(Il gioco del finale)
corto
Settantotto anni e un vestito di seta, colorato di vita, appoggiato alla seggiola impagliata strana, appositamente sistemata di fronte al letto perché fosse ben visibile. E lo divorava con gli occhi, quell’abito, quasi fosse un babà, che ormai da trent’anni non toccava più per il suo maledetto diabete Che la stava spingendo all’ultimo viaggio. Se l’era fatto fare per i suoi ventuno anni, quell’abito, per l’ingresso nella vita adulta, nella vita ufficiale di femmina, più che di donna. Erano gli agitati dialoghi con il suo corpo, quei gialli e quei rossi e quegli arancioni. Erano una vita di vita. Vera. La vita reale invece era scandita dal nero: del lutto. Un crescendo: a sei anni bottoncino per tre mesi a ricordare il cuginetto, e poi camicetta da mezzolutto per sei mesi in onore dello zio, e ancora nero totale, ma la testa scoperta, per tre anni a ricordare la mamma, e infine anche la chioma ingabbiata dal buio del velo in memoria del marito.Una cappa. Perenne, come una condanna senza appello. E quell’abito non era mai stato indossato. Guardato, ammirato, carezzato, vezzeggiato, provato e riprovato nella penombra dei suoi giorni, sì. Ma mai indossato. E il suo maledetto diabete non le dava più tregua. Quelle orribili macchie occupavano le sue gambe come la malattia si prendeva il suo tempo. Inesorabilmente.
skydive
Un dì le preghiere furono ascoltate. Chiuse gli
occhi dolcemente: mai la morte fu tanto pietosa.
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sole
Rosso.Giallo. Arancione. |
lilu
Si alzò lentamente dal letto e si avvicinò al vivace abito: una carezza alle pieghe, un ricordo d'arancio in un tramonto primaverile, un pensiero di giallo per un mare estivo mai conosciuto, una passione di rosso soltanto immaginata... accarezzò il velo della sua vita invernale e lo tolse dal capo poggiandolo ai piedi del letto, di fronte al babà. Sbottonò il corpino e lo sfilò con gentilezza, quasi per portar rispetto alle anime dei suoi cari. Lo prese a due mani e lo adagiò sul letto, sopra il velo, come si accompagna un bambino addormentato la sera, facendo attenzione a sistemarlo correttamente, senza che le orecchie si pieghino e si deformino, senza che il viso si stropicci durante la notte. Con attenzione e delicatezza. E poi si guardò allo specchio, quello antico con intrecci e rose, di legno, attaccato per la vita ai cassetti della sua biancheria. Nera, timida, composta. Tornò con gli occhi all'abito. Lo accarezzò di nuovo, mentre i peli delle braccia reagivano al freddo e le ricordavano la sua pelle colorata, variopinta come le pieghe dell'abito. Aprì i bottoni ad uno ad uno, infilò l'abito dalla testa, annaspando per trovare la direzione giusta: le braccia infilate per caso, la testa emersa all'improvviso. E cercò di chiuderlo, guardando con la coda dell'occhio la sua schiena chiazzata alla specchiera. Un bottone. Il secondo, senza difficoltà il terzo ed anche il quarto. Ancora magra, forse di più, con il seno cadente che non riusciva a riempirle il corpino, le gambe corte e strette che ballavano tremanti tra le pieghe. Un orrore. Un vero orrore. Restò a guardarsi allo specchio per minuti, lunghissimi minuti mischiati alle lacrime, incredula per la vita persa, portata via da presenze oscure che l'avevano pitturata di nero. I ventunanni mai vissuti, mai compresi, mai sorrisi, mai festoni. E fece di corsa le scale, annaspando, inciampando, cadendo ai piedi della rampa e trascinandosi fino al camino, dove si spogliò con violenza, quella piccola forza che le era concessa, e strappò l'abito buttandone i brandelli nel fuoco. Insieme ai sogni dei suoi ventunanni. |
dav
Ma da tempo aveva smesso di essere impressionabile.
Né quelle dannate macchie, né il bel sogno di seta che l'avevano
sottratta per un attimo al suo solito IO, erano impressionanti quanto
l'improvvisa convinzione che la realtà le fosse sfuggita. |
corto
L'ABITO
Settantotto anni e un vestito di seta, colorato di vita, appoggiato alla
seggiola impagliata strana, appositamente sistemata di fronte al letto perché
sia ben visibile. E lo divora con gli occhi, quell’abito, quasi fosse un babà,
che ormai da trent’anni non tocca più per il suo maledetto diabete Che la
rende ormai prossima all’ultimo viaggio. Se l’era fatto fare per i suoi
ventuno anni, quell’abito, per l’ingresso nella vita adulta, nella vita
ufficiale di femmina, più che di donna. Erano gli agitati dialoghi con il suo
corpo, quei gialli e quei rossi e quegli arancioni. Erano una vita di vita.
Vera. La vita reale invece è stata scandita dal nero: del lutto. Un crescendo:
a sei anni bottoncino per tre mesi a ricordare il cuginetto, e poi camicetta da
mezzolutto per sei mesi in onore dello zio, e ancora nero totale, ma la testa
scoperta, per tre anni a ricordare la mamma, e infine anche la chioma ingabbiata
dal buio del velo in memoria del marito. Una cappa. Perenne, come una condanna
senza appello. Quell’abito non è mai stato indossato. Guardato, ammirato,
carezzato, vezzeggiato, provato e riprovato nella penombra dei suoi giorni, sì.
Mai indossato, però. E il suo maledetto diabete non le dà più tregua. Quelle
orribili macchie occupano le sue gambe come la malattia si prende il suo tempo.
Inesorabilmente. E lo sguardo corre lungo la leggerezza del tessuto, tramato
d’attesa.
A fatica si leva.
Nonostante gli impicci delle anchilosi, s’infila nella cascata di colori e
imbocca la porta, mentre le lacrime rabbuiano il giallo del revers.
Felici.