Allo
zoo, un’aquila. Era appollaiata su un ramo, con lo sguardo fisso e perso
nell’infinito. Attirai la sua attenzione. Fu un attimo. Due occhi taglienti
come lame mi trapassarono da parte a parte lasciandomi solo con il mio stupore.
Poi lentamente e con fare quasi spezzante volse nuovamente lo sguardo al cielo.
E’ ingabbiato il corpo non lo spirito, riuscite a capire?, mi aveva comunicato
ed il messaggio era arrivato forte e chiaro. Non c’era né disperazione né
dubbio ma solo la rassegnata consapevolezza d’essere in ogni modo prigioniera
di un’avida carcassa limitatrice.
Mi torna in mente un minaccioso prete dell’oratorio che ripeteva
ossessivamente “…e se muori vai all’inferno!”…già… ma se
l’inferno fosse proprio questo?
OKTOBERFEST
18 anni, la maturità appena
presa. Dopo un’estate passata all’insegna del divertimento e prima
dell’università, il meritato viaggio a Monaco di Baviera. Strada facendo
vedemmo i cartelli: Dachau. “Non è distante, vogliamo andare a vedere? Si!”
La risposta fu pronta e immediata e non poteva essere altrimenti per tre ragazzi
in vena di “cazzeggio” liberi e con il mondo in tasca. Caricammo le
fotocamere e ci avviammo.
Il campo, museo nazionale, era volutamente tenuto in perfetto ordine, come se la
raccapricciante macchina dovesse riprendere a funzionare da un momento
all’altro. Un’oscena sensazione d’efficienza ci seguì per tutto il
percorso. Uscimmo annichiliti.
A viaggio terminato il simpatico momento delle foto. Sfogliando gli album,
nessuno chiese perché mancassero quelle di Dachau, non furono necessarie
spiegazioni: ognuno di noi poteva vederle negli occhi dell’altro.
VOLARE
La prima volta che mi sembrò di
volare avevo 14 anni circa.
Ero nella Roma pallanuoto e la società mi faceva gareggiare anche nel nuoto per
racimolare qualche punto in più nella classifica a squadre. Partecipavo con
sufficiente spirito agonistico perché essendo pallanuotista ritenevo
”superfluo” impegnarmi più di tanto.
Mi allenavo, quindi, con tutti i tesserati, anche con un ragazzino smilzo e
apparentemente gracile arrivato da poco. Negli allenamenti era sempre dietro di
me ma non quel giorno alle gare dei cento stile libero. Possibile ?
Mi ritrovai a nuotare come non mai ed arrivai prima di lui. Mentre stremato
riprendevo fiato sentii tutti che si congratulavano con me; ero arrivato primo,
io che al massimo lottavo per il terzultimo posto.
A 17 anni non avevo ancora chiaro cosa significasse volare. Pensavo
semplicemente che fosse un’azione propria degli uccelli, ma non era così.
I primi sentori li ebbi durante il corso di paracadutismo civile quando,
stremato dalla fatica ma pressato dall’allenatore (l’avrei ucciso,
l’aguzzino!), rabbiosamente completavo quell’esercizio in più che mai e poi
mai credevo di portare a termine oppure mi ritrovavo a vincere la paura di
saltare su di un telo tondo che a sette metri di altezza lo vedi grande come una
pizzetta.
Poi militare.
Maledetto muro! Avevo la tecnica, avevo le capacità fisiche ma 2 metri e 30 di
vile mattone era un ostacolo che avevo “dentro”. Erano tutte
“fotografie” le mie: rincorsa, piede puntato, slancio in alto e “ciaff”,
mi ritrovavo spiaccicato sulla parete, disperatamente aggrappato, con i piedi
che cercavano un inesistente appoggio che mi aiutasse a scavalcarlo.
Il giorno degli esami presi la rincorsa e mi ritrovai, come volando,
dall’altra parte.
Strano! Mi sembrava di aver dato sempre il massimo durante gli allenamenti!
Lentamente presi coscienza del fatto che oltre il fondo c’è ancora parecchio
da grattare. Una riserva di energia psicofisica, apparentemente inaccessibile,
di cui non immaginavo nemmeno l’esistenza.
Feci il primo lancio e poi ancora fino a quando, cominciai a guardare altri
colleghi che nella stessa disciplina facevano di più. Possibile?
Feci morire la cosa ma poi a distanza di tempo lo spirito imbrigliato ruppe le
catene.
Mi ritrovai nuovamente a dover superare prove su prove e prima di affrontarne
una delle tante, all’improvviso capii. Il ragazzino smilzo, l’istruttore, il
muro, i colleghi altro non erano che elementi di disturbo che minacciavano la
tranquillità del mio piccolo mondo, nel quale ero richiuso e dentro il quale mi
sentivo così sicuro. Erano loro che di volta in volta rompevano quel guscio di
false certezze che racchiudeva la mia paura di non riuscire. Fu allora che capii
di essere in grado di vincere, di avere già in me la forza di riuscire. In quel
preciso istante, come per magia, tutta l’energia di quella riserva divenne
disponibile, saltai dall’aereo e giù nell’infinito in caduta libera.
Stavo volando!
Un paracadutista
(questa mia breve testimonianza non vuole essere un’esaltazione delle capacità
infinite dell’uomo. Ci sono dei limiti imposti dalla realtà che non possono
essere ignorati.
La reale valutazione delle proprie capacità e la serena accettazione di esse è
un atto così coraggioso e difficile che solo l’essere umano forte (sia
maschio che femmina) può compiere. Per cui se vi ritrovate secondi a qualcuno
sappiate perdere sportivamente. Non dimenticate mai però che oltre un palmo dal
vostro naso c’è sicuramente un nuovo traguardo verso il quale dovete sempre
tendere, perché, se è vero che “l’importante è partecipare”, è
altrettanto vero che vincere è meglio)