Kvasir Poersia

Il «furore» non è solo quello che anima i micidiali guerrieri devoti ad Odino, ma è presente anche nella tematica affascinante e misteriosa della creazionepoetica, laddove ilpoeta nordico si considera invasato da un «sacro fuoco» che lo sconvolge. Nella tradizione nordica Odino diviene perciò il dio dei poeti, l'ispiratore ed il creatore stesso del poetare inteso come rapimento estatico che conduce all'estraniamento dal proprio sé. Un lungo e complesso racconto mitico fonda ed alimenta tale tradizione, arricchendola di stratiftcazioni e di significati simbolici presentando Odino come il portatore della poesia tra gli uomini. P In quell'epoca remota, tempo felice in cui gli uomini potevano ancora guardare in faccia gli dèi e parlarci, il saggio Kvasir, l'orgoglioso figlio degli sputi divini degli Asi e dei Vani, girava per il mondo. Messaggero della suprema saggezza che aveva allontanato la rovina e le distruzioni causate dalla «prima tra le guerre», egli rispondeva a qualsiasi quesito, anche se difficilissimo: era il ritratto vivente della pacata sicurezza del saggio, immagine limpida della sincerità e della innocenza. Un giorno, durante una di quelle sue peregrinazioni terrestri, Kvasir capitò a casa di due nani, i fratelli Fialarr e Galarr. Ignaro della perfidia e della malvagità che regnavano in quel mondo, Kvasir offrì il suo sapere ai padroni di casa, esponendo con semplicità i segreti della vita umana, i capisaldi di una filosofia della felicità. Ma i nani, personificazioni abnormi della viltà e dell'ignoranza più ottusa, non sapevano che farsene delle sentenze di un essere saccente e noioso. Irritati ed annoiati, i perfidi fratelli uccisero il figlio dei dèi con uno stratagernrna, nella cui arte erano maestri. Non ancora paghi dell'orrendo crimine, i due nani si macchiarono di un altro scellerato misfatto: recisero le vene di Kvasir e ne raccolsero il sangue in tre recipìenti. Son, Bodhn e Odherir - «ciò che eccita lo spirito» - furono i nomi che diedero ai truci contenitori. Al prezìoso liquido, succo vitale estratto dal più saggio degli esseri, aggiunsero del miele, producendo un idrornele capace di far diventare poeta o studioso chiunque avesse avuto la fortuna di berne anche una sola minuscola goccia. Agli dèi, insospettiti per la scomparsa di Kvasir, i due malvagi fratelli dissero che egli era morto soffocato dal suo stesso sapere. Dopo alcuni giorni, a casa dei due assassini arrivarono, chiedendo ospitalità, il gigante Gillingr e sua moglie. E anche questa volta i due nani infransero le sacre regole dell'ospitalità, confermandosi biechi servitori delle forze del male. Invitarono il gigante a fare una gita in barca con loro e, secondo un piano degno della loro scelleratezza, lo gettarono in mare, ben sapendo che non sapeva nuotare. Ovviamente il gigante affogò, patendo impotente la violenza dei marosi e l'astuzia dei nani. Intanto la moglie del gigante, affranta per la scomparsa dello sposo, non smetteva mai di piangere e di lamentarsi. Ma le sue calde lacrime non potevano certo intenerire due campioni di malvagità come Fialarr e Galarr: le litanie dell'infelice e sventurata vedova finirono con l'esasperare Fialarr, stanco di essere tormentato dal suono monotono delle sue lamentazioni. Cosi, d'accordo con il fratello e rinnovando la tacita intesa di cattiveria che li univa, decise di eliminarla. Si trattò di una fine orribile: promise di condurla sul luogo esatto dove era affogato Gillingr. Ma quando la donna si affacciò sulla porta per seguire il nano, Galarr, appostatosi in alto, le fece cadere sulla testa un enorme macigno ricavato da una vecchia macina di mulino. Un tremendo spettacolo si offrì alla vista dei due che, soddisfatti della loro crudeltà, contemplarono i frammenti di cervello spappolato che lordavano il terreno circostante. Nello Jdtunheim, intanto, il figlio di Gillingr, il feroce Suttungr, non riusciva a capire come mai i suoi genitori non fossero ancora ritornati dal loro viaggio e, temendo che fosse accaduto qualcosa di spiacevole, si mise in cammino, ripercorrendo lo stesso itinerario dei genitori. Suttungr, dopo alcuni giorni di marcia, giunse nei pressi dell'abitazione dei nani assassini: non ci volle molto per indagare e conoscere i loro crimini. Deciso a non lasciarsi irretire dalla malefica astuzia dei nani, il gigante catturò i due fratelli prima che potessero capire chi fosse. Memore delle sofferenze inflitte ai genitori, egli studiò un castigo esemplare: li legò saldamente ad una roccia che doveva essere sommersa dalla prossima marea. Una morte lenta causata dalle gelide acque marine era proprio ciò che meritavano! Ma anche questa volta Fialarr e Galarr, sicuramente protetti da qualche divinità maligna, riuscirono a farla franca: prima che le onde iniziassero a lambire lo scoglio, promisero a Suttungr il prezioso idromele della saggezza se li avesse lasciati liberi. Il gigante non seppe resistere alla tentazione di divenire il possessore di un tale inestimabile tesoro agognato dagli dèi e dagli uomini, ed accettò, sacrificando i doveri filiali sull'altare della propria ambizione. Avuto il sensazionale liquido, Suttungr fece ritorno nella terra dei giganti. Qui, conscio del valore dei tre recipienti, nascose il prezioso bottino in un anfratto roccioso chiamato Unitbjorg, «roccia del catenaccio». Nell'oscura caverna, a guardia del tesoro costato la vita dei suoi genitori, Suttungr esiliò la sua giovane figlia, la bella Gunnlddh, unica persona al mondo della quale sapeva di potersi fidare. In Asgardh, però, erano stati in pochi a credere alla versione dei nani: Odino poi, con il suo dono dell'onniveggenza, conosceva bene il vero svolgimento dei fatti e preparava la sua vendetta. Il padre dei dèi, indossati i panni di uno dei suoi innumeri personaggi terrestri, partì deciso a riconquistare l'idromele divino. Dopo un lungo viaggio, Bólvekr, -«malfattore» - questo il nome assunto dal dio in tale occasione -, arrivò nella terra dei giganti. Qui, in un campo sconfinato, nove giganti stavano tagliando con le loro immense falci le bionde spighe di grano maturo. li «malfattore», adoperando tutta l'eloquenza di cui era capace, propose ai giganti di affilare le lame delle loro falci con una pietra che, assicurò, avrebbe dato risultati eccezionali, raddoppiando la velocità del taglio e dimezzando la loro fatica. Difatti, dopo l'affilatura, le falci divennero leggerissime: le spighe cadevano al suolo ad un ritmo mai visto e i nove colossali contadini non credevano ai loro occhi. Immaginando quanto lavoro avrebbero risparmiato con quel portentoso utensile, chiesero al misterioso viandante il prezzo della pietra molaia. L'arrotino ambulante, con sottile ironia, preannunciò che in ogni caso sarebbe stato un prezzo altissimo e, all'improvviso, scagliò in aria la mola. I nove, nel tentatìvo dì afferrarla e di impadronircene, si azzuffarono violentemente, formando una mischia inestricabile: la pietra, che intanto stava volteggiando su di loro, precipitò come una bomba sul groviglio di membra gigantesche. Dopo l'impatto con l'insolito proiettile, si vide il campo di grano irrorato dai fiotti di sangue dei giganti, dilaniati e menomati da tremende ferite. Il proprietario del terreno, Baugi, fratello di Suttungr, scoprì subito i cadaverì ormai in putrefazione dei suoi contadini. Proprio in quell'istante, seguendo un preciso piano, Bolvekr finse di passare per la prima volta da quelle parti: il viandante chiese ospitalità per una notte al gigante, trovando perfino parole di cordoglio per l'inspiegabile disgrazia. Una volta a casa di Baugi, il dio riuscì a convincere il gigante ad assumerlo: gli promise che sarebbe riuscito a fare da solo il lavoro dei nove giganti. Ma pose un'unica condizione: quale ricompensa desiderava solo un sorso della magica bevanda che era custodita da Suttungr. Il gigante, un po' sorpreso per la strana proposta, obiettò che non poteva certo di sporre a suo piacimento degli averi del fratello ma che, comunque, si poteva sempre tentare: in ogni caso, prima i risultati e poi la ricompensa! Bdlvekr, forte dei suoi reconditi poteri, riusci a fare tutto da solo e alla fine dell'estate, consegnò a Baugi una quantità eccezionale di grano. li gigante, stupito ed estasiato alla vista dell'aureo raccolto, non poté che dichiararsi soddisfatto: avrebbe accompagnato l'occasionale contadino dal fratello. Suttungr, nonostante le parole del fratello, rifiutò e, con sdegno, affermò che mai nessuno avrebbe bevuto una sola goccia di quel liquore portentoso. Ma Odino non si arrese: si fece accompagnare da Baugi alla caverna dove era nascosto l'idromele. Qui il dio riuscì a perforare la parete granitica con un trapano fatato e con un altro incantesimo si trasformò in un lungo serpente: in quelle sembianze striscianti penetrò nella fessura. Baugi, attonito ed intimorito, sbirciò nel foro, nel vano tentativo di afferrare il rettile, ma Odino soffiò con forza nella breccia e, simili a dolorosi proiettili, decine di scaglie appuntite trafissero l'incauto gigante. Allora Baugi, accecato e beffato, non potè far altro che inveire contro il contadino-serpente. Intanto, proseguendo nella sua missione, Bólvekr scivolò veloce fino a raggiungere l'antro dove la bella Gunnlddh custodiva gelosamente i tre recipienti. Il serpente sfoderò tutte le sue arco; di eterno tentatole e seduttore defl'animo femminile: per ben tre notti giacque al fianco della bella. Avvinta nelle sue spire, assaporando, dopo una lunga segregazione, le gioie di un fenomenale amplesso, la fanciulla non seppe negare al suo occasionale amante tre sorsi della bevanda da lei custodita. La sete di Odino era davvero senza fondo: con il primo sorso svuotò Odherir; con il secondo Bodhr e, con l'ultimo, anche Son fu svuotato. Raggiunto il suo scopo, il «malfattore», incurante delle lacrime della giovane sedotta, si trasformò in un'aquila e, volando più veloce che poteva, fuggì con in corpo tutto l'idromele. Anche Suttungr, saputo del doppio furto - la bevanda e l'onore della figlia - assunse le sembianze di un grosso volatile e si lanciò all'inseguimento del dio. Dopo un po' i due straordinari uccelli vennero avvistati nel cielo di Asgardh: gli dèi conoscendo la vera identità del maestoso rapace ed il segreto che custodiva nel gozzo, prepararono dei capaci tini nel cortile della città divina ed accesero dei grossi falò. L'aquila-Odino, sentendosi minacciata dal gigante alato, sputò il prezioso liquido nei tini. Intanto le fiamme accese dagli dèi lambirono le ali di Suttungr che, ormai a corto di trucchi magici, stramazzò al suolo. Nella fretta di sputare l'idromele, Odino fece cadere una goccia fuori dalle mura di Asgardh: quella goccia, chiamata «porzione del poeta pazzo», può dare l'ebbrezza del poetare a chiunque riesca a trovarla. Ecco perché gli antichi poeti nordici dicevano che la poesia è un dono o un furto: in ogni caso, poiché l'ìspirazione umana viene sempre da quella unica goccia, folli e poeti sembrano parlare la stessa lingua.

 

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