamava Elsa. Elsa era molto graziosa ed elegante, e vestita di nero col
suo grembiulino bianco faceva un’ottima figura, ma non aveva voglia di
lavorare.
Diceva sempre che doveva andare da sua zia a Sassi. “Mi ha telefonato mia
zia di Sassi”, ci diceva continuamente con aria solenne. Sembrava che alle
richieste della zia di Sassi non fosse ammessa replica, che non si potesse
opporre nessuna condizione e tanto meno un rifiuto.
Mia madre dopo poche settimane si stufò. Elsa non le piaceva e poi non
sopportava più una donna fissa, le dava fastidio avere un’estranea in casa
tutto il giorno. La guerra aveva cambiato le nostre esigenze e le nostre
abitudini.
Bene o male mia madre aveva imparato a far da mangiare e ad occuparsi della
casa.
Non era più la ragazza sprovveduta che si era sposata senza saper neppure
cuocere un uovo. Aveva la sensazione, mia madre, di aver superato un esame
molto difficile, e reintegrata nella sua vita, nel suo lavoro, con una
bambina ormai grandicella, si sentiva più libera e sicura.
Decise perciò di prendere una donna a mezzo servizio e così in casa nostra
entrò Marie.
Marie era alta e grossa con occhi piccoli e chiari, il colorito acceso e i
capelli arricciati in permanenti sempre troppo strette, “sciàse”, per dirla
alla piemontese.
“Io non mi chiamo Maria, mi chiamo Marie”, diceva con orgoglio. In effetti
era nata in Francia da madre francese e padre italiano, me era ormai una
perfetta piemontese.
I primi giorni eravamo rimasti tutti a bocca aperta di fronte all’efficienza
di Marie, che eseguiva in pochissimo tempo i lavori che le venivano
assegnati, ricomparendo subito dopo dicendo “comandi” a mia madre che ne
rimaneva stupefatta ed ammirata.
Ma Marie non era soltanto quello che le signore definiscono “una donna
finita”, era anche una fonte inesauribile di racconti, e ci incantava con le
storie della sua vita che a me bambina parevano straordinarie. Aveva avuto
per anni un banco al mercato di Porta Palazzo, il più famoso di Torino, dove
affermava di conoscere tutti e di essere da tutti rispettata. Ci invitava ad
andare per acquisti, possibilmente in sua compagnia, perché, diceva, la
regola del mercato era: “An chilu a gnùn, noeuv ettu aj amìs, oeut ettu a
tùti”, cioè un chilo a nessuno, nove etti agli amici e otto etti a tutti.
Ma lei, ridendo e scoprendo le gengive, diceva di conoscere qualcuno che per
lei poteva anche arrivare a nove etti e mezzo.
Marie aveva avuto un marito con cui aveva aperto un albergo, e un figlio,
morto sui vent’anni. Sia del marito, ormai defunto, che del figlio, parlava
poco e senza sospiri di rimpianto.
Durante il periodo dell’albergo aveva conosciuto tantissima gente, fatti e
misfatti di mezza Torino, che amava raccontare a mia madre fidando nella sua
discrezione.
Marie aveva i pomelli delle guance sempre troppo rossi e gli occhi piccoli
erano sovente un po' lucidi. Colpa della barbera, compagna fedele e fin
troppo assidua delle vicissitudini della sua vita.
Di tutte le storie che Marie raccontava, a me ne era rimasta impressa
soprattutto una, che le era successa quando era poco più che adolescente e
faceva la cameriera in un albergo di Ceresole Reale. In quell’albergo era
venuta a trascorrere qualche giorno la Regina Margherita. Un giorno, mentre
la Regina era fuori per una passeggiata, Marie, facendo le pulizie
nell’appartamento con altre camerierine, si incantarono a guardare i vestiti
della Regina.
Uno piacque a Marie in modo particolare, tanto che le amiche la spinsero ad
indossarlo. Così, mentre tra gridolini e risate soffoccate delle ragazze,
Marie si osservava allo specchio in abito regale, arrivò inaspettatamente la
Regina.
Paura, lacrime, e Marie si buttò in ginocchio davanti alla sovrana
chiedendole perdono.
“Povera piccola”, disse la Regina, “ti piace?. Prendilo, è tuo”.
Questa storia mi piaceva immensamente, l’idea di vivere una favola era già
allora in me un’aspirazione profonda, e mi spingeva ad estraniarmi dalla
realtà che in genere non mi piaceva e che preferivo aggirare con la
fantasia.
Nonostante quest’avventura da fiaba, Marie sosteneva di non essere
monarchica e di aver votato per la repubblica.
Marie rimase in casa nostra per più di dieci anni, e se ne andò soltanto
quando gli anni, e soprattutto l’alcool, avevano fatto di lei una donna
troppo magra con le mani scosse da un tremito violento e continuo.
Per me invece, passata l’euforia per le
novità, il ritorno a Torino fu triste.
Torino era stata dilaniata dai bombardamenti e camminando per la città si
vedevano ovunque case sventrate con ancora ben in evidenza tracce di vita
vissuta. Mi ricordo di una casa in via Cibrario a cui le bombe avevano
strappato via un lato, e si vedevano gli interni delle camere in cui era
rimasta intatta la parete di fondo. In una in particolare si notava una
tappezzeria a fiorellini, con un quadro ancora appeso miracolosamente al
muro.
Ogni volta che guardavo quella tappezzeria e quel quadro, mi sforzavo di
pensare a come doveva essere la stanza quand’era tutta intera, con la sua
tappezzeria a fiorellini e la gente seduta dentro a parlare. E pensavo a
quel quadro che aveva visto e sentito tutto quello che era successo in
quella stanza, e che adesso vedeva la strada, i tram, la gente che
camminava. Pensavo a come era cambiata la vita per quel quadro, l’intimità
di una stanza prima con i segreti di tante vite, e il chiasso e la
promiscuità della strada poi, e lui sempre lì appeso a quel muro, di
vedetta, come se nulla fosse accaduto.
Cercavo di pensare a come mi sarei sentita io al suo posto, certo non sarei
rimasta così immobile e ferma ad osservare il trascorrere dei giorni. Già,
ma io ero una bambina, non un quadro, un oggetto, anche se per me gli
oggetti avevano fin da allora un loro linguaggio, un loro modo di
esprimersi, e a seconda di come erano disposti e dalla luce che emanavano,
io traevo da essi comunicazioni e silenziosi messaggi.
Ma la compagnia delle cose e degli oggetti non poteva essere sufficiente a
una bambina di sette anni. Mi sentivo improvvisamente isolata, una bambina
che viveva sempre tra adulti e ritornai a poco a poco ad essere una bambina
solitaria, ma con un gran desiderio di amici bambini e soprattutto di
un’amica del cuore con cui confidarsi.
Invece ero sempre più coinvolta nella vita dei miei genitori che mi
portavano con loro dappertutto perché non sapevano dove lasciarmi, dato che
i loro amici avevano soprattutto figli maschi, oppure, come i Boari, non
erano ancora sposati.
Fu così che cominciai a desiderare forsennatamente un fratellino o una
sorellina, e osservavo sempre la pancia di mia madre per vedere se si
gonfiava.
Lei mi aveva spiegato bene come i bambini crescessero nella pancia della
mamma e come ne uscissero, su come ne entrassero invece, era rimasta
piuttosto evasiva. Mi erano stati fatti vaghi accenni a fiori e pollini
vaganti, a pericolosi incontri troppo ravvicinati, ma io non avevo le idee
affatto chiare.
D’altra parte per fortuna ero abbastanza piccola, e non ero ancora preda
delle curiosità morbose che mi avrebbero investita negli anni seguenti circa
gli accadimenti sessuali.
Mi bastava quello che sapevo, e una volta che vidi mia madre con il ventre
leggermente arrotondato, vissi alcuni giorni in stato di beatitudine.
“Ci siamo”, pensavo, “questa volta avrò un fratellino o una sorellina”.
Quando finalmente osai rivelare le mie certezze a mia madre, lei mi guardò
con un’espressione talmente trasecolata, che mi fece capire che l’idea di
avere un altro figlio era mille miglia dalla sua mente.
“Che cosa posso farci, non è venuto”, mi diceva quando già adulta io le
rinfacciavo la mia solitudine di figlia unica.
Oltre alla solitudine, il ritorno a Torino
portò prepotentemente nella mia vita la guerra, quella guerra, che io in
fondo avevo vissuto senza grandi traumi e come una condizione naturale e
accettabile nella semplicità della vita paesana, e che adesso invece, quando
ormai tutti si rallegravano perché era finita, mi era piombata brutalmente
addosso con tutto il suo orrore.
Per casa cominciavano a circolare dei giornali illustrati con le immagini
dei campi di concentramento, dei mucchi di cadaveri, degli scheletri viventi
con la descrizione delle brutalità e delle torture a cui erano sottoposti.
Quelle immagini e quei racconti così crudi, che rendevano i miei genitori
consapevoli della grande fortuna che avevano avuto ad esserne usciti vivi,
destavano in me orrore e ribrezzo. Perdevo l’appetito, soffrivo di nausee,
faticavo ad addormentarmi la sera. E poiché la guerra la soffrii quando era
già finita, ne soffrii doppiamente perché in quella sofferenza non fui
compresa, perché anche chi cercava di medicare le ferite e di rimettere
insieme i pezzi di vita, provava comunque sollievo per la libertà ritrovata
e la fine delle ostilità e della paura. Infatti mia madre mi diceva:
“Pensa che bello!. Adesso è tutto finito e possiamo addormentarci tranquilli
senza aver più paura dei bombardamenti”.
Come facevo a dire che io invece dei bombardamenti avevo tutt’altro che un
cattivo ricordo? Trovavo eccitante il suono delle sirene, il correre rapido
in cantina, spesse volte in pigiama e vestaglia insieme a tutti gli
inquilini della casa, affratellati in un’improvvisa solidarietà di fronte al
pericolo comune.
Ci stipavamo nei corridoi male illuminati della cantina, con l’odore di uffa
e i grossi mattoni sporgenti dai muri, e tutti parlavano, raccontavano di
altri bombardamenti, di storie di conoscenti. Io ero l’unica bambina
piccola, e come tale venivo trattata con gentilezze e sorrisi. Mi sentivo
tranquilla e protetta.
Poi suonava la sirena del cessato allarme e ce ne tornavamo tutti nei nostri
alloggi che fortunatamente non furono mai danneggiati.
Per me i bombardamenti erano quasi un diversivo piacevole, ma come facevo a
dirlo quando vedevo continuamente in giro case sventrate e sentivo la gente
che si disperava per la distruzione della sua casa?.
Mi sentivo una nota stonata nell’alleluia generale, perché non riuscivo a
partecipare a tutto quel rallegrarsi, e nello stesso tempo mi sentivo in
colpa perché non lo facevo, mentre a me pareva di aver improvvisamente perso
tutto il mio mondo di bambina, la mia autonomia, la mia indipendenza, un
certo modo di sorridente e disteso di stabilire i rapporti.
Per esempio a Roddino e a Sorano la spesa la facevamo dai contadini, o
andavamo per i campi a procurarci quello di cui avevamo bisogno. L’unico
negozio che io ricordassi era quello del fornaio di Roddino, lo schiavo
bianco.
A Torino invece, nei periodi di vacanza, partivamo con mia madre tutte le
mattine per andare al mercato quello di piazza Benefica, oppure, quando
avevamo più tempo, quello di piazza Barcellona oltre via S. Donato.
In piazza Barcellona tutti gridavano, sbraitavano, per convincere “le fumne”
a comprare la loro merce. C’era un tizio che si chiamava Abramo e vendeva i
carciofi. Ne teneva uno all’occhiello della giacca, aperto come un fiore, e
saltava, gridava, fumava, tutto per vendere i suoi carciofi. Vicino a lui un
vecchio col berretto in testa risaltava per la sua immobilità.
“Oh che bei bulè, che bei bulè, che bei bulè”, ripeteva con la faccia senza
espressione e sempre con la stessa cantilena di fronte al suo banco pieno di
funghi. Io un po’ ero divertita e incuriosita da tutto quell’agitarsi e un
po’ mi stancavo per il chiasso e la confusione a cui non ero abituata.
Una mattina stavamo scegliendo delle mele ad un banco di frutta, quando
sentii un gran gridare e vidi la proprietaria del banco che stava insultando
e minacciando con le mani una vecchia, che stava tremando di vergogna e di
paura, il viso dai contorni già sfatti tutto cosparso di una strana
poltiglia giallastra.
Pensavo che la vecchia avesse vomitato per la paura, mentre la poltiglia
gialla non era altro che una mela marcia che la venditrice le aveva buttato
sulla faccia per sfregio perché l’aveva colta a rubare due mele.
La vista di quella vecchia umiliata e deturpata, e di tutto l’odio e il
disprezzo che la venditrice le vomitava addosso, mi turbarono profondamente.
Trovai quel comportamento esageratamente sproporzionato al peccato di cui la
vecchia si era macchiata. Io e Piera non eravamo andate tante volte a rubare
la frutta dagli alberi?. Si, e i contadini qualche volta ci sgridavano e ci
cacciavano via, ma mi sembravano le sgridate dei miei genitori, non
avvertivo l’ostilità e lo sprezzo che avevo colto in quella donna del
mercato. Al solito le mie impressioni e le mie sensazioni non si accordavano
con quelle degli adulti, e tutto nella mia nuova vita mi sembrava più
urtante, più difficile e più violento.
Quella mattina io ero uscita con mia madre lietamente, come per una
passeggiata, e tornavo a casa con lo stomaco contratto ed un senso di
nausea.
Lo scontro con la vita di città fu quindi traumatico, ed io ne risentii
talmente che mi ammalai d’itterizia. Il pediatra non lo capì e attribuì le
mie nausee e le mie inappetenze a fenomeni nervosi, e disse a mia madre di
non darmi retta e di sforzarmi a mangiare. Lei seguì a puntino, solleticata
nelle sue tendenze all’educazione austera e senza cedimenti, e negli
intervalli dei miei attacchi di nausea, mi preparava un uovo sbattuto con lo
zucchero che, come è noto, è il cibo migliore per chi soffre di fegato. Così
alla fine le cornee mi diventarono gialle e mia madre mi fece vedere al
pediatra il quale alla fine capì. “Strano”, disse battendosi una mano sulla
zucca pelata “aveva tutti i sintomi di una cosa nervosa”, e lo disse come se
un disturbo nervoso non fosse meritevole di nessuna attenzione.
Così finalmente niente più uova e sughi, ma cibi in bianco, pollo bollito,
verdure lesse con olio e limone, tutte le leccornie che io sognavo da quando
era iniziata la mia malattia. Guarii, ma il senso di disagio rimase.
Nanda si sposò poco
dopo la fine della guerra. Fu un matrimonio semplice e tutti accompagnammo a
piedi la sposa in chiesa, e Nanda indossava un vestito corto bianco con la
gonna a corolla e delle scarpe alte con la suola di sughero.
Ricordo che una delle suole si era staccata poco prima di uscire, e
l’onnipresente Roby l’aveva incollata interrompendo per quella mattina la
fabbricazione dei cialdini.
“Roby sta ferrando la sposa”, diceva mio zio Dario, mentre l’altro infilava
i chiodi nella suola battendoli con il martello.
Uscimmo in corso Oporto e io presi sottobraccio Nanda, camminavamo allegri
ridendo come se fossimo usciti per una passeggiata.
Nanda amava ridere e scherzare, amava portare golf morbidi di pelosa lana
d’angora che erano sempre impregnati di un profumo penetrante, e in mano
teneva sempre una “trousse”, una borsettina rigida, rettangolare, che si
chiudeva a scatto e da cui usciva un lembo di un fazzolettino ricamato.
Anche Bonifanti si era sposato. Aveva trovato la sua sposa in Sardegna, una
ragazza con gli occhi neri che si chiamava Maria Chiara. I Boari la
accolsero con calore e la ribattezzarono Marichì, prendendola un po’ in giro
per il suo accento sardo piuttosto marcato.
Marichì era molto riservata, ma a poco a poco si lasciò contagiare
dall’allegra confusione della sua nuova famiglia.
Mimma invece era morta prima della fine della guerra e Gianni le era rimasto
accanto fino all’ultimo e anche papà Boari era morto. La mamma di Mimma era
tornata da sola a Firenze.
Gianni era riuscito ad entrare alla Rai (la Radio Audizioni Italia che dopo
la fine della guerra aveva sostituito l’Eiar), proprio come lui desiderava,
e si muoveva in quell’ambiente così difficile con il consueto garbo e una
disinvolta naturalezza.
Alla radio allora era in voga una trasmissione “la bisarca”, con battute
comiche e macchiette, e lui scriveva alcune scene precedute da una sigla
musicale che diceva “nell’angolo, nell’angolo”, e aveva avuto un certo
successo, tanto che qualche volta si sentiva canterellare in giro la sua
sigla, era quasi diventato un modo di dire se qualcuno faceva qualcosa di
scorretto.
Qualche volta, la sera dopo cena, andavamo a casa dei Boari. In genere c’era
sempre parecchia gente, gente che lavorava alla Rai e anche parecchie
ragazze perché Gianni cercava moglie.
“Me le bocciano tutte”, diceva lui con aria tranquilla riferendosi al resto
della famiglia, madre e sorella in primis, “una perché ha il sedere troppo
basso, l’altra perché ha la risata troppo stupida”, ma lui in realtà non se
ne preoccupava affatto, perché quando poi trovò Annie non badò più a nessuno
e se la sposò.
Annie era una ragazza graziosa a cui piacevano molto i ninnoli e gli oggetti
per agghindare la casa. Quando ormai lei e Gianni si erano fidanzati, aveva
comprato un abat-jour col paralume rosa su cui era disegnata una finestra
con le persiane aperte che davano in un salotto.
Quando si accendeva la luce , il paralume emanava un colore caldo, luminoso,
e anche quel finto interno sembrava una stanza viva ed accogliente.. Annie
aveva portato quella lampada in corso Oporto e io ne ero rimasta
affascinata. Le sere che andavamo da loro, io mi sedevo vicino al tavolino
su cui poggiava la lampada e non staccavo gli occhi da quel paralume rosa
con la luce e le persiane che si aprivano nel salotto. Mi sentivo avvolta
anch’io dal calore di quella luce rosa e facevo finta di essere seduta in
quel salotto che mi sembrava così accogliente, così illuminato. Pensavo che
se avessi avuto una casa mia, avrei voluto anch’io una lampada così.
Mia madre si trovava bene dai Boari, e amava quelle serate perché diceva che
erano allegre senza mai essere volgari.
Io al solito ero l’unica bambina, e quando arrivavo in mezzo a quella gente
che a me pareva elegante, mi sentivo terribilmente goffa. I miei mi avevano
fatto fare per l’inverno un terribile cappotto color fucsia con l’interno
rivestito di pelliccia di agnello color marrone, e io trovavo il mio aspetto
veramente deprimente con quel cappotto gonfio e rigido da cui uscivano due
gambette rivestite di calze marroni pesanti, e ogni volta che arrivavo
distoglievo subito lo sguardo dallo specchio dell’entrata che mi rimandava
impietoso la mia figura.
Passavo la sera guardando gli altri ridere, chiacchierare, mentre alcune
coppie ballavano al centro della grande stanza d’angolo della casa di corso
Oporto che veniva svuotata dei mobili. Rimanevano soltanto delle sedie tutt’intorno
alla stanza, un tavolino con il giradischi e un divano, dove i fidanzati di
turno andavano a sbaciucchiarsi.
Un giorno mamma Lina comprò un pianoforte bianco a coda che aveva trovato
d’occasione. Nessuno sapeva suonarlo, ma lei era felice perché andava pazza
per i pianoforti. Io avevo iniziato a prendere lezioni di piano e mi
facevano sempre suonare, e stranamente io lo facevo con naturalezza, poiché
mi sentivo allora talmente insignificante, che non ero stata ancora
inquinata dai germi dell’orgoglio e della presunzione che generano i timori
della “brutta figura”.
Così cercavo di ricordare a memoria “la gavottina della bambola” o altri
pezzetti che costituivano tutto il mio repertorio.
Qualche volta invece i Boari venivano a casa nostra e si discuteva di
politica.
Ricordo quelle discussioni che duravano serate intere tra nuvole di fumo e
voci concitate, e oggi mi chiedo di cosa discutessero con tanta veemenza
dato che erano tutti della stessa idea, erano tutti del partito d’Azione.
A un certo punto Enzo, il marito di Nanda, decise di passare ai socialisti
di Nenni, e sembrò che la casa stesse per saltare in aria quella sera che ne
parlarono a casa nostra, tanto le voci erano alterate, le sigarette fumate a
metà e poi messe a tacere nel posacenere.
Io sedevo in un angolo della stanza in modo da poter andare e venire senza
dare nell’occhio, e a forza di discorsi ero diventata anch’io una fervente
sostenitrice del partito d’Azione. Ero una bambina che neppure a otto anni
parlava come un adulto, ma non sapeva divertirsi e giocare a moscacieca con
gli altri bambini.
Vivendo sempre insieme agli adulti, cominciai ad osservare cosa facevano,
come si comportavano questi adulti che mi sembravano così sicuri, che
sapevano sempre cosa dire e come comportarsi, che venivano ascoltati quando
parlavano, che esprimevano opinioni da tutti rispettate e i cui scatti d’ira
venivano giustificati, mentre a me pareva che venissero perdonate e
giustificate molte meno cose e che le mie opinioni non fossero tenute nella
giusta considerazione.
Così cominciai ad acquistarmi la fama di una a cui non sfuggiva mai niente,
che notava tutto, e che si ricordava tutto, “una bambina terribile mia
cara”, come mi disse, anni dopo, una nostra amica.
Nell’ottobre del ’45
erano cominciate le scuole ed io iniziai la terza elementare. Ero stata
iscritta nella stessa scuola dove insegnava mia madre, la scuola Federico
Sclopis in via del Carmine, oltre piazza Statuto. In questo modo io andavo e
tornavo da scuola con mia madre. Sapevo ormai che attraversare piazza
Statuto da sola era una cosa inattuabile e che per poterlo fare dovevano
passare parecchi anni.
Così non riuscii a fare amicizia con le mie compagne di scuola che vivevano
tutte al di là della piazza, verso via Garibaldi, non potevo andare a
trovarle o andare a fare i compiti da loro perché era considerato troppo
scomodo.
Mia madre, che aveva attraversato con indifferenza le Langhe per andare a
pranzo dalla signora Palmina, trovava che attraversare due volte in un
pomeriggio piazza Statuto per accompagnarmi e riprendermi, fosse
un’inconcepibile perdita di tempo.
La mentalità cittadina si era già impadronita di lei in quel pigro autunno
del ’45.
Io non portavo più le treccine col fermaglio e il fiocco bianco, portavo i
capelli corti con una frangetta, molto più rapida da pettinare la mattina.
La mia maestra era una donna severa, all’ antica, con i capelli striati di
grigio raccolti in una crocchia sulla nuca e occhi molto scuri molto vivi,
che spiccavano nel viso già segnato, ostentatamente senza trucco. Era
vestita con un grembiule nero rischiarato da un colletto di pizzo bianco, e
pretendeva che anche noi avessimo tutte un colletto bianco sul grembiulino e
il fiocco blu savoia annodato davanti.
A me la mia maestra sembrava una vecchia, così sempre vestita di scuro e col
portamento un po’ curvo. In realtà forse aveva solo poco più di quarant’anni,
perché aveva un figlio ventenne di cui ogni tanto parlava con devozione, e
un marito, di cui invece non parlava mai e che figurava solo nel suo doppio
cognome. Non era vedova, ma si mormorava che fosse separata, una situazione
per quei tempi quasi scandalosa. E mi chiedo oggi cosa si nascondesse dietro
quegli occhi grandi dallo sguardo tanto intenso, mortificati dalla
pettinatura e dagli abiti da vecchia, e quali sconfitte brucianti celasse la
sua maniacale religiosità che confinava col bigottismo.
Era una maestra molto esigente riguardo all’ordine del nostro vestiario,
alla precisione nei compiti e nella calligrafia, e aveva un culto quasi
religioso per i quaderni di bella che dovevano essere tre, uno con la
copertina blu, uno con la copertina verde e uno con la copertina rossa. Su
ogni quaderno doveva essere incollata, dritta e perfettamente in centro un
‘etichetta, su cui lei personalmente scriveva i nostri nomi in grassetto.
I quaderni di bella venivano conservati in tre pile perfettamente regolari
in un armadio a muro che avevamo in classe, e venivano tirati fuori
solennemente uno alla volta dalla capoclasse al momento del bisogno.
La nostra maestra passava ore con le guance arrossate per la fatica a
correggere i nostri quaderni di bella, il volto seminascosto dalla pila dei
quaderni corretti e quella dei quaderni da correggere, mentre noi eseguivamo
qualche disegno o qualche esercizio che ci veniva assegnato per tenerci
tranquille.
Trovavo la scuola buia e triste. La nostra aula aveva tre grandi finestre
coperte di polvere che filtravano l’aria grigia delle mattine grigie
dell’autunno e dell’inverno torinesi. I nostri banchi erano montati su una
pedana e avevano dei seggiolini stretti e un ripiano con un foro al centro
che serviva da calamaio.
Tutte le mattine prima dell’inizio delle lezioni, arrivava la bidella Rina,
grassa, coi capelli unti ben tirati indietro e un contenitore di metallo in
mano che serviva a contenere l’inchiostro e che era fornito di un lungo
becco con cui l’inchiostro veniva versato nei nostri calamai scavati nel
ripiano dei banchi.
Noi intingevamo nei calamai i nostri pennini che scricchiolavano sulla
carta, e che alla minima imperfezione della loro punta, spandevano una
pioggia di minutissime goccioline di inchiostro intorno alle parole che
stavamo scrivendo.
La perfezione dei pennini era il primo dovere di una alunna modello.
Io mi impazientivo a queste prove di precisione e di bella calligrafia, e
osservavo le mie compagne più abituate di me alla disciplina della scuola,
che scrivevano lente e attente sui loro quaderni.
C’era Longo con le treccine ben legate da due fiocchi azzurri e una riga
nera a metà del collo, esattamente dove smetteva di lavarsi, c’era Gianola
con la sua faccia rubiconda e soddisfatta e una famiglia ricca di fratelli,
cugini e parenti che riempivano le sue giornate di corse e di giochi in
comune, giornate esattamente opposte alle mie, segnate dall’introspezione e
dalla solitudine.
C’era Acquaviva dalle lunghe trecce nere e dagli occhi azzurri, magra e
spigolosa, che soffriva di crisi epilettiche. La vedevo ogni tanto
irrigidirsi e contrarsi afferrandosi al banco con le mani. Non capivo il
perché di quel comportamento e nessuno pareva notarlo, neppure la maestra, e
Acquaviva alla fine delle sue crisi si rimetteva tranquillamente a scrivere
come se nulla fosse successo.
Io avevo preso una cotta infantile per Actis, una bambina magra con i
capelli corti e crespi, che parlava con una voce decisa e che trattava tutti
con una cordialità sicura, senza rossori, senza occhi bassi e senza smorfie.
Io smaniavo per andare a giocare a casa di Actis, che naturalmente abitava
oltre piazza Statuto, e le avevo anche chiesto di venire qualche volta a
fare i compiti a casa mia.
Lei aveva sempre rifiutato, e mia madre, con la ferita ancora bruciante per
l’emarginazione subita a causa delle leggi razziali, mi disse di non
insistere, chissà magari forse, i genitori di Actis non volevano frequentare
degli ebrei.
Può anche darsi che avesse ragione, ma non avrebbe dovuto dirmelo, perché
questo aumentò il mio senso di insicurezza e di estraniamento.
Finalmente un pomeriggio riuscii ad essere invitata a casa di Actis.
E’ bene che ogni tanto i nostri sogni si realizzino, per valutare la
beffarda diseguaglianza che esiste tra sogno e realtà, e imparare ad
accettarla con un benevolo risolino interno. Ma neppure la delusione più
cocente ci deve impedire di continuare a carezzare i nostri sogni e
coltivarli come una pianta preziosa che ci nutre e rende meno amara la
nostra vita, e anche se i sogni restano sogni e sappiamo che sognare non è
altro che la nostra scelta per sopravvivere, basta essere consapevoli in
ogni momento che la vita non si dipanerà mai così soavemente come nei sogni
e accettarlo con grazia.
Io allora credevo che i miei sogni facessero parte della realtà. Così, tutta
eccitata, andai quel pomeriggio a giocare da Actis, sognando giochi di
bambina, e confidenze e sensazioni da condividere.
Trovai invece un maschiaccio, che aveva invitato un’altra compagna
maschiaccio come lei, e per tutto il pomeriggio Actis ci costrinse a giocare
alla guerra, a innalzare barricate, a imbracciare fucili di latta, a
marciare a passo cadenzato mentre i suoi occhi brillavano, e lei, le guance
arrossate per l’eccitazione, mimava atteggiamenti militareschi, impartendo
ordini all’altra, che li seguiva senza fiatare, e a me, fiacca e indolente,
che non vedevo l’ora che arrivasse mia madre a prendermi e portarmi via.
Così finì di botto la mia cotta per Actis, come una mela troppo matura cade
con un tonfo dall' albero.
Uno dei primi
problemi che si presentarono a scuola oltre a quello dell’ordine e della
calligrafia, fu l’insegnamento della religione.
In classe, oltre a me che ero ebrea, c’era una bambina protestante, e la
maestra decise, con uno spirito ecumenico che apparentemente contrastava con
la rigidezza della sua osservanza cattolica, e che soprattutto era singolare
dato i tempi, che ciascuna di noi due dovesse studiare il suo libro di
catechismo un argomento per volta, e che poi andasse a ripeterlo alla
cattedra a lei e a tutta la classe.
Mia madre trovò l’idea molto intelligente e aperta , ma io ero piena di
complessi ed ero a disagio.
Per la prima volta non ero più “una come gli altri”, “ma una tra gli altri”,
e mi accorgevo che vivere la mia identità era molto più difficile che
fingere di averne un’altra.
La bambina protestante se la cavava facilmente studiando ogni volta a
memoria un pezzo di salmo che andava a recitare davanti alla maestra con
aria solenne, io invece avevo un libriccino che spiegava i primi rudimenti
della religione ebraica ed era pieno di parole in ebraico, perché in ebraico
dovevano essere indicati i nomi delle festività, degli oggetti sacri, ed io
temevo che le mie compagne mi avrebbero preso in giro quando io avessi
pronunciato quelle parole astruse dal suono così aspro.
Così procedevo con lentezza cercando di evitare il capitoletto dal titolo
impronunciabile: i tefillìm, i zizziòd e la mezzuzà.
I “teffillim”, leggevo sul mio libretto di lezioni di catechismo, “sono due
scatolette di cartapecora a cui stanno appese delle correggiuole per
fermarle al braccio e sulla fronte”. Seguiva una lunga descrizione dei vari
scompartimenti delle scatolette e delle strisce che componevano le
correggiuole.
I “zizziòd” o fimbrie sono fiocchi di lana bianca, composti di quattro fili
addoppiati, dei quali uno, più lungo, si avvolge attorno agli altri in modo
da formare, col numero dei giri, il numero corrispondente al valore numerico
delle quattro lettere che compongono il nome di Dio.
I zizziòd hanno 39 nodi, perché 39 è il valore numerico della somma delle
lettere che compongono la frase: “Dio è uno”.
La “mezzuzà” mi era più famigliare. Anche noi avevamo, come ogni famiglia
ebrea, il nostro astuccio d’argento appeso sullo stipite della porta.
Ma io leggevo tutte queste cose non con i miei occhi, ma con quelli curiosi
e penetranti della mia maestra o con quelli distratti e irridenti delle mie
compagne, e pensavo solo all’effetto che la mia esposizione avrebbe fatto su
di loro.
Non avevo ancora nessun senso di appartenenza all’ebraismo e neppure la
capacità di discernere e di rimanere affascinata, come avvenne in anni più
tardi, dal mistero della solennità gestuale che si identifica sempre con un
numero simbolico. La ginnastica dei numeri e il significato della
numerologia diventarono solo in seguito parte integrante del mio modo
d’essere.
Ma allora ahimè pensavo soltanto a nascondere, simulare e celare tutto
quanto riguardava le mie origini.
Se fossi riuscita a fare le mie lezioncine con semplicità e sicurezza, avrei
probabilmente evitato le risatine soffocate che coglievo qualche volta alla
descrizione delle mie pratiche religiose, o avrei potuto semplicemente
infischiarmene, ma la lunga abitudine a nascondere come colpa tutto quello
che riguardava la mia ebraicità, mi aveva reso pavida e vergognosa, e così
aspettavo sempre con l’ansia l’ora di religione, cercando di esporre le mie
cose in modo da scivolare il più possibile inosservata.
Un altro motivo che mi teneva in tensione era il fatto che mia madre fosse
insegnante nella mia stessa scuola. Ero segnata a dito quando salivo le
scale la mattina o passeggiavo nei corridoi nell’intervallo, “la figlia
della maestra, la figlia della maestra”, sentivo sussurrare alle mie spalle,
inoltre quando ogni tanto mia madre veniva nella nostra classe per parlare
con la mia insegnante, dovevamo scattare tutte in piedi.
Alcune mie compagne in questa occasione mi guardavano ridacchiando e io,
anziché trarre da questa situazione motivo di sicurezza e orgoglio, ne
ricavavo una mesta conferma della mia diversità sempre e comunque ribadita.
Mia madre non andava ai colloqui che la maestra concedeva alle altre madri,
e una volta che io presi un’insufficienza, cosa che non si era ancora mai
verificata, la maestra mandò a chiamare mia madre che venne in classe con
aria allarmata, e di fronte alle alunne tutte in piedi si parlò di questa
scandalosa anomalia di cui mi ero macchiata.
Io, che ero quasi stata contenta di quella insufficienza che mi metteva alla
pari con la maggior parte delle mie compagne che ne prendevano sovente,
rimasi disgustata. Ero stata abituata a studiare a casa con un’ insegnante
tutta per me, e mi trovavo molto avanti rispetto alle mie compagne che
avevano frequentato le scuole in un periodo di guerra e sconvolgimenti.
Trovavo gli esercizi di matematica facilissimi, i pensierini che dettava la
maestra puerili. I voti inferiori all’otto erano considerati da mia madre
brutti voti.
Per questo mi ero rallegrata di quella insufficienza. Dunque era possibile,
poteva capitare anche a me quello che succedeva agli altri, alle mie
compagne. Però pensai che sarebbe stato molto meglio se la maestra gliene
avesse parlato prendendola da parte, anziché chiamarla in classe con timpani
e suoni, tanto più che anche mia madre pareva perplessa dall’aria drammatica
e la concitazione con cui la maestra sventolava il mio disgraziato compito,
additando più volte con l’indice le orribili sviste che avevano fatto
crollare miseramente la mia fama di alunna brillante senza cedimenti.
Così cominciai a manifestare insofferenza, insofferenza per la severa
disciplina di condotta, insofferenza per i castighi dati su indicazione
della capoclasse, che riferiva alla maestra chi si era comportato male
quando lei si assentava.
“Dà ascolto solo alle spie, le piacciono le spione”, sibilavo a mia madre
mentre ritornavamo a casa insieme.
“E’ un’ottima maestra” tagliava corto mia madre.
Io ero brava in italiano e i miei temi venivano sovente letti in classe. Una
volta parlando di mia madre, misi tra parentesi un mio giudizio su di lei
“cuore duro!”, con un punto esclamativo. Era una frase che usciva dagli
schemi di maniera grondanti buoni sentimenti che la mia maestra tanto amava.
Il tema piacque, e mentre la maestra stava leggendo in classe, arrivò il
Direttore. Tutte scattammo in piedi, e la maestra gli fece vedere il tema
con la frase incriminata. Insieme risero, confabularono, e il Direttore mi
chiamò alla cattedra di fronte alla scolaresca sempre dritta in piedi per
chiedermi se avessi scritto quella frase per scherzo o sul serio. Se io
fossi stata coraggiosa fino in fondo avrei dovuto dire: “L’ho scritta sul
serio!”,, perché in effetti era così che la pensavo, invece sentii che le
mie labbra si schiudevano in un sorriso melenso e un po’ idiota a causa di
un dente mancante sul davanti per il cambio dei denti, mentre una voce
sciropposa (la mia) diceva:
“No, l’ho detto per scherzo!”.
Era quello che ci si aspettava che dicessi. La maestra e il Direttore
sorrisero concilianti (spiritosa la bambina), e io decisi con quella scarsa
indulgenza verso me stessa che mi avrebbe tormentata per tutta la vita, che,
visto che non avevo avuto il coraggio di sostenere una mia opinione, avrei
fatto i temi come li voleva la maestra.
“La mia maestra non è contenta se non si finiscono i temi così: ”per fare
contenti i miei genitori e la mia maestra che fanno tanti sacrifici per me”,
avevo detto una volta sarcasticamente a mia madre. Bene, pensai, adesso li
finirò tutti così.
Quanto poi riuscissi a mettere in atto il mio proposito non so, ma
certamente feci molte concessioni a una retorica che non mi convinceva e che
non faceva parte della mia natura e della mia sensibilità.
Il pomeriggio facevo i compiti con grande rapidità, perché mi divertivo e
imparavo in fretta, l’unica croce era la calligrafia di cui la mia maestra
non era mai soddisfatta.
Alcune volte guardavo mia madre correggere i compiti delle sue allieve.
Cominciai anch’io a riconoscerle dalla scrittura, quella ordinata e
perfetta, quella disordinata ma intelligente che non sbagliava mai un
problema, quella ordinata ma ottusa. Cercavo di immaginare le facce dalle
loro scritture, e osservavo attentamente mia madre che metteva i segni con
la matita blu e rossa e poi li contava per dare il voto.
Altre volte accompagnavo mia madre in giro per commissioni. Mia madre
attraversava allora un momento di grande fioritura fisica che rifletteva la
sua felicità interiore. “Dio ci ha fatto uscire illesi dai tedeschi e dagli
inglesi”, mi ripeteva sempre perché le rime le piacevano.
Le piaceva farsi fare molti vestiti e io la accompagnavo dalla sarta, si
faceva fare le scarpe su misura e io la accompagnavo dal calzolaio, che
disegnava premuroso il contorno del suo piede su una specie di cartone che
doveva servire da modello. Una volta le dissi:
“Ma non ti fai fare troppe scarpe?”.
“Hai ragione, forse sto esagerando” mi rispose, ma quello era il momento del
suo trionfo.
Una mattina con la scuola ci portarono in visita al Duomo e alla Cappella
della Sindone. Quando arrivammo in vista della Cappella, io la osservai e
dissi che non mi piaceva perché mi ricordava la base di un carciofo.
Le mie compagne mi guardarono come se avessi bestemmiato orrendamente.
“Un carciofo, la Cappella della Santa Sindone un carciofo!”, ripetevano tra
loro scandalizzate guardandomi con riprovazione. Corgnati, una mia compagna
dalla faccia tonda e allegra, incorniciata da un caschetto di capelli lisci
e fini, tagliò corto alzando le spalle:
“Daie nèn da ment”, disse alla mia esterrefatta compagna di banco”chila li
l’è màc n’ebrea”.
Provai il solito colpo allo stomaco che provavo quando veniva tirata in
ballo la mia religione. Non ci sarebbe stato niente di strano in quella
frase se lei avesse detto semplicemente:
“Non darle retta, lei è ebrea”, invece quel màc n’ebrea, solo un ebrea,
detto con tono altamente spregiativo, mi ferì profondamente. Mi ferì perché
al solito io avevo parlato a ruota libera dicendo quello che pensavo, ma
senza nessuna intenzione di disprezzo, avrei detto la stessa cosa di una
sinagoga se mi avesse ricordato un carciofo, invece nell’espressione del
viso di Corgnati e nella sua frase c’era l’intenzione ben precisa di ferire
e offendere.
Ci riuscì, perché io me ne stetti zitta e mortificata per il resto della
gita, e di quella visita non ricordo altro.
Quando cominciarono
le giornate fredde, installammo nell’ingresso di casa una stufa grigia di
ghisa. La stufa aveva uno sportellino sul davanti e una serie di cerchi
concentrici come coperchio. Era sempre rovente, e il pomeriggio e la sera ci
sedevamo intorno alla stufa con la radio accesa oppure rimanevamo li a
chiacchierare.
Se qualcuno veniva a trovarci, stavamo tutti nell’ingresso alla buona, senza
nessuna formalità. I termosifoni non funzionavano ancora in quel primo
inverno dopo la guerra, ma nessuno se ne lamentava. Non eravamo forse
scampati alla guerra e alle persecuzioni?. Non eravamo forse usciti illesi
dai tedeschi e dagli inglesi?.
Anche se la qualità della nostra vita in città era sotto molti aspetti
migliorata, c’erano ancora molte cose che ci ricordavano la guerra appena
terminata.
Quello che mi aveva colpito di più era il fatto di dover comprare il pane
con la tessera. Avevamo due tessere, una per il pane bianco una per il pane
nero.
A seconda di quanto ne compravamo, la panettiera ritagliava i tagliandi e li
riponeva in due scatole diverse, una con i tagliandi per il pane bianco e
una con quelli per il pane nero.
Mia madre rimpiangeva il pane bianco e la toma di Roddino, l’insalata che
andavamo a raccogliere nei prati e le uova, che a sentir lei in campagna
avevano un altro sapore.
Io invece rimpiangevo la libertà di Sorano e la vita in comune di Roddino,
con continui scambi e chiacchiere con i vicini di camera.
Trovavo noiosa e triste la vita di Torino, ma non osavo dirlo, vedevo
l’espressione lietamente soddisfatta dei miei genitori e cercavo di
adeguarmi, non mi pareva di aver diritto a sensazioni e sentimenti diversi o
addirittura opposti ai loro, ero certa che se mi fossi lamentata avrei
provocato stupore e disappunto, come una nota stonata in una melodia
armoniosa.
Così mi abituai a non dire e a non considerare le cose che per me erano
importanti, e a dire e a tener conto di quelle che per me non lo erano,
continuando per anni una sorta di finzione che alimentava le mie insicurezze
e che mi spingeva a rifugiarmi nei sogli e nelle fantasie.
Leggevo molto e sovente fingevo di vivere con i personaggi dei libri che
leggevo, con i quali parlavo e che parevano accettarmi con semplicità nel
loro mondo.
Anche se cercavo di stabilire contatti e di avere delle amiche, non amavo la
realtà, mi sentivo spesso un’estranea capitata nelle situazioni come per
caso e che non vedeva l’ora di andare via.
Non sapevo considerare i fatti reali con il giusto distacco, non sapevo cosa
volesse dire prendere le cose con filosofia. Mi buttavo invece nei rapporti
con le persone a capofitto, ed era fatale che ricevessi spesso delle
delusioni.
L’urto con la realtà così diversa dai miei sogni, mi procurava sofferenze
vivissime e ferite sanguinanti che curavo rituffandomi nelle fantasie,
perché solo li ero sicura e disinvolta e solo lì tutti si comportavano come
io desideravo.
Poco dopo la fine
della guerra mio padre aveva ricevuto una lettera da Roma con notizie di
tutta la sua famiglia. Erano tutti fortunatamente scampati al massacro, e
per la prima volta vidi mio padre con gli occhi rossi mentre stringeva in
mano la lettera dei genitori e la leggeva a mia madre.
Accompagnato da Bonifanti che forse avrebbe desiderato estendere la vendita
dei suoi cialdini, mio padre riuscì d arrivare fino a Roma e a riabbracciare
i suoi genitori, i suoi fratelli e sua sorella.
Adesso non vedeva l’ora di ritornare a Roma con mia madre e me per far
vedere a tutti come ero cresciuta e per farmi conoscere tutta una parte
della famiglia che io non ricordavo neppure di avere.
Mio padre decise che saremmo partiti all’inizio delle vacanze di Natale
(anno 1945), ma aveva fatto i conti senza l’oste, che in questo caso era
impersonato da me bambina.
Una delle prime reazioni all’impatto con la scuola pubblica, era stato
quello di prendere le cosidette “malattie da bambini”. Io ero vissuta fino
ad allora come in un acquario, immersa nell’aria buona della campagna e
studiando in casa, così alla metà di dicembre del mio primo anno scolastico
ufficiale, mi presi il morbillo. Il dottore si raccomandò che non mi
strapazzassi durante la convalescenza, e mio padre, che a quel viaggio
teneva moltissimo, decise di prendere il vagone letto.
Passammo due notti e due giorni in quel vagone su un treno che era quasi
sempre fermo, e poi proseguiva lentamente sui ponti e sui binari bombardati
e impiegammo quasi 48 ore per arrivare a Roma.
Fummo accolti calorosamente da tutti e ci sistemammo a casa dei miei nonni,
il nonno ottantenne sofferente di cuore, e la nonna di poco più giovane che
si vestiva come se ne avesse più di cento.
Erano due figure antiche, rispettate dai tre figli maschi e dalla figlia che
viveva con loro.
Ci fu un gran raccontare, un ritrovarsi, più per i miei genitori che per me.
Mi trovai improvvisamente in un’atmosfera calda e rumorosa, dove tutto
quello che si diceva o si faceva veniva accettato come facente parte della
saga famigliare, e come tale accolto e rispettato. Anche le sgridate e le
sfuriate improvvise erano senza seguito, erano moti d’impazienza che non
intaccavano per nulla il senso di solida appartenenza al gruppo famigliare.
Trovai dei cugini, tutti più vecchi di me, eccetto una cuginetta piccolina
con cui un giorno giocai al mercato.
“20 lire li carciofi,20 lire li carciofi”, continuava a dire . Anche lei la
mattina andava con sua madre al mercato e mi resi conto che i nostri mercati
appartenevano a universi linguistici differenti. Abramo, il venditore di
carciofi di piazza Barcellona, nelle sue sceneggiate mattinali, non parlava
mai de “li carciofi”.
Anche i miei zii, come noi, avevano molte cose da raccontare.
Uno dei miei zii, nascosti i bambini presso conoscenti, era rimasto chiuso
per sei mesi con sua moglie in un appartamento disabitato, un appartamento
che si trovava sopra un ufficio, per cui erano costretti a rimanere immobili
e in silenzio per tutto il giorno, senza poter neppure andare in bagno.
Verso sera, quando l’ufficio chiudeva, una donna fidata veniva a portar loro
del cibo e a vedere di cosa avessero bisogno.
Essendo solo in due in quell’appartamento, non ebbero per fortuna lo stesso
destino di Anna Frank e della sua famiglia ad Amsterdam e riuscirono a
salvarsi.
Tutti concordavano sul fatto che se Roma non fosse stata liberata nel giugno
del ’44 probabilmente non sarebbero sopravvissuti. Se tutta l’europa fosse
stata liberata nel giugno del ’44 migliaia di vite umane sarebbero state
salvate, tra cui anche i Frank di Amsterdam.
L’altro mio zio era stato cacciato dalla magistratura a causa delle leggi
razziali e si era messo a fare il rappresentante, dopo essersi procurato
delle carte d’identità false su cui aveva messo le generalità di un suo
collega defunto.
Si ricordava che la moglie del collega si chiamava Giulia, ma per fortuna
non se ne ricordava il cognome, perché quando nel gennaio del 44 andò
all’anagrafe a denunciare la nascita di mia cuginetta Giuliana Marini, trovò
allo sportello la vedova Marini la quale, come vide i documenti di mio zio,
giunse le mani:
“Mio Dio, lei si chiama Guido Marini, proprio come il mio povero marito, e
anche sua moglie si chiama come me, che combinazione!”.
Mio zio sorrise sudando freddo, fingendo di partecipare allo stupore
dell’altra.
Il che dimostra come tutto può succedere sempre e in qualsiasi momento.
Mia zia e la sua famiglia si erano rifugiati presso una loro amica e a casa
erano rimasti i miei due nonni, tanto dicevano, a chi volete che interessino
due vecchi come noi.
La mattina dell’ottobre ’43 in cui i tedeschi compirono la famosa retata
nella zona del ghetto, battendo poi la città palmo a palmo alla ricerca
degli ebrei rimasti, mio zio andò a comprare le sigarette, e mentre era in
fila sentì parlare di camion di tedeschi che portavano via gli ebrei
dall’antico ghetto e corse subito a telefonare ai miei nonni dicendogli di
uscire di casa il più presto possibile.
Mia nonna nicchiava, disse che mio nonno era sofferente, che idea uscire al
mattino pesto, che esagerazione con mio nonno malato di cuore, chi avrebbe
portato via due poveri vecchi?.
Questo fu l’ingenuo ragionamento di centinaia di persone anziane che non
riuscivano ad immaginare perché i tedeschi provassero per loro lo stesso
diabolico e nefasto interessamento che avevano verso qualsiasi cittadino di
“razza ebraica”, e prima che potessero riaversi dalla stupefazione e
dall’orrore, furono sbattuti su camion, spinti nei vagoni blindati e gettati
nelle camere a gas, moribondi o vivi che fossero.
Mio zio aveva il grande merito di capire immediatamente le situazioni e di
impugnarle.
Intuì tutto il pericolo e la drammaticità del momento e si mise a telefonare
ai miei nonni ogni cinque minuti strepitando. “Ma come, siete ancora lì?.
Fuori, fuori, uscite, allontanatevi da casa!”.
Così finalmente uscirono di casa i miei vecchi nonni che camminavano con il
bastone e non sapevano dove andare. Decisero di salire su un tram, e presero
la circolare perché faceva un giro molto lungo e loro potevano starsene
tranquillamente seduti fino al capolinea.
Mia nonna Rachele, la pasionaria, con i suoi vestiti lunghi neri e il
cappellino con le decorazioni di tulle arricciato e di violette, che le si
metteva sempre di sghimbescio per la gran passione che metteva nel gestire e
nel muoversi, si mise subito a parlare col bigliettaio confidandogli le sue
pene.
“Ma guardi un po’ due poveri vecchi, sbattuti via da casa la mattina presto
senza saper dove andare. E sa perché? perché siamo ebrei”.
Beata ingenuità che per una volta non fu punita, perché per fortuna in quel
tram non c’era nessun delinquente assetato di sangue che avesse intenzione
di fare la spia.
I miei nonni scesero al capolinea, e poiché non avevano fatto colazione si
sedettero a un bar, “ dove prendemmo una bella cioccolata coi biscotti”,
raccontava con golosità mia nonna che sembrava riassaporarli ogni volta che
ne parlava quella cioccolata e quei biscotti, mangiati in quantità e senza
fretta in barba all’economia di guerra in quella giornata senza regole.
Vagarono tutto il giorno, e al pomeriggio stanchi di girovagare, decisero di
telefonare a casa per avere notizie. A casa c’era la donna di servizio, che
era cattolica, nonostante le leggi razziali vietassero agli “ariani” di
andare a servizio dagli ebrei.
La donna disse che non era venuto nessuno e che lei aveva preparato un brodo
caldo per quando fossero tornati a casa. Mentre stavano parlando i tedeschi
bussarono alla porta e la conversazione fu interrotta. Così mia nonna seppe
che i tedeschi erano arrivati e li stavano cercando. La donna fu portata
via, ma per fortuna fu rilasciata quando videro che non era ebrea.
I miei nonni ripresero la circolare e ritornarono a casa.
“ Appena arrivata, ho messo a letto tuo nonno che aveva un po’ di febbre e
gli ho dato una bella tazza di brodo caldo”, mi raccontava mia nonna.
Così quella tragica giornata dell’ottobre del ’43 fu per mia nonna
punteggiata da due tazze di liquidi caldi e confortanti, la cioccolata al
mattino e il brodo alla sera.
La venuta dei tedeschi l’aveva però allarmata, perché si era resa conto che
erano ricercati ed erano sfuggiti per caso tra le maglie della rete, e così
dopo cena s’attaccò al telefono e chiamò il medico di famiglia che li
conosceva da anni.
Con il suo aiuto riuscì a far ricoverare l’indomani in ospedale mio nonno
sotto falso nome e riuscì a trovare per lei stessa una sistemazione
provvisoria a casa di una conoscente.
Fu provvidenziale, perché i tedeschi ritornarono. Dopo la grande retata
continuarono la loro caccia per giorni, casa per casa….
I miei zii e i miei nonni possedevano una vasta rete di amicizie e
conoscenze con cui vi era u fitto intersecarsi di gentilezze e favori dati e
ricevuti, e fu così che trovarono delle persone in temporanee difficoltà
economiche che occuparono il loro alloggio e s’incaricarono di custodire le
loro cose fino alla fine della guerra.
I beni degli ebrei, scappati o deportati che fossero, erano considerati per
legge proprietà pubblica e chiunque poteva appropriarsene.
Per questo la nostra casa era stata occupate dai Bonaglia, una legge
sciagurata gliene dava diritto.
Mia zia giungendo le mani, diceva: “Niente, non avevamo capito niente. Lo
sapete cosa pensavo io?. Pensavo: beh, se mi prendono pazienza, dicono che
ci mandano a lavorare in un campo di lavoro, a me il lavoro non ha mai fatto
paura, vuol dire che ne approfitterò per vedere un po’ di Germania che
ancora non conosco. Avete capito cosa pensavo?. Non avevamo capito niente,
non sapevamo niente.”
Adesso sapevano, adesso sapevano.
Un suo cognato col figlio erano stati deportati ad Auschwitz e solo il
figlio Emilio era tornato.
Emilio veniva tutte le sere a casa dei miei nonni per salutare gli zii e
stare un po’ in compagnia, e tutte le sere lo facevano raccontare.
Lui raccontava di come era stato preso, di come era arrivato nel lager, del
suo soggiorno e di quando erano arrivati i russi a liberarli. Emilio era un
ragazzo buono che non indulgeva nei racconti di orrore, infatti di quei
racconti io ricordo molto poco, eccetto di una volta che con dei compagni si
erano passati dei pezzi di patata cruda attraverso un pertugio della latrina
per cercare di calmare la fame.
Così la sera eravamo seduti tutti in circolo intorno ad Emilio che sedeva al
centro, e quando veniva il momento del racconto della liberazione del campo,
mio nonno Giulio voleva che Emilio si girasse verso di lui.
Voleva essere sicuro di sentirlo bene mio nonno il racconto della salvezza,
e Emilio obbediente si girava verso di lui, che lo fissava coi suoi occhi
infossati e intenti da vecchio, occhi che a poco a poco diventavano rossi
per l’emozione e da cui a volte scendeva, lenta e faticosa, una lacrima.
Poiché Emilio era una persona semplice, accettò con semplicità il suo
destino e la crudeltà senza giustificazioni dei suoi aguzzini, e riuscì a
ricostruirsi una vita normale.
Però alcune volte, specie nei primi anni dopo la guerra, io videvo ogni
tanto nei suoi occhi un’ espressione intensa e disperata. L’intensità e la
disperazione di quello sguardo mi colpirono, e notai la stessa disperata
intensità nello sguardo di altre due persone, in quello di una donna
anch’essa reduce da Auschwitz e negli occhi della vedova di uno dei fratelli
Rosselli, che incontrammo per caso un’estate due anni dopo la fine della
guerra.
Erano sguardi di persone che pareva non vedere nulla di quanto succedeva
intorno al di fuori del loro mondo fatto di ricordi strazianti.
L’ambiente della mia famiglia romana era caldo rumoroso e affettuoso. Tutti
partecipavano a quanto succedeva agli altri con esclamazioni, commenti,
consigli.
Non ero abituata ad essere circondata da tanta attenzione se ero stanca, se
avevo una linea di febbre, se non avevo fame.
I miei cugini mi trattavano i modo amichevolmente affettuoso, e mia zia
organizzò in mio onore una festa di bambini in occasione della Befana, e mi
vestì con un bel costume fatto da lei, e mi mise del rossetto sulle labbra e
mi diede un cestello con dei piccoli doni da distribuire agli invitati.
Voleva che mi sentissi la reginetta della festa. Io invece ero
imbarazzatissima per il vestito, per il rossetto, per tutta quella gente che
non conoscevo e che sembrava invece conoscermi perfettamente, per i sorrisi
che non avevo il coraggio di ricambiare, per i complimenti a cui non ero
abituata e che mi sembravano eccessivi.
Era un’irruzione improvvisa di un mondo nuovo, che però in qualche modo mi
apparteneva, nel mondo in cui avevo vissuto fino a quel momento e che
sentivo a loro estraneo, sconosciuto.
Se avessi raccontato ai miei cugini della campagna, di Fido, di Pulin, di
Piera, della signora Palmina, delle nostre andate a messa, del mio disagio a
scuola nello spiegare la mia religione, del mio senso di diversità e di
solitudine, sentivo che non sarei stata capita.
I miei parenti erano dei cittadini, romani per giunta, e consideravano tutto
ciò che era campagnolo, piemontesi inclusi, come "“buzzurro"” inoltre erano
degli ebrei convinti e orgogliosi di esserlo.
Mia nonna diceva tutti i giorni le preghiere in ebraico con gli occhiali sul
naso, leggendo il libro che ormai conosceva a memoria senza bisogno di
traduzioni italiane accanto, come avevano invece i nostri libri di
preghiere. Verso il tramonto, qualunque cosa stesse facendo, l’interrompeva
per andare a dire la preghiera della sera, che recitava rivolta verso
oriente, verso Gerusalemme.
La casa di mia nonna si trovava nel centro di Roma, e tutti quelli che
passavano di lì, parenti e conoscenti, venivano a dare un saluto, perché mia
nonna era sempre disponibile e lieta di avere visite ed era sempre a casa.
“Non sono mai stata bella, ma piacevo per il mio carattere”, mi disse una
volta che le chiesi se da giovane era bella.
Così per casa circolavano tante persone, fatte sedere pomposamente in
salotto se considerate di riguardo, o costrette a seguire mia nonna nelle
sue faccende, anche in cucina, se in confidenza. Ma tutti, nell’eloquio
appassionato di mia nonna, erano chamati “amore mio” o “core mio”.
Non era certo il luogo per coltivare introspezione e solitudine.
Tornai da quel soggiorno romano eccitata e frastornata. Ero eccitata da
tutte le persone nuove che avevo visto e conosciuto, dal diverso modo di
vivere, più libero e senza regole rigide, con orari fluttuanti e irregolari
che si uniformavano ai ritmi variabili e imprevedibili della vita romana.
Però ero anche frastornata, e una parte di me anelava ritornare alla quiete
della mia stanza, alle regole prestabilite, al tempo dedicato alle letture e
alle fantasticherie.
Tornai senza troppi rimpianti alla monotonia della vita di Torino e ai miei
parenti torinesi.
Anche alla mia nonna di Torino chiesi se da giovane era stata bella.
“No”, mi rispose “ero brutta, e adesso che sono vecchia sono ancora più
brutta, sembro una strega”. Non era affatto stata brutta mia nonna, da quel
che si poteva vedere dalle fotografie, e non era brutta neanche da vecchia,
con la sua figura asciutta e gli occhi grigio-azzurri un po’ sognanti, era
un atteggiamento dell’animo il suo, sopraggiunto con la vecchiaia e con la
guerra, totalmente opposto a quello della mia nonna di Roma.
Eppure le caratteristiche di entrambe erano già ben impresse nel mio
patrimonio genetico e cozzarono insieme durante tutta la mia vita, senza che
riuscissi a far prevalere quelle dell'una o dell'altra.
Anche se ero rimasta affascinata dalla vita, dal movimento e dal calore
della mia famiglia romana, neppure a Roma avevo trovato una realtà in cui
inserirmi con naturalezza.
Così tra indecisioni e insicurezze, improvvise e lancinanti sofferenze e
altrettanti improvvisi soprassalti di gioia, passarono gli anni delle
elementari, passò l’infanzia.
Non posso dire di avere della mia infanzia molti buoni ricordi. C’è un unico
periodo che ricordo colorato, con impressioni di vivacità, di allegria e di
comunità di vita, con la presenza costante di mia madre accanto a me, ed è
il periodo passato a Roddino d’Alba, alla Trattoria dei Cacciatori.
Mentre finivo di rileggere questo manoscritto è avvenuto l’attacco alle
torri gemelle di New York.
Improvvisamente tutto quello che avevo scritto mi è apparso lontano e opaco
di fronte al nuovo ciclo che si è aperto, con i suoi strascichi di violenza
e di orrore.
Gli ebrei sono di nuovo al centro di un nodo di odio e il loro piccolo stato
e chiunque gli sia amico sarà di nuovo oggetto di persecuzione.
La storia ha dimostrato che l’antisemitismo, la caccia e il vilipendio degli
ebrei sono la spia che indica la decadenza morale e civile di un popolo, ma
nessuno sembra averne memoria.
Il nuovo Hitler ha una figura ieratica, neri occhi vellutati, ma il suo
cuore è pieno di odio e la sua mente ha deliri di potenza. Ha centinaia di
milioni di seguaci sparsi per il mondo come mine vaganti.
La sincerità. L’amore per la libertà, il coraggio, le virtù che brillano al
sole, non servono più.
Occorrono l’intrigo, la doppiezza, la capacità d’ingannare, di aggirare e di
colpire a tradimento.
Dice il Talmud:”Quello che coltivai con odio crebbe rapidamente, ma la
pioggia lo distrusse. Quello che coltivai con amore germinò lentamente,
maturò tardi, ma i suoi frutti furono ricchi e rigogliosi.”
E adesso che avverrà?. Questa esplosione inaspettata di violenza ci ha
svegliato tutti dal letargo e dalla finta illusione di quiete duratura in
cui credevamo di vivere.
Gli ebrei dicono che l’esistenza del mondo poggia sulle spalle di trentasei
Giusti e che ciascuno di loro sopporta la trentaseiesima parte del fardello
del mondo intero. Speriamo che reggano poiché, “se anche tutto il mondo
divenisse folle, nessuno di loro deve allontanarsi neppure di una spanna dal
posto nel quale Dio lo ha posto”.
Sento le loro spalle tremare e i loro occhi appannarsi di fronte a tutto
l’odio, la violenza e l’ipocrisia che contaminano il mondo.
Pochi mesi prima di essere deportata Anna Frank scriveva:” Quando guardo il
cielo sento che tutto volgerà nuovamente al bene e che ritorneranno la pace
e la serenità”.
Oggi non mi pare di poter pensare una cosa simile. Se l’avvento di Hitler,
di Stalin, se gli orrori e le morti che hanno punteggiato tutto il secolo
scorso hanno prodotto solo l’11 settembre, quando guardo il cielo mi sento
solo una persona che ha alzato la testa per guardare il cielo.
Non so se tutto l’universo a un certo punto esploderà, e non so neppure se e
a che prezzo potremo provare di nuovo un senso di sicurezza nell’avvenire
senza questi sentimenti di timore e precarietà.
Anch’io adesso, quando mi sveglio al mattino, provo sovente un “serrement du
coeur”, pensando alla situazione del mondo e al nostro futuro, esattamente
come succedeva a mia nonna circa sessant’anni fa, perché tra tante parole mi
sembra soltanto che si cerchi disperatamente di ritardare una tragedia di
dimensioni cosmiche.
Spero veramente di sbagliarmi e solo il futuro lo dirà.
Emilia Piperno