Il Furto Delle Mele Di Idhunn

Il sogno di un'eternagiovinezza il poter fermare l'inesorabile trascorrere dei giorni con qualche incantesimo ignoto ai comuni mortali, è riflesso, sotto varie forme, in molte tradizioni. Il mito nordico, trovando sorprendenti paralleli con quello greco dei giardino delle Esperidi, racconta di splendidi pomi d'oro, inestimabili frutti destinati agli dèi che, accogliendoli sulle loro mense, sono preservati dalle ingiurie della vecchiaia.

Anche gli dèi, nelle fredde ed interminabili serate invernali, amavano aflietare i loro ospiti con il racconto di vicende accadute in tempi remoti e, rinnovando il ricordo dei pericoli superati, trarre preziosi insegnamenti e speranze per il futuro. Quella sera il sacro concilio degli Asi aveva accolto il re Aegir e, dopo un sontuoso banchetto, Bragi, il più abile tra loro nella nobile arte della conversazione conviviale, si alzò ed iniziò a raccontare come, «tanto tempo fa ... », gli dèi avessero perso e riconquistato le mele di ldhunn. Ovviamente tutti i presenti conoscevano lo straordinario potere celato negli aurei frutti custoditi gelosamente da ldhunn, moglie di Bragi, in una cassettina di frassino. Essi infatti iniettavano, per così dire, sempre nuova vita nelle vene divine, infondendo loro una inesauribile linfa vitale che invano fattucchiere e maghi tentavano di ricostruire in pozioni e filtri destinati ai creduloni. Bragi, accarezzandosi la fluente barba, narrò di quando Odino, Loki e Hoenir uscirono dalle mura di Asgardh, tentando ancora una volta di soddisfare il loro inesauribile desiderio di avventura. il trio divino, marciando senza sosta, visitò diverse contrade, scalando monti ed attraversando valli, contemplando paesaggi mai scorti da occhio umano. Immersi nella solitaria bellezza di fiordi incontarninati e respirando quell'aria frizzante, forse più celestiale di quella di Asgardh, gli dèi ebbero fame, bisogno umanissimo presente, e con proporzioni cormmisurate alle loro doti, anche negli Asi. I divini viaggiatori udirono, proveniente da una valle attigua, il caratteristico rumore di una mandria di buoi al pascolo. Quei muggiti suonarono alle loro orecchie come una musica dolcissima e in un attimo si avvicinarono agli animali, davvero esemplari magnifici, e catturarono il bue più in carne, quello più degno di figurare in un banchetto divino. Non restava che allestire un gigantesco seydir. ripetendo gesti che gli antichi nordici ben conoscevano, gli dèi scavarono una profonda fossa nel terreno e, tra due lastre di pietra arroventate dal fuoco, misero il bue, ricoprendo il tutto con un coperchio vegetale fatto di rami e di foglie. Con sapienza, di tanto in tanto, soffiavano sul seydir, mantenendo la brace costantemente ardente. Ma quando, passato il tempo necessario, pensarono che il bue fosse ormai cotto, si accorsero che l'animale era ancora crudo: come se l'intenso calore sprigionato da quel forno primordiale non lo avesse lambito nemmeno per un istante. I tre allora ricoprirono il seydir con il fogliame e, dopo aver ravvivato ulteriormente la brace, si rimisero in paziente attesa. Trascorso un bel po' di tenipo, gli dèi, certi ormai di colmare il loro crescente appetito, si avvicinarono al seydir e lo scoprirono: anche questa volta però la carne era rossa, sanguinolenta, assolutamente immangiabile. Di fronte a quel mistero i tre rimasero di stucco e, animatamente, presero a discutere tra loro, tentando di capire come potesse essere accaduta una cosa del genere. Ma nemmeno il padre degli dèi, riusci a fornire con la sua sapienza una spiegazione di tale insolito e sconcertante avvenimento. Avviliti e delusi, i tre stavano per abbandonare quel luogo sicuramente impregnato di oscure malie, quando, dai rami di una quercia, sentirono una voce. I tre si voltarono di scatto e videro un'aquila gigantesca: fieramente appollaiata, la «signora degli uccelli» affermò con tono deciso di essere stata lei ad impedire la cottura dell'animale. Il maestoso rapace, destando sempre più la curiosità divina, aggiunse che essi avrebbero inutilmente tentato di cuocere il bue se prima non le avessero offerto una porzione. I tre, dopo una breve consultazione,
acconsentirono: temevano che sotto le spoglie dei volatile si celasse una potenza locale da ossequiare. Come d'incanto, il profumo del bue cotto si sparse immediatamente tutt'intorno, stimolando ancor di più i sensi degli dèi. Planando con le possenti ali sul seydir, l'aquila prelevò con gli artigli la sua porzione: due cosce e le due spalle! Davvero un consistente «boccone» sottratto all'appetito divino e, senza dubbio, un'affermazione di superiorità che suonò come un cocente affronto alle orecchie di Loki. Il dio, rompendo il doppio vincolo del patto e delle regole di ospitalità, afferrò una pertica e prese a colpire l'ingordo rapace. Con estrema agilità l'aquila riuscì a stringere con gli artigli l'asta e con un possente battito d'ali s'alzò in volo, trascinando il furioso Loki aggrappato all'altro capo della pertica. L'aquila si allontanò velocemente, raggiungendo altezze smisurate, fino a sfiorare le sommità dei monti. Loki, involontario fardello, si agitava disperatamente: più volte i suoi piedi urtarono contro le cime di altissime querce, causandogli atroci dolori ed orrende ferite. E temendo di precipitare, dato che sentiva le braccia staccarsi dal tronco, Loki supplicò l'aquila di depositarlo da qualche parte: in cambio le avrebbe dato qualsiasi cosa. Il rapace, con un ghigno feroce, rispose che lo avrebbe risparmiato solo se gli avesse portato le mele dell'eterna giovinezza custodite da ldhunn. Pur di placare l'ira dell'aquila ed evitare una morte tremenda, Loki promise di portarle i sacri pomi, sottraendoli alla loro depositaria. Così Loki ebbe salva la vita e, tornato ad Asgardh, iniziò ad elaborare uno dei suoi piani truffaldini per aggirare l'ignara ldhunn. Puntando sulla vanità che alberga in ogni cuore femminile, Loki le si avvicinò raccontandole con il suo tono suadente e mellifluo che in un bosco, poco distante dalle mura di Asgardh, esistevano delle mele molto più belle d quelle da lei custodite. Ornando le sue parole con incomparabile abilità riuscì a convincerla a recarsi con lui nel bosco, portando con sé le preziose mele per confrontarle con i favolosi pomi che aveva veduto. Giunti fuori le mura di Asgardh, lontano dagli sguardi divini, Loki condusse ldhunn in una radura circondata da alberi secolari. All'improvviso udirono uno sbattere fuimineo di ali il tipico segnale d'arrivo delle aquile e difatti apparve l'aquila che tanta impressione aveva fatto sul trio divino. Loki, ben conoscendo la potenza del volatile, si fece da parte, lasciando la povera ldhunn in balia dei possenti artigli del rapace che, scorta la sua preda, l'afferrò, portandola con sé verso mete remote. Prima di spiccare il volo però, l'aquila svelò la sua vera identità: era il gigante Thiazi, signore di Thrymheim, uno dei più importanti regni dello Jótunheim. Ora che non potevano più addentare le portentose mele ed assaporarne la fresca polpa rivitalizzante, gli dèi divennero grigi, malsicuri sulle gambe, offrendo lo spettacolo non certo esaltante di una improvvisa caducità. Ovunque in Asgardh regnava la malinconica rassegnazione che contraddistingue i vecchi, desiderosi solo di por fine ai loro giorni. Le mele e la loro custode erano sparite da un giorno ab'altro: sicuramente c'era stato un traditore, un vile che aveva consegnato il segreto dell'eterna giovinezza nelle mani dei loro nemici. Odino, anch'egli affiìtto dagli acciacchi della vecchiaia, convocò l'assemblea divina per scoprire e punire l'eventuale traditore. Non ci volle molto per appurare che l'ultimo ad essere stato visto insieme ad ldhunn era stato Loki e, conoscendo la sua innata malvagità, fu facile capire che lui solo avrebbe potuto macchiarsi di una colpa così infamante. Gli dèi si strinsero intorno a Loki e, coprendolo di sguardi di odio, minacciarono prima di torturarlo e poi di ucciderlo se non avesse riportato tra loro gli aurei pomi. Come era solito fare in occasioni simili, Loki si fece prestare da Freya il manto di penne di falco che ella possedeva e, indossatolo, spiccò il volo, diretto alla terra dei giganti, nel lontano Nord. Dopo un po' avvistò la dimora di Thiazi e, muovendosi con abilità nel suo travestimento pennuto, atterrò lì vicino. Con circospezione si avvicinò ad una finestra della reggia e, visto che il gigante non c'era, vi penetrò. Qui trovò ldhunn in lacrime: era divenuta la serva di Thiazi. Ma la dea gli disse di non temere: il gigante era uscito in barca per una delle sue solite battute di pesca e sarebbe ritornato più tardi. Senza perdere tempo, Loki, con un incantesimo, trasformò ldhunn in una minuscola noce e, tenendola stretta con i suoi artigli posticci, si alzò in volo, sperando di riuscire a mettere tra sé ed il gigante una sufficiente «distanza di sicurezza». Intanto però Thiazi era ritornato e, accortosi dell'assenza della dea e dei suoi pomi, si trasformò nell'aquila ormai famosa e si lanciò all'inseguimento dei fuggitivi: in brevissimo tempo avvistò lo strano falco che si dirigeva veloce come il vento verso la cittadella divina. Gli dèi scorsero nel cielo di Asgardh Loki ed il suo inseguitore e, secondo una tattica già attuata altre volte con successo, formarono grossi mucchi di trucioli e li misero al centro della piazza della città. Quando Loki ed il suo passeggero atterrarono, gli dèi appiccarono il fuoco. L'aquila, che nel tentativo di ghermire il falco si era abbassata fino a toccare terra, fu lambita dalle fiamme che, ormai altissime, si levavano dalle pire di trucioli. Pronti a raccogliere i frutti di quell'insolita «contraerea», gli dèi trafissero con le loro lance Thiazi. L'eco dell'impresa di Loki e dell'uccisione di Thiazi giunse fino ai gelidi territori dei giganti. Skadhi, la figlia di Thiazi, animata dalla disperazione e dall'odio, si preparò a
soddisfare la sua sete di vendetta. Armata fino ai denti d'una pesante corazza e d'uno spesso elmo, Skadhi si presentò fiera e minacciosa alle porte di Asgardh. La sua presenza intimorì non poco gli dèi che ben conoscevano la furia devastatrice della forza e dell'odio, una miscela esplosiva che più di una volta aveva animato le feroci incursioni di giganti incolleriti. Per tentare di evitare morte e distruzioni, gli dèi inviarono messaggeri proponendole di scegliersi uno di loro come sposo, a patto, però, che lo scegliesse guardando i loro piedi, senza cioè poterne conoscere l'identità. Insomma le offrivano la possibilità di divenire una dea, un essere venerato dai mortali. La proposta piacque alla gigantessa che però pose un'ulteriore condizione per rinunziare alla vendetta: gli Asi dovevano farla ridere. Il concilio divino accettò la bizzarra richiesta e si diede il via, come prima cosa, all'inusuale cerimonia di «scelta dello sposo». Gli Asi si presentarono al cospetto di Skadhi con il corpo completamente coperto dagli indumenti: solo i piedi erano visibili. Esaminando le estremità divine, la ragazza scelse il dio che aveva i piedi più bianchi: pensava che fosse Balder, il figlio di Odino celebre per la sua bellezza ed innocenza nonché per il candore della carnagione. Ma Skadhi si era lasciata trarre in inganno: si trattava di Njdrdhr, il dio che aveva perennemente i piedi nel mare, cosicché
la salsedine glieli aveva completamente imbiancati. Bisognava adesso soddisfare la richiesta di Skadhi, ma nessuno, guardando il volto accigliato e corrucciato della gigantessa, pensava che si sarebbe lasciata andare al minimo segno di allegria: era davvero impossibile immaginare un racconto faceto o una figura comica capace di rimuovere da quel viso la rabbia e la tristezza. Eppure la fantasia perversa di Loki, dominatore assoluto in simili occasioni, escogitò una scena davvero esilarante: il signore degli inganni legò una corda alla barbetta di una capra e, denudatosi, fissò l'altro capo della fune al proprio scroto. La capra ed il dio, intimamente legati, si tiravano l'uno con l'altro ed emettevano, ognuno secondo la sua natura, delle grida di dolore. Loki, poi, con una vocettina querula, mischiava alla schietta espressione di dolore dei gridolini di piacere, simulando una grossolana eccitazione. La scenetta ebbe termine quando Loki, mimando gli spasimi che precedono l'orgasmo, si lasciò cadere sul grembo della gigantessa che, non potendosi più trattenere, proruppe in una sonora risata. Gli antichi poeti nordici, nel raccontare questo episodio, ricordavano come il riso smuova ogni situazione di crisi, sanando ogni screzio con la sua gaia sonorità. Skadhi si riconciliò con gli Asi che l'accolsero tra di loro. Odino infine, quale ulteriore guidrigildo per la morte del padre, trasformò gli occhi di Thiazi in due stelle, che gli antichi nordici sapevano individuare nell'affollato firmamento: erano chiamate «occhi del gigante».

 

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