La Conquista dell'Oro Maledetto

L'immagine mitica di nani detentori di straordinari tesori, sovente sorvegliati da bestie mostruose, è presente in tutto il folklore europeo. Altrettanto nota è la tradizione dell'eroe che riesce a trafugarli, grazie ad armifatate o ad abili sotterfugi. A questi tesori, creati da oscure potenze etonie, è legata quasi sempre una maledizione, uno scatenarsi irrefrenabile di sciagure e disgrazie che, inesorabilmente, colpiscono gli illegittimi possessori. I tre motivi ora descritti compaiono, collegati l'uno all'altro, nella complessa vicenda narrata qui di seguito.

A volte, celati in antri cavernosi o sotterrati nelle viscere della terra, era possibile rinvenire tesori di inestimabile valore, delle vere montagne d'oro fulvo e di stupendi gioielli. Ma non tutti conoscevano l'origine di tali ricchezze, gli avvenimenti che in tempi remoti portarono alla loro creazione. E nemmeno gli eroi, i leggendari progenitori dei condottieri nordici, impegnati nella conquista degli aurei bottini, ne conoscevano tutti gli intricati retroscena, i significati reconditi e le malie che li circondavano. Accadde così che il celebre Sigfrido conquistasse un immenso tesoro senza conoscerne tutta la storia: il dedalo di remoti avvenimenti che più volte gli antichi poeti narrarono, tentando di dipanarlo e di spiegare le innumeri sventure che vi erano legate. La storia inizia con il trio divino formato da Odino, Loki e Hoenir, inseparabili compagni d'avventura che, annoiati dalla beatitudine celeste, scendevano sulla terra, esplorando il mondo intero. In una di queste loro peregrinazioni, gli dèi giunsero nei pressi di un fiume limaccioso e, per diletto, ne seguirono il corso fino ad una cascata. Qui, seminascosta dalla vegetazione lussureggiante, scorsero una lontra che stava mangiando avidamente un salmone appena pescato nelle acque gelide della cascata. li perfido Loki, approfittando di quel momento, raccolse una pietra dal greto del fiume e, con quanta più forza aveva, la scagliò contro l'ignaro animale, uccidendolo all'istante. Vantandosi di aver preso due prede con un sol colpo, Loki mostrò la lontra ed il salmone ai suoi compagni: avevano fame e quello era proprio il cibo che preferivano! Cosi, senza perdere tempo, si diressero verso una fattoria lì vicino e chiesero ospitalità, aggiungendo che avevano cibo in abbondanza. Era la dimora di Hreidhmarr, un contadino esperto di arti magiche, un uomo molto potente. Hreidhmarr si mostrò entusiasta dell'offerta divina ed apri la porta, invitandoli ad entrare. Ma non appena scorse la lontra nelle mani di Loki, chiamò con un urlo bestiale i suoi figli, Fafnir e Reginn. Con mossa fulminea, padre e figli immobilizzarono gli Asi, cogliendoli di sorpresa. Poi, lanciando loro degli sguardi roventi, il contadino disse che avevano ucciso suo figlio Otr il quale, trasformatosi in una lontra grazie ad uno dei suoi incantesimi, era andato a pescare. Del resto, aggiunse, si chiamava Otr, «Iontra», proprio per questa sua abitudine. Il terzetto divino, ben conoscendo i nefasti influssi delle malie di Hreidhmarr, gli disse d'essere disposto a pagare qualsiasi prezzo, qualsiasi quantità d'oro per ripagarlo della perdita del figlio. Allora, con gesti sicuri, il contadino scuoiò la lontra e ne prese la pelle, facendone un involucro: mostrandolo agli dèi, disse che dovevano portarglielo ricolmo d'oro massiccio e di gioielli. Odino inviò Loki, l'unico adatto a tal genere di missioni, nei territori degli Elfi neri, i nani che dimoravano nelle profondità della terra: solo essi, infatti, possedevano simili tesori. Loki inoltre conosceva bene le vie tortuose del sottosuolo e, forte della sua esperienza di «tessitore d'inganni», sapeva come catturare Andvari, un nano famoso per i tesori che custodiva. Andvari ogni giorno si trasformava in pesce ed andava a tuffarsi nelle acque di un lago: Loki non fece altro che catturarlo mentre si trovava in acqua e, minacciandolo di morte, si fece condurre nella caverna dove era nascosto l'oro. Il nano gli consegnò il suo immenso tesoro: una miriade di monili cesellati in oro finissimo; pepite grosse come pani e gemme preziose in quantità. Andvari, pensando di sfuggire all'occhio vigile di Loki, tentò di trattenersi un anello, un piccolo cerchietto d'oro davvero insignificante in quella marea luccicante. Ma Loki fu lesto: si impadronì anche dell'anello. A nulla valsero le preghiere del nano che sperava, partendo da quell'unico residuo del suo tesoro, di riuscire a riempire nuovamente i suoi forzieri. E fu allora che Andvari lanciò la sua maledizione: chiunque avesse posseduto quell'anello sarebbe stato travolto da un mare di guai. Loki ascoltò le parole del nano e, dando il suo assenso, replicò che lui stesso avrebbe fatto conoscere la profezia ai futuri padroni dell'anello. Carico d'oro, Loki fece ritorno alla casa-prigione di Hreidhmarr e mostrò il suo bottino ad Odino. Il padre degli dèi, inspiegabilmente, prelevò dalla massa aurea l'anello maledetto e lo nascose. Fu chiamato il contadino per procedere al pagamento del riscatto: la pelle di lontra, sicuramente per virtù di qualche magia truffaldina, si gonfiava a dismisura, accogliendo con voracità intere montagne d'oro e preziosi. Ma, alla fine, il budello si riempì, colmo del tesoro di Andvari: mancava solo l'anello sottratto da Odino. Scaltro ed ingordo fino all'inverosimile, Hreidhmarr indicò un minuscolo spazio della pelle rimasto vuoto: bisognava riempirlo, disse, altrimenti non avrebbe rispettato i patti. Allora Odino fu costretto a riempire quel vuoto con l'anello che aveva sottratto di nascosto. Solo allora l'astuto contadino liberò gli dèi. Appena fuori dalla casa, quando non c'era più nulla da temere, Loki raccontò della maledizione di Andvari e, con la dovuta solennità, pronunziò le formule magiche che l'avrebbero attivata: quell'oro sarebbe stato la rovina di chiunque lo avesse posseduto. Prima di narrare il seguito della storia, gli antichi fabulatori facevano osservare che, nei versi dei poeti nordici, era possibile trovare espressioni come «riscatto della lontra» oppurè «riscatto forzato degli Asi» o ancora «metallo del litigio»: tutte perifrasi per indicare l'oro, che si ricollegavano alla storia del prezzo pagato dagli dèi per riconquistare la libertà. Gli influssi malefici dei tesoro non tardarono a manifestarsi: nella dimora di Hreidhinarr scoppiò un furioso litigio. I due figli contestavano al padre il possesso dell'oro: anch'essi, fratelli di Otr, fonte di quell'improvvisa ricchezza, avevano diritto ad una parte del@ riscatto. Ma, stringendo tra le mani callose il forziere ricavato dalla pelle del figlio, Hreidhimarr rifiutò con sdegno di consegnare anche un solo pezzo del «metallo del litigio» a Reginn e Fafnir. E un giorno, con l'animo ormai annebbiato dai sogni di ricchezza, i due fratelli uccisero il padre: l'oro maledetto aveva fatto la sua prima vittima. I due parricidi, però, non ebbero pace: subito dopo si azzuffarono, per spartirsi il maltolto, dimenticando i vincoli di sangue. Alla fine Fafnir, che era il più violento dei due, ebbe la meglio e, senza pietà, cacciò di casa il fratello. Fafnir prese l'elmo fatato usato dal padre per le sue magie: lo chiamavano l'elmo del terrore perché chi lo vedeva tremava, spaventato a morte da quell'orrida visione. Inoltre, sempre saccheggiando il misterioso arinamentario paterno, egli si impadronì della spada, l'invincibile Hrotti e, portando con sé la pesantissima pelle di lontra, si rifugiò nelle oscure contrade di Gnita. Qui, con circospezione, si scavò una tana profonda nella roccia e, recitando arcane formule, si trasformò in un drago, una bestia mostruosa che lanciava lingue di fuoco dalle nari e dalle fauci. Da quel momento, accovacciato sulla pelle di lontra, Fafnir non si allontanò mai dal tesoro, tenendo alla larga chiunque osasse passare per quelle terre. Intanto Reginn aveva iniziato a peregrinare per il mondo, finché un giorno arrivò alla corte del re Hiaìprekr di Thiodhi, divenendo il suo fabbro di fiducia. L'abilità di Reginn, la sua valentìa nel forgiare armi ed utensili, furono conosciute anche nel regno di Sigmund della stirpe dei Volsunghi, che, come allora si usava, decise di affidargli l'educazione di suo figlio Sigfrido. Seguendo gli insegnamenti del suo tutore, questi divenne in breve tempo un nobile condottiero, famoso per la sua maestria nel ma neggiare armi e per il coraggio e la lealtà innati. Quando Reginn ritenne che il suo protetto fosse pronto per imprese degne di essere cantate nei carmi dedicati agli eroi, gli raccontò del tesoro custodito dal drago e, parlandogli del sopruso che aveva dovuto subire, lo convinse a partire per conquistare quelle immense ricchezze. Le mani di Sigfrido brandivano la spada chiamata Garmr, forgiata ovviamente da Reginn: essa aveva una lama talmente affilata che l'eroe riusciva a tagliare in due un filo di lana trascinato dalla corrente di un fiume. E per provarne la solidità Sigfrido aveva colpito con violenza l'incudine di Reginn: la spada non si scalfi minimamente, mentre l'attrezzo metallico si spezzò in due parti, attraversato longitudinalmente dalla portentosa lama. Reginn accompagnò Sigfrido a Gnita e gli mostrò la tana del drago Fafnir: insieme studiarono le mosse del mostruoso custode. Solo una volta al giorno il drago abbandonava la sua caverna, ma sempre con il tesoro ben stretto nelle sue grinfie, per andarsi a rinfrescare nelle acque di un fiume lì vicino. Allora l'eroe scavò una buca lungo il percorso abituale di Fafnir e, senza farsi scorgere dal drago, si calò dentro. Quando, come ogni giorno, Fafnir si mosse, fu costretto a strisciare sulla fossa: con tutta la sua energia Sigfrido gli conficcò, dal basso, la spada nel ventre, dilaniandolo a morte. Solo dopo l'uccisione del drago rispuntò Reginn, che era rimasto nascosto chissà dove, ordinandogli di estrarre il cuore del drago e di arrostirlo: voleva mangiarlo per acquisire i poteri magici del padre. Nel frattempo, il fabbro raccolse il sangue che usciva a fiotti dal corpo del fratello e lo bevve ancora caldo. Subito dopo, saziato dal caldo liquido, si sdraiò e cadde in un sonno profondo. Sigfrido, fedele agli ordini del suo tutore, aveva estratto il cuore di Fafnir e, conficcatolo su uno spiedo, lo stava arrostendo. Poco dopo, per saggiarne la cottura, lo tastò con un dito e si scottò. Avvenne allora un prodigio inspiegabile: l'eroe avvicinò il dito scottato alla lingua per mitigare con la saliva il calore dell'epidermide e, proprio in quell'istante, si rese conto d'essere in grado di comprendere il linguaggio degli uccelli. Ancora stupito per quell'improvvisa virtù, l'eroe udì le parole che, nel loro cinguettio, delle cince gli rivolgevano: esse lo mettevano in guardia contro Reginn, che progettava, dissero, di ucciderlo per impossessarsi dell'oro. Spinto da quelle rivelazioni, Sigfrido si avvicinò con passi felpati al fabbro traditore e, sorprendendolo nel sonno, lo uccise. Poi stipò tutto l'oro appartenuto al nano Andvari nelle borse laterali che portava appese alla sella del cavallo, un magnifico stallone di nome Grani. Nessuno sa come riusci a far entrare quella massa aurea nelle bisacce di cuoio della cavalcatura: evidentemente adoperò una di quelle magie ereditate scottandosi il dito con il cuore di Fafnir. Ormai poteva ripartire, pronto ad accrescere la sua fama con nuove eroiche gesta. E da allora in poi fu famoso come «Sigfrido, l'uccisore del drago».

 

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