Don Ennio Provera

S C I E N Z A     E     F E D E

Appunti per un corso di catechesi

Seminario di Bergamo anno 1995

 

 

1 .  BIBLIOGRAFIA

2 . LA  SCIENZA,  OGGI

2.1  IL  GRANDE

2.2  IL  PICCOLO

2.3  IL  COMPLESSO

2.4  L’IRREVERSIBILE

2.5  LE  APPLICAZIONI

2.6  CONCLUSIONI

3 . ALCUNI  ELEMENTI  INTRODUTTIVI

3.1  MOMENTI  DI  CRISI

3.2  IL  MITO  DELLA  SCIENZA

3.3  IL  FONDAMENTALISMO

3.4  CONCLUSIONI

4 . SCIENZA  E  FILOSOFIA

4.1  LA FILOSOFIA  DELLA  SCIENZA

4.2  LA  FILOSOFIA:  PANORAMA  STORICO

4.3  LE  DUE  IPOTESI  FONDAMENTALI

4.4   RAPPORTI TRA  FILOSOFIA  E  SCIENZA

4.5  CONCLUSIONI

5 . SCIENZA  E  FEDE:  PROBLEMI

5.1  SCELTE  CON  CUI  CONCORDIAMO

5.2  CHI  NON  PENSA  DI  CHIUDERE  IL  CERCHIO

5.3  CHI  PENSA  DI  CHIUDERE  IL  CERCHIO  IN  MODO  DIVERSO  DA  NOI

5.4  CHI  PENSA  DI  CHIUDERE  IL  CERCHIO,  MA  TROPPO  PRESTO

5.5  CHI  PENSA  DI  CHIUDERE  IL  CERCHIO  UNA  VOLTA  PER  TUTTE

5.6  ALCUNI  PROBLEMI  SPECIFICI

5.6.1  “DIO  E  LA  NUOVA  FISICA”

5.6.2  LA  BIOLOGIA:  L’EVOLUZIONE  E  IL  CASO

5.6.3  L’ORIGINE  DELL’UOMO

5.6.4  IL  PECCATO  ORIGINALE  E  LA  MORTE  COME  CASTIGO

5.6.5  IL  PROBLEMA  DI  INTELLIGENZE  ESTRATERRESTRI

5.7  CONCLUSIONI

6 . SCIENZA  E  FEDE:  PROSPETTIVE

6.1  LA  STRUTTURA  DEI  VARI  APPROCCI  ALLA  REALTÀ

6.2  LO  SPECIFICO  UMANO  E  LO  SPECIFICO  CRISTIANO

6.3  IL  CONTRIBUTO  DELLA  SCIENZA

6.4  CONCLUSIONI

7 . APPENDICE.  PRESENTAZIONE  E  COMMENTO DI “SCIENZA E FEDE” DI  J. POLKINGHORNE

7.1  PREMESSA

7.2  LA  NATURA  DELLA  SCIENZA

7.3 LA  NATURA  DELLA  TEOLOGIA

7.4  INTERAZIONE  TRA  SCIENZA  E  TEOLOGIA

7.5  IL  RUOLO  DELLA  “TEOLOGIA  NATURALE”

7.6  CONCLUSIONI

 

1. BIBLIOGRAFIA

 

*          AA.VV.: “Valori, Scienza e Trascendenza”, Volume secondo, Edizioni della Fondazione

            Giovanni Agnelli, Torino, 1990.

 

 

*          Evandro Agazzi: “Scienza e fede”, Massimo, Milano, 1983.

 

 

            F. Tito Arecchi, Iva Arecchi: “I simboli e la realtà”, Jaca Book, Milano, 1990.

 

 

            Gaspare Barbiellini Amidei: “La riscoperta di Dio”, Rizzoli, Milano, 1984.

 

 

            Paul Davies: “Dio e la nuova fisica”, Arnoldo Mondadori, Milano, 1984.

 

 

            Carlo Fiore: “Il confronto scienza-fede”, Dossier dalla rivista “Dimensioni”, 1992.

 

 

*          Carlo Fiore: “Scienza e fede”, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1986.

 

 

            Mario Gargantini: “Uomo di scienza, uomo di fede”, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1991.

 

 

            Stanley L. Jaki: “Dio e i cosmologi”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1991.

 

 

*          Stanley L. Jaki: “La strada della scienza e le vie verso Dio”, Jaca Book, Milano, 1988.

 

 

            Siro Lombardini, Dario Antiseri, Massimo Baldini: “C’è ancora spazio per la fede?”,

            Rusconi, Milano, 1992.

 

 

*          John Polkinghorne: “Scienza e fede”, Arnoldo Mondadori, Milano, 1987.

 

 

            Thomas F. Torrance: “Senso del divino e scienza moderna”, Libreria Editrice Vaticana,

            Città del Vaticano, 1992.

 

 

            Claude Tresmontant: “Cristianesimo, filosofia, scienze”, Jaca Book, Milano, 1983.

 

2 . LA  SCIENZA,  OGGI

 

 

Prima di entrare direttamente nel tema del corso vogliamo presentare un panorama, anche solo sommario, della Scienza contemporanea, mettendo l’accento sugli aspetti più significativi della ricerca attuale. Avremmo la pretesa di comunicare almeno qualcosa del sapore, del gusto, del fascino della ricerca scientifica.

Ci piace caratterizzare i tre grandi campi di lavoro scientifico, cioè l’Astronomia, il mondo atomico (e subatomico) e il mondo vivente, con tre etichette, tre nomi simbolici che ne esprimano le caratteristiche più tipiche: il GRANDE, il PICCOLO, il COMPLESSO; aggiungendo poi, per una certa completezza, due altre etichette: l’IRREVERSIBILE e le APPLICAZIONI.

 

 

2.1  IL  GRANDE

 

Con questo nome intendiamo riferirci agli studi che riguardano l’Universo, cioè l’Astronomia da un lato, che indaga sui “fatti” e la Cosmologia dall’altro, che elabora le “teorie” dell’Universo nel suo complesso, nelle sue origini, nella sua lunghissima storia.

L’Universo è grande. Questo è un dato di fatto, ma la sua effettiva grandezza è di gran lunga al di sopra della nostra più fervida immaginazione. Vediamo.

 

Lo spazio: l’Universo ha un “diametro” conosciuto di almeno quaranta miliardi di anni-luce. Infatti nell’agosto 1986 è stata scoperta una “quasar” (cioè un oggetto “quasi stellare”), distante circa venti miliardi di anni-luce dalla Terra. Quindi, per ragioni di simmetria, cioè con riferimento ad una distribuzione abbastanza uniforme di materia nell’universo, possiamo pensare che esistano oggetti simili anche “dall’altra parte” rispetto a quello trovato. Il “diametro” dell’Universo perciò è grande almeno il doppio rispetto alla distanza dell’oggetto scoperto recentemente. Non dimentichiamo poi, per avere un termine di paragone, che un “anno-luce” è la distanza che la luce percorre in un anno, e che la luce, a percorrere la distanza che ci separa dal Sole (e sono circa centocinquanta milioni di chilometri), impiega circa otto minuti. Ciò significa che la nostra capacità di pensiero è nettamente al di là della nostra immaginazione: quaranta miliardi di anni-luce sono una cifra con cui gli scienziati sanno perfettamente fare i conti, ma che nessuno (nemmeno tra loro) riesce ad immaginare, cioè a tradurre in immagini concrete.

 

Il tempo. Secondo la teoria oggi ormai più accreditata l’Universo ha avuto origine in una data presunta da quindici a venti miliardi di anni fa. Tanto per fare qualche confronto, ricordiamo che l’ominizzazione, cioè le prime manifestazioni dell’intelligenza umana, datano da qualche milione di anni, mentre la civiltà umana vera e propria ha “soltanto” diecimila anni circa.

 

Il numero. Anche il numero è immenso: nell’Universo esistono da uno a cento miliardi di galassie, ciascuna delle quali è formata da uno a cento miliardi di stelle. Prendendo per i due dati un valore medio di dieci miliardi, si può calcolare che nell’Universo esistano circa cento miliardi di miliardi di stelle, ciascuna delle quali, più o meno assomiglia al nostro Sole. E se poi qualche stella ha anche dei pianeti come il Sole? E se a loro volta i pianeti hanno ciascuno dei satelliti? Nel sistema solare esistono nove pianeti conosciuti, mentre il totale dei satelliti è circa una cinquantina, senza contare le comete e gli Asteroidi, le cui orbite si trovano in maggioranza tra quelle di Marte e di Giove e sono alcune decine di migliaia. Il numero complessivo dei corpi celesti quindi, supponendo che anche solo una piccola percentuale di stelle abbia la sua corte di pianeti e di satelliti, cresce ancora, e di molto ... Fino a poco tempo fa non esisteva ancora alcuna prova certa dell’esistenza di pianeti di stelle diverse dal Sole, ma è del 1995 l’annuncio, della scoperta di un pianeta orbitante attorno ad una stella abbastanza vicina a noi (solo pochi anni luce). Si tratterebbe di un pianeta della massa paragonabile a quella del pianeta Giove, quindi molto più grande della Terra, e avente la temperatura superficiale di circa 1000° C. Si attendono conferme di questa scoperta.

L’espansione. L’Universo ha una storia: è cominciata con una grande esplosione, chiamata solitamente “BIG BANG” (cioè “GRANDE BANG”, “GRANDE SCOPPIO”), avvenuto, come si diceva, da quindici a venti miliardi di anni fa. Nel momento iniziale tutta la massa dell’Universo era racchiusa in pochissimo spazio, meno, molto meno della capocchia di uno spillo: densità enorme, temperatura altissima e, come si diceva, una grande esplosione. E tutto ha cominciato ad espandersi, ad allontanarsi reciprocamente a velocità grandissima ... e continua tuttora. Ancora oggi, infatti, gli scienziati registrano e misurano la velocità di allontanamento delle galassie le une dalle altre. Come finirà? Può darsi che l’espansione non finisca mai, oppure che tutto proceda così ancora per miliardi di anni e poi il movimento si inverta in un immane contrazione ... Tutto dipende dal rapporto tra il valore della massa complessiva degli oggetti presenti nell’Universo, e il valore delle distanze e delle velocità reciproche. La Scienza forse ce lo dirà nei prossimi anni. Qualcuno fa anche l’ipotesi di un universo che vibra in un susseguirsi infinito di espansioni (come la attuale) e di contrazioni. Ma è molto difficile da valutare la attendibilità di queste teorie.

Per una visione più completa vedi anche quanto viene detto al paragrafo 5.4.

 

 

2.2  IL  PICCOLO

 

Tutti abbiamo sentito parlare di atomi e sappiamo che sono molto piccoli. Ma piccoli quanto? Ogni atomo ha un diametro di circa “dieci alla meno sette” millimetri. Ciò significa che se li mettiamo in fila (ammesso che ciò sia possibile), uno dietro l’altro, sulla capocchia di spillo, citata poco sopra, ce ne stanno circa dieci milioni.

In diciotto grammi di acqua (una “mole”, come si dice) esistono più di “sei per dieci alla ventitré” molecole, cioè “seicentomila miliardi di miliardi”; un numero, questo, che, come sanno i chimici, viene chiamato “numero di Avogadro”.

A loro volta ogni atomo è costituito da un nucleo attorno al quale ruotano delle particelle, gli elettroni. Il nucleo è molto più piccolo dell’atomo, circa centomila volte. Sulla nostra capocchia di spillo (sempre ammesso che ciò sia possibile), ci starebbero mille miliardi di nuclei, tutti in fila.

Ma non è ancora finita: anche il nucleo è composto di particelle, i protoni e i neutroni, i quali a loro volta sono formati da “subparticelle” ancora più piccole i “quark” e i “gluoni”.

Succede come se sbucciassimo una cipolla: ogni volta che sbucciamo uno strato ci troviamo di fronte ad uno strato più profondo, da sbucciare a sua volta. Arriveremo mai al cuore di questa “cipolla”? Per ora non sappiamo come andrà a finire.

Tutte le particelle elementari (si chiamano così anche se a loro volta sono composte) hanno una durata, una “vita” diremmo, una vita misurabile con gli strumenti opportuni, al termine della quale si trasformano in altre particelle o in energia di radiazione. Le vite delle particelle hanno durate molto diverse: da quelle dei protoni, che finora appaiono praticamente infinite, essendo particelle molto stabili, ad altre molto, ma molto brevi. Ebbene, a proposito di brevità, siamo capaci di misurare vite di particelle strane, addirittura della durata di “dieci alla meno ventitré” secondi. Qui si tratta di una durata straordinariamente breve: “dieci alla meno ventitré” secondi significa un centomillesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo!

 

 

2.3  IL  COMPLESSO

 

Diamo questa etichetta, globalmente, al mondo vivente, nella sua immensa e meravigliosa varietà di forme e manifestazioni. L’aggettivo “meraviglioso”, a proposito del vivente, è usato moltissimo, ma non sembra mai fuori posto. Basta pensare, facciamo solo un esempio, all’occhio umano: il nervo ottico, che trasmette le immagini al cervello, è un “cavetto” che in meno di tre millimetri di diametro concentra qualcosa come circa un milione duecentomila fibre (cioè i “fili” della comunicazione con il cervello) tutte isolate tra loro; cosa neppure immaginabile da costruire con le nostre tecniche, neppure le più raffinate. Sezionato trasversalmente e osservato al forte ingrandimento di un microscopio elettronico, il nervo ottico assomiglia a qualcosa che si estende come la piazza S. Pietro, lastricata tutta di monetine da dieci lire.

Per quanto riguarda la varietà, un articolo del “Il Corriere della sera” (7 ottobre 1986) ipotizza l’esistenza di un numero di specie viventi non ancora classificate, variabile da quattro a trenta milioni. Mentre le specie già classificate sono circa un milione settecentomila. Notiamo: specie, senza contare le sottospecie, le varietà e le differenziazioni delle razze!

A titolo indicativo riportiamo il numero delle specie suddiviso per categorie; chiaramente i numeri sono solo orientativi. Mammiferi: 4 100; uccelli: 8 700; rettili: 6 300; anfibi: 3 000; pesci: 23 000; insetti: 1 000 000; piante verdi e funghi: 500 000.

E poi, in tutta questa enorme varietà, proprio in questi ultimi anni abbiamo ritrovato una straordina-ria unità. Tutte le varie forme viventi hanno, per così dire, una radice comune: il DNA, l’acido de-sossiribonucleico. È formato da lunghissime catene avvolte ad elica e formate solo da quattro elementi base: citosina, guanina, timina, adenina. Assoluta semplicità degli elementi e al tempo stesso estrema complessità dei composti: questo è il modo di operare della natura nel mondo vivente.

 

 

2.4  L’IRREVERSIBILE

 

Non si tratta di uno specifico campo di ricerca, ma di una modalità fondamentale di svolgimento di tutti i fenomeni fisici. Più esattamente la Fisica distingue due tipi di fenomeni: i fenomeni reversibili e i fenomeni irreversibili. Nel primo caso il fenomeno può svolgersi normalmente rispetto al tempo, ma può svolgersi anche in senso inverso. Un esempio significativo: se facessimo una ripresa cinematografica del fenomeno reversibile e proiettassimo la pellicola in senso inverso otterremmo ancora un fenomeno fisico, cioè, guardando il film, non sarebbe possibile dire se la proiezione avviene in senso normale oppure in senso contrario. Ad esempio un pianeta può ruotare intorno al Sole in un senso o in senso contrario, un raggio luminoso può passare dall’aria al vetro o viceversa, seguendo la medesima  traiettoria, un’onda elettromagnetica, ad esempio una serie di raggi di luce, può divergere da un punto o convergere su di esso, e così via ...

 

Ma se poniamo una zolletta di zucchero nel caffè e agitiamo con un cucchiaino, dopo un po’ essa si scioglie e in certo senso scompare. Non ci aspettiamo certo che, continuando ad agitare il cucchiaio, (magari in senso inverso!) la zolletta ricompaia tutta intera. Si tratta in questo caso di un fenomeno irreversibile. Ecco un altro esempio: supponiamo di riprendere con una telecamera un turibolo fumante d’incenso e poi di vedere alla TV la registrazione “a rovescio”. Anche un fanciullo di pochi anni, vedendo sul teleschermo queste immagini, e cioè il fumo raccogliersi e “rientrare” nel turibolo, direbbe senz’altro che si tratta di un fatto impossibile: anche il diffondersi nell’ambiente del fumo dell’incenso è un fenomeno irreversibile.

Lo studio dei fenomeni di questo tipo è riservato ad un ramo della Fisica, la Termodinamica, e la radice dell’irreversibilità è espressa appunto da quello che viene chiamato il Secondo Principio di Termodinamica, del quale, alla fine del secolo scorso, è stata data una interpretazione in termini di probabilità e statistica, poiché, in definitiva, si tratta di fenomeni che coinvolgono un grande numero di particelle. La spiegazione in questi termini, cioè in termini probabilistici, è la stessa che viene offerta quando un mazzo di carte “nuovo” viene mescolato normalmente: non è impossibile, ma fortemente (e molto fortemente!) improbabile che le stesse carte ritornino ordinate, come erano prima del mescolamento.

 

Non insistiamo evidentemente su questi concetti.

Notiamo però che, pur essendo molto ristretto il campo dei fenomeni propriamente irreversibili, e precisamente i fenomeni che coinvolgono la Termodinamica, di fatto qualunque altro fenomeno, teoricamente reversibile, viene in un modo o nell’altro coinvolto entro l’irreversibilità. Di fatto cioè non esiste alcun fenomeno completamente e perfettamente reversibile.

Ciò significa che il tempo, per tutti i fenomeni, scorre in una direzione ben precisa, la solita, secondo quella che talvolta viene chiamata la “freccia del tempo”. Altro modo di dire: è proprio la Termodinamica la Scienza che studia e scopre le radici della storia, di ogni storia, di tutte le storie. Sappiamo infatti che esiste la “storia cosmologica”, cioè dell’Universo nel suo complesso, la “storia geologica”, cioè quella della Terra, la “storia biologica”, cioè della vita con la sua evoluzione, e infine la “storia umana”, dei singoli e dell’umanità nel suo complesso. Ora sappiamo bene che anche ciascuno di noi ha una propria storia irreversibile, perché lui stesso è un sistema irreversibile. Nessuno si aspetta di vedere un essere umano ringiovanire, tornare bambino e rientrare nel grembo della madre.

Ecco: la Termodinamica ci dà la radice profonda, il motivo di base, la causa intima di tutte queste storie, o, se si preferisce, dei vari aspetti di questa unica, grande e complessa storia.

Altro, evidentemente, è il discorso concernente il senso, il destino, lo scopo di questa storia, e proprio su questi temi si sta svolgendo la nostra meditazione.

 

 

2.5  LE  APPLICAZIONI

 

Vale la pena di dedicare ancora qualche nota alle conseguenze più appariscenti della Scienza, cioè le applicazioni tecniche. La Scienza, come si diceva, è nata poco più di trecento anni fa, ma la Tecnica, considerata nei suoi sviluppi moderni è più tardiva. In questi sviluppi, entro una visione molto sintetica (e anche con una certa approssimazione, dovuta alla schematicità), possiamo distinguere tre fasi, che corrispondono a tre “rivoluzioni industriali”.

 

La Prima Rivoluzione Industriale data attorno al 1750, ed è caratterizzata, tra l’altro, dall’in-venzione della macchina a vapore, mediante la quale l’uomo aveva a disposizione ingenti quantità di energia in qualunque luogo avesse avuto la necessità di utilizzarla; senza essere legato a corsi d’acqua o a zone ventose, o a un grande numero di animali.

 

La Seconda Rivoluzione Industriale data attorno al 1850, ed è caratterizzata dalla applicazione sistematica della Scienza alla Tecnica. Proprio attorno a questo periodo nascono l’elettrotecnica (ge-neratori, trasformatori, motori elettrici), i mezzi di trasporto moderni (treni, motori a scoppio), le telecomunicazioni (telegrafo, telefono).

 

La Terza Rivoluzione Industriale data attorno al 1950 (in essa stiamo vivendo), ed è caratterizzata dall’applicazione sempre più massiccia dell’Informatica (che è la Scienza dell’elaborazione dell’informazione) in ogni campo dell’attività umana. Oggi, è il caso di dirlo, siamo letteralmente “immersi” nell’Informatica, anche se talvolta non ce ne accorgiamo: qualunque professione, qualunque attività, qualunque lavoro, in un modo o nell’altro, coinvolge l’Informatica (oppure ne è coinvolto!).

Diamo alcuni cenni alle applicazioni più sconvolgenti.

Aspetti militari: siamo stati spettatori alla TV dell’impiego delle cosiddette “armi intelligenti” (?!?), teleguidate sugli obiettivi con sistemi informatici; (e quello che non ci è stato fatto vedere, o che non è ancora stato impiegato, è certamente molto più perfezionato...!).

Aspetti gestionali: qualunque tipo di amministrazione, di gestione di bilanci o di magazzino o di biblioteca o di anagrafe (compresa l’anagrafe parrocchiale!), di prenotazione di posti, ... può essere svolto mediante elaboratori o reti di elaboratori.

Ricerca scientifica e didattica: è tutto un ramo dell’Informatica relativamente poco conosciuto, eppure di fondamentale importanza. Un solo cenno: alcuni anni fa è stato dimostrato, dopo anni di tentativi, un famoso teorema di Matematica, detto dei “Quattro colori” (su cui non ci fermiamo): nella dimostrazione di questo teorema è stato insostituibile l’impiego, per centinaia di ore, di un potente elaboratore che doveva passare in rassegna sistematica tutti i casi possibili previsti dal teorema stesso. Senza l’impiego della macchina gli uomini avrebbero dovuto impiegare secoli per le stesse analisi fatte “a mano”. Pur senza risultati così straordinari, l’elaboratore è impiegato ordinariamente nella ricerca scientifica in tutti i casi in cui i calcoli sono troppo lunghi o troppo complessi e inoltre in tutti i casi di simulazione di fenomeni troppo lenti, come l’evoluzione delle stelle, o troppo veloci, come le interazioni nucleari, o troppo costosi o troppo pericolosi ... Qualcosa di simile vale anche per l’Informatica che viene applicata alla didattica, sia come aiuto al docente durante le lezioni in classe, sia come aiuto al discente nel lavoro individuale di apprendimento, sia, più in generale, come strumento di valutazione.

 

Ancora più interessanti (e forse, per qualcuno, più sconvolgenti!) sembrano essere gli sviluppi futuri dell’Informatica. Ne accenniamo a tre.

 

1 .        Ipermedia+Telematica: tutto quello che è stato detto sugli impieghi generali dell’Informa-tica viene “integrato”, cioè riconoscimento vocale, suoni, immagini, testi appare in un unico strumento (questo significa “Ipermedia”). Il tutto comunicato “a chi di dovere”, completamente, correttamente, velocemente (questo significa “Telematica”).

 

2 .        Simulazione spinta fino alla “realtà virtuale” : guanti con sensori elettronici, occhiali forniti di minischermi, caschi con visori e telecamere consentono oggi una interazione del nostro corpo con oggetti e spazi che esistono soltanto nei circuiti di un computer. Ne derivano nuove tecnologie al servizio della ricerca, ma anche dell’arte, del divertimento e della vita quotidiana ... anche con tanti problemi e tante perplessità che vi sono connessi.

 

3.         Intelligenza artificiale: qui tocchiamo un problema dai risvolti antropologici e filosofici. Come e fino a che punto il comportamento umano, in quanto intelligente, può essere imitato? Ipotesi fondamentale: in un futuro più o meno prossimo sarà possibile simulare totalmente il comportamento intelligente, comprese le emozioni, i sentimenti, le ansie ... È possibile questo?

Minsky (scienziato americano, uno dei massimi esperti mondiali di intelligenza artificiale): nel libro “La società della mente”, ed. Adelphi, risponde: “Sì!”.

Penrose (scienziato inglese, pure esperto nello stesso settore): nel libro “La nuova mente dell’im-peratore”, ed Rizzoli, risponde: “No!”. (E, tra l’altro, è questo anche il nostro modesto parere).

 

2.6  CONCLUSIONI

 

Non abbiamo certo la pretesa di aver esaurito la descrizione delle ricerche attuali nel mondo della Scienza. Si è trattato soltanto di una panoramica molto sommaria entro un mondo complesso e affascinante, un mondo in continua e rapida evoluzione, un mondo pieno di risposte e al tempo stesso di domande sempre nuove e sempre interessanti.

La Scienza Sperimentale ha soltanto poco più di trecento anni di vita, eppure i suoi progressi sono stati e sono enormi, tanto nel campo delle conoscenze pure, quanto nel campo delle applicazioni tecniche. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, come abbiamo accennato nel paragrafo precedente.

La Scienza, tuttavia, da sola, non basta a risolvere i problemi dell’uomo: certo ha risolto e continua a risolvere (anche se non totalmente) certi problemi: ci riferiamo a quelli più immediati, quali il cibo, il vestito, l’abitazione, le malattie ... ma ne esistono altri, i problemi fondamentali dell’uomo, sui quali non ha nulla da dire: essa rinvia a qualcosa d’altro.

Chi percorre con attenzione i sentieri della Scienza non può non avvertire continuamente, nonostante i risultati molto positivi, anzi proprio attraverso di essi, il bisogno di senso, il bisogno di unità, il bisogno di globalità, il bisogno di assoluto. In una parola: il bisogno di filosofia.

È quanto cercheremo di affrontare nel corso di questo studio, soprattutto nel capitolo 4.

 

3 . ALCUNI  ELEMENTI  INTRODUTTIVI

 

 

Prima di affrontare in modo sistematico l’argomento del nostro studio, crediamo opportuno sottoporre alla riflessione alcuni elementi che possono costituire un primo approccio, una specie, per così dire, di “assaggio” dei problemi legati al tema dei rapporti Scienza-Fede.

Il nostro discorso resta ancora, necessariamente, frammentario: diventerà, speriamo, più organico, a partire dal prossimo capitolo.

 

 

3.1  MOMENTI  DI  CRISI

 

Nella storia della Scienza, nei suoi riflessi con i discorsi fondamentali sull’uomo, discorsi evidentemente collegati alla Filosofia e alla Fede, non sono mancati (e restano tuttora sempre possibili!) momenti di urto e quindi di crisi.

Accenniamo ai due più evidenti e che hanno avuto maggiore risonanza nella storia della cultura e dello sviluppo delle idee. Sono due momenti legati a due nomi: Galilei e Darwin.

I fatti a cui ci riferiamo sono noti.

 

Galileo Galilei (1564-1642), studioso di Fisica, nel 1633 venne costretto dalla Congregazione Romana del Santo Uffizio a firmare una dichiarazione di abiura delle tesi che fino allora aveva insegnato, anche attraverso i suoi scritti (soprattutto l’opera: “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”) tesi che sostenevano l’ipotesi “copernicana” (o “eliocentrica”, proposta da Nicola Copernico, 1473-1543) come l’unica capace di spiegare il Sistema Solare, cioè (insieme con le “stelle fisse”) tutto l’universo conosciuto a quel tempo.

La vicenda è stata chiusa in maniera definitiva da Giovanni Paolo II, il 31 ottobre 1992, in occasione di una solenne udienza alla presenza di 31 membri della Pontificia Accademia delle Scienze, tra cui vari premi Nobel, in occasione del 350° anniversario della morte di Galileo Galilei, dopo che un’apposita commissione, costituita dallo stesso Papa nel 1981 e presieduta dal Card. Paul Poupard, vi aveva lavorato per oltre dieci anni.

La Chiesa riconosce lealmente i propri torti” nei confronti di Galileo: il Santo Uffizio sbagliò, ma in buona fede. Ci si trovava infatti, tre secoli fa, “in una situazione di transizione nelle conoscenze astronomiche dell’epoca e di una confusione esegetica sulla cosmologia”: l’interpretazione letterale della prima pagina della Genesi, e soprattutto il famoso brano del libro di Giosuè: “Giosuè pregò il Signore e gridò alla presenza di tutti gli Israeliti: ‘Sole, fermati su Gabaon! E tu, Luna, sulla valle di Aialon!’ Il Sole si fermò, la Luna restò immobile ...” (10,12s). Secondo questa interpretazione la Terra è ferma e il Sole le gira intorno, e quindi, in accordo con il passo citato, si sarebbe fermato lungo il suo cammino per un certo tempo. Si tratta dell’altra ipotesi scientifica (opposta a quella copernicana), chiamata “tolemaica” (o “geocentrica”) dal nome di Claudio Tolomeo (secondo secolo d.C.), lo scienziato che, tra gli antichi, ne ha dato la versione scientificamente più completa e precisa.

Le parole che abbiamo citato poco sopra sono tratte dalla relazione che il Card. Poupard ha tenuto nell’udienza di cui si parlava, relazione che verrà ripresa più ampiamente dopo alcune affermazioni tratte dal discorso di Giovanni Paolo II, tenuto nella stessa udienza.

“A partire dal secolo dei Lumi fino ai giorni nostri - ha detto il Papa - il caso Galileo ha costituito una sorta di mito, nel quale l’immagine degli avvenimenti che ci si era costruita era abbastanza lontana dalla realtà. In tale prospettiva il caso Galileo era simbolo del preteso rifiuto, da parte della Chiesa, del progresso scientifico, oppure dell’oscurantismo dogmatico opposto alla libera ricerca della verità. Questo mito ha giocato un ruolo culturale considerevole [...]. Il caso Galileo ha contribuito ad ancorare parecchi uomini di Scienza in buona fede all’idea che ci fosse incompatibilità tra lo spirito della Scienza, da un lato e la Fede cristiana, dall’altro. Una tragica reciproca incomprensione è stata interpretata come il riflesso di una opposizione costitutiva tra Scienza e Fede. Le chiarificazioni apportate dai recenti studi storici ci permettono di affermare che tale doloroso malinteso appartiene ormai al passato”.

 

Vediamo ora i punti più interessanti della relazione del Card. Poupard, già citata.

 

3. In realtà Galileo non era riuscito a provare in maniera irrefutabile la doppia mobilità della Terra, il suo orbitare annuale attorno al Sole e la sua rotazione quotidiana attorno all’asse dei poli. Galileo aveva infatti la convinzione di averne trovato la prova nelle maree oceaniche. Galileo propose un altro tipo di prova nei venti alisei, ma nessuno possedeva allora le conoscenze indispensabili per derivare da tale fenomeno le conclusioni legittime. Sarebbero occorsi ancora 150 anni per scoprire le prove ottiche e meccaniche della mobilità della Terra. Dal canto loro gli avversari di Galileo non avevano, né prima né dopo di lui, scoperto nulla che potesse confutare in modo convincente le posizioni dell’astronomia copernicana. I fatti però finirono per imporsi ed evidenziarono ben presto il carattere relativo della condanna del 1633. Questa non aveva un carattere irreformabile e definitivo. Infatti nel 1741 davanti alla prova ottica del girare della terra attorno al Sole, Benedetto XIV fece dare dal S. Uffizio l’imprimatur alla prima edizione delle Opere complete di Galileo.

 

[NOTA PERSONALE: una prova classica della rotazione terrestre è il “pendolo di Foucault”, la cui prima esperienza, fatta nel Pantheon di Parigi, avviene intorno al 1850. Il ruolo di Galileo, nella Rivoluzione Astronomica è espresso molto bene dal Foscolo, ne “I sepolcri”, dove dice: “... (la tomba) di chi vide / sotto l’etereo padiglion rotarsi / più mondi, e il Sole irradiarli immoto / onde all’Anglo che tanta ala vi stese / sgombrò primo le vie del firmamento”. Galileo “vide”, cioè intuì, senza riuscire a dimostrare, l’eliocentrismo, e quindi “sgombrò” da pregiudizi le “vie del firmamento”, “all’Anglo” (l’inglese Newton) che le esplorò con volo potente].

 

4. Questa riforma implicita della sentenza del 1633 divenne esplicita nel decreto della S. Congregazione dell’Indice che ritirava dal Catalogo dei Libri Proibiti [il famoso “INDICE”, n.d.r.] tutte le opere in favore della teoria eliocentrica [...].

 

5. In conclusione, la rilettura dei documenti d’archivio dimostra ancora una volta che tutti gli attori del processo, senza eccezione, hanno diritto al beneficio della buona fede. Le qualificazioni filosofiche e teologiche abusivamente date alle teorie allora nuove sulla centralità del Sole e la mobilità della Terra furono le conseguenze di una situazione di transizione nel campo delle conoscenze astronomiche, e di una confusione esegetica concernente la cosmologia. Eredi della concezione unitaria del mondo, che si era imposta universalmente fino all’alba del XVII secolo, alcuni teologi contemporanei di Galileo non hanno saputo interpretare il significato profondo, non letterale, delle Scritture nelle pagine in cui hanno descritto la struttura fisica del mondo creato, e questo li ha condotti a trasferire indebitamente un problema di osservazione dei fatti astronomici nel campo della fede. È in questa congiuntura storico-culturale, tanto lontana dalla mentalità del nostro tempo, che i giudici di Galileo, incapaci di dissociare la fede da una cosmologia millenaria, hanno creduto, certamente a torto, che l’adozione della rivoluzione copernicana, d’altronde non ancora definitivamente provata, fosse in grado di mettere in crisi la tradizione cattolica, e che quindi fosse loro dovere vietarne l’insegnamento. Questo errore soggettivo di giudizio, così chiaro per noi oggi, li condusse a una misura disciplinare di cui Galileo ‘ebbe molto a soffrire’. È necessario ammettere lealmente questi torti, come Voi, Santo Padre, avete richiesto”.

 

Charles Darwin (1809-1882) è il secondo nome che citiamo e al quale è legato un altro grande momento di crisi nei rapporti Scienza-Fede, “momento” che, almeno per certi aspetti, non è ancora concluso.

Con la sua opera: “L’origine delle specie”, pubblicata nel 1859, Darwin ha offerto una risposta affascinante al problema aperto nei decenni precedenti dalla scoperta che la vita ha una storia, una storia, in certo senso, parallela alla storia della Terra. La Geologia era ormai una Scienza matura, l’età della Terra, e quindi, in proporzione, l’età della vita, attraverso le scoperte dei fossili (resti di animali preistorici conservati nelle rocce di cui era stata calcolata la “datazione”), era stata progressivamente allungata fino (a quell’epoca) ad essere ritenuta dell’ordine delle centinaia di milioni di anni (oggi sappiamo che gli anni della nostra Terra sono circa quattro miliardi e settecento milioni). Proprio tra i fossili erano stati scoperti resti di animali e piante appartenenti a specie ormai scomparse. Come spiegare tutto ciò?

Darwin risponde con l’ipotesi della selezione naturale. Non possiamo entrare nel dettaglio (ai paragrafi 5.6.2 e 5.6.3 toccheremo alcune implicazioni che questa ipotesi ha con i problemi che ci interessano): è sufficiente notare che le idee di Darwin sono state ampiamente usate (e, talvolta, lo sono anche oggi) come strumento per la negazione delle verità insegnate dalle Chiese cristiane sulla creazione e sull’origine dell’uomo.

Solo poche parole di commento: Darwin, cristiano solo formalmente, era, di fatto, nel suo intimo, ateo, o almeno agnostico, ma questo ci interessa relativamente. Diciamo solo che da un lato la sua teoria, modificata, o almeno ampiamente integrata dalle scoperte successive, fino alla straordinaria rivoluzione portata dalla biologia molecolare, a partire dagli anni cinquanta di questo secolo, contiene ancora oggi parecchi problemi non risolti (e sui quali non ci fermiamo) e dall’altro richiamiamo, fin d’ora, il principio che ci guiderà lungo tutto il corso. Quando la Scienza e la Fede si rivolgono ad una medesima realtà, i loro rispettivi punti di vista partono da premesse indipendenti, usano metodi di indagine diversi e giungono, inevitabilmente, a conclusioni diverse. Attenzione: conclusioni diverse, ma non contraddittorie, anzi conclusioni che si integrano a vicenda, come mostriamo più avanti. E questo vale sia per l’ipotesi di Darwin, sia per qualunque altro problema che si è presentato fino ad oggi e, abbiamo motivo di pensare, per qualunque altro problema che potrebbe presentarsi in futuro (cfr. il paragrafo 5.5).

 

 

3.2  IL  MITO  DELLA  SCIENZA

 

Abbiamo già parlato nel capitolo secondo, almeno a grandi linee, dei progressi che la Scienza e la Tecnica hanno compiuto: la Scienza negli ultimi trecento anni, la Tecnica negli ultimi cento cinquanta circa. Proprio questo straordinario progresso ha suggerito l’idea che la soluzione di tutti i problemi dell’umanità potesse essere trovata solo all’interno della Scienza sperimentale e delle sue applicazioni. L’idea, già embrionalmente presente nelle correnti dell’Illuminismo del secolo XVII, ha trovato un pieno sviluppo nel secolo scorso e in questo secolo, e si è tradotta anche in forme esplicite di Filosofia. Ci riferiamo al Positivismo, espresso soprattutto da Auguste Comte, (1798-1857), francese, che considerava la Scienza come l’ultima e definitiva tappa del cammino dell’umanità, dopo le tappe intermedie, a suo giudizio, necessarie, ma superabili, e di fatto superate, del Mito-Religione e della Filosofia.

Un atteggiamento simile, anche se più raffinato, è stato assunto dalla corrente filosofica del Neopositivismo, nata nel Circolo di Vienna (1929) e sviluppatasi in Europa e negli Stati Uniti d’America negli anni Trenta. La scuola si chiama anche del Positivismo logico o dell’Empirismo logico (cfr. il paragrafo 4.2) e nega qualunque valore conoscitivo a tutto ciò che non rientra nella conoscenza scientifica, la quale è frutto di esperienze (= “empirismo”) colte ed elaborate, attraverso opportuni e raffinati protocolli, guidati dalla Logica moderna (= empirismo “logico”).

Più in generale  possiamo chiamare “Scientismo”, anche al di là delle due correnti citate, ogni atteggiamento che assume la Scienza come conoscenza assoluta e definitiva, e quindi unica, negando qualunque valore (o al massimo attribuendovi un valore puramente emotivo, sentimentale, valido solo a titolo personale) alle altre forme di conoscenza, con riferimento specifico alle conoscenze della Filosofia e della Fede. È il mito della Scienza, un mito sempre presente nel pensiero umano, e che ogni tanto emerge in modo evidente. Citiamo solo alcuni Autori moderni.

 

Jacques Monod, (1910-1976), francese, premio Nobel per la Medicina e la Biologia, nel suo famoso libro: “Il caso e la necessità”, e Richard Hawkins, (nato nel 1941), inglese, nel suo libro: “L’orologiaio cieco”, sostengono che non esiste alcun procedimento finalizzato nella nascita e nella evoluzione delle forme viventi. Tutto è cominciato e si è svolto e continua a svolgersi in modo puramente casuale. Torneremo al paragrafo 5.6.2 su questo problema.

 

Alan H. Guth e Paul J. Steinhardt, su un altro argomento, l’origine dell’Universo, in un articolo pubblicato dalla Rivista “Le Scienze” (luglio 1984), presentano e spiegano un’ipotesi, l’“ipotesi inflazionaria”, sulla quale, del resto, sono ancora aperte le discussioni e su cui non ci fermiamo. È interessante notare però la conclusione del loro articolo: “Il modello inflazionario dell’Universo offre un possibile meccanismo grazie al quale l’Universo osservato si sarebbe potuto evolvere da una regione infinitesimale. A questo punto è forte la tentazione di fare un altro passo avanti e ipotizzare che tutto l’Universo sia nato letteralmente dal nulla”.

Torneremo anche su questo punto al paragrafo 5.6.1.

Qui anticipiamo solo un concetto che svilupperemo più avanti e cioè che qualunque scienziato ha (deve avere necessariamente!) una sua Filosofia, cioè una sua visione globale del mondo, della realtà nel suo complesso, soprattutto sul senso, sul fine, se ne ha uno, della realtà stessa. Ed è proprio questa Filosofia che spesso, più o meno coscientemente, influenza anche la visione scientifica del mondo e le ipotesi che vengono portate a suo sostegno. Non è difficile vedere nell’affermazione citata (che, come vedremo, è un errore filosofico) un tentativo di eliminare il ruolo di Dio nella creazione dell’universo (cfr. il già citato paragrafo 5.6.1). Qualcosa del genere era già capitato, sempre a proposito dell’origine e della struttura dell’universo, ai sostenitori della teoria chiamata dello “stato stazionario” (oggi praticamente abbandonata) che ammettevano un universo senza inizio e senza fine: anche qui si poteva cogliere, al di là della teoria scientifica, il desiderio di scalzare Dio ...

Ancora: anche tra i sostenitori della teoria oggi più accreditata, sempre sull’origine dell’Universo, quella del “BIG BANG” (cfr. il paragrafo 2.1) non è difficile talvolta cogliere accenti che spingono a sostenere quella teoria anche perché sembra più “conforme” al racconto biblico della creazione (vedi paragrafo 5.4).

Non dobbiamo comunque prendere alla lettera queste affermazioni; semplicemente vogliamo sottolineare l’idea che Scienza e Filosofia non possono essere mai staccati nella mente di uno scienziato.

 

 

3.3  IL  FONDAMENTALISMO

 

Sul versante opposto, rispetto ai sostenitori, più o meno coscienti, del mito della Scienza, troviamo tutta un’altra serie di sostenitori: quella di chi afferma la radicalità della verità contenuta nella Bibbia, al punto da negare anche le conquiste più evidenti del pensiero scientifico. Questo atteggiamento è chiamato “fondamentalismo” perché in esso la Sacra Scrittura viene assunta come fondamento di tutte le conoscenze che possiamo avere e di tutte le spiegazioni che possiamo dare dei diversi fenomeni.

Notiamo che atteggiamenti simili si trovano anche in altre religioni, soprattutto nell’Islam, dove i fondamentalisti assumono il Corano come fondamento assoluto della realtà in tutte le sue espressioni  e quindi lo vogliono imporre, anche con la forza, nella società civile e politica. Si veda ad esempio la drammatica situazione attuale dell’Algeria.

 

Citiamo due esempi di fondamentalismo: anzitutto un gruppo di scienziati americani, che sostengono il “creazionismo”, una dottrina secondo la quale l’origine e lo sviluppo della vita sono spiegati a partire dai racconti biblici contenuti nel libro della Genesi, in una visione “fissista”, con negazione quindi di ogni ipotesi evoluzionista e di tutte le ipotesi conseguenti alle scoperte scientifiche anche più recenti. Sembra anzi che la corrente che sostiene questa tesi, negli Stati Uniti d’America sia così potente da aver ottenuto in alcuni Stati l’obbligo del relativo insegnamento nelle scuole pubbliche e private, accanto alle teorie scientifiche classiche evoluzioniste e in concorrenza con esse.

È evidente che nulla vieta ai ricercatori creazionisti-fissisti di sostenere, con argomentazioni scientifiche, la tesi della creazione (o apparizione sulla Terra) diretta e immediata, di ciascuna specie biologica. Ma il cercare nella Bibbia una fondazione e una giustificazione di tale ipotesi, è ignorare completamente la natura della rivelazione biblica e della Fede cristiana e aprire la porta a nuovi conflitti, ripetendo gli errori della questione Galileo.

 

Un secondo esempio lo prendiamo dai Testimoni di Geova, i quali pure prendono alla lettera l’inse-gnamento della Bibbia. A questo proposito cito un libro: “Insegnaci a contare i nostri giorni. La cosmologia moderna e i metodi di datazione hanno smentito la Bibbia?”, di Catalano Ferdinando e Marinaro Salvatore, Tecnograf Editrice, Gorlago (BG), 1992. Uno dei due autori è ingegnere, quindi uno che di Scienza se ne intende, ed è anche appartenente alla congregazione dei Testimoni di Geova: è interessante notare gli sforzi che nel libro vengono fatti per “conciliare” i dati della Scienza con i dati della Bibbia. “Conciliazione” che, in se stessa, è opera lodevole, perché, come si è detto poco sopra, Scienza e Sacra Scrittura hanno punti di vista, metodi di indagine e risultati necessariamente diversi, ma “conciliazione” assolutamente impossibile, se la Bibbia viene presa senza adeguati criteri di interpretazione, cioè senza tener conto, come minimo, che gli autori si esprimono con la mentalità, le categorie, le conoscenze scientifiche del tempo. Ora questi sono gli strumenti con i quali viene espressa la verità e non è possibile (e nemmeno lecito!) scambiarli con la verità stessa.

 

 

3.4  CONCLUSIONI

 

Come era stato detto nell’introduzione del presente capitolo, abbiamo voluto soltanto proporre una panoramica anche se non completa, una specie di “assaggio” quindi, dei problemi che nascono attorno al tema Scienza-Fede. Sono state date, occasionalmente, anche alcune risposte, soltanto dei suggerimenti, delle semplici indicazioni, per ora ... È chiaro che occorre approfondire, esaminare più dettagliatamente, più ordinatamente, più sistematicamente il tema che ci siamo proposti di trattare.

 

Come introduzione-preludio a questa trattazione ci serviamo di un testo di Evandro Agazzi, (nato nel 1934), filosofo della Scienza, pubblicato sul volume: “Valori, Scienza; Trascendenza” (pagg. 10s), citato nella bibliografia: “La Scienza moderna, privatasi fin dall’inizio di ogni tipo di causalità finale, è tendenzialmente refrattaria a questo modo di pensare [la ricerca di un senso della realtà; nota personale] e preferisce spiegare i risultati globali come esiti causali di concomitanze parziali collegate da leggi deterministiche. La conseguenza è stata una totale perdita di senso del mondo della natura e dell’uomo. Oggi tuttavia questa ricerca di senso riemerge con insistenza e appare, una volta ancora, come una percezione dei limiti della spiegazione analitica. [...] Le indicazioni sopra fornite hanno rivelato all’interno della Scienza l’emergere di istanze di comprensione e di attribuzione di senso che aprono verso prospettive di globalità e di finalità; tutto ciò sullo sfondo di una chiara consapevolezza dell’autolimitazione di ogni discorso scientifico. Ora, proprio queste sono fra le condizioni fondamentali che aprono la prospettiva sul trascendente in senso forte”.

 

 

4 . SCIENZA  E  FILOSOFIA

 

 

Il cerchio da chiudere”. Questa espressione è il titolo di un libro di ecologia pubblicato alcuni anni fa (autore: Barry Commoner, ed. Garzanti).

Ci piace usarla per indicare il senso complessivo di ciò che stiamo trattando. A parte il contesto diverso nel quale l’espressione era collocata nel libro citato, per noi significa il cerchio del senso, del significato profondo delle cose che esistono, della realtà che ci circonda, del mondo nel quale l’uomo vive ed opera e che la Scienza sta più o meno faticosamente esplorando.

Cerchio da chiudere vuol dire ricerca, attraverso la Filosofia, di questo senso: tanto della realtà in se stessa quanto della Scienza che la studia.

 

 

4.1  LA FILOSOFIA  DELLA  SCIENZA

 

Il primo passo di questo cammino verso la chiusura del cerchio del senso, attraverso il discorso filosofico, è un ramo particolare della Filosofia, un ramo abbastanza recente che in questi ultimi decenni ha avuto un grande sviluppo: la Filosofia della Scienza o Epistemologia.

Non si tratta di qualcosa di intermedio tra la Scienza e la Filosofia; si definisce piuttosto come “la Scienza della Scienza”. Questa espressione, che potremmo intendere in modo un po’ impreciso anche come “Sociologia della Scienza”, significa: fare della Scienza (dei suoi problemi, dei suoi obiettivi, dei  suoi metodi, del suo valore) un oggetto di studio, cioè di Scienza.

In sintesi possiamo dire: l’Astrofisico studia le stelle, mentre il Filosofo della Scienza studia l’Astrofisico, che studia le stelle

Naturalmente esistono diverse correnti di pensiero sulla Filosofia della Scienza e non è il caso di affrontarle tutte. Accenneremo soltanto alle due posizioni che ci sembrano più significative, anche in rapporto al tema principale del nostro corso: la posizione di Thomas Kuhn e quella di Karl Popper.

 

Thomas Kuhn (nato nel 1922) è essenzialmente uno storico della Scienza, ma la sua teoria, espressa soprattutto nel libro: “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” (ed. Einaudi), tocca anche problemi relativi alla Filosofia della Scienza.

Kuhn distingue nettamente, sul piano storico, la fase che chiama di Scienza normale, dalla fase di rivoluzione scientifica. Nel primo caso domina tra gli scienziati una certa visione relativa ad un dato fenomeno o ad un dato campo di indagine. Questa visione viene chiamata “paradigma”: si tratta del paradigma normale entro il quale indagare, classificare e spiegare tutti i diversi aspetti della realtà studiata. Ad esempio, prima della ipotesi di Copernico, era dominante tra gli scienziati il paradigma “geocentrico”, cioè la Terra al centro dell’universo, paradigma che risaliva a Tolomeo.

Quando però non tutti i fenomeni riescono ad essere inquadrati entro il paradigma normale, qualche scienziato avanza l’ipotesi di un nuovo paradigma che pretende di includere in sé tutto quello che spiegava il vecchio paradigma, ma anche di spiegare i nuovi fenomeni. Può anche scoppiare una battaglia tra i sostenitori dei diversi paradigmi, fino a che una delle due correnti ha il sopravvento. Solitamente il nuovo paradigma ha la meglio semplicemente perché escono di scena, cioè muoiono, i sostenitori del vecchio.

Un elemento importante in questa visione è la incommensurabilità tra i diversi paradigmi, e quindi le diverse teorie che da essi derivano. In altre parole: ogni nuova teoria non è il superamento e quindi il completamento della teoria precedente, ma si tratta sempre di qualcosa di nuovo, non paragonabile a quello che c’era prima. L’espressione solitamente usata di progresso scientifico non significa affatto un fenomeno regolare e tranquillo (quale talvolta appare nei libri di Storia della Scienza), ma qualcosa che procede a sbalzi, lungo una strada piena di curve, un avanzare tra mille difficoltà ed anche a volte un retrocedere. In ogni caso ciò che viene dopo è sempre completamente nuovo rispetto a quanto esisteva precedentemente.

Un esempio tipico che viene portato a sostegno di questa visione è il passaggio della Teoria della Gravitazione Universale dalla formulazione di Newton (1642-1727) a quella di Einstein (1879-1955), nella Teoria della Relatività Generale, anche se esistono ipotesi diverse da quella dell’in-commensurabilità, che spiegano questo «passaggio».

 

Un altro pensatore di grande successo è Karl Popper (1902-1994), che espone la sua teoria nell’opera fondamentale, “Logica della scoperta scientifica” (ed. Einaudi). Popper considera come sensate soltanto le proposizioni che possono essere sottoposte ad una prova di falsificazione; false le proposizioni che non superano tale prova; corroborate, ma non ancora (né mai) vere, le proposizioni che superano positivamente una o più prove di falsificazione.

Non esiste per Popper la verità di una proposizione scientifica, ma soltanto un progressivo “avvicinamento” alla verità, senza mai poterla raggiungere. Al contrario una verifica pratica può sempre dimostrare la falsità di una proposizione.

 

A parte le critiche interne fatte ad entrambe queste due teorie, e sulle quali non possiamo fermarci, vogliamo sottolineare il valore metodologico che la posizione di Popper riveste per qualunque concezione, compresa quindi la visione cristiana del mondo. Troppo spesso e forse con un po’ di faciloneria il cristianesimo è stato visto come qualcosa che fa andare tutto e sempre bene: “Se sei malato, prega; se soffri, il Signore ti benedice; se peggiori, c’è sempre la grazia che ti sostiene; se muori, vai in Paradiso ... “. Una proposizione, dice Popper, è sensata solo se è falsificabile. E noi siamo effettivamente sempre pronti ad affrontare e a superare le prove di falsificabilità di tutto quello che sosteniamo ... ?

 

 

4.2  LA  FILOSOFIA:  PANORAMA  STORICO

 

La Filosofia della Scienza dice qualcosa, anzi parecchio, sul significato e sul valore della Scienza, ma non è certamente sufficiente per rispondere alle domande fondamentali: può rispondere alle domande circa il senso della Scienza, ma non circa il senso complessivo della realtà.

Possiamo riprendere, a questo proposito, una frase di Evandro Agazzi, Filosofo della Scienza (nato nel 1934): “L’intero della Scienza non è (non coincide con) l’intero della realtà”.

Occorre la Filosofia, semplicemente.

Naturalmente non possiamo fare un trattato di Filosofia, ma cerchiamo di indagare, alla luce della Filosofia, sui rapporti tra Scienza e senso umano globale.

 

Possiamo incominciare con un panorama storico (molto semplificato!) circa le posizioni sui rapporti tra Scienza e Filosofia. Abbiamo due visioni: una prima, che potremmo chiamare “classica”, e una seconda, che potremmo chiamare “moderna”.

Nella visione classica (tanto per intenderci quella del mondo greco antico fino al Medio Evo), la Filosofia è il sapere fondamentale; dalla Filosofia fondamentale, la metafisica, si passa alla Filosofia applicata ai campi diversi: la Teologia Naturale o Teodicea, la Antropologia, la Cosmologia. Dalla Cosmologia si passa alla Scienza. Il tutto attraverso un procedimento essenzialmente deduttivo.

Nella visione moderna (quella che comincia dal ‘600, con Galileo, Cartesio e Newton), il procedimento è inverso: dalla Scienza alla Filosofia, attraverso un procedimento essenzialmente induttivo. L’elemento unificante non è la Filosofia, ma la Matematica. Non vengono studiate le essenze dei fenomeni, ma le relazioni tra i fenomeni. Il senso delle cose non discende dall’alto per deduzione, ma sale dal basso per induzione.

Galileo e Newton consideravano se stessi come “Filosofi naturali”. Il massimo trattato di Newton sulla Meccanica in generale (e comprendente la Teoria della Gravitazione), pubblicato nel 1687, si intitolava infatti: “Philosophiae naturalis principia mathematica”, che, tradotto, significa: “I principi matematici della Filosofia naturale”.

Il discorso storico merita, però qualche ulteriore approfondimento. Lo vediamo per punti.

 

a)         1600: nascita della Scienza moderna. Certamente non mancano i problemi (e Galileo ne sa qualcosa!), ma tra Scienza e Filosofia, e tra Scienza e Fede in fondo c’è collaborazione: Galileo, Cartesio, Newton, Leibniz sono credenti e sono profondamente convinti di dare lode a Dio attraverso le loro scoperte. Si tratta semmai di vedere come è possibile una tale collaborazione, ma la collaborazione, di fatto, esiste. Questo clima, diciamo “positivo”, praticamente giunge fino all’Illuminismo, che pur estraneo a religioni rivelate, ammetteva però l’esistenza di Dio, in un atteggiamento chiamato “teismo” o “deismo”.

 

b)         La crisi scoppia violenta nel secolo XIX, attraverso Feuerbach, Marx e soprattutto il positivismo, per opera di Comte. Il positivismo, anche se professato esplicitamente solo da questo pensatore, rappresenta una mentalità, un atteggiamento dominante nella cultura scientifica e filosofica ottocentesca, confermato in ciò dagli straordinari progressi operati dalla scienza e dalla tecnica del tempo. Comte vede tre fasi fondamentali nella storia del pensiero umano: la fase teologica, nella quale domina l’atteggiamento fantastico e mitico; seguita dalla fase filosofica, dove è dominante la razionalità, una razionalità però ancora aprioristica, limitata, legata al mito. La Filosofia distrugge senza costruire. Infine abbiamo lo stadio scientifico, quello della razionalità matura e definitiva, a cui ricondurre tutti gli aspetti del pensiero umano. Gli stadi precedenti sono comunque stati utili, hanno dato un valido contributo al pensiero, anche se ora sono da superare definitivamente per giungere ad una maturità più piena.

 

c)         Per reazione a questa mentalità positivistica, alla fine del secolo scorso e agli inizi del ‘900 abbiamo varie correnti di tipo spiritualistico (ad esempio Bergson). Queste posizioni non sono del tutto chiare: facilmente possono sconfinare nel fideismo (cioè la Fede esiste per così dire allo stato puro, svincolata dalla ragione) se non addirittura nell’irrazionalismo.

 

d)         Sconfitto il positivismo (sia per i limiti legati alla Scienza stessa, sia soprattutto per le conseguenze della Scienza nelle applicazioni belliche, è la crisi di fine ‘800), chiaramente ritornano i problemi iniziali: il rapporto Scienza-Filosofia. Si ammette facilmente che la Scienza in se stessa non si pone il problema di Dio, è agnostica. Ma ogni posizione agnostica può svilupparsi secondo due direzioni diametralmente opposte: in senso ateistico o in senso teistico. Di fatto lo sviluppo ateistico si è realizzato nella prima metà del secolo XX, attraverso il neopositivismo. Secondo questa corrente è sensato solo ciò che è verificabile. È vero solo ciò che è verificato. Tutto il resto della cultura (Filosofia, Arte, Fede) è privo di senso, al massimo è un fatto personale, una questione sentimentale, un qualcosa, comunque che non produce vera conoscenza e quindi che non interessa la Scienza, l’unica depositaria del vero sapere. Il neopositivismo ha elevato a criterio universale di significato una condizione che si era ritenuto di poter riconoscere come criterio di significato per la Scienza. Non sono mancate le critiche al neopositivismo, fondamentalmente di due tipi: anzitutto il riconoscimento della dogmaticità, e quindi della contraddittorietà di una simile posizione. Infatti se ogni proposizione deve essere empiricamente verificabile, al fine di possedere un significato, lo stesso principio di verificazione non è verificabile empiricamente e quindi è esso stesso un enunciato privo di significato. Il secondo tipo di critica deriva dal riconoscimento dell’impossibilità di distinguere in modo netto ed inequivocabile (e non soltanto dal punto di vista pratico, ma in linea di principio) i concetti teorici da quelli empirici dentro le Scienze Sperimentali.

 

e)         La parabola del neopositivismo, almeno dal punto di vista teorico, può dirsi conclusa. Non così dal punto di vista pratico. Infatti crediamo che la più grossa obiezione mossa oggi alla Fede e più in generale alla Filosofia classica (metafisica) sia l’ipotesi pragmatica, che esaminiamo nel paragrafo seguente.

 

 

4.3  LE  DUE  IPOTESI  FONDAMENTALI

 

Tutto il discorso precedente è stato una panoramica (abbastanza generale e sintetica!) circa i rapporti tra Scienza e Filosofia. Ora vogliamo riprenderlo per mettere a fuoco gli elementi fondamentali del dibattito moderno attorno al problema. Non è ancora il momento del discorso sulla Fede, ma occorre affrontare questi problemi, per così dire, alla radice, e quindi avere il campo libero al momento di trattare il tema centrale del nostro studio: i rapporti tra Scienza e Fede.

Se vogliamo riassumere, molto sinteticamente, ma in modo efficace, gli atteggiamenti moderni sia sul piano teorico che su quello della pratica, abbiamo due posizioni diverse e contrapposte, che possiamo chiamare rispettivamente: atteggiamento pragmatico e atteggiamento realista.

 

L’atteggiamento pragmatico è insieme teorico e pratico: per così dire, attraversa tanto i pensatori quanto la gente comune. Alla base di tutto c’è la convinzione che le cose non abbiano un senso, oppure se hanno un senso questo sia soltanto una convenzione dell’uomo, convenzione evidentemente legata alle abitudini, alle circostanze, alla mentalità, alle tradizioni, in una parola: alla prassi. Manca perciò un fondamento obiettivo e teorico al senso delle cose. È facile vedere che un atteggiamento del genere rappresenta una seria minaccia alla fede cristiana; anzi, a nostro avviso, la minaccia più grave attualmente esistente. Cerchiamo di documentarlo da diversi punti di vista.

Ricordiamo una regola generale che esprime il nostro atteggiamento fondamentale di fronte a tutte queste “visioni del mondo” (che vengono presentate alle note seguenti): anche se non le condividiamo come atteggiamento globale, tuttavia cerchiamo di cogliere in ciascuna di esse tutto ciò che vi è di positivo, eventualmente correggendolo in modo opportuno.

 

Anzitutto lo strutturalismo: nato come metodo di indagine scientifica è diventato di fatto una Filosofia, cioè un atteggiamento teorico e pratico globale. La struttura si può definire, in generale, come un insieme i cui elementi sono legati da una o più relazioni. Un esempio tipico lo possiamo prendere dalla Matematica (da cui sembra aver avuto origine, a partire dalla elaborazione dell’Algebra Astratta, all’inizio dell’‘800): il numero 5 appartiene alla classe dei numeri naturali, come il 3, il 9, ecc. Tra di essi sono definite le relazioni di somma e di prodotto (che sono operazioni), di uguaglianza, di maggioranza, di minoranza ecc. Nella visione strutturalista non ha importanza l’essenza, la natura delle entità (per tornare all’esempio precedente: che cos’è, in “se stesso”, un numero?), ma la relazione o il complesso delle relazioni che legano tra loro le diverse entità. Facciamo un esempio: il numero “3” è quell’elemento che, associato al numero “9”, mediante l’operazione di somma, fornisce il numero “12”. Si parla quindi di strutture in Matematica, in Fisica, in Chimica, di strutture musicali, di strutture linguistiche, di antropologia strutturale, di strutturalismo nella Critica Letteraria, nella Psicoanalisi, nella Filosofia della cultura. In questa visione si arriva, alla fine, a parlare di morte dell’uomo: l’uomo perde la propria identità, fondata su una propria essenza-natura, e si dissolve in un complesso di strutture e relazioni: l’obiettività dei valori svanisce perché le relazioni sono puramente convenzionali e quindi arbitrarie.

 

L’analisi psicologica e psicoterapeutica. In questo campo l’uomo è fatto oggetto di indagine; lo psicologo, e ancora di più lo psicoterapeuta, nella loro professione, ne sentono (è proprio il caso di dirlo!), di tutti i colori; la terapia efficace si ottiene riaggiustando o addirittura ricreando la “visione del mondo” del paziente. Per guarire non è importante dare una visione del mondo “vera”, è molto più importante, anzi essenziale, dare, per ogni caso specifico, una visione del mondo “che funzioni”. E la visione che “funziona” per un paziente può non funzionare per un altro. Quindi non esiste, o comunque non conta, una visione reale delle cose, cioè una verità oggettiva, ma sempre e solo, il poter dare al paziente qualcosa da far funzionare nella pratica. Da qui al passaggio (da parte dello psicologo o dello psicoterapeuta) verso una posizione agnostica nei confronti dei valori in generale, il passo è facile e breve. Del resto è accertato che la più alta percentuale di scienziati atei o agnostici si ritrova proprio tra gli psicologi (o psicoterapeuti) e i sociologi.

 

La psicologia sperimentale. È abbastanza nota quella figura che, vista in un certo modo sembra un’anatra e, ruotando il foglio di un quarto di giro, appare come un coniglio. Ma che cosa rappresenta, allora? Eppure si tratta sempre della stessa figura. Ancora: ricordiamo il gioco “sfondo-figura” in quell’altro disegno che di primo acchito rappresenta una coppa; se però si scambia lo sfondo con la figura, appaiono due facce di profilo che si guardano. Un pittore contemporaneo olandese, Maurits Cornelis Escher, scomparso nel 1972, ha prodotto molti dipinti e disegni nei quali alcune figure fanno da sfondo ad altre: cioè il gioco sfondo-figura assume un aspetto decorativo molto interessante. In conclusione: secondo queste scuole, la realtà è quella che dichiariamo noi, e quindi che “creiamo” noi, a seconda del come o del dove fissiamo la nostra attenzione.

 

Addirittura esiste una scuola di psicologia comportamentale di tipo pragmatico, che ha avuto origine negli Stati Uniti, a Palo Alto. Secondo questa scuola la realtà è quella che creiamo noi strutturandone opportunamente gli elementi attraverso le relazioni. Parlare di realtà in se stessa, secondo questa scuola, non ha alcun senso per l’uomo. Un esempio che viene spesso portato dai sostenitori di questa scuola è tratto da un racconto di Mark Twain, nel quale il protagonista è un ragazzo, che, per punizione, invece di andare a giocare con gli amici, viene costretto a dipingere uno steccato. Questo tale, di fronte all’atteggiamento canzonatorio dei suoi amici, riesce a far passare come un privilegio la possibilità di dipingere lo steccato, fino a convincere questi suoi amici che anche loro, a turno, potrebbero dipingerne alcuni tratti, dietro un adeguato compenso. Alla fine della giornata tutto lo steccato era stato dipinto più e più volte e il ragazzo, furbo, aveva guadagnato un bel po’ di dollari!

 

Potremmo continuare ancora a lungo nella nostra documentazione, che dobbiamo concludere, anche per ragioni di spazio, comunque sembra abbastanza chiaro il senso generale di questa posizione: per l’uomo la cosa essenziale è la sopravvivenza e quindi la creazione di modelli che funzionino. Tale creazione è arbitraria e convenzionale ed è frutto di una scelta, che potremmo chiamare, “per fede”. In ciò, secondo questa ipotesi, sono identiche, per quanto riguarda il loro scopo, tutte le teorie; scientifiche, filosofiche, religiose: la sopravvivenza del singolo e/o della specie.

In altre parole: in campo scientifico una teoria è “vera” (si fa per dire!) perché funziona. La cosa importante non è la verità della teoria, cioè la sua corrispondenza ad una realtà oggettiva, ma il suo buon funzionamento. Domani troviamo una teoria che funziona meglio e adottiamo quella invece della teoria adottata finora.

Chiaramente una dottrina come questa svuota completamente qualunque posizione o Filosofia che pretenda di istituire un senso globale alla realtà; e quindi svuota totalmente anche qualunque discorso sulla Fede.

 

Che cosa rispondiamo?

 

La nostra risposta è molto semplice: è sufficiente capovolgere l’obiezione stessa. L’ipotesi pragmatica resta soltanto un’ipotesi, cioè una scelta, e, si badi bene, anch’essa una scelta, in certo senso “per fede”. Chi può stabilire se le cose hanno un senso solo perché l’uomo vuole sopravvivere e glielo attribuisce comunque, oppure perché questo senso lo scopre in esse, perché le cose lo possiedono indipendentemente dall’uomo? L’intelligenza è la capacità di “porre dei rapporti” tra i vari aspetti della realtà (come dicono certi moderni), oppure è la capacità di “cogliere dei rapporti” tra i vari aspetti della realtà, rapporti esistenti per se stessi (come diceva Platone, e con lui tutti i filosofi classici)?

 

All’ipotesi pragmatica si può contrapporre un’ipotesi alternativa: l’ipotesi realista. Ovviamente non un realismo ingenuo (la storia non passa inutilmente!): tutti gli aspetti positivi messi in luce dal positivismo, dallo strutturalismo, dalla psicologia, li manteniamo. Non possiamo certo dire semplicemente: le cose esistono nella realtà esattamente così come noi le conosciamo, la nostra mente ne è lo specchio ... Eppure possiamo dire che esiste (al di là del convenzionalismo, dello strutturalismo, di tutti i “trucchi” più o meno abili, escogitati dalle varie scuole di Psicologia), una struttura originaria, indipendentemente dal soggetto che conosce, e che fonda, insieme con l’intervento del soggetto stesso, la conoscenza di quella che noi chiamiamo realtà.

Il reale possiede una sua unità, una sua entità, che abbiamo chiamato “struttura originaria”, in termini più precisi diciamo l’essere. Un essere che si svela da vari punti di vista, che si presenta attraverso infinite mediazioni diverse, ma che è e resta trascendente al soggetto, cioè esiste indipendentemente dal soggetto che lo conosce.

“Intellectus fit quodammodo omnia”, dicevano gli scolastici con un latino certamente non classico e piuttosto facile, “l’intelligenza si fa, diviene (in certo modo) tutto”, cioè tutto ciò che conosce. Sì, certo, ma, aggiungiamo noi, si distingue sempre da tutto.

 

Proviamo a dire le stesse cose con un linguaggio forse meno preciso, ma più accessibile: l’oggetto è quel particolare risultato che otteniamo, guardando una cosa (cioè un individuo, un fatto, un fenomeno) da un particolare punto di vista. È vero che è l’uomo stesso “a ritagliare” un particolare punto di vista, così come si ritaglia un pupazzo da un foglio di carta, ma è altrettanto innegabile che l’uomo non crea la carta, con le relative proprietà.

La nostra conoscenza potrà contenere anche parecchi aspetti di mediazione, ma non potrà essere tutta e solo mediazione, tutta e solo convenzione, tutta e solo pragmatica. Facciamo un altro esempio: lo scultore “crea” un’opera d’arte da un pezzo di marmo; è lui che sceglie il marmo e inventa a suo piacere quello che gli pare più adatto ad esprimere la propria ispirazione. Ricordiamo l’espressione usata da Michelangelo Buonarroti per definire una scultura: “Un pezzo di marmo da cui l’artista ha tolto tutto ciò che era superfluo”. È chiaro l’intervento “arbitrario”, “libero”, “non legato a schemi”, da parte dell’artista, ma è altrettanto chiaro che, pur nella sua libertà, l’artista non potrà inventarsi a piacere le proprietà del marmo, ma le trova così come sono e deve adattarvisi se vuole utilizzarle per il proprio lavoro. Francis Bacon, (1561-1626), filosofo inglese, ha tradotto questo concetto nell’espressione diventata famosa: “Naturae non imperatur nisi parendo”, “Alla natura non si comanda, se non obbedendovi”.

In sintesi: il soggetto non è l’oggetto.

 

È importante, a questo punto, affermare che l’ipotesi realista tiene, cioè è coerente, e su di essa si può costruire tutta una Filosofia, chiamata appunto realista. Ad esempio si può sviluppare anche una Filosofia della Scienza coerente con questa ipotesi.

È necessario che ci fermiamo ancora un poco sull’ipotesi realista, perché farà da sostegno al tema fondamentale del nostro corso.

 

Facciamo un altro esempio: il problema della misura. Misurare significa, in senso più generale, associare a ciascuna grandezza, presa in una certa classe di grandezze, un numero, preso in una certa classe di numeri, secondo un procedimento opportuno; ad esempio la misura della lunghezza di un tavolo. L’ente, la “cosa” è il tavolo; la lunghezza è l’oggetto, cioè un qualcosa creato dall’intera-zione uomo-tavolo. Chiaramente è l’uomo che “dirige” le operazioni, che sceglie il tipo di misura da effettuare (lunghezza, volume, peso, peso specifico, massa e, più in generale, velocità, accelerazione, forza, energia, potenza, carica elettrica ecc.), che fissa le unità di misura (che sono convenzionali e che vengono usate in generale, ben al di là del nostro tavolo), che stabilisce metodi e procedimenti ... ma i risultati ottenuti esauriscono il tavolo, nel senso che quello che appare è tutto e soltanto opera dell’uomo? Evidentemente no. Tutto è opera dell’uomo, tranne le condizioni iniziali, cioè l’esistenza di un quid, che chiamiamo ente, che esiste indipendente dall’uomo e che rimanda all’essere.

Riprendiamo l’espressione già vista: “l’intelligenza è la capacità di cogliere o di porre rapporti”? Possiamo anche accettare il secondo modo di questa espressione (il “porre rapporti”), ma lo dobbiamo intendere almeno così: l’intelligenza può porre tutti i rapporti che vuole, tranne la possibilità di porre rapporti; questa possibilità è data, è offerta, l’intelligenza la trova già fatta. Da chi? Da che cosa? Da qualcosa che non è l’uomo: diciamo più precisamente dall’essere.

A proposito dell’ipotesi realista in campo scientifico, vedi anche quanto sostenuto da John Polkinghorne e da noi riportato al paragrafo 7.2 .

 

Ancora un esempio illustrativo, prima di concludere questo paragrafo. Lo prendiamo da una espressione di moda nelle riflessioni teoriche di alcuni decenni fa sugli sviluppi della Biologia: “L’ontogenesi ricapitola la filogenesi”, cioè lo sviluppo dell’individuo, dalla nascita all’età adulta, ripercorre gli stessi stadi attraversati dalla specie a cui appartiene, nella lunga storia evolutiva della specie stessa. Quale che sia il valore di questa proposizione all’interno della biologia, a noi serve solo per stabilire un parallelo tra lo sviluppo mentale di un bambino, quello dell’umanità, quello di un pensatore e infine la nostra ipotesi realista.

 

Lo sviluppo del bambino: da una visione globale a una visione differenziata della realtà. Dicono gli studiosi che nelle prime fasi di vita il bambino ha una visione del mondo globale, complessiva; il mondo gli appare come un tutt’uno indifferenziato. Ad esempio il bambino, nelle prime settimane di vita, non sa distinguere neppure il proprio corpo da quello della madre. Solo con la crescita sa riconoscere le persone, gli ambienti in cui vive, le reciproche relazioni e a poco a poco impara a vivere, a rispondere correttamente ai diversi stimoli fino ad apprendere tutte le sfumature e persino tutte le sottigliezze e i trucchi della comunicazione: la diplomazia, l’ironia, la metafora, i discorsi simbolici, quelli figurati, ecc.

 

Lo sviluppo dell’umanità: agli albori della civiltà l’approccio alla realtà era globale, attraverso una visione che insieme era religiosa, razionale, mitica, simbolica, fantastica. Soltanto in seguito si è avuta una separazione del “logos” dal “mythos”, (Grecia, circa 600 a. C.), con la creazione di differenti metodologie di indagine della realtà. Molto più tardi, cioè nel 1600, si è avuta la definitiva differenziazione del metodo scientifico dall’indagine filosofica, con successiva proliferazione e ulteriore differenziazione dei campi di indagine. Secondo la nostra ipotesi, tutte le varie metodologie sono articolazioni, mediazioni diverse, approcci diversi, di un’unica realtà che trascende il soggetto.

 

Qualcosa di analogo accade ad ogni pensatore: all’“inizio” (chiaramente si tratta di un inizio logico, più che cronologico), ha una intuizione fondamentale, una “visione del mondo” complessiva, un qualcosa di simile ad un’intuizione poetica. Poi la sviluppa a poco a poco, la articola in discorso logico, ne separa e ne approfondisce i vari aspetti, la sistematizza, la confronta, ecc. Si può dire che, lungo il cammino, la arricchisce, nel senso che vi aggiunge “nuove cose”? Sembra di no. Piuttosto ne esplicita i contenuti, ne chiarisce i rapporti, ne sviluppa le relazioni, ma la intuizione fondamentale era già ricca e completa fin dall’inizio.

 

Così è per l’ipotesi realista, vista nel suo complesso. Alla base c’è un’intuizione fondamentale: l’essere. Si tratta di una intuizione globale, ricca; in un certo senso anche simbolica, poetica. In questa conoscenza fondamentale c’è dentro tutto; c’è anzitutto la percezione di qualcosa che ci trascende, che non è solo il frutto di una nostra invenzione. Poi la percezione di qualcosa da sviluppare, da analizzare, da articolare nelle differenti prospettive e con differenti metodologie: sono i diversi approcci della realtà (che esamineremo sommariamente nell’ultimo capitolo). Ma anche qui: non è vero che le conoscenze più sviluppate neghino l’intuizione precedente, soltanto la esplicitano, la articolano, la sviluppano.

 

Vogliamo tradurre in forma sintetica il pensiero espresso diffusamente in questo paragrafo, e che rappresenta la chiave di lettura anche del problema fondamentale dei rapporti Scienza-Fede?

Ecco:

a)         Esistenza di una realtà oggettiva, non riconducibile esclusivamente al soggetto che conosce, alla sua stessa conoscenza e alla arbitrarietà delle sue opinioni e delle sue scelte.

b)         Possibilità  di conoscenza vera di questa realtà, pur attraverso infinite mediazioni, perfezionamenti, diciamo pure “creazioni” del soggetto.

c)         Da un lato: possibilità di ricondurre tutta questa realtà alla sua struttura unitaria e originaria: l’essere (è il problema dell’ontologia), attraverso varie e più o meno complesse mediazioni.

d)         Dall’altro: possibilità di ricondurre tutta la conoscenza alla percezione fondamentale di questa unità e di questa originarietà dell’essere, attraverso una intuizione fondamentale e le successive articolazioni. Notiamo che l’intuizione fondamentale è simbolica, poetica, quindi potenzialmente ricca e capace di lasciare spazio sia all’analisi razionale di certi aspetti della realtà, sia ad altri sviluppi, ad esempio (ma non è casuale!) alla Fede.

 

Ripetiamo ancora una volta che le due ipotesi fondamentali che sono state esaminate, l’ipotesi pragmatica e l’ipotesi realista non sono dimostrabili, proprio perché sono punti di partenza che guidano tutto il processo di conoscenza del mondo reale. Possiamo pensarli, in un certo senso, come qualcosa di analogo ai postulati o assiomi che sono il punto di partenza delle teorie matematiche, ci riferiamo, ad esempio alla Geometria Euclidea. Non si può dimostrare tutto in Matematica, perché dimostrare significa “mostrare partendo da ...”, cioè “mostrare qualcosa partendo da qualcos’altro”, ma questo procedimento non può essere condotto all’infinito: occorre trovare un punto di partenza. Ora, in Matematica, il punto di partenza è costituito da alcune proposizioni che vengono “postulate”, cioè richieste, ammesse, prese per se stesse, e sono appunto i postulati, a partire dai quali vengono dimostrati i teoremi e quindi viene costruita tutta la teoria. Le due ipotesi che sono state esaminate sono esattamente l’analogo dei postulati della Matematica, che costituiscono il punto di partenza per “tutto il resto”.

 

 

4.4   RAPPORTI TRA  FILOSOFIA  E  SCIENZA

 

A questo punto possiamo riprendere in considerazione e collocare nella giusta prospettiva i rapporti tra Filosofia e Scienza.

Certamente questi rapporti non si configurano più né in termini “classici”, dalla Filosofia alla Scienza con procedimento deduttivo, né in termini “moderni”, dalla Scienza alla Filosofia con procedimento induttivo.

Oggi si vede piuttosto un rapporto essenzialmente circolare: dalla Scienza alla Filosofia e viceversa. Ciascuna dà il proprio contributo all’altra, e dall’altra lo riceve.

Più precisamente: la Scienza offre i contenuti, la Filosofia dà il senso.

Una Filosofia senza la Scienza sarebbe informe, senza contenuti, come un sacco vuoto.

Una Scienza senza la Filosofia sarebbe cieca, senza una guida, senza un senso profondo e totale.

Circolarità, quindi, e non gerarchicità o pretese di superiorità. Ciascuna si occupa dei propri problemi ed entra con l’altra in rapporto di collaborazione. Questo almeno in teoria; la prassi non sempre vi corrisponde, ma questo è tutto un altro discorso ...

 

 

4.5  CONCLUSIONI

 

Il cerchio da chiudere”, dicevamo all’inizio di questo capitolo, il cerchio del senso della realtà, del mondo che ci circonda e nel quale viviamo. Abbiamo esaminato due prospettive: quella pragmatica e quella realista.

L’ipotesi pragmatica equivale, per così dire, alla chiusura di tanti piccoli cerchi, ciascuno isolato dagli altri e riferito solo ad una situazione specifica, limitata, chiusa in se stessa.

Al contrario l’ipotesi realista equivale alla chiusura di un unico cerchio abbastanza grande.

Nell’ipotesi pragmatica si rischia di non chiudere mai il cerchio grande; nell’ipotesi realista si rischia di chiuderlo male oppure di chiuderlo troppo presto.

La quota di rischio è presente in ogni caso: tocca a noi decidere dove e come collocarla.

 

 

 

 

 

 

5 . SCIENZA  E  FEDE:  PROBLEMI

 

Perché  tanto tempo dedicato a temi e problemi filosofici?

Chi ci ha seguito fin qui non avrà difficoltà a capire che la radice dei problemi, e quindi delle soluzioni, è anzitutto (anche se non solo) di tipo filosofico, in particolare di quella che potremmo chiamare “Filosofia di base”, cioè la ricerca di quelle basi fondamentali sulle quali costruire tutto il senso della realtà e che sono state sintetizzate nelle due ipotesi: l’ipotesi pragmatica e l’ipotesi realista. Prima di affrontare i problemi della Fede è necessario sgombrare il campo, per quanto possibile, dalle difficoltà fondamentali circa il senso della realtà, come abbiamo cercato di fare, altrimenti non si può costruire un discorso su basi stabili.

 

Tutta la problematica precedentemente discussa si può riassumere in alcune formulazioni che presentiamo schematicamente.

 

a)         Appartenenza e distanza critica. Questa frase condensa quello che riteniamo l’atteg-giamento serio ed equilibrato di ogni ricercatore onesto, in qualunque campo, e in particolare nel campo della Fede. Se affermiamo soltanto l’appartenenza, cioè l’adesione ad una dottrina, senza distanza critica, corriamo il rischio di assumere atteggiamenti dogmatici, bigotti, tifosi ... Al contrario, se affermiamo la distanza critica pura, cioè senza alcuna effettiva decisione di appartenenza, ci fissiamo in un atteggiamento scettico. Nessuna delle due posizioni è accettabile in chi vuole ricercare, prima, e accogliere e professare, poi, un serio discorso di fede.

 

b)         Circolarità tra sapere filosofico e sapere scientifico. Scienza e Filosofia ci offrono reciprocamente contributi, diversi e complementari: la Scienza dà alla Filosofia i contenuti, la Filosofia dà alla Scienza il senso. Non deduttività dell’una dall’altra e nemmeno dipendenza. Piuttosto: indipendenza nei campi di ricerca e interdipendenza, nel senso visto.

 

c)         Chiusura o non chiusura del cerchio del senso (ricordiamo il senso che è stato dato, nel capitolo 4, a questa espressione). Nell’ipotesi pragmatica si rischia di non chiuderlo mai; in quella realista si rischia di chiuderlo male oppure di chiuderlo troppo presto. In altre parole: il senso della realtà è una scoperta dell’uomo o una sua invenzione? Dipende dall’ipotesi assunta. Noi assumiamo l’ipotesi realista, il senso delle cose è una scoperta.

 

 

5.1  SCELTE  CON  CUI  CONCORDIAMO

 

Prima di affrontare i problemi specifici del rapporto Scienza-Fede, desideriamo esporre per punti la nostra posizione sul problema della Fede, attraverso la presentazione successiva, e un po’ schematica delle diverse posizioni con le quali  siamo d’accordo.

 

a)         Siamo d’accordo con coloro che chiudono il cerchio, cioè ammettono un senso per l’uomo, per le cose, per la vita, un senso oggettivo e indipendente dall’uomo stesso. Con coloro che ammettono una Filosofia non pragmatica, un sapere fondamentale e fondamentalmente diverso dal puro sapere scientifico. Anche le posizioni marxiste, tanto per fare un esempio, appartengono a questa categoria.

 

b)         Siamo d’accordo con coloro che ammettono un senso trascendente, cioè che ritengono che la realtà ha un senso conferito ad essa da un’intelligenza, da un progettista ... Magari questo essere é cattivo, perché ci fa soffrire, ma c’è. Questa categoria è più ristretta della precedente: è la categoria, ad esempio, a cui appartengono i “teisti” (o “deisti”) del Pensiero Illuminista (1700), chiaramente ben diversa dalle posizioni marxiste.

 

c)         Siamo d’accordo con coloro (e sono una categoria ancora più ristretta della precedente) che pensano ad un Dio con cui poter instaurare un rapporto personale, sulla base di una iniziativa dell’uomo. Ci riferiamo anzitutto alle grandi religioni storiche, ad esempio il Buddismo, l’Islamismo, l’Induismo, anche se ci sarebbe da discutere circa il tipo di rapporto che i fedeli instaurano o possono instaurare con Dio, all’interno di ciascuna di esse.

Una nota a parte merita l’Islam, che, come il Cristianesimo, afferma l’esistenza di una Rivelazione data da Dio (Allah) attraverso il profeta Maometto; ma qui sarebbe necessario un confronto (che non facciamo) tra i due tipi di rivelazione.

In questa categoria collochiamo anche le varie manifestazioni di quelle che vengono chiamate talvolta “religioni naturali”, che si presentano lungo il corso della Storia dell’umanità.

 

d)         Infine siamo d’accordo con coloro (e qui la categoria è veramente molto ristretta, almeno come condizioni richieste per l’adesione, se non come numero effettivo di persone che vi appartengono) che pensano ad un Dio con cui poter instaurare un rapporto personale sulla base di una iniziativa da parte di Dio stesso. È il problema della Rivelazione.

 

Se prestiamo attenzione a quanto esposto ci rendiamo conto facilmente delle difficoltà obiettive a percorrere tutto questo cammino, da parte di un “lontano”. La conversione appare, almeno sul piano intellettuale, quasi un’impresa disperata: la distanza sembra insormontabile. Per fortuna però non esiste solo il piano intellettuale: l’esperienza religiosa è essenzialmente di tipo esistenziale, è apertura al mistero, è apertura all’amore ... e allora tutti i passi diventano possibili, perché l’amore sa dare un senso anche dove la ragione pura non arriva.

(Senza trascurare, evidentemente, che per un credente, una conversione, cioè la conclusione di un cammino verso la Fede, è essenzialmente frutto della grazia di Dio).

 

 

5.2  CHI  NON  PENSA  DI  CHIUDERE  IL  CERCHIO

 

Vediamo ora i problemi, cioè le scelte sulle quali noi non concordiamo. Cominciamo con l’ipotesi pragmatica, quella che è stata ampiamente esaminata in precedenza.

 

Sono diverse le posizioni concrete riassunte in questa ipotesi: abbiamo l’atteggiamento strutturalista (quando lo strutturalismo passa da metodo d’indagine scientifica a Filosofia vera e propria), l’atteggiamento neopositivista (unica verità è quella che deriva da proposizioni scientificamente enunciabili e verificate), l’atteggiamento genericamente pragmatico (quello che conta non è una verità oggettiva, ma una visione del mondo che funzioni nella pratica, comunque venga prodotta dall’uomo).

Si è già trattato in precedenza di questa posizione. Aggiungiamo solo due osservazioni.

 

È praticamente inutile discutere di Fede se prima non si instaura un’intesa circa il senso delle cose. Occorre ridiscutere insieme le ipotesi radicalmente diverse che stanno alla base delle rispettive concezioni ... anche se appare un’impresa quasi disperata, per il fatto che le due visioni, l’ipotesi realista e l’ipotesi pragmatica, sono proprio il punto di partenza, la fonte, per così dire, di tutto il resto. Ora se è facile cambiare qualche aspetto di una posizione, è molto difficile cambiarla totalmente.

 

È vero tuttavia, e questa è la seconda osservazione, che esiste anche la possibilità di assumere una posizione che sia al tempo stesso cristiana e pragmatica o strutturalista. Abbiamo incontrato personalmente chi negava risolutamente l’ipotesi realista, affermando chiaramente di sostenere l’ipotesi pragmatica e al tempo stesso si dichiarava cristiano (e praticante!). Secondo questa ipotesi le cose non hanno un senso che si scopre con l’intelligenza, ma solo con l’amore. Atteggiamenti come questi vanno evidentemente esaminati caso per caso, comunque si tratta in genere di atteggiamenti fideisti: esistono due piani, il piano della Scienza e più in generale della ragione e il piano della Fede. Non esiste alcun punto di contatto tra i due, nessun rapporto. Sono, per così dire, due mondi separati. È evidente che posizioni come queste non ci possono trovare d’accordo dal momento che crediamo alla funzione positiva della ragione sul problema della Fede.

 

 

5.3  CHI  PENSA  DI  CHIUDERE  IL  CERCHIO  IN  MODO  DIVERSO  DA  NOI

 

Ci riferiamo a tre categorie di pensiero: coloro che negano la trascendenza dello spirito (tutte le posizioni materialiste di vario tipo, in particolare il marxismo), coloro che negano la trascendenza di Dio (in particolare ci riferiamo alla posizione di un filosofo italiano, Emanuele Severino, che esamineremo oltre) e infine coloro che, pur ammettendo la trascendenza di Dio, negano la possibilità di una Rivelazione (in questa categoria mettiamo tutti i tipi di razionalismo, in particolare gli atteggiamenti, abbastanza diffusi nella cultura contemporanea, che si ispirano in genere al pensiero dell’Illuminismo).

 

Circa gli atteggiamenti materialistici (marxisti in particolare) e più in generale razionalistici, non c’è molto da aggiungere a quanto detto in precedenza: un dialogo con i sostenitori di queste posizioni deve partire praticamente da zero proprio perché le divergenze, rispetto a chi crede, toccano le radici più profonde del pensiero.

 

Ci soffermiamo invece sulla posizione di Emanuele Severino, un filosofo italiano di impostazione razionalistica di tipo speciale, cioè “monistica”. Severino si rifà alla posizione di un filosofo greco, Parmenide (tipico è il titolo di un suo libro: “Ritornare a Parmenide”, pubblicato in una raccolta di saggi dell’Autore stesso: “Essenza del nichilismo”, ed. Paideia), che sostiene l’esistenza soltanto dell’essere: l’essere uno, eterno, immutabile, indiveniente. Tutta la realtà, tutti gli avvenimenti, tutte le differenziazioni degli enti non sono altra cosa che l’apparire, il manifestarsi di questo unico essere. Severino perciò, sulla scia di Parmenide, nega tanto la molteplicità quanto il divenire.

Filosofia questa, certamente affascinante anche se discutibile, soprattutto quando si afferma che tutta la decadenza dell’Occidente (e quindi del mondo intero visto che l’Occidente ha imposto a tutto il mondo la sua Scienza e la sua Tecnica) è legata essenzialmente alle ipotesi di Platone e Aristotile, che, contro Parmendide, hanno affermato l’esistenza del “non-essere relativo”, che può nascere e scomparire. Severino afferma che, proprio a partire da questa ipotesi è nata la Tecnica moderna a partire dalla Scienza Sperimentale del ‘600, dalla Tecnica al consumismo (produrre per consumare e quindi per distruggere): da qui al Nichilismo il passo sarebbe breve e inevitabile ... , ma non ci fermiamo.

 

Senza entrare in discussione circa l’impostazione generale di questa Filosofia, che tra l’altro giunge a negare l’esistenza di un Dio personale, ci sembra importante discutere l’obiezione fondamentale che Severino pone al cristianesimo, proprio sul problema dei rapporti ragione-Fede, molto vicino al problema che stiamo trattando nel nostro corso.

La non conflittualità, anzi la compatibilità tra Fede e ragione dove può trovare il proprio sostegno? Se la non conflittualità è affermata in base alla Fede, allora siamo in un fideismo, dove conta solo la Fede, senza la ragione: “mandiamo in pensione” la ragione e il discorso è chiuso, nel senso che non è un discorso.

Se invece questa compatibilità è affermata in base alla ragione, allora la Fede è un razionalismo, cioè non è più Fede, ma una dimostrazione razionale. Da questo dilemma, dice Severino, non si può sfuggire.

Rispondiamo che il dilemma è soltanto apparente e la spiegazione è già stata data implicitamente in precedenza.

Esaminiamola più attentamente.

L’errore di Severino è di avere una concezione monistica, come si diceva, del rapporto essere-pensiero, cioè della conoscenza. Tutto ciò che la ragione conosce, lo conosce in modo assoluto, categorico. È la assolutizzazione della ragione, la sua esclusivizzazione.

Abbiamo visto invece che l’esperienza fondamentale dell’essere, quell’intuizione globale e originaria circa il senso delle cose non è di tipo razionale, ma è di tipo poetico-simbolico, è apertura alla totalità, è percezione oscura e sintetica che l’uomo è aperto a qualcosa di cui non coglie completamente il significato.

È una percezione, dicevamo, intuitiva quindi precedente sia alla ragione sia alla Fede.

È un percepire che l’essere è essenzialmente unitario e si articola variamente e quindi che ci sono diversi spazi (pur nella loro unità fondamentale) per queste articolazioni, tra cui lo spazio della Fede. La ragione, in un secondo momento logico, esplicita e chiarifica questi nessi, in particolare analizza lo spazio della Fede (e abbiamo la Teologia, che è una Scienza razionale), ma non sarà la ragione a fondare la Fede, né la Teologia.

La Fede, a sua volta, entro il proprio ambito, avrà un suo particolare statuto e non potrà essere confrontata né con il dubbio, né con la ragione evidente.

In questo modo ci sembra di avere dimostrato sufficientemente la “compatibilità” tra Fede e ragione, pur nella loro reciproca indipendenza: le abbiamo messe in relazione, per così dire, con il nostro “punto di partenza”. (Vedi anche il paragrafo 5.5).

 

 

5.4  CHI  PENSA  DI  CHIUDERE  IL  CERCHIO,  MA  TROPPO  PRESTO

 

Sotto questo titolo vorremmo comprendere la posizione di coloro che pretendono di dimostrare l’esistenza di Dio, attraverso la Scienza. Riconosciamo che l’espressione è piuttosto dura e, come sempre, sarebbero necessarie infinite sfumature diverse, soprattutto perché riteniamo che nessun pensatore serio pretenda di effettuare esplicitamente una tale dimostrazione (vedi però, più oltre, l’ultimo esempio che abbiamo riportato). Eppure, con tutte le cautele del caso, ci sembra che la radice di tante posizioni di credenti sia proprio quella esposta.

Ad esempio un argomento che ricorre spesso è il passaggio a Dio attraverso le teorie cosmologiche: tutto l’Universo ha avuto origine dai quindici ai venti miliardi di anni fa, con il famoso “big bang”. E prima che cosa c’era? Perché è successo? E chi lo ha prodotto?

La risposta non può essere che Dio.

Un altro esempio che ricorre spesso è la presenza del finalismo in Biologia. Un finalismo che la Scienza ha sempre tentato di negare, ma che si ripresenta “dietro l’angolo” in parecchie circostanze. Significativo è il passo di un biologo francese, François Jacob, premio Nobel per la Medicina e la Biologia, in un’intervista sul tema dell’esistenza di Dio: “Per lungo tempo il biologo si è comportato con la teleologia (cioè la presenza del finalismo negli esseri viventi, n.d.r.) come con una donna di cui non può fare a meno, ma insieme alla quale non vuole farsi vedere in giro”. (Intervista pubblicata nel libro: “Dio esiste? No, rispondono ...” di Christian Chabanis, ed. Mondadori). Teniamo presente, tra l’altro, che Jacob si dichiara ateo. Ecco allora l’argomentazione dei “credenti”: se negli esseri viventi è presente un  progetto, (e questo è un dato di fatto, come afferma anche Monod, vedi paragrafo 3.2), ci deve essere un progettista, anzi un Progettista, con la “P” maiuscola, cioè Dio; e giù una sfilza di “dimostrazioni” per sostenere che l’ipotesi del caso non permette di spiegare tutti i meccanismi dell’evoluzione biologica.

Potremmo anche continuare, ad esempio, con coloro che sostengono la presenza dei miracoli a Lourdes come prova “scientifica” del soprannaturale, oppure con coloro che, soprattutto alcuni anni fa, tiravano delle conclusioni affrettate a partire dagli studi più recenti sulla Sindone di Torino, per affermare che c’è una qualche “prova”, in essa, della risurrezione di Cristo.

Nell’ottobre del 1995, l’Editrice Mondadori ha tradotto e pubblicato un libro dello scienziato Frank J. Tipler, (americano, specialista nel campo della Teoria della Relatività) dal titolo: “La Fisica dell’immortalità”, dove con tanto di formule fisico-matematiche, viene dimostrata l’esistenza di Dio, il paradiso e la risurrezione dei morti (?!?). Citiamo solo alcuni paragrafi: “Conseguenze teologiche: la funzione d’onda dell’Universo come Spirito Santo” (pag. 176); “L’argomento ontologico nella Scienza dei calcolatori” (pag. 198); “Dimostrazione del postulato della vita eterna” (pag. 204); “Il meccanismo della risurrezione individuale” (pag. 211); “La Teologia e la religione non sono branche dell’etica, ma della Scienza” (pag. 312).

 

Che cosa diciamo? Anzitutto occorrerebbe scendere nei dettagli tecnici, e allora ci accorgeremmo che non soltanto i credenti usano questo tipo di argomenti, ma anche i non credenti, per dimostrare le loro tesi, e anch’essi lo fanno spesso con grande superficialità. Ad esempio chi sostiene la possibilità di un Universo ciclico o vibrante (cfr. il paragrafo 2.1) che continua autonomamente e automaticamente a espandersi e a contrarsi all’infinito, dimentica il Secondo Principio di Termo-dinamica (cfr. il paragrafo 2.4), che sostiene una inevitabile degradazione dell’energia, cioè una non completa riutilizzazione dell’energia stessa. È perciò impossibile che l’Universo, dopo una dilatazione e una successiva contrazione, possa ritornare esattamente nelle stesse condizioni iniziali. Ma allora ritorna il problema che tutto deve essere cominciato: ma come?

Anche a proposito dei fenomeni biologici, l’ipotesi del caso non trova tutti d’accordo (ma su questo torneremo più avanti), così pure non è poi tanto semplice spiegare razionalmente i fatti eccezionali di Lourdes o la Sindone di Torino.  

 

Comunque queste argomentazioni non ci sembrano sufficienti per dimostrare le tesi dei credenti, perché il discorso è un altro: è un discorso di fondo, di metodo. Dio non è assolutamente il “tappa-buchi” della nostra Scienza, cioè colui che arriva là dove la nostra Scienza attuale non è in grado di arrivare. Anzitutto perché domani una Scienza migliore potrebbe colmare le lacune della Scienza attuale ... e Dio andrebbe in pensione, ma soprattutto perché Dio lo si raggiunge attraverso un’indagine non scientifica (nel senso della Scienza Sperimentale), ma filosofica da un lato e di Fede dall’altro. Semmai questi aspetti della Scienza ci possono stimolare all’apertura verso il mistero: sono un invito, un invito importante, ma niente più.

Ricordiamo l’episodio che viene attribuito a Napoleone, imperatore di Francia e allo scienziato Pierre Simon de Laplace (1749-1827), che gli spiegava il “funzionamento” del Sistema Solare. Al termine della spiegazione Napoleone avrebbe detto allo scienziato: “Tante parole sul Sistema Solare e nessuna all’Autore (cioè Dio) di questo Sistema”, a cui lo scienziato avrebbe risposto: “Sire, per le mie spiegazioni, non ho bisogno di questa ipotesi”. Affermazione esatta, dal punto di vista scientifico, anche se di fatto lascerebbe supporre un atteggiamento ateo, o anche solo agnostico, da parte dello scienziato.

 

 

5.5  CHI  PENSA  DI  CHIUDERE  IL  CERCHIO  UNA  VOLTA  PER  TUTTE

 

Qui tocchiamo il punto chiave del nostro problema. Esponiamo dapprima la posizione con cui non concordiamo, quindi la nostra, come sempre.

“Galileo è stato un errore, la Chiesa lo ha capito e non lo ripeterà più. Ormai Scienza e Fede hanno riconosciuto i rispettivi ambiti, la Scienza nell’immanente e la Fede nel trascendente, e quindi se ognuna di esse sta sul proprio terreno, i conflitti sono risolti in anticipo, anzi non sono neppure possibili”. Questa più o meno è la posizione di chi (ad esempio lo scienziato Antonino Zichichi) pensa che il cerchio del senso sia chiuso una volta per tutte, e i problemi tra Scienza e Fede siano risolti per sempre.

 

E invece no. O meglio: siamo d’accordo che i problemi del passato (pensiamo a Galileo e anche ai problemi suscitati dalla teoria dell’evoluzione di Darwin, tanto per ricordare ancora una volta i due esempi notissimi che abbiamo citato al paragrafo 3.1) sono ormai risolti, ma non possiamo assolutamente  essere sicuri che non ne sorgeranno di nuovi nel futuro. E, se sorgeranno, saranno risolti? E come lo saranno? E chi ce lo garantisce?

La realtà è unica e i campi di indagine sono diversi, ma i punti di contatto, o anche di attrito, tra Scienza e Fede sono frequenti. Certo, ciascuna di esse deve rimanere nel proprio ambito, deve riconoscere l’autonomia dell’altra, ma sono sempre uomini che operano nei due campi, uomini con le proprie idee, i propri sentimenti, le proprie emozioni, le proprie interpretazioni della realtà e i conflitti possono sorgere da un momento all’altro.

Chiaramente il confronto resta sempre aperto, sia per ripensare i rispettivi punti di vista, gli ambiti, i metodi, i risultati e il loro significato, cioè riflettere, chiarire, rielaborare, articolare, mediare ... sia per riformulare le proprie conclusioni, cioè ripresentarle in forma più coerente con il proprio metodo e più rispettosa del metodo e dell’ambito dell’altra.

 

Resta comunque il problema fondamentale: ci saranno sempre confronti e quindi possibili conflitti tra Scienza e Fede, chi e come garantisce che saranno sempre risolti? Chi e come garantisce che qualche nuova scoperta scientifica non sia capace di  svuotare dall’interno tutta la nostra Fede?

Esaminiamo anzitutto alcuni documenti ufficiali della Chiesa: li prendiamo dagli ultimi due Concili Ecumenici. Cominciamo con il Vaticano I.

 

La Santa Madre Chiesa insegna che a partire dalle cose create, per mezzo della luce naturale della ragione umana si possa conoscere con certezza Dio, principio e fine di tutte le cose; e che tuttavia è piaciuto alla sua sapienza e bontà rivelare al genere umano mediante una via diversa e soprannaturale, se stesso e gli eterni decreti della sua volontà” (Dz. 3004).

 

“A questa rivelazione è da attribuirsi il fatto che quelle cose che nei misteri divini per sé non sono inaccessibili alla ragione umana, nella presente condizione del genere umano possano essere conosciute da tutti, facilmente, con ferma certezza, e senza alcun errore” (Dz. 3005).

 

Attenzione! Questi testi sembra diano ragione a Severino (v. paragrafo 3.3) nel senso che è di Fede (“La Santa Madre Chiesa insegna ...”) che possiamo conoscere Dio con la ragione (“... per mezzo della luce naturale della ragione umana ...”). Sarebbe un fideismo.

Vediamo invece il Vaticano II.

 

“La ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la Fede, perché le realtà profane e le realtà della Fede hanno origine dal medesimo Iddio” (“Gaudium et Spes”, 36).

 

Anche qui attenzione! Dio appare la fonte di entrambe le realtà, sia le “realtà profane”, sia le “realtà della  fede”. Di fatto il Vaticano II richiama il Vaticano I, ma con un linguaggio più moderno. Certo, Dio è la fonte di tutta la realtà, nelle sue varie articolazioni, e quindi sono impossibili i contrasti, ma il problema si ripresenta se mi domando: come conosco Dio? Con la ragione oppure con la Fede? Ritorna ancora una volta il dilemma di Severino. L’insegnamento dei Concili è vero, però “funziona” soltanto “a valle”, cioè dopo che uno ha già fatto una scelta per Dio (con la Filosofia, o con la Fede, o con entrambe), ma risulta incompleto per chi, come noi in questo momento, vuole studiare il problema “a monte”, alle radici.

 

Chiaramente scartiamo ogni posizione puramente pragmatica, suggerita da chi vede le cose dall’e-sterno: la Chiesa dovrà certamente adattarsi al mutare degli ambienti e delle circostanze in cui si trova a vivere; adattarsi significa praticamente cambiare “alcune cose”, e tra queste vengono collocati anche i dogmi. Noi possiamo tranquillamente parlare di “riformulazione del dogma”, nel senso di esplicitazione delle verità solo implicite, o di più precisa definizione, o anche di estensione o di riduzione di ambiti di riferimento o di significato, ma il dogma è dogma e resta dogma e non può essere semplicemente cambiato o abolito. Non è questa la strada per risolvere il problema.

 

La nostra posizione si rifà sostanzialmente a quanto esposto in precedenza illustrando l’ipotesi realista. La realtà stessa è profondamente unitaria e noi la cogliamo con quello sguardo intuitivo, originario, fondamentale, oscuro e ricco, poetico, simbolico. Da questa percezione prendono corpo e si sviluppano tutte le conseguenze teoriche e pratiche della posizione che abbiamo presentato, due delle quali ci interessano in modo particolare:

 

a)         Anzitutto cogliamo, nell’unità dell’essere, l’articolazione, la mediazione, la riflessione razionale, che conduce all’analisi del tutto e quindi alla Filosofia, alla Scienza, e poi ai vari rami della Scienza e allo studio dei rapporti reciproci attraverso gli strumenti che di volta in volta sono più opportuni.

 

b)         Inoltre, ed è altrettanto importante dell’osservazione precedente, percepiamo intuitivamente che la ragione non è tutto, che c’è spazio per altre aperture, che l’essere non si svela solo con la ragione; è chiaro: si tratta di percezione oscura e non ancora esplicita. L’incontro con la Fede, quando avviene, fa dire poi: “Ecco!”, e si apre un altro campo, e su questo terreno ritroviamo quel Dio che avevamo già intuito con la ragione.

 

E a questo punto, e solo adesso, possiamo dire che l’unità dell’essere si fonda sulla unità di Dio, che non si contraddice, e che con la ragione si può conoscere: è Dio stesso che, rivelandosi, ce lo dice esplicitamente. In questo modo “ricuperiamo” i testi dei Concili che abbiamo esaminato.

Quindi, in sintesi: unità della realtà, percepita con uno sguardo intuitivo fondamentale; articolazioni diverse attraverso la ragione; intuizione di altri spazi, che si aprono con la Fede; scoperta di Dio come fonte di unità.

 

Concludendo possiamo affermare che la risolubilità dei conflitti tra Scienza e Fede è garantita dall’unità profonda della realtà che appare all’intuizione iniziale (chiaramente un inizio logico, più che cronologico): un’intuizione che non è né di ragione, né di Fede, ma appunto un’in-tuizione che abbiamo chiamato simbolica, poetica, antecedente perciò tanto alla ragione quanto alla Fede.

 

Esposta con chiarezza la nostra posizione, possiamo anche accogliere parzialmente l’ipotesi “prag-matica”, nel senso che la Chiesa, nel tempo, può cambiare “qualcosa” delle e nelle sue posizioni. È vero, sul piano storico molto spesso la Chiesa ha risposto “No!”, al primo annuncio di scoperte scientifiche, poi le ha tranquillamente accolte. Perché? Perché a volte queste scoperte erano proposte (e talvolta lo sono ancora oggi), entro un ambito di strumentalizzazione, al fine di negare delle verità di Fede. Nasce allora una specie di dialogo tra sordi. Lo scienziato dice: “I miei risultati ci sono, se tu Chiesa in qualche modo li neghi, sei contro la Scienza e io non posso accettare la tua posizione”. E, a sua volta, la Chiesa ribatte: “I miei valori ci sono e li conosco bene, se le tue scoperte li negano, vuol dire che non sono autentiche, ed io non posso accettarle”.

Poi però ci si accorge che le cose non stanno effettivamente così, gli atteggiamenti polemici si smorzano, i problemi vengono riesaminati con attenzione e allora si arriva ad una soluzione. In particolare, da parte della Chiesa, si riesce a cogliere meglio il rapporto tra contenuto di una verità posseduta e relativo mezzo espressivo, soprattutto per quanto riguarda i contenuti della rivelazione. Un esempio, che potremmo chiamare “classico” a questo proposito, è costituito dal linguaggio usato per il racconto della creazione: i famosi “sei giorni”. Non si tratta evidentemente né di giorni, nel senso attuale, né più in generale di epoche, o di periodi, o di fasi, ma di sei “stanze”, o “strofe”, o più semplicemente “parti” o “porzioni” in cui è suddiviso il racconto, chiaramente un racconto in stile poetico, cioè simbolico e allegorico. Tutt’altra cosa, evidentemente, è la descrizione dell’origine dell’Universo data dalla Scienza.

 

 

5.6  ALCUNI  PROBLEMI  SPECIFICI

 

Prima di concludere il capitolo vogliamo affrontare alcuni problemi particolari sul tema del nostro corso, senza pretendere né che comprendano tutti i problemi attualmente posti tra Scienza e Fede, né tanto meno che le nostre proposte di soluzione siano le uniche o le più complete.

Ricordiamo comunque ancora il nostro punto di vista fondamentale, cioè la conciliabilità in linea di principio tra Scienza e Fede in base al punto di partenza del nostro pensiero: l’intuizione dell’essere nella sua fondamentale unità.

Nella nostra analisi ci serviremo soprattutto del lavoro di Karl Rahner: “Scienza e Fede cristiana” (pagg. 29-84),  pubblicato dalle Edizioni San Paolo.

 

 

5.6.1  “DIO  E  LA  NUOVA  FISICA

      

Si tratta del titolo di un libro (ed. Mondadori, 1984) di un fisico inglese, Paul Davies, che ci serve per introdurre un problema attuale; possiamo schematizzarlo così: il problema di Dio e della creazione, un confronto tra Fisica e Teologia.

Diciamo subito che la “fonte” principale è proprio lo scienziato citato poco sopra. Il problema posto è trattato a fondo e da angolature diverse nel suo libro: “Dio e la nuova Fisica”, ma ricompare sporadicamente anche in altri libri e articoli dell’autore stesso. Ricordiamo, tra gli altri, i libri “Sull’orlo dell’infinito” e “Superforza” (entrambi pubblicati da  Mondadori), e l’articolo “Questo mondo è così difficile, ci vorrebbe Dio”, pubblicato su un supplemento al quotidiano “La Repubblica” (3.12.1986).

La posizione di Davies è, tutto sommato, abbastanza oscillante tra l’eliminazione di Dio e la possibilità che Dio comunque abbia un ruolo nella creazione. Che cosa dice in sostanza? La “nuova” Fisica (cioè la Fisica più recente, relativistica, quantistica, Fisica delle particelle e subparticelle, l’Astrofisica, la Cosmologia) può spiegare (se non adesso, almeno in un futuro più o meno prossimo) in modo completo e totale, cioè attraverso leggi, diciamo, “interne” e autonome, come è nato l’Universo. È curioso come l’autore insiste in questa specie di “lotta” tra scienziati e teologi nel “togliere” o nel “dare” a Dio un  qualche ruolo nella creazione, per concludere che, secondo lui, la Fisica, alla fine, potrà fare a meno di Dio. Ricordiamo anche la frase dei due scienziati, citata nel paragrafo 3.2: “A questo punto è forte la tentazione di [...] ipotizzare che tutto l’Universo sia nato letteralmente dal nulla”.

 

Che cosa rispondiamo?

 

Semplicemente che Davies (e questo vale anche per i suoi “colleghi” che abbiamo appena citato) sarà anche un ottimo scienziato, su questo non abbiamo niente da dire, ma certamente non è né un filosofo, né un teologo, anche se si permette di trattare temi di Filosofia o di Teologia sulla base di opinioni personali, che molto spesso non vanno al di là di un comune buon  senso. E come il solo “buon senso” non ci permette di trattare problemi di Fisica, non ci permette neppure di trattare problemi di Filosofia o di Teologia.

Sulle tesi di Davies vedi anche il pensiero di Polkighorne, riportato al paragrafo 7.4.

Certamente nel passato ci possono essere stati filosofi o teologi che sostenevano teorie sorpassate scientificamente oppure che sconfinavano indebitamente in terreni non di loro competenza. Ma oggi non è più così.

Quindi certe “pretese” che Davies attribuisce ai teologi sono puramente inventate.

 

D’altro canto possiamo dire molto chiaramente che le Scienze fisiche possono cercare dove, come e quando vogliono, in  tutti i campi senza alcun limite o vincolo (a parte le norme etiche che vincolano tutti!). Trovino pure, le Scienze fisiche, che il mondo si è sviluppato “da solo”, in modo autonomo, senza interventi diretti di Dio (attenzione però: una frase come quest’ultima è già Filosofia e non più Scienza, ma non approfondiamo!). La cosa essenziale è che dal proprio punto di vista la Scienza non può né negare, né affermare l’esistenza di Dio e di un suo rapporto con il mondo e con l’uomo.

 

Il punto è proprio questo: la creazione non è tanto o soltanto un atto di Dio, ma è un rapporto profondo e totale tra Dio e il mondo, il Cosmo. Ora questo rapporto viene colto sia attraverso un’analisi del mondo, nel suo complesso, nella sua totalità, con metodi filosofici (e non scientifici), sia, e a maggior ragione, nell’ambito della Rivelazione. “Come” poi abbia agito Dio nella creazione, e nella conservazione dell’Universo, questo né la Filosofia, né la Teologia possono dirlo; solo la Scienza può dire come si svolgono le cose, senza però poter fare riferimento a Dio.

Per inciso diciamo che sarà l’uomo concreto, che è scienziato (o almeno che conosce i risultati della Scienza) e che è al tempo stesso credente, a fare i collegamenti ... come viene presentato nell’ultima parte (cfr. il capitolo 6).

In ogni caso, quali che siano le scoperte della Scienza, essa ci dirà sempre e solo come vanno (o come sono andate) le cose (magari ci dirà che la natura ha delle potenzialità insospettate, ad esempio nel dare origine in modo completamente autonomo a tutta la realtà nei suoi vari aspetti ... va benissimo!), ma, ripetiamo, la Scienza non potrà mai dire nulla circa il rapporto profondo e totale delle cose con Dio creatore. (Vedi, anche su questo problema, il paragrafo 7.4, già citato poco sopra, dove si riporta il pensiero di Polkighorne).

 

 

 

5.6.2  LA  BIOLOGIA:  L’EVOLUZIONE  E  IL  CASO

 

Anche questo è un grosso problema. Lo affrontiamo prendendo spunto da un libro di uno scienziato francese, premio Nobel per la Medicina e la Biologia, Jacques Monod, pubblicato alcuni anni fa e che ha avuto ed ha tuttora un grande successo (cfr. anche il paragrafo 3.2). Il libro si intitola “Il caso e la necessità” (ed. Mondadori) e tratta, a partire dall’aspetto scientifico, i problemi generali dell’evoluzione biologica, sostenendo apertamente una posizione neodarwiniana.

Monod è certamente magistrale nel presentare i problemi dal punto di vista scientifico, poi però trae delle conclusioni che vanno ben al di là della Scienza e toccano il terreno proprio della Filosofia. Esaminiamo una delle sue conclusioni  più tipiche: “L’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo” (pag. 143). L’Autore infatti, accettando e sostenendo apertamente l’ipotesi dell’evoluzione in nome del puro caso, nega la presenza del finalismo come elemento fondamentale dell’evoluzione stessa. Nella sua affascinante esposizione, Monod analizza i rapporti tra i due elementi presenti nell’evoluzione del vivente: l’esistenza di un progetto, rilevabile attraverso il finalismo (che lui chiama “teleonomia”), e l’invarianza riproduttiva, cioè il fatto che tutte le strutture elementari di ogni vivente (si parla infatti di Biologia molecolare) si riproducono in modo costantemente uguale a se stesso, a parte qualche piccolissima mutazione casuale. Quale dei due è “causa” dell’altro? “Il finalismo è fondamentale, secondo le religioni e tutte le filosofie creazioniste o spiritualiste - dice Monod - e l’invarianza riproduttiva ne è la conseguenza, protetta, diretta, orientata. Mentre in realtà - continua - quello che chiamiamo ‘finalismo’ non è altro che la conseguenza, per così dire, un sottoprodotto della invarianza riproduttiva, unita a piccole mutazioni accidentali e, come si diceva, puramente casuali”. Chiaramente, negando il finalismo, viene negata anche la progettualità di Dio. In sintesi: progetto sì, progettista no.

Si può accennare ad un altro problema collegato: sembrerebbe che sostenendo una evoluzione di questo tipo si possa affermare che “il più viene dal meno”, contro una posizione tipica della Filosofia tradizionale.

Contro questa posizione, ed altre molto simili, si è schierata da tempo una certa critica cattolica che pretende di demolirle dall’interno, cioè con dei ragionamenti basati sul valore scientifico delle affermazioni di Monod. Ma lo scopo vero di queste critiche a Monod è l’affermazione dell’originalità del finalismo e quindi la necessità della creazione e di Dio. Citiamo, ad esempio, un articolo di Giovanni Blandino pubblicato dalla rivista “Rassegna di teologia” (n. 3, 1986): “L’attività scientifica e divulgativa di questi scienziati a favore del neodarwinismo [...] ha diffuso tra la gente la convinzione che la dottrina neodarwinista sia stata ormai pienamente dimostrata e che, quindi, la classica prova filosofica dell’esistenza di Dio basata sull’ordine biologico sia senza valore. Anche molti sacerdoti cattolici si sono convinti di questo” (pag. 241).

C’è  poi una posizione abbastanza curiosa, quella di David Bartholomew, professore di Matematica in un Istituto universitario di Londra, che afferma (nel libro: “Dio e il caso”, ed. S.E.I.) che Dio è compatibile con l’ipotesi del caso, anzi che la scelta del caso è il modo migliore con cui Dio poteva creare il mondo ed operare in esso.

 

Che cosa rispondiamo?

 

a)         Anzitutto è necessaria una rielaborazione più attenta delle prove dell’esistenza di Dio, alla luce di tutta la problematica moderna. Non dobbiamo aver paura della Scienza, che forse può sconvolgere certe impostazioni tradizionali delle prove stesse, ma che non può distruggere il valore delle prove in linea di principio. È chiaro comunque che non possiamo occuparci di questo problema: vogliamo solo affermare che a volte non serve sostenere certe “prove” nella loro impostazione tradizionale, come sembra fare Blandino.

 

b)         Come già detto, cioè come sempre, è necessario distinguere i piani: se “loro” sbagliano quando pretendono di dimostrare la non esistenza di Dio a partire da affermazioni scientifiche, anche qualcuno dei “nostri” sbaglia quando li critica, apparentemente dall’interno della Scienza, in realtà introducendo nel discorso scientifico proposizioni derivate dalla Filosofia o addirittura dalla Teologia. In altre parole non deve essere la preoccupazione di “perdere” qualcosa sul terreno filosofico, il motivo della critica di posizioni scientifiche.

 

 c)        C’è comunque una critica  interna, cioè autenticamente scientifica all’ipotesi del caso. Citiamo ad esempio il libro di Pierre P. Grassé: “L’evoluzione del vivente” (ed. Adelphi), dove l’autore giudica nettamente insufficiente tale ipotesi e invita a ripensare tutto il problema dal punto di vista scientifico (ma non si sogna certo di rivendicare con questo l’esistenza di Dio!). Da questo punto di vista non sembra valida nemmeno la tesi di Bartholomew: tutto sommato anche qui si confondono i piani. Forse la sua analisi potrebbe avere un certo valore dal punto di vista psicologico contro chi nega Dio in nome del caso.

 

d)         Noi però possiamo rivendicare tranquillamente la nostra autonomia e ammettere che il rapporto Dio-mondo è di tipo trascendente, e solo in base a questo rapporto possiamo affermare l’esistenza di un finalismo. Lasciamo che siano gli scienziati a discutere liberamente sulla validità scientifica dell’ipotesi del caso; se essi giungessero ad ammetterla come definitivamente provata, ciò non toglierebbe una virgola alla nostra tesi dal momento che, come si diceva, il finalismo, a carattere generale, rientra da un altro punto di vista, cioè quello dell’analisi filosofica. Analogamente va vista la questione circa il “più” e il “meno”. Chiaramente si tratta di un “più” che viene da un “meno” quali appaiono a livello empirico, fenomenologico. Nessuno però può negare che chi, come noi, ammette l’esistenza di  Dio, possa pensare che tutto è profondamente e intimamente legato a Dio stesso che guida e coordina l’evoluzione, naturalmente attraverso le cause seconde.

In definitiva è tutto il problema del rapporto Dio-mondo che va rivisto e rielaborato anche alla luce delle scoperte scientifiche.

 

 

5.6.3  L’ORIGINE  DELL’UOMO

 

Dicono le Scienze che entro il quadro generale dell’evoluzione l’uomo “emerge”, cioè spunta, viene su, viene fuori a partire dall’animale. Ma come si concilia tutto questo con la storia della creazione dell’uomo, quale appare dalla Rivelazione? Con il suo essere assolutamente diverso dall’animale? Con  la  sua storia della salvezza?  E quindi con il problema del  peccato originale?

A proposito del peccato originale diremo qualcosa nel prossimo paragrafo. Esaminiamo invece l’origine dell’uomo in se stessa.

Rahner definisce l’uomo come “l’essere corporeo dotato di una trascendentalità in linea di principio illimitata e di una apertura illimitata all’essere in generale mediante la conoscenza e la libertà”. Con questa definizione viene completamente eliminato il problema dei rapporti tra intelligenza umana e intelligenza animale: la caratteristica dell’uomo non è soltanto una intelligenza superiore a quella dell’animale, che pure manifesta intelligenza, ma proprio questa trascendentalità, questa apertura illimitata all’essere, mediante la libertà. In ciò si differenzia totalmente e assolutamente dall’animale.

Trascendentalità, quindi, cioè capacità di trascendere tutte le situazioni, le condizioni, gli ambienti in cui si trova per porsi liberamente e coscientemente di fronte a se stesso e all’essere, all’assoluto; in definitiva, a Dio. Questo è ciò che caratterizza l’uomo.

È possibile pensare l’uomo inserito nell’evoluzione universale? E come?

 

La risposta, anche quella ufficiale della Chiesa, è “Sì” per quanto riguarda la corporeità, ad una condizione, cioè: l’“anima” dell’uomo è frutto di un “atto creatore di Dio”.

Se con ciò si intende “sottolineare - dice Rahner - il fatto che la trascendentalità del soggetto umano non può essere derivata semplicemente dai suoi presupposti materiali [...] allora tale formulazione ecclesiale è nel giusto”. Se però si intende per “creazione dell’anima” un atto di Dio, cioè un intervento creativo cronologicamente situato al momento dell’unione delle cellule germinali, allora ci sono alcune difficoltà.

 

a)         Prima di tutto c’è il problema dei gemelli monozigoti, che dovrebbe postulare un doppio intervento di Dio. Ma come? E quando? Al momento del concepimento? Oppure al momento dello “sdoppiamento” dello zigote (che avviene entro il quattordicesimo giorno dal concepimento)? E non è facile districarsi in queste difficoltà.

 

b)         “Inoltre - continua Rahner - se riflettiamo che la causalità divina - che sopra abbiamo postulato come fondamento e sostegno dinamico di ogni evoluzione, anche se non come fenomeno osservabile dalle Scienze naturali - si specifica ovviamente a seconda del fine dell’autotrascen-denza dal basso verso l’alto, di cui essa è fondamento ontologico, allora possiamo senz’altro dire che la causalità divina che sorregge l’evoluzione in generale così come essa deve essere all’opera qui, può essere identificata con la ‘creazione dell’anima’ insegnata da Pio XII”.

 

In parole povere: non è necessario ammettere o postulare un intervento diretto o miracoloso di Dio, basta rifarci alla causalità generale, cioè al rapporto totale e profondo che Dio ha con tutto il creato e che si differenzia a seconda della natura dell’essere a cui si riferisce. Chiaramente nel caso dell’essere umano, la causalità di Dio è all’opera nel generare l’“anima”, senza con questo “inter-ferire” con le Scienze naturali che “inquadrano - è sempre Rahner - la nascita dell’uomo (come umanità e come singolo) nell’evoluzione generale, senza distinguere in partenza tra corpo e anima, e fare affermazioni diverse su  queste due parti (che rettamente intese sono reali) dell’uomo”.

 

 

5.6.4  IL  PECCATO  ORIGINALE  E  LA  MORTE  COME  CASTIGO

 

Come intendere e spiegare il problema del peccato originale? E quindi il problema della morte, come relativa conseguenza; il tutto collegato con lo stato di paradiso terrestre, non conciliabile con alcun reperto di archeologia.

Vediamo.

Anzitutto il  peccato originale è un dogma definito dal Concilio di Trento, il quale parla di un peccato “propagatione, non imitazione transfusum omnibus” (Dz. 1513), cioè “trasmesso a tutti [gli uomini] per propagazione e non per imitazione”.

 

Come si concilia tutto questo con i dati della Scienza? Secondo la Scienza infatti:

 

a)         Non esiste alcuna documentazione dell’esistenza di un mondo iniziale paradisiaco, cioè il “paradiso terrestre” descritto dalla Bibbia nel libro del Genesi.

 

b)         Non è stabilito che l’uomo abbia avuto origine da un’unica coppia (monogenismo), ma sembra più probabile l’ipotesi poligenetica.

Anche se (1986) certi reperti archeologici sembrano rivalutare l’ipotesi monogenetica: l’umanità avrebbe avuto origine da un unico ceppo, al centro dell’Africa.

 

c)         La morte e il dolore erano preesistenti ad un “peccato”, ed anche all’uomo stesso, essendo inerenti alle strutture biologiche. Tra l’altro, il dolore, in se stesso, è un elemento in favore della vita, è un campanello d’allarme per prevenire ed evitare i pericoli e gli oggetti dannosi; ad esempio il “caldo” più intenso in relazione con il fuoco e le eventuali scottature.

 

Rispondiamo per punti.

 

a)         Anzitutto osserviamo che i racconti biblici sono sempre mediati dalla mentalità, dalla cultura, dall’ambiente, dalla personalità dell’autore. Certamente nel racconto del peccato originale entrano immagini mitologiche: risulta perciò molto difficile distinguere a prima vista quanto in tali racconti è la cosa propriamente affermata e quanto è il rivestimento mitologico. Neppure il ricorso alle affermazioni del magistero ecclesiastico può essere sempre utile “perché - dice Rahner - in tali affermazioni continua a volte a essere tranquillamente e irriflessamente tramandato o continua a far sentire il suo influsso il linguaggio mitologico”.

 

b)         In questo quadro il racconto certamente è di tipo invenzione-elaborazione e non di tipo testimonianza: perché l’autore non poteva essere presente ai fatti narrati e d’altro canto l’ispirazione biblica non può essere rappresentata come una specie di “suggerimento” di Dio all’orecchio dell’autore. Sembra piuttosto il racconto mitico di un uomo che riflette sulla condizione attuale dell’uomo. L’autore ha rilevato un primo logico nella storia dell’uomo e lo ha raccontato come un primo di tipo cronologico.

 

c)         Noi possiamo perciò accettare la prospettiva di Rahner, secondo cui “bisognerebbe investigare meglio di quanto si sia fatto finora se tali affermazioni (sulla protologia biblica e sul peccato originale, n.d.r.) parlano realmente di uomini determinati posti all’inizio in senso cronologico esatto (o di una prima popolazione, qualora non ci si debba attenere al monogenismo) oppure dell’‘uomo’ di tutti i tempi e luoghi”. In questa prospettiva il peccato originale è inteso come peccato dell’umanità nel suo complesso, cioè il crearsi e lo stabilirsi di una situazione di peccato, che ogni bambino che viene al mondo trova  e, crescendo in essa, la ratifica con la propria adesione, cioè il proprio peccato personale. La storia della libertà dell’uomo è coestesa quindi con la storia del peccato dell’uomo.

 

d)         Un rilievo particolare va posto sulla importanza della solidarietà umana. Ogni uomo ha radici profonde entro il proprio ambiente, la propria comunità, e più in generale entro la comunità umana nel suo complesso. Pensiamo ai problemi del mondo grande e piccolo, che quotidianamente vengono proposti a tutti e dei quali tutti più o meno partecipano.

Chiaramente è possibile creare e vivere e trasmettere una situazione di disordine, di rottura, cioè di peccato: il peccato originale, appunto.

 

e)         Quanto al problema della morte diciamo senz’altro che un conto è la morte come fine dell’esperienza umana e un conto è la morte come dolore, sofferenza, pena, paura. Certamente è ammissibile anche teologicamente la morte come conclusione dell’esperienza umana, indipendentemente dal peccato. Sentiamo Rahner: “Ora poiché la morte presenta molti aspetti umani, esistenziali, non derivabili dalla sua essenza biologica soltanto, è senz’altro plausibile che questo o quel suo particolare aspetto sia dato solo in e con la costituzione ‘segnata dal peccato originale’ dell’uomo e che senza il peccato esso non sarebbe stato sperimentato e sofferto”. Chiaramente la Scienza può dire, dal suo punto di vista, che la morte è data indipendentemente dal peccato degli uomini ed è una eredità della preistoria biologica dell’umanità. Altrettanto chiaramente la Teologia può dire che il modo concreto della morte dipende in qualche misura dal peccato dell’umanità e quindi accogliere e interpretare il pensiero di S. Paolo.

 

 

5.6.5  IL  PROBLEMA  DI  INTELLIGENZE  ESTRATERRESTRI

 

Dicevamo nel primo capitolo dell’esistenza di circa cento miliardi di miliardi di stelle, prendendo i valori medi sul numero di galassie nell’Universo e sul numero di stelle per ogni galassia. Qualcuna di esse, anche solo una su mille, potrebbe avere dei pianeti e quindi su di essi potrebbe essersi sviluppata la vita, e persino la vita intelligente. Una volta gli scienziati erano propensi a considerare il fenomeno della vita come un fatto assolutamente eccezionale; oggi invece l’orientamento è piuttosto per la considerazione che la vita è un fatto abbastanza normale, poste certe condizioni. Tuttavia non abbiamo alcun dato di fatto per provare che la vita esiste oppure che non può esistere al di fuori del Sistema Solare: le distanze sono troppo grandi per qualche esplorazione diretta, e, nonostante le ricerche accurate, non è stato catturato finora alcun segnale che riveli la presenza di intelligenze nel Cosmo. E, all’interno del Sistema Solare, è ormai accertato che, a parte la nostra Terra, non esiste alcuna forma di vita.

Supponiamo che soltanto in un caso su dieci miliardi di stelle sia avvenuto tutto ciò: avremmo in tutto l’Universo ben dieci miliardi di civiltà.

 

a)         Primo problema: deriva dallo stupore dell’incarnazione del Figlio di Dio proprio sul nostro pianeta tra miliardi di altri. Stupore perché, in certo senso, questo fatto sembra andare contro il superamento dell’antropocentrismo, un processo iniziato con l’ipotesi eliocentrica di Copernico e conclusosi solo poche decine di anni fa con la scoperta che il Sole è una stella di media grandezza, situata in una zona intermedia della nostra Galassia, la quale a sua volta ha dimensioni medie rispetto alle altre galassie. Dal punto di vista della Scienza siamo “cittadini dell’Universo” del tutto “normali”, senza alcun privilegio particolare. Insieme a questo stupore, c’è un senso di smarrimento che deriva dalla scoperta dell’“insignificanza” del nostro pianeta, del nostro mondo, entro il mondo ben più vasto (ma veramente molto più vasto, come si è visto all’inizio) nel quale è collocato.

La risposta è duplice: anzitutto, per la prima parte, appare meglio il senso di Dio, della sua potenza, della sua sapienza, del suo amorevole interessamento per l’uomo, per questo piccolo uomo che abita in un remoto angolo dell’Universo ...

Inoltre, proprio da questa apparente sproporzione tra quello che viviamo e quello che conosciamo nell’Universo, appare il senso di superiorità dello spirito sulla materia. L’universo con l’uomo è un conto, senza l’uomo è un altro.

“Quando poi la Fisica moderna - dice Rahner - intraprende a decifrare la grandezza finita dell’Uni-verso effettivo, documenta ancora una volta la peculiarità dello spirito di fronte alla materia, spirito capace di porre se stesso e il proprio mondo di fronte a sé, e rende percettibile all’uomo la finitudine creaturale del mondo nonostante la sua incommensurabilità”.

 

b)         Secondo problema: la “nostra” storia della salvezza e la possibilità di altri mondi abitati da esseri intelligenti.  Come  è possibile? Come spiegare?

Prendiamo le parole di Davies, che abbiamo già incontrato:

“Tra l’altro, se davvero esistessero esseri estraterrestri intelligenti, molte religioni ne risulterebbero sconvolte: verrebbe infatti meno uno dei loro cardini fondamentali, e cioè il rapporto privilegiato tra Dio e gli uomini. La religione cristiana ne risentirebbe in particolar modo proprio perché predica che Gesù Cristo è Dio fatto uomo allo scopo di offrire la salvazione agli uomini della Terra. Immaginare tutta una schiera di ‘Cristi alieni’ che visitano sistematicamente ogni pianeta abitato assumendo l’aspetto fisico degli esseri che li abitano suona assurdo e grottesco. Ma, in caso contrario, gli alieni sarebbero destinati alla dannazione eterna”.

 

Si tratta di un problema difficile da risolvere sul terreno concreto perché le distanze astronomiche sono tali, che forse non sarà mai possibile sapere se esiste anche una sola civiltà estraterrestre. Resta comunque la questione di principio. Per la risposta ci serviamo, ancora una volta, delle parole di Rahner: “Chi volesse dilettarsi ad approfondire speculativamente questo problema [...] potrebbe dire che a tali esseri corporeo-spirituali bisogna ragionevolmente ascrivere un destino soprannaturale nella vicinanza immediata a Dio (nonostante tutta la gratuità della grazia), che però noi non possiamo sapere nulla della storia della loro libertà, che tuttavia dobbiamo ammettere. Né di fronte all’immutabilità di Dio in se stesso e all’identità del Logos si potrà dimostrare che una molteplice incarnazione in diverse storie della salvezza sia semplicemente inconcepibile. Diciamo tutto questo solo per mostrare che da parte della teologia non esiste necessariamente alcun veto assoluto contro una storia dello spirito su un’altra stella”.

 

 

5.7  CONCLUSIONI

 

Non abbiamo certo la pretesa di avere esaurito tutti i problemi legati al tema del nostro corso e nemmeno di avere dato risposte esaurienti a ciascuno dei problemi che sono stati presi in considerazione: ci sembra piuttosto, dopo aver affrontato la questione da un punto di vista più generale (capitolo 4), di avere analizzato, quasi a modo di campione, una serie di problemi che ci sono apparsi più immediati, più evidenti, più emergenti, quando si accosta il tema “Scienza-Fede”.

A ciascuno di essi abbiamo cercato di dare le risposte che ci sono sembrate coerenti con la nostra impostazione.

Possiamo perciò dire conclusa la parte del “confronto”; ci resta la parte positiva, di “proposta”, che affrontiamo nel prossimo capitolo.

 

 

5 . SCIENZA  E  FEDE:  PROSPETTIVE

 

 

La sosta al semaforo rosso della problematica è stata piuttosto lunga, anche se necessaria. Abbiamo cercato di sgombrare il terreno da tutte le difficoltà: speriamo di esserci riusciti.

A questo punto lasciamo alle spalle i problemi e la polemica; non ci preoccupiamo di chi la pensa diversamente: pensiamo a noi. Riprendendo e modificando in parte una espressione già citata in precedenza, diciamo: “Dalla distanza critica all’appartenenza”.

Adesso possiamo partire per la parte positiva, di apertura; per cercare di dare un piccolo contributo (piccolo, ma, speriamo, significativo) al nostro modo di vivere la Fede.

 

 

6.1  LA  STRUTTURA  DEI  VARI  APPROCCI  ALLA  REALTÀ

 

Cominciamo coll’esporre sinteticamente i diversi modi, le diverse articolazioni con cui l’uomo si accosta alla realtà per conoscerla, per esplorarla, in definitiva per viverla. Ci serviamo di un libro ormai classico, ma tuttora valido, di Jacques Maritain: “Distinguere per unire: i gradi del sapere”,  ed. Morcelliana.

Tante volte, nel corso dell’esposizione, abbiamo parlato dei diversi punti di vista, ciascuno dei quali valido, legittimo, autentico, ma nessuno esclusivo degli altri. Ciascuno può e deve far valere il diritto alla propria cittadinanza, ma non può assolutamente negare tale diritto a nessun altro. Vediamoli, dunque, questi modi. Fondamentalmente appartengono a tre categorie ben distinte:

 

a)         APPROCCIO RAZIONALE. È l’approccio della ragione, cioè del “logos” dei greci classici, e viene tradotto nei diversi aspetti del ragionamento, sia induttivo, sia deduttivo. Cioè, in parole semplici, il ragionamento è il passaggio, attraverso opportuni procedimenti, da alcune proposizioni, assunte come ipotesi, ad altre proposizioni, assunte come tesi. Possiamo parlare anche di “discorso”, dal momento che, etimologicamente, “discorrere” significa “correre qua e là”, cioè il passare da una frase ad un’altra. Espressione tipica, anche se non unica, del ragionamento, è il “teorema” così come compare nella Logica o nella Matematica. A questo tipo di approccio appartengono la Logica, la Matematica, le Scienze sperimentali, nelle varie specializzazioni (Fisica, Chimica, Biologia, Economia, Psicologia sperimentale, Sociologia con tutte le loro ulteriori specializzazioni ... quasi infinite!), la Filosofia e la Teologia. Sì, perché anche la Teologia è una Scienza; una Scienza speciale per il tipo di oggetto di cui si occupa, la Rivelazione, ma che svolge le proprie indagini con metodi del tutto razionali, né più, né meno della Filosofia e delle Scienze Sperimentali.

 

b)         APPROCCIO INTUITIVO. È l’aspetto emotivo, fantastico, simbolico dell’approccio alla realtà. È legato al “mythos” dei greci classici e comprende anzitutto l’Arte, nelle sue diverse manifestazioni, e poi la mistica nei suoi vari aspetti, le varie forme di approccio alla realtà legate al mito o più in generale agli aspetti simbolici della realtà stessa, e anche le varie manifestazioni dell’esoterismo (anche se su questo terreno ci sarebbero molte osservazioni da fare circa la competenza e l’onestà di chi lo pratica). Ci possiamo mettere, pur non ritenendole valide al fine di una autentica crescita umana, tutte le varie forme di magia o di superstizione.

 

c)         APPROCCIO FIDUCIALE. È l’accettazione di una verità, non sulla base di un’intuizione, né di un’esperienza diretta, né di un ragionamento induttivo o deduttivo, ma sulla fiducia in un’altra persona che ci comunica la verità stessa. A questa categoria appartengono sia l’esperienza comune (sono molto più di quello che si pensa le cose che accettiamo semplicemente dagli altri, senza averle verificate personalmente!), sia la Storia (anche se talvolta ci può essere un riscontro mediante reperti archeologici), sia la Fede. In quest’ultimo caso si tratta di una fiducia in certo senso “doppia”: in coloro che ci trasmettono una Rivelazione e in Dio autore della Rivelazione stessa. Facciamo rilevare la distinzione fondamentale tra Fede e Teologia (vedi anche quanto viene detto al capitolo 7). Fede è l’accettazione di una verità, e più propriamente l’adesione a tutta la verità rivelata, solo in quanto rivelata, cioè comunicata a noi da Dio stesso (sia pure attraverso degli strumenti umani). Teologia invece è una Scienza, cioè la riflessione razionale circa i contenuti della Rivelazione stessa. Ci può essere perciò una Fede senza una Teologia, o almeno senza una Teologia elaborata, anche se la Fede richiede sempre un minimo di riflessione razionale. E viceversa ci potrebbe essere una Teologia senza una Fede, anche se sembra molto difficile. Ricordiamo che quest’ultima posizione non è accettata da qualche teologo.

 

In sintesi: l’approccio intuitivo è un approccio immediato (diretto) alla realtà, mentre sia l’approccio razionale sia l’approccio fiduciale, sono un approccio mediato (indiretto), con mediazioni di tipo diverso, come abbiamo visto. Rimandiamo a quanto già detto in precedenza (paragrafi 4.3 e 5.5) circa i rapporti tra il fondamento ontologico della nostra conoscenza e le successive articolazioni a seconda dei diversi punti di vista.

 

 

6.2  LO  SPECIFICO  UMANO  E  LO  SPECIFICO  CRISTIANO

 

Cerchiamo ora di cogliere gli aspetti essenziali del rapporto, diciamo in modo generico, tra l’uomo e il cristiano, per vedere, nel prossimo paragrafo, il contributo della Scienza entro questo rapporto.

Guardiamo indietro, alla lunga storia dell’evoluzione che ha portato all’uomo: troviamo un “emer-gere” dell’umano a partire dall’infraumano. È la storia dell’umanità nel suo complesso, ma è anche una storia che si ripete in ciascuno di noi, e lo abbiamo già esaminato da un altro punto di vista: parte dal concepimento e giunge fino all’età adulta. Abbiamo il livello biologico (mani, gambe, volto, cervello, cuore, organi interni), il livello psicologico (coordinazione dei movimenti e più in generale dell’attività, costruzione e utilizzazione degli attrezzi, fino all’intelligenza, alla volontà, all’amore, alla libertà), il livello sociologico (organizzazione del gruppo e delle relazioni, posizione di tabù, soluzione dei problemi legati alla sopravvivenza).

Più specificamente umano è l’emergere dell’intelligenza, dell’amore, della libertà.

 

Vogliamo provare a dare una definizione più precisa dell’umano, dello specifico umano? Già Rahner aveva parlato di “trascendentalità illimitata” che si pone di fronte all’assoluto, nella libertà. Possiamo, in certo senso completare questa definizione dicendo che l’umano è la capacità di gestire (cioè prendere in mano e vivere, accettando o adattando) nella libertà (cioè entro un quadro di autoprogettazione) la nostra condizione, che a sua volta può essere definita come un rapporto tra finito e infinito.

Naturalmente si potrebbero dire  tantissime  cose  su  questa definizione ... come minimo rimandiamo ai trattati di antropologia per le opportune spiegazioni e chiarimenti.

 

Vediamo invece lo specifico cristiano: dove e come si colloca in rapporto all’umano? Il centro è il mistero di Cristo, cioè la sua incarnazione, la sua morte e la sua risurrezione.

 

a)         INCARNAZIONE. Significa l’assunzione totale dell’umano, del cosmico, della creazione, o più esattamente della creazione umanizzata, cioè l’uomo, tutto l’uomo con il suo corpo, il suo lavoro, la sua intelligenza, il suo amore, la sua libertà, la  sua Arte, la sua Scienza, la sua Tecnica ... Tutto quello che c’è di positivo dell’uomo e nell’uomo è stato assunto da Cristo, cioè fatto suo, fatto proprio, valorizzato, mediante l’incarnazione.

 

b)         MORTE. È la radicale “trasgressione” dell’umano, la radicale relativizzazione, la radicale dichiarazione di inutilità dell’umano, il radicale fallimento di tutto ciò che è umano, in quanto umano. S. Agostino diceva: “Virtutes paganorum, splendida vitia”, cioè “le virtù dei pagani sono dei vizi splendidi”: sono splendidi, perché in sé stessi positivi, buoni, ammirevoli; ma sono “vizi”, cioè non servono a nulla, completamente inutili nella prospettiva annunciata e instaurata da Cristo.

 

c)         RISURREZIONE. È la collocazione dell’umano in un’altra dimensione (“relativizzare”, infatti, etimologicamente significa “mettere in relazione”), una dimensione assolutamente non paragonabile con la precedente, assolutamente superiore: decisamente un’altra. Quindi inutilità, relatività, fallimento della dimensione precedente per rapporto a questa nuova dimensione. E qual è questa nuova dimensione? Ci sono molti modi per definirla; le due immagini migliori ci sembrano essere quella di “figli di Dio” e di “incorporati a Cristo”. Attenzione: la morte è la negazione di tutto, ma non é l’ultima realtà; l’ultima realtà è l’inserimento in questa nuova prospettiva, di tutto il mondo precedente. Tutto ciò che è umano, per così dire, muore e rivive.

Cerchiamo di chiarire con un esempio: la corporeità-spazialità. A livello puramente umano è ambivalente: ci dà la possibilità e le condizioni per lo sviluppo, per l’azione, per la crescita, per essere uomini. Ma al tempo stesso rappresenta un ostacolo, nel senso di limite, di barriera all’espansione di tutti i nostri desideri: la morte è il segno più evidente di tutto ciò; è stato così anche per Cristo.

Ma Cristo è risorto e da risorto non ha eliminato la propria corporeità (“Accosta la mano e tocca il mio fianco”, vangelo di Giovanni 20,27; “Avete qualcosa da mangiare?”, vangelo di Luca 24,41), ma l’ha assunta in un’altra dimensione, superando tutti i limiti legati ad essa e ai quali era lui stesso soggetto, durante la sua vita. A volte si dice che il Cristo risorto “passava attraverso i muri”, ma più esattamente, seguendo i vangeli, dobbiamo dire che “appariva” e “scompariva”, non legato, quindi ai limiti della corporeità.

Ecco perché San Paolo può dire: “E se talvolta abbiamo considerato così Cristo, da un punto di vista puramente umano, ora non lo valutiamo più in questo modo” (2 Lettera ai Corinzi 5,16), cioè quello che conta non è la dimensione precedente, “carnale”, di Cristo, ma questa nuova realtà, nella quale tutta la realtà precedente non è negata, ma vi risulta inserita e trasfigurata.

 

 

6.3  IL  CONTRIBUTO  DELLA  SCIENZA

 

La Scienza, come costruzione umana, quindi dotata di valore umano, può offrire “qualcosa” alla Fede; certo un  “qualcosa”  che viene “assunto”, “relativizzato” e “inserito” nella dimensione della Fede stessa, come abbiamo visto in precedenza.

Che cosa? Tutto!

La Fede ci dice che tutto è dono di Dio attraverso i concetti fondamentali di creazione e di incarnazione. La Scienza ci dice che cos’è questo dono, come è fatto, come opera; non ci svela la modalità di essere dono, ma ci svela le modalità concrete in cui il dono si realizza, si manifesta.

 

Facciamo un esempio: ricevo un regalo, supponiamo una penna stilografica. In essa non c’è scritto che è un regalo; me lo dice, direttamente o indirettamente, colui che me lo fa. Ma che cosa mi “dice” la penna? Mi dice come questo regalo è stato fatto, che cosa c’è concretamente in questo regalo: la funzionalità, la preziosità, la bellezza. Sono dei dati oggettivi, presenti comunque nella penna, indipendentemente dal fatto che si tratta di un regalo. La modalità del regalo consiste nell’assumerli e nel collocarli appunto in un’altra dimensione: quella del ringraziamento, o dell’amicizia, o dell’amore, o di un qualunque altro sentimento amichevole.

 

Uno scienziato ateo e uno scienziato credente possono benissimo lavorare insieme ed intendersi perfettamente sul piano scientifico. Però fanno due letture completamente diverse sul significato del loro lavoro. Teilhard de Chardin, gesuita e scienziato francese scomparso qualche decennio fa, dice chiaramente di sentirsi impegnato nel lavorare con la materia almeno tanto quanto il collega materialista e ateo, anzi più di lui, perché considera la materia un dono di Dio (contro certi atteggiamenti di disimpegno in questo mondo, in vista dell’altro mondo, assunti dai cristiani in altre epoche), però non adora la materia: passa spontaneamente dal dono al donatore, Dio. “[Dio] è in qualche modo - dice - sulla punta della mia penna, del mio piccone, della mia pinza, della mia bussola - del mio cuore, del mio pensiero” (“Le milieu divin”, ed Du Seuil, pag. 54, tradotto anche in italiano).

 

Facciamo due altri esempi.

 

Il merlo fischia e, se vogliamo essere anche “poetici”, possiamo aggiungere “su un ramo fiorito, in un tiepido mattino di primavera ... ”. Il pensiero classico, un po’ ingenuo, diceva che con il suo canto il merlo dà lode a Dio. Poi vennero gli scienziati moderni, più esattamente gli studiosi di etologia, cioè del comportamento animale in generale e anche umano, e affermarono che il canto del merlo, e di qualunque altro uccello, ha delle funzioni particolari, ad esempio la “dichiarazione di proprietà” sulla femmina e/o sul territorio, contro eventuali altri pretendenti o rivali.

Dio non c’entra più?

Certo, la Scienza fa benissimo a non prendere in considerazione l’ipotesi di Dio: è fuori dalle sue prospettive e dai suoi metodi di lavoro. Ma per il credente è possibile cogliere il senso profondo della realtà e vedere anche attraverso i risultati della Scienza il modo di operare di Dio. Possiamo perciò tranquillamente vedere ancora che il nostro merlo dà lode a Dio con il canto, ma in senso più generale, cioè nello svolgere i suoi ruoli, di difesa o di protezione, ruoli che la Scienza va man mano scoprendo e chiarendo. Ancora una volta è l’uomo che, con la Scienza, scopre i contenuti della realtà e con la Fede li riferisce a Dio come all’Autore di tutto.

 

Il secondo esempio lo prendiamo dalla danza. Immaginiamo una ballerina classica che sta danzando. Alla base, ma proprio alla “base molecolare” dei suoi movimenti troviamo aspetti studiati dalla Fisica e dalla Chimica, cioè le particelle sub-elementari, elementari, atomiche e molecolari, le reazioni chimiche nei muscoli, gli impulsi nervosi che si trasmettono lungo i nervi come lungo dei cavi elettrici, l’ossigeno e lo zucchero che alimentano, attraverso il sangue, le cellule che consumano energia ... Tutto questo riceve un senso nella Biologia, cioè nelle contrazioni muscolari, nel calore corporeo, nella regolazione del battito cardiaco e della respirazione a seconda dello sforzo, nella complessiva coordinazione dei movimenti ... A sua volta tutto questo riceve un senso nello spazio umano, cioè nell’armonia, nel ritmo, nella grazia dei movimenti, nel gusto estetico, nella trasmissione di un messaggio umano attraverso il gesto: commedia, o dramma, o tragedia ... Se guardiamo le cose nell’ipotesi che stiamo esaminando, cioè la Fede, tutto questo riceve infine un senso nello spazio cristiano: quella danza è un momento in cui la ballerina vive ed esprime la sua vita di grazia, di figlia di Dio, di incorporata a Cristo. In lei tutta la ricchezza del suo corpo e della sua mente (dalle reazioni chimiche a livello molecolare fino ai suoi pensieri e ai suoi affetti più profondi) è orientato a Dio: tutto.

E non si tratta di un esempio casuale; abbiamo in Italia un caso concreto di una ballerina classica che si dichiara apertamente cristiana e che proprio attraverso la danza vuole trasmettere un messaggio cristiano: Liliana Cosi.

 

 

6.4  CONCLUSIONI

 

Siamo giunti alla fine del nostro breve corso sui problemi relativi ai rapporti tra Scienza e Fede; cerchiamo ora di trarre qualche conclusione complessiva. Come già altre volte in questo corso, saremo un po’ schematici.

Tutta la realtà può essere guardata, per così dire, sotto tre punti di vista generali: l’uomo, il mondo, Dio; attraverso tre discipline particolari, rispettivamente l’Antropologia, la Cosmologia, la Teologia.

 

Spazio antropologico e spazio cosmologico. Completiamo il paragrafo precedente: abbiamo parlato delle “meraviglie della natura”, come dono di Dio, ma è chiaro che tutto questo è possibile soltanto attraverso la presenza dell’uomo. La natura si rivela come meravigliosa soltanto all’uomo che la domina, che la usa, che la possiede, che le impone il suo spazio, il suo tempo, i suoi ritmi ... magari rovinandola, talvolta (o spesso!). In ogni caso per vedere le meraviglie della natura occorre prima umanizzare la natura stessa. Si parla male, talvolta, del turismo, che rovinerebbe certi luoghi incantevoli, e spesso è vero. Ma non dimentichiamo che l’uomo può godere della natura solo se è ben protetto contro il caldo, o il freddo, o gli animali pericolosi, o i pericoli in genere. Altrimenti il primo compito diventa la sopravvivenza, e, di fronte al problema della sopravvivenza, scompare anche la bellezza di qualunque panorama.

Uno spazio cosmologico puro è lo spazio del terrore, delle insidie, della paura, del bisogno, del riparo, e quindi, se vogliamo, del sacro, del magico ... sarebbero interessanti ulteriori sviluppi di questo tema; qualche cenno sarà fatto più avanti. La storia cosmica è colta come tale proprio perché c’è una storia umana che vi si inserisce.

Anni fa c’è stata una spedizione bergamasca alle cime del Pukajirka (una catena alpina dell’America Latina) tra l’altro conclusasi tragicamente. Uno dei protagonisti, durante il racconto della spedizione, riferiva in particolare dell’incontro con le popolazioni indigene e riportava la domanda che alcuni di loro avevano posto agli scalatori, sul perché volevano scalare quella montagna. La risposta diretta è stata piuttosto evasiva, ma la vera risposta l’ha data a noi che ascoltavamo la sua relazione e cioè: “Noi scaliamo la montagna perché abbiamo la pancia piena”. Una risposta un po’ cruda, ma vera: è chiaro che il montanaro che vive magramente della sua montagna sarà poco disposto a godere dei panorami alpini; soltanto chi ha risolto i problemi fondamentali dell’esistenza può vedere la scalata come un piacere. Ebbene, proprio la Scienza e la Tecnica sono gli strumenti per questo controllo e per questa umanizzazione: non solo perché garantiscono la sopravvivenza attraverso il controllo (Tecnica), ma anche perché sono strumenti di penetrazione nei segreti del Cosmo (Scienza). Cioè sono fattori insostituibili (anche se non gli unici) per la creazione di uno spazio umano (antropologico) all’interno di uno spazio cosmologico. Ricordiamo, a questo proposito, la storiella di quel tale che, coltivando un campo abbandonato, lo aveva reso fruttuoso e al parroco che gli diceva come la Provvidenza aveva lavorato bene, rispondeva: “Doveva vedere però come lavorava la Provvidenza, quando lavorava da sola!”.

 

Spazio antropologico e spazio teologico. Proprio entro questo spazio umano, o antropologico, trova posto lo spazio teologico, o divino, o cristiano, o della Fede. Tutto è visto come dono (vedi quanto detto in precedenza), cioè offerto a Dio, perché tutto è umanizzato, cioè posseduto dall’uomo. Se il mondo appare ostile, non può certo essere visto come dono, al massimo come avversario da vincere, o almeno da fuggire o da cui proteggersi. Solo lo spazio antropologico è il luogo della Rivelazione di Dio (“La gloria di Dio è l’uomo vivente”, diceva S. Ireneo), non lo spazio cosmologico come tale. Quando si parla di teofanie, di luoghi sacri, cioè intrinsecamente sacri, “separati”, per volere del dio, siamo ancora nel regno della paura, della non umanizzazione dello spazio. A poco a poco l’uomo, sia pure con fatica, possiede lo spazio (e lo stesso discorso vale per il tempo), lo assimila, lo svuota di significati mistici o magici, lo “secolarizza”. A questo punto abbiamo due possibili sbocchi: l’ateismo, cioè la negazione della trascendenza di Dio, e lo sbocco cristiano, cioè la affermazione della trascendenza di Dio, ma anche la sua presenza nello spazio antropologico, cioè nella storia. Non più teofanie e luoghi o tempi sacri, ma presenza di Dio attraverso l’uomo: incarnazione di Cristo nella storia dell’uomo e incarnazione della Chiesa nella storia degli uomini.

Allora tutto lo spazio cosmologico riappare come dono vero, perché tutto (e non solo certe parti) è luogo della presenza di Dio, perché l’uomo (e la sua libertà) lo coglie come tale. Non è la chiesa-tempio che fa l’Eucaristia, ma è la chiesa-persone: la celebrazione potrebbe avvenire dovunque. E proprio l’atto centrale del culto cristiano, l’Eucaristia, è un banchetto, legato quindi ad una esperienza fondamentale dell’uomo, l’esperienza del mangiare, che, se ordinariamente avviene in luoghi determinati (la propria casa, o la mensa, o il ristorante) potrebbe avvenire, e di fatto avviene, in un luogo qualunque. Così è per l’Eucaristia.

Certo l’uomo ha ancora ed avrà sempre bisogno di segni (templi, statue, altari; tempi e momenti particolari), ma ormai sa che sono convenzionali, simbolici, evocativi, pedagogici, non magici: è l’uomo stesso che li costituisce come segni. Concludendo: lo spazio antropologico è, per così dire, il perno, cioè il punto di articolazione, tra lo spazio cosmologico e lo spazio teologico. O, più esattamente: lo spazio teologico si realizza entro lo spazio antropologico, che è lo spazio cosmologico “umanizzato”.

 

Vorremmo mettere al termine del nostro cammino, come premessa per un eventuale cammino successivo, la frase di S. Agostino: “Signore, che io conosca te e che io conosca me” (dalle “Confessioni”). Se conosco davvero Lui e se conosco davvero me, allora capirò che la Scienza (come tutte la altre realtà) è un dono di Dio all’uomo per l’uomo, perché possa ancora e sempre meglio conoscere Lui e amare Lui, e ancora e  sempre  meglio conoscere me e i fratelli e amarli.

E allora, veramente, il cerchio del senso è chiuso, ed è chiuso nel modo giusto.

 

 

7 . APPENDICE.  PRESENTAZIONE  E  COMMENTO

     DEL  LIBRO  DI  JOHN  POLKINGHORNE: “SCIENZA  E  FEDE”

 

 

Prima di chiudere questi appunti sul problema dei rapporti tra “Scienza e Fede”, vogliamo presentare e commentare brevemente un libro (pubblicato in Italia, dalla Mondadori, nel 1987) che tratta problemi molto vicini ai nostri. A parte il titolo che, pur essendo identico a quello del nostro corso, e quindi a quello dei presenti appunti, come vedremo poco più avanti, non rispecchia totalmente il contenuto del libro, interessa rilevare la notevole consonanza dell’Autore con quanto da noi espresso, sia sul piano della Scienza, sia soprattutto sul piano della Filosofia e della Fede.

 

 

7.1  PREMESSA

 

L’Autore è un fisico teorico inglese: è stato Professore di Fisica-Matematica presso l’Università di Cambridge dal 1968 al 1979. Nel 1979 ha lasciato la ricerca e l’insegnamento universitario per diventare sacerdote della Chiesa Anglicana. Attualmente è vicario a Blean, nel Kent, in Gran Bretagna.

Si tratta certamente di uno specialista a livello mondiale nel campo della Fisica teorica, che, pur non avendo studiato Filosofia e Teologia con lo stesso approfondimento dedicato alla Scienza, è in grado comunque di poter stabilire con competenza un ponte tra i due rami di ricerca e quindi di insegnare qualcosa anche a noi che stiamo meditando sugli stessi temi e affrontando gli stessi problemi.

 

Il titolo più appropriato per il libro che stiamo presentando, sarebbe: “Scienza e Teologia” (del resto l’originale inglese aveva appunto come titolo: “Un solo mondo: l’interazione tra Scienza e Teologia”). Citiamo l’Autore: “Di fatto, Scienza e Teologia, a mio avviso, sono entrambe tentativi di esplorare la realtà” (pag. 3). Come già detto (cfr. il paragrafo 6.1) c’è una notevole differenza tra la Fede e la Teologia: la Fede, infatti, è l’adesione ad una verità perché‚ l’ha rivelata Dio, mentre la Teologia è la riflessione razionale sui contenuti della Fede. Polkinghorne comunque è un credente e parla da credente e, come dicevamo, ci sentiamo di condividere praticamente tutte le tesi che presenta, sia per quanto riguarda la Scienza, sia per quanto riguarda la Teologia e la Fede.

 

Il testo propone un gruppo di tesi, tra loro raccordate, e che si possono sintetizzare così:

 

*          Scienza e Religione non sono in contrasto e uno scienziato può benissimo essere credente.

 

*          Nonostante i limiti della razionalità, posti giustamente in evidenza dall’epistemologia contemporanea, non si deve abbandonare la convinzione che l’uomo possa cogliere frammenti di verità nel reale che lo circonda.

 

*          D’altra parte, l’orizzonte del conoscibile non è riducibile soltanto a ciò che esprimiamo col linguaggio delle Scienze sperimentali e matematizzate: “esistono anche prospettive religiose, altrettanto necessarie, ma esprimibili nel linguaggio qualitativo del simbolo” (pag. 13).

 

*          Scienza e Teologia sono entrambi tentativi di esplorare la realtà: la loro reciproca interazione potrà essere a volte difficile, spesso risulta feconda; ma, in ogni caso, è praticabile.

 

 

 

7.2  LA  NATURA  DELLA  SCIENZA

 

Il ruolo assunto dalla Scienza nel 1800 e le successive revisioni critiche, impongono un chiarimento circa la natura della Scienza. Il difetto di molte interpretazioni che vanno per la maggiore, dallo stesso Popper al sociologismo di Kuhn, all’anarchismo di Feyerabend, sta nel non tenere in debito conto l’effettiva pratica scientifica dei ricercatori.

Si scoprirebbe invece che, al di là di ogni indeterminismo, convenzionalismo o funzionalismo, ciò che motiva la ricerca scientifica è tuttora la convinzione della comprensibilità della natura. Una posizione realistica perciò; di un realismo che però deve essere “critico e non ingenuo”, consapevole che le Scienze affermano solo brani di verità, ponendo spiegazioni via via più adeguate, ma mai definitive e incontrovertibili. Documentiamo con ampie citazioni prese dal libro che stiamo esaminando.

 

“Supponiamo che l’Ufficio Meteorologico venga dotato di una macchina sigillata avente la capacità di prevedere in maniera corretta, una volta inseriti i dettagli della situazione meteorologica della giornata di oggi, il tempo di ogni giorno dell’anno a venire. Il ruolo predittivo dell’Ufficio Meteoro-logico, per quel che riguarda la previsione del tempo, sarebbe perfettamente soddisfatto. Forse che allora tutti i meteorologi dovrebbero far fagotto e tornarsene a casa? Niente affatto! Essi sono anche interessati a capire il modo in cui l’atmosfera terrestre, come una grande macchina termica, interagisce con il mare e le masse continentali per produrre il nostro clima. Sono sicuro che dopo poco tempo sorprenderemmo qualcuno intento a manomettere i sigilli della macchina nella speranza di scoprire il suo funzionamento e sperando di raggiungere in questo modo una migliore comprensione del sistema meteorologico di cui essa forniva un modello tanto accurato. Nessuna descrizione dell’impresa scientifica risulta adeguata se si dimentica di tenere nella giusta considerazione questa ricerca di comprensione insieme all’esperienza della scoperta che comunica agli scienziati la netta sensazione di essere arrivati a capire il fenomeno. Non ho mai conosciuto nessuno che faccia ricerca nel campo della Fisica fondamentale non motivato dal desiderio di comprendere meglio la struttura dell’Universo. Le Teorie sulle origini come la Cosmologia o la Teoria dell’evoluzione, vengono giustamente a far parte della Scienza proprio grazie alla loro capacità di accrescere la nostra comprensione, benché abbiano talora un potere predittivo ridotto o addirittura inesistente” (pag. 35).

 

“Le nostre facoltà di previsione razionale sono decisamente miopi e limitate dalla contingenza delle cose, che esistono indipendentemente da come pensiamo che dovrebbero essere. La spiegazione più naturalmente convincente del successo della Scienza è la sua capacità di cogliere la realtà in maniera più sicura. Il vero obiettivo dell’attività scientifica è la comprensione della struttura del mondo fisico, una comprensione che non è mai completa, ma sempre suscettibile di ulteriori miglioramenti. I termini di questa comprensione vengono determinati dalla natura delle cose. Questa è la concezione del realismo. Essa corrisponde certo al modo in cui gli scienziati vedono abitualmente la loro attività e costituisce uno stimolo perché i ricercatori continuino ad avere fiducia nel loro operato. In gran parte, gli scienziati non sono troppo interessati alla riflessione filosofica, come è ovvio: questo loro atteggiamento è, probabilmente, solo frutto di un ingenuo, ma diffuso malinteso. D’altro canto, il modo in cui i ‘fedeli’ considerano al loro attività deve avere un qualche significato nella valutazione di quella data disciplina. Molti filosofi della Scienza non ne hanno tenuto adeguato conto, convinti com’erano di saperne di più degli scienziati, e hanno finito col non prestare più sufficiente attenzione alla voce degli onesti ricercatori. Ma una volta considerata con attenzione l’esperienza scientifica, il punto di vista realista è, a parer mio, l’unico davvero adeguato” (pag. 37).

 

Ma, come si diceva, “perché il realismo sia difendibile, deve essere un realismo critico e non ingenuo” (pag. 37s), cioè:

 

a) “La verosimilitudine è tutto ciò di cui la Scienza può aspirare - una descrizione adeguata di un sistema fisico circoscritto, una mappa adatta per alcuni, ma non per tutti, gli scopi” (pag. 38).

b)  “In secondo luogo la nozione quotidiana di oggettività può dimostrarsi insufficiente qualora ci si spinga in regimi fisici ancor più lontani dall’esperienza comune. [...] La sorte del realismo non è vincolata a quella delle semplici nozioni derivate dalla pura esperienza quotidiana” (pag. 38).

 

c) “In terzo luogo un realismo critico non è cieco rispetto al ruolo del giudizio nell’attività scientifica.  Esso è infatti disposto ad ammettere che l’immagine ingenua secondo cui precise previsioni teoriche verrebbero messe a confronto con un’indiscutibile evidenza sperimentale e condurrebbero così alla verità certa, è una descrizione troppo grossolana di come la Scienza funziona.

[...] Esistono sempre degli elementi che dipendono dalla facoltà di giudizio soggettivo, non specificabili” (pag. 38s).

 

Anche il realismo ha dei limiti; sentiamo ancora Polkilghorne:

 

“Per il realista critico il problema forse più inquietante nasce dal fatto che per ogni insieme finito di dati esisterà sempre una varietà di teorie esplicative possibili (potremmo chiamarlo il problema ‘anatra/coniglio’, vedi paragrafo 4.3). Un criterio razionale di scelta tra le teorie potrebbe essere la fecondità.

È possibile rispondere a questo requisito in due maniere: con la capacità di continuare a rendere conto di dati man mano che se ne estende portata e accuratezza; con la scoperta di conclusioni corrette derivate dalla teoria e non previste al tempo della sua formulazione originaria” (pag. 39).

 

Come primo esempio viene citata la spiegazione newtoniana del sistema solare: tutte le successive affinazioni delle misure sono risultate in seguito in pieno accordo con essa. Ancora più sorprendente fu la scoperta del pianeta Nettuno, solo in base alle perturbazioni dell’orbita di Urano; tutti i calcoli vennero fatti sempre in base alla teoria di Newton.

 

“Come esempio del secondo genere di fecondità possiamo prendere la teoria di Dirac dell’elettrone. Nel 1928 il grande fisico inglese escogitò un’equazione che combinava con successo la Meccanica quantistica con la Relatività speciale.

[...] Fu un regalo inatteso scoprire che la stessa equazione spiegava anche il fatto, rimasto fino a quel momento misterioso, che le proprietà magnetiche dell’elettrone hanno un’intensità doppia rispetto a quanto ci si sarebbe ingenuamente aspettati” (pag. 40).

 

Ma anche in questi casi le teorie mostrano i loro limiti:  la prima non spiega l’avanzamento del perielio dell’orbita di Mercurio attorno al Sole, la spiegazione verrà data dalla Relatività Generale di Einstein; la seconda teoria non giustifica certe piccole discrepanze che richiedono la spiegazione dell’elettrodinamica quantistica.

 

Concludendo: “Si è cercato di sostenere una visione della Scienza secondo cui essa riesce davvero a cogliere la realtà in maniera sempre più adeguata” (pag. 41), però “la nostra discussione ha scalzato la Scienza dal suo piedistallo di invulnerabile razionalità e l’ha ricollocata nell’arena delle attività u-mane” (pag. 42).

 

Ancora una nota, prima di concludere questo paragrafo.

La riflessione sul sapere scientifico porta anche a sfatare la diffusa idea che sia vero solo ciò che è  dimostrabile: argomento spesso avanzato in modo intimidatorio (“dimostramelo”) da tanti novelli illuministi (non assenti dalle aule scolastiche) per mettere al muro e squalificare la testimonianza di una esperienza di Fede. Polkinghorne osserva che “la verità trascende la ‘teorematicità’ (dimostrabilità). Anche nell’austera disciplina matematica c’è più di quanto veda l’occhio calcolante” (pag. 42).

Il riferimento d’obbligo è il famoso teorema di Goedel del 1931. In esso è stato dimostrato che non è possibile dimostrare (mi si perdoni questo inevitabile bisticcio) la non contraddittorietà dell’Aritme-tica (e quindi di tutta la Matematica) a partire dagli assiomi dell’Aritmetica stessa. In parole povere: di fatto la Matematica funziona, e funziona bene, ma non è possibile dimostrarlo, per cosi’ dire, “a priori” attraverso i mezzi della Matematica stessa.

 

 

7.3 LA  NATURA  DELLA  TEOLOGIA

 

Nel solco della Teologia anglicana, che a questo livello non presenta sensibili scostamenti rispetto a quella cattolica, l’Autore indica tre componenti basilari per l’indagine teologica: la Parola, la tradizione e la ragione. Una ragione capace di rinunciare a ogni pretesa onnicomprensiva e di riconoscere il mistero della trascendenza: mistero che peraltro non può autorizzare a “fare su Dio asserzioni irrazionali: le intuizioni della Fede possono non essere dimostrabili, ma non sono immotivate” (pag. 56). Nel loro comune sforzo di comprendere la realtà, Scienza e Teologia mostrano importanti punti di contatto, soprattutto a livello metodologico. Inoltre, in quanto attività umana, anche la Teologia, come la Scienza, è correggibile e perennemente alla ricerca di formulazioni sempre più adeguate.

 

L’Autore illustra ampiamente queste notevoli analogie tra la Scienza e la Teologia.

 

“La tradizione svolge certo un ruolo importante all’interno della religione; però la stessa cosa accade anche alla Scienza. Ereditiamo il patrimonio di coloro che ci hanno preceduto e sarebbe disastroso se ogni generazione dovesse ricominciare da zero. [...] Quanto maggiore è il ruolo del giudizio personale in un certo campo, tanto maggiore è la necessità di correttivi offerti dall’esperienza di chi ci ha preceduto” (pag. 44s).

 

La Teologia è una riflessione sull’esperienza religiosa, è un tentativo di esercitare le nostre facoltà razionali e ordinatrici su di una particolare porzione della nostra interazione con la realtà. A.N. Whitehead ha scritto: ‘I dogmi della religione costituiscono tentativi di formulare in termini precisi le verità svelate dall’esperienza religiosa del genere umano. Del tutto analogamente i dogmi della Scienza fisica sono tentativi di formulare in termini precisi le verità scoperte dall’umanità attraverso la percezione sensibile’ ” (pag. 46).

 

“Anche se Teologia e Scienza presentano grandi differenze riguardo la natura del loro oggetto, entrambe cercano però di comprendere aspetti del modo in cui è il mondo. Ci sono dunque importanti punti di affinità tra le due discipline. Esse non sono, come invece vorrebbe una descrizione caricaturale, due attività del tutto eterogenee - lucciole e lanterne - con asserzioni irrazionali da un lato e indagini razionali dall’altro.

Il grado della loro relazione è espresso da Carnes: ‘Le attività del teologo sono fallibili e le sue teorie correggibili quanto quelle di ogni altro scienziato e qualsiasi altra teoria!’ ” (pag. 57).

 

 

7.4  INTERAZIONE  TRA  SCIENZA  E  TEOLOGIA

 

È il punto chiave di tutto il  libro: esaminiamolo con un certo ordine e una certa ampiezza.

Tra le interazioni evidentemente positive va annoverata quella visione del cosmo ordinata, armoniosa e interconnessa che porta gli scienziati più sensibili (tipo Einstein ... ) a intravedere qualcosa al di là del sensibile e ad evocare pensieri confinanti con la dimensione religiosa. “La Scienza attuale sembra, quasi irresistibilmente, indicare qualcosa al di là di se stessa” (pag. 95).

 

Altro contatto significativo è quello relativo agli stili di pensiero, sempre più consapevoli della distinzione dei reciproci livelli e dei piani di indagine. “Abbiamo già notato che Scienza e Teologia, benché‚ si occupino di campi radicalmente differenti, non sono affatto distinte, come suppone invece una popolare caricatura, l’una dall’altra nelle loro procedure di ricerca della conoscenza (epistemologia) e nei loro problemi intorno alla realtà (ontologia). Ognuna di esse, dal momento che deve mettere in relazione la teoria con l’esperienza, è infatti correggibile e si occupa essenzialmente di entità la cui rappresentabile realtà è ben più sfuggente di quella dell’oggettività ingenua” (pag. 97).

Se infine aggiungiamo che in ambito scientifico stanno perdendo credito le posizioni “riduzioniste radicali” (secondo le quali tutta la conoscenza si ridurrebbe alla conoscenza fisica delle particelle elementari, ma se ne parlerà tra breve), diventa più accettabile l’invito di Polkinghorne ai teologi affinché‚ ricorrano senza paura delle idee scientifiche come supporti per dilatare la propria immaginazione analogica; e l’analogia resta uno dei principali strumenti teorici per il lavoro del teologo.

 

Circa i problemi candidati al conflitto, il nostro Autore non vuol nascondere a tutti i costi le difficoltà: questioni come le origini, i rapporti di Dio con il mondo, i miracoli e la vita futura, trovano spesso posto nella moderna Astrofisica e nella Biologia, ma solo a costo di estrapolazioni si troveranno in queste Scienze dei punti che sostanzialmente minaccino il Dio creatore della Teologia cristiana, e il suo amorevole interessamento per l’uomo; interessamento forse soltanto un po’ più “sottile” di quanto si immaginasse.

 

Vediamo in dettaglio i singoli problemi.

 

Anzitutto il problema circa le origini dell’Universo viste alla luce delle più recenti teorie fisiche. Questo problema è già stato da noi esaminato (cfr. il paragrafo 5.6.1) e riceve da Polkinghorne la stessa risposta data da noi. A parte le difficoltà intrinseche di teorie di questo tipo (cioè che pretendono che l’universo sia venuto fuori dal “nulla”), la critica fondamentale è che “tale idea [la creazione dal ‘nulla’, n.d.r.]  potrebbe ben eliminare un Dio deistico il cui unico ruolo sarebbe stato quello di accendere la miccia del big bang per poi ritirarsi, in nessun modo minaccia il Dio creatore della Teologia cristiana. Il suo ruolo di principio sostenitore dell’universo rimane intatto. Le leggi della Fisica cui obbediscono i campi quantistici, che bisogna assumere prima di poter cominciare a parlare scientificamente del processo, sono espressioni della sua volontà e del suo disegno. Egli è il fondamento stesso dei processi fisici e non qualcosa che vi partecipa” (pag. 102). Ancora, e più in generale: “La creazione viene correttamente intesa come un atto continuo della volontà di Dio che preserva il Cosmo momento per momento. Non riguarda solo un certo istante iniziale” (pag. 100). Come si diceva: la creazione è un rapporto tra Dio e il Cosmo prima e più ancora che un atto specifico compiuto in un dato momento.

 

Il problema dell’interazione di Dio con il mondo. “Il Dio della cristianità non è remoto. Il suo popolo si rivolge a Lui con la preghiera. La preghiera, pur essendo una sorta di meditazione su Dio, ha anche un aspetto di richiesta. Quest’aspetto non deve venire completamente liquidato come un infantile appello a una sorta di Babbo Natale celeste. E tuttavia, in un’epoca scientifica, possiamo ancora davvero credere che Dio interagisca con il nostro mondo regolato da rigide leggi?” (pag. 105s). L’Autore scarta due proposte, ingegnose, ma troppo sofisticate: “Il primo [modo di intervenire di Dio] è quello di sfruttare lo spazio di manovra che Dio ha lasciato a se stesso nel grado di indeterminazione che la teoria quantistica individua alle radici subatomiche del mondo” (pag. 107). La seconda idea scartata è la seguente: “Alcuni credono che Dio operi nel mondo attraverso una combinazione di preveggenza e di una ingegnosa disposizione delle condizioni iniziali, che porta a coincidenze tali da produrre eventi dotati di significato. [...] Accidente non è però il termine più adatto a queste circostanze; Jung l’avrebbe infatti chiamata sincronicità” (pag. 109). La risposta dell’Autore è un’altra e precisamente: “Il terzo modo in cui è possibile che Dio influenzi il mondo è quello dell’intervento diretto, lo specifico esercizio della sua volontà di raggiungere un fine particolare” (pag. 111).

 

Questa risposta richiama il problema seguente e rimanda ad esso la soluzione, cioè il problema del miracolo con il quale ogni credente deve confrontarsi. “La domanda non è ‘Come possono mai accadere?’, ma, ‘Perché‚ non accadono più spesso?’. Dio lascia sovente che le cose seguano il loro disastroso corso. Se interviene, sembra farlo a capriccio, concedendo solo occasionalmente un aiuto diretto” (pag. 112). La  risposta è che questi eventi vanno inquadrati come momenti speciali della storia della salvezza. “Il cambiamento delle circostanze può condurre a effetti totalmente inattesi. Secondo il Cristianesimo, Dio era in Cristo in modo unico. Se questo è vero, bisogna aspettarsi la possibilità di eventi nuovi, in quanto Gesù rappresentava l’ingresso di un nuovo regime nel mondo. Seguendo queste linee, credo sia possibile tratteggiare un’immagine coerente attività di Dio nel mondo, un’immagine che comprenda sia il fatto che nella nostra esperienza i morti non risorgono, sia che Dio resusciti Gesù nel giorno di Pasqua (e anche che la tomba fu trovata vuota)” (pag. 113s).

 

La speranza di una vita futura costituisce un altro punto di conflitto con la Scienza” (pag. 114). Anzitutto l’Autore distingue tra la visione ebraica dell’unità dell’uomo, che corrisponde al punto di vista della Bibbia, dalla visione greca, soprattutto platonica, del dualismo anima-corpo e dell’immortalità dell’anima “sola”. Quindi “per coloro che accettano l’integrità psicosomatica dell’uomo, la speranza futura è legata alla resurrezione piuttosto che alla sopravvivenza, alla ricostituzione, in qualche altro ambiente scelto da Dio, dell’uomo nella sua interezza” (pag. 115). Come soluzione al problema viene proposta l’analogia tra la struttura dell’uomo e il rapporto “soft-ware”/”hardware”, cioè il programma di un elaboratore, rispetto alla macchina dove questo programma opera. A sostegno di questa idea viene citato lo stesso Davies: “Alcune di queste idee [ossia, la relazione della mente con la struttura portatrice di informazione] potranno sembrare troppo azzardate, o francamente spaventose. Eppure sono utili in quanto ci danno la speranza di riuscire a chiarire scientificamente la questione dell’immortalità, in quanto rilevano come l’ingrediente essenziale della mente sia l’informazione” (pag. 115s); (da Paul Davies: “Dio e la nuova Fisica”, pag. 140).

 

Riportiamo, infine, alcune critiche energiche che il nostro Autore rivolge contro posizioni scorrette oppure non ben documentate.

 

La prima e più severa critica la rivolge contro qualunque forma di riduzionismo, secondo cui “alla fine tutto si riduce alla Fisica” (pag. 128). “Un autoritratto di Rembrandt allora è solo un insieme di macchioline? Un sonetto di Shakespeare nient’altro che ghirigori d’inchiostro sopra un foglio di carta?” (pag. 128). La critica si sviluppa lungo parecchie pagine che cerchiamo di riassumere. “Mi sembra che un riduzionismo strutturale possa venire accettato, che si possa sottoscrivere cioè la tesi per cui le unità a partire dalle quali sono costituite le entità del mondo fisico siano proprio le particelle elementari studiate dalla Fisica di base” (pag. 128). Viene invece respinto invece “un riduzionismo concettuale, che nega l’emergere, con la crescente complessità dell’organizzazione, di livelli di significato totalmente nuovi e di possibilità che non sono in linea di principio riducibili a quelli che a loro soggiacciono” (pag. 129). Un conto è un atomo o una molecola isolati e un altro sono molti atomi o molte molecole insieme a formare un cristallo o una massa d’acqua con proprietà chimico-fisiche ben diverse da quelle degli atomi o delle molecole isolate. “Il motto della Scienza è stato ‘Divide et impera’ e la sua metodologia principalmente riduzionista. È importante evitare, dunque, che gli impressionanti successi di quest’approccio ci rendano ciechi di fronte alla necessità di prestare la dovuta attenzione alle idee olistiche” (pag. 133). Un altro modo di indicare l’approccio scientifico alla realtà è stato chiamato il “coltello analitico”: un approccio certamente fecondo, visti i risultati, ma assolutamente da non prendere come esclusivo. Dopo avere documentato le sue affermazioni con diversi esempi, l’Autore così conclude: “Il programma riduzionista alla fine si mette in crisi da solo, diventa suicida. Non soltanto riduce le nostre esperienze di bellezza, di obbligo morale, di incontro con la dimensione religiosa, a ciarpame epifenomenico, ma distrugge anche la razionalità. Il pensiero viene rimpiazzato da eventi nervosi elettrochimici. Due eventi di questo genere non possono essere messi a confronto nel discorso razionale. Essi non sono né‚ veri né‚ falsi: accadono semplicemente. Se la nostra vita mentale non è altro che la ronzante attività di un cervello simile ad un computer interconnesso in maniera infinitamente complessa, chi può dire se il programma che sta girando adesso sulla macchina è o no corretto? È concepibile che quel programma sia stato trasmesso da una generazione all’altra attraverso la codificazione del DNA, ma potrebbe anche trattarsi solo della propagazione dell’errore. Se veniamo catturati dalla trappola riduzionista non abbiamo più alcun mezzo per giudicare la verità sul piano intellettuale. Le stesse asserzioni del riduzionista non sono altro che impulsi nella rete nervosa del suo cervello. Il mondo del discorso razionale si dissolve nell’assurdo chiacchiericcio attività sinaptica. Credo francamente che ciò non possa esser vero e nessuno di noi lo ritiene tale” (pag. 137s).

 

Una seconda critica viene rivolta alla  visione che associa la Fisica e in generale la Scienza moderna al pensiero mistico orientale. Un autore di questa corrente è Fritjof Capra, che ha scritto due libri su questi temi: “Il Tao della Fisica” (traduzione italiana nelle edizioni Adelphi) e “Il punto di svolta” (traduzione italiana nelle edizioni Feltrinelli). La tesi del primo libro viene esplicitamente citata da Polkinghorne che però non la trova convincente, ma “zoppicante”, sia nella sua Scienza che nella sua Teologia.

“Dal punto di vista teologico l’accento viene posto sull’esperienza mistica che, benché‚ sia presente, come Capra pur riconosce, in tutte le tradizioni religiose, viene particolarmente posta in rilievo dalle religioni orientali. La mistica raggiunge l’unità con il fondamento di tutto l’essere e perciò ha esperienza di Dio nella sua immanenza. Le religioni d’Occidente, in misura maggiore di quelle dell’Oriente, cercano di mantenere in equilibrio questo aspetto con l’esperienza di Dio nella sua trascendenza, nel suo ruolo di signore del mondo. [...] Un segno della trascendenza divina visibile nel regno della Scienza è l’intelligibilità di un mondo retto da leggi. Ho sostenuto che questa è la garanzia della realtà del mondo. Non è vero che tutto si dissolve e la chiarezza della forma matematica sta al cuore della Fisica fondamentale. Credo che la razionalità del mondo venga più giustamente riconosciuta in una teologia naturale di tipo cristiano che in quella delle religioni d’Oriente” (pag. 123).

 

Un’altra critica consiste nella eliminazione di quello che lui chiama il “Dio delle Lacune” (noi lo abbiamo chiamato, al paragrafo 5.4, il “Dio tappabuchi”), fatto intervenire laddove esistono difficoltà  dal punto di vista scientifico, perché‚ le colmi con la sua onnipotenza. “Pensare che Dio venga in qualche modo privato del suo ruolo di creatore dalla crescente completezza della descrizione scientifica dell’Universo significa semplicemente demolire la divinità da quattro soldi del Dio delle Lacune. Analogamente, nessuno sviluppo scientifico può da solo confermare quel ruolo creatore” (pag. 100).

 

Infine riportiamo una critica di fondo all’impostazione di Paul Davies (sempre il “nostro”, quello di “Dio e la nuova Fisica”). “Chi, come Paul Davies, dice ‘non tenterò nemmeno di prendere in esame esperienze di tipo religioso o di affrontare questioni morali’ (o. c. pag. 10), deve rendersi conto che, pretendendo nondimeno di parlare di Dio, assomiglia ad un cosmologo che nell’articolazione della sua teoria dell’Universo è pronto ad accettare solo ciò che si può osservare attraverso un telescopio ottico, ma rifiuta però le altre informazioni che provengono dall’astronomia radio e X” (pag.  47). E Davies evidentemente sbaglia, così come sbaglierebbe l’ipotetico cosmologo citato da Polkinghorne.

 

 

7.5  IL  RUOLO  DELLA  “TEOLOGIA  NATURALE”

 

La posizione più innovativa nelle problematiche esposte nel paragrafo precedente non è certamente la difesa o il concordismo a tutti i costi. E’ piuttosto la capacità costruttiva di integrare gli apporti delle Scienze in una riscoperta e rinnovata “Teologia naturale”, la cui ripresa è più che mai urgente nel contesto scientificizzato in cui deve svolgersi il confronto tra il Vangelo e l’uomo.

 

Di tale teologia naturale Polkinghorne offre un esempio con la sua immagine di un mondo unitario (“One world”, cioè “Un (solo) mondo”, è il titolo originale inglese del libro che stiamo presentando e commentando, tradotto con “Sienza e Fede”), ricco, multilivellare, interconnesso, della quale connessione Dio è fondamento e garanzia: una struttura del reale pienamente espressa nel concetto di sacramento, “meravigliosa fusione degli interessi di Scienza e Teologia” (pag. 145).

 

“La realtà è un’unità a molti livelli. Posso percepire un’altra persona come un aggregato di atomi, ma anche come un sistema biochimico aperto in interazione con l’ambiente, o come un esemplare di homo sapiens, (corsivo nel testo, n.d.r) come un oggetto di bellezza, o come qualcuno i cui bisogni meritano il mio rispetto e la mia compassione, o infine come un fratello per cui Cristo è morto” (pag. 144s).

 

 

7.6  CONCLUSIONI

 

Prima di chiudere questa presentazione del libro di John Polkinghorne ci piace sottolinearne ancora una volta gli aspetti positivi. Anche se le prospettive sono leggermente diverse rispetto a quelle del nostro corso, tuttavia è da rilevare la notevole consonanza con quanto abbiamo esposto nel capitolo 6 (“Scienza e Fede: prospettive”). Chiaramente la Scienza ha un ruolo diverso rispetto alla Teologia e anche alla Fede, ma uno è l’uomo, scienziato, teologo e credente, e come tale (anche se non specialista in nessuno di questi campi) può attingere e dalla Scienza e dalla Teologia, evidentemente in modo diverso,  importanti contributi per la propria Fede.

 

Ci piace citare ancora una volta il nostro Autore in un brano che, in certo senso riassume il suo e, lo diciamo timidamente, anche il nostro pensiero.

 

“Il mondo descritto dalla Scienza, con le sue caratteristiche di ordine, intelligibilità, potenzialità e stretta interconnessione, mi sembra essere in sintonia con l’idea che sia l’espressione della volontà di un creatore, sottile, paziente e soddisfatto che si accontenta di compiere i suoi disegni attraverso il lento dispiegarsi di un processo inerente a quelle leggi della natura che, nella loro regolarità, non sono che pallidi riflessi della sua persistente veracità. Tuttavia l’eventuale futilità dell’Universo mostra anche che la definitiva realizzazione degli scopi del Creatore avverrà al di là di questo mondo: e questo mi sembra il significato delle dottrine cristiane della risurrezione della carne e della vita in un mondo a venire” (pag. 120).