Don Ennio Provera
S C I E N Z
A E F E D E
Appunti per un corso di
catechesi
Seminario di Bergamo anno
1995
3 . ALCUNI ELEMENTI INTRODUTTIVI
4.1 LA FILOSOFIA DELLA SCIENZA
4.2 LA FILOSOFIA: PANORAMA STORICO
4.3 LE
DUE IPOTESI FONDAMENTALI
4.4 RAPPORTI TRA FILOSOFIA E SCIENZA
5.1 SCELTE CON CUI CONCORDIAMO
5.2 CHI NON PENSA DI CHIUDERE IL CERCHIO
5.3 CHI PENSA DI CHIUDERE IL CERCHIO IN MODO DIVERSO DA NOI
5.4 CHI PENSA DI CHIUDERE IL CERCHIO, MA TROPPO PRESTO
5.5 CHI PENSA DI CHIUDERE IL CERCHIO UNA VOLTA PER TUTTE
5.6.2 LA BIOLOGIA: L’EVOLUZIONE E IL CASO
5.6.4 IL PECCATO ORIGINALE E LA MORTE COME CASTIGO
5.6.5 IL
PROBLEMA DI INTELLIGENZE ESTRATERRESTRI
6 . SCIENZA E FEDE: PROSPETTIVE
6.1 LA STRUTTURA DEI VARI APPROCCI ALLA REALTÀ
6.2 LO SPECIFICO UMANO E LO SPECIFICO CRISTIANO
6.3 IL CONTRIBUTO DELLA SCIENZA
7 .
APPENDICE. PRESENTAZIONE E
COMMENTO DI “SCIENZA E FEDE”
DI J. POLKINGHORNE
7.4 INTERAZIONE TRA SCIENZA E TEOLOGIA
7.5 IL RUOLO DELLA “TEOLOGIA NATURALE”
* AA.VV.:
“Valori, Scienza e Trascendenza”, Volume secondo, Edizioni della
Fondazione
Giovanni
Agnelli, Torino, 1990.
* Evandro
Agazzi: “Scienza e fede”, Massimo, Milano, 1983.
F.
Tito Arecchi, Iva Arecchi: “I simboli e la realtà”, Jaca
Book, Milano, 1990.
Gaspare
Barbiellini Amidei: “La riscoperta di Dio”, Rizzoli, Milano, 1984.
Paul
Davies: “Dio e la nuova fisica”, Arnoldo Mondadori, Milano, 1984.
Carlo
Fiore: “Il confronto scienza-fede”, Dossier dalla rivista
“Dimensioni”, 1992.
* Carlo
Fiore: “Scienza e fede”, Elle Di Ci, Leumann (Torino), 1986.
Mario
Gargantini: “Uomo di scienza, uomo di fede”, Elle Di Ci, Leumann
(Torino), 1991.
Stanley
L. Jaki: “Dio e i cosmologi”, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano, 1991.
* Stanley
L. Jaki: “La strada della scienza e le vie verso Dio”, Jaca Book,
Milano, 1988.
Siro
Lombardini, Dario Antiseri, Massimo Baldini: “C’è ancora spazio
per la fede?”,
Rusconi,
Milano, 1992.
* John
Polkinghorne: “Scienza e fede”, Arnoldo Mondadori, Milano, 1987.
Thomas
F. Torrance: “Senso del divino e scienza moderna”, Libreria
Editrice Vaticana,
Città
del Vaticano, 1992.
Claude
Tresmontant: “Cristianesimo, filosofia, scienze”, Jaca Book,
Milano, 1983.
Prima di entrare direttamente nel tema del corso
vogliamo presentare un panorama, anche
solo sommario, della Scienza contemporanea, mettendo l’accento sugli
aspetti più significativi della ricerca attuale. Avremmo la pretesa di
comunicare almeno qualcosa del sapore, del gusto, del fascino della ricerca
scientifica.
Ci piace caratterizzare i tre grandi campi di lavoro
scientifico, cioè l’Astronomia, il mondo atomico (e subatomico) e
il mondo vivente, con tre etichette, tre nomi simbolici che ne esprimano le
caratteristiche più tipiche: il GRANDE,
il PICCOLO, il COMPLESSO; aggiungendo poi, per una certa completezza, due altre etichette:
l’IRREVERSIBILE e le APPLICAZIONI.
Con questo nome intendiamo riferirci agli studi che
riguardano l’Universo, cioè l’Astronomia da un lato, che
indaga sui “fatti” e
L’Universo è grande. Questo è un
dato di fatto, ma la sua effettiva grandezza è di gran lunga al di sopra
della nostra più fervida immaginazione. Vediamo.
Lo spazio:
l’Universo ha un “diametro” conosciuto di almeno quaranta
miliardi di anni-luce. Infatti nell’agosto 1986 è stata scoperta
una “quasar” (cioè un oggetto “quasi stellare”),
distante circa venti miliardi di anni-luce dalla Terra. Quindi, per ragioni di
simmetria, cioè con riferimento ad una distribuzione abbastanza uniforme
di materia nell’universo, possiamo pensare che esistano oggetti simili
anche “dall’altra parte” rispetto a quello trovato. Il
“diametro” dell’Universo perciò è grande almeno il doppio rispetto alla distanza
dell’oggetto scoperto recentemente. Non dimentichiamo poi, per avere un
termine di paragone, che un “anno-luce” è la distanza che la
luce percorre in un anno, e che la luce, a percorrere la distanza che ci separa
dal Sole (e sono circa centocinquanta milioni di chilometri), impiega circa
otto minuti. Ciò significa che la nostra capacità di pensiero
è nettamente al di là della nostra immaginazione: quaranta
miliardi di anni-luce sono una cifra con cui gli scienziati sanno perfettamente
fare i conti, ma che nessuno (nemmeno tra loro) riesce ad immaginare,
cioè a tradurre in immagini concrete.
Il tempo.
Secondo la teoria oggi ormai più accreditata l’Universo ha avuto
origine in una data presunta da quindici a venti miliardi di anni fa. Tanto per
fare qualche confronto, ricordiamo che l’ominizzazione, cioè le
prime manifestazioni dell’intelligenza umana, datano da qualche milione
di anni, mentre la civiltà umana vera e propria ha
“soltanto” diecimila anni circa.
Il numero.
Anche il numero è immenso: nell’Universo esistono da uno a cento
miliardi di galassie, ciascuna delle quali è formata da uno a cento
miliardi di stelle. Prendendo per i due dati un valore medio di dieci miliardi,
si può calcolare che nell’Universo esistano circa cento miliardi
di miliardi di stelle, ciascuna delle quali, più o meno assomiglia al
nostro Sole. E se poi qualche stella ha anche dei pianeti come il Sole? E se a
loro volta i pianeti hanno ciascuno dei satelliti? Nel sistema solare esistono
nove pianeti conosciuti, mentre il totale dei satelliti è circa una
cinquantina, senza contare le comete e gli Asteroidi, le cui orbite si trovano
in maggioranza tra quelle di Marte e di Giove e sono alcune decine di migliaia.
Il numero complessivo dei corpi celesti quindi, supponendo che anche solo una
piccola percentuale di stelle abbia la sua corte di pianeti e di satelliti,
cresce ancora, e di molto ... Fino a poco tempo fa non esisteva ancora alcuna
prova certa dell’esistenza di pianeti di stelle diverse dal Sole, ma
è del 1995 l’annuncio, della scoperta di un pianeta orbitante
attorno ad una stella abbastanza vicina a noi (solo pochi anni luce). Si tratterebbe
di un pianeta della massa paragonabile a quella del pianeta Giove, quindi molto
più grande della Terra, e avente la temperatura superficiale di circa
1000° C. Si attendono conferme di questa scoperta.
L’espansione.
L’Universo ha una storia: è cominciata con una grande esplosione,
chiamata solitamente “BIG BANG” (cioè “GRANDE BANG”,
“GRANDE SCOPPIO”), avvenuto, come si diceva, da quindici a venti
miliardi di anni fa. Nel momento iniziale tutta la massa dell’Universo
era racchiusa in pochissimo spazio, meno, molto meno della capocchia di uno
spillo: densità enorme, temperatura altissima e, come si diceva, una
grande esplosione. E tutto ha cominciato ad espandersi, ad allontanarsi
reciprocamente a velocità grandissima ... e continua tuttora. Ancora
oggi, infatti, gli scienziati registrano e misurano la velocità di
allontanamento delle galassie le une dalle altre. Come finirà?
Può darsi che l’espansione non finisca mai, oppure che tutto
proceda così ancora per miliardi di anni e poi il movimento si inverta
in un immane contrazione ... Tutto dipende dal rapporto tra il valore della massa
complessiva degli oggetti presenti nell’Universo, e il valore delle
distanze e delle velocità reciproche.
Per una visione più completa vedi anche
quanto viene detto al paragrafo 5.4.
Tutti abbiamo sentito parlare di atomi e sappiamo che sono molto
piccoli. Ma piccoli quanto? Ogni atomo ha un diametro di circa “dieci
alla meno sette” millimetri. Ciò significa che se li mettiamo in
fila (ammesso che ciò sia possibile), uno dietro l’altro, sulla
capocchia di spillo, citata poco sopra, ce ne stanno circa dieci milioni.
In diciotto grammi di acqua (una “mole”,
come si dice) esistono più di “sei per dieci alla
ventitré” molecole, cioè “seicentomila miliardi di
miliardi”; un numero, questo, che, come sanno i chimici, viene chiamato
“numero di Avogadro”.
A loro volta ogni atomo è costituito da un nucleo attorno al quale ruotano delle
particelle, gli elettroni. Il nucleo è molto più piccolo
dell’atomo, circa centomila volte. Sulla nostra capocchia di spillo
(sempre ammesso che ciò sia possibile), ci starebbero mille miliardi di
nuclei, tutti in fila.
Ma non è ancora finita: anche il nucleo
è composto di particelle, i
protoni e i neutroni, i quali a loro volta sono formati da “subparticelle” ancora più
piccole i “quark” e i “gluoni”.
Succede come se sbucciassimo una cipolla: ogni volta
che sbucciamo uno strato ci troviamo di fronte ad uno strato più
profondo, da sbucciare a sua volta. Arriveremo mai al cuore di questa
“cipolla”? Per ora non sappiamo come andrà a finire.
Tutte le particelle elementari (si chiamano
così anche se a loro volta sono composte) hanno una durata, una
“vita” diremmo, una vita
misurabile con gli strumenti opportuni, al termine della quale si
trasformano in altre particelle o in energia di radiazione. Le vite delle
particelle hanno durate molto diverse: da quelle dei protoni, che finora
appaiono praticamente infinite, essendo particelle molto stabili, ad altre
molto, ma molto brevi. Ebbene, a proposito di brevità, siamo capaci di
misurare vite di particelle strane, addirittura della durata di “dieci
alla meno ventitré” secondi. Qui si tratta di una durata
straordinariamente breve: “dieci alla meno ventitré” secondi
significa un centomillesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo!
Diamo questa etichetta, globalmente, al mondo vivente, nella sua immensa e meravigliosa varietà di forme e manifestazioni. L’aggettivo “meraviglioso”, a proposito del vivente, è usato moltissimo, ma non sembra mai fuori posto. Basta pensare, facciamo solo un esempio, all’occhio umano: il nervo ottico, che trasmette le immagini al cervello, è un “cavetto” che in meno di tre millimetri di diametro concentra qualcosa come circa un milione duecentomila fibre (cioè i “fili” della comunicazione con il cervello) tutte isolate tra loro; cosa neppure immaginabile da costruire con le nostre tecniche, neppure le più raffinate. Sezionato trasversalmente e osservato al forte ingrandimento di un microscopio elettronico, il nervo ottico assomiglia a qualcosa che si estende come la piazza S. Pietro, lastricata tutta di monetine da dieci lire.
Per quanto riguarda la varietà, un articolo del “Il Corriere della sera” (7 ottobre 1986) ipotizza l’esistenza di un numero di specie viventi non ancora classificate, variabile da quattro a trenta milioni. Mentre le specie già classificate sono circa un milione settecentomila. Notiamo: specie, senza contare le sottospecie, le varietà e le differenziazioni delle razze!
A titolo indicativo riportiamo il numero delle
specie suddiviso per categorie; chiaramente i numeri sono solo orientativi.
Mammiferi: 4 100; uccelli: 8 700; rettili: 6 300; anfibi: 3 000; pesci: 23 000; insetti: 1 000 000; piante verdi e
funghi: 500 000.
E poi, in tutta questa enorme varietà,
proprio in questi ultimi anni abbiamo ritrovato una straordina-ria
unità. Tutte le varie forme viventi hanno, per così dire, una radice
comune: il DNA, l’acido de-sossiribonucleico. È formato da
lunghissime catene avvolte ad elica e formate solo da quattro elementi base:
citosina, guanina, timina, adenina. Assoluta
semplicità degli elementi e al tempo stesso estrema complessità dei composti: questo è il modo di
operare della natura nel mondo vivente.
Non si tratta di uno specifico campo di ricerca, ma
di una modalità fondamentale di
svolgimento di tutti i fenomeni fisici. Più esattamente
Ma se poniamo una zolletta di zucchero nel
caffè e agitiamo con un cucchiaino, dopo un po’ essa si scioglie e
in certo senso scompare. Non ci aspettiamo certo che, continuando ad agitare il
cucchiaio, (magari in senso inverso!) la zolletta ricompaia tutta intera. Si
tratta in questo caso di un fenomeno
irreversibile. Ecco un altro esempio: supponiamo di riprendere con una
telecamera un turibolo fumante d’incenso e poi di vedere alla TV la
registrazione “a rovescio”. Anche un fanciullo di pochi anni,
vedendo sul teleschermo queste immagini, e cioè il fumo raccogliersi e
“rientrare” nel turibolo, direbbe senz’altro che si tratta di
un fatto impossibile: anche il diffondersi nell’ambiente del fumo
dell’incenso è un fenomeno
irreversibile.
Lo studio dei fenomeni di questo tipo è
riservato ad un ramo della Fisica,
Non insistiamo evidentemente su questi concetti.
Notiamo però che, pur essendo molto ristretto
il campo dei fenomeni propriamente irreversibili, e precisamente i fenomeni che
coinvolgono
Ciò significa che il tempo, per tutti i
fenomeni, scorre in una direzione ben precisa, la solita, secondo quella che
talvolta viene chiamata la “freccia
del tempo”. Altro modo di dire: è proprio
Ecco:
Altro, evidentemente, è il discorso
concernente il senso, il destino, lo scopo di questa storia, e proprio su
questi temi si sta svolgendo la nostra meditazione.
Vale la pena di dedicare ancora qualche nota alle
conseguenze più appariscenti della Scienza, cioè le applicazioni
tecniche.
Diamo alcuni cenni alle applicazioni più
sconvolgenti.
Aspetti
militari:
siamo stati spettatori alla TV dell’impiego delle cosiddette “armi
intelligenti” (?!?), teleguidate sugli obiettivi con sistemi informatici;
(e quello che non ci è stato fatto vedere, o che non è ancora
stato impiegato, è certamente molto più perfezionato...!).
Aspetti
gestionali:
qualunque tipo di amministrazione, di gestione di bilanci o di magazzino o di
biblioteca o di anagrafe (compresa l’anagrafe parrocchiale!), di
prenotazione di posti, ... può essere svolto mediante elaboratori o reti
di elaboratori.
Ricerca
scientifica e didattica: è tutto un ramo dell’Informatica relativamente poco
conosciuto, eppure di fondamentale importanza. Un solo cenno: alcuni anni fa
è stato dimostrato, dopo anni di tentativi, un famoso teorema di
Matematica, detto dei “Quattro colori” (su cui non ci fermiamo):
nella dimostrazione di questo teorema è stato insostituibile
l’impiego, per centinaia di ore, di un potente elaboratore che doveva
passare in rassegna sistematica tutti i casi possibili previsti dal teorema
stesso. Senza l’impiego della macchina gli uomini avrebbero dovuto
impiegare secoli per le stesse analisi fatte “a mano”. Pur senza
risultati così straordinari, l’elaboratore è impiegato
ordinariamente nella ricerca scientifica in tutti i casi in cui i calcoli sono
troppo lunghi o troppo complessi e inoltre in tutti i casi di simulazione di
fenomeni troppo lenti, come l’evoluzione delle stelle, o troppo veloci,
come le interazioni nucleari, o troppo costosi o troppo pericolosi ... Qualcosa
di simile vale anche per l’Informatica che viene applicata alla
didattica, sia come aiuto al docente durante le lezioni in classe, sia come
aiuto al discente nel lavoro individuale di apprendimento, sia, più in generale,
come strumento di valutazione.
Ancora più interessanti (e forse, per
qualcuno, più sconvolgenti!) sembrano essere gli sviluppi futuri
dell’Informatica. Ne accenniamo a tre.
1 . Ipermedia+Telematica: tutto quello che è stato detto sugli
impieghi generali dell’Informa-tica viene “integrato”,
cioè riconoscimento vocale, suoni, immagini, testi appare in un unico
strumento (questo significa “Ipermedia”). Il tutto comunicato
“a chi di dovere”, completamente, correttamente, velocemente
(questo significa “Telematica”).
2 . Simulazione spinta fino alla “realtà virtuale” :
guanti con sensori elettronici, occhiali forniti di minischermi, caschi con
visori e telecamere consentono oggi una interazione del nostro corpo con
oggetti e spazi che esistono soltanto nei circuiti di un computer. Ne derivano
nuove tecnologie al servizio della ricerca, ma anche dell’arte, del
divertimento e della vita quotidiana ... anche con tanti problemi e tante
perplessità che vi sono connessi.
3. Intelligenza artificiale: qui tocchiamo un problema dai risvolti
antropologici e filosofici. Come e fino a che punto il comportamento umano, in
quanto intelligente, può essere imitato? Ipotesi fondamentale: in un
futuro più o meno prossimo sarà possibile simulare totalmente il
comportamento intelligente, comprese le emozioni, i sentimenti, le ansie ...
È possibile questo?
Minsky (scienziato americano, uno dei massimi
esperti mondiali di intelligenza artificiale): nel libro “La
società della mente”, ed. Adelphi, risponde:
“Sì!”.
Penrose (scienziato inglese, pure esperto nello
stesso settore): nel libro “La nuova mente dell’im-peratore”,
ed Rizzoli, risponde: “No!”. (E, tra l’altro, è questo
anche il nostro modesto parere).
Non abbiamo certo la pretesa di aver esaurito la
descrizione delle ricerche attuali nel mondo della Scienza. Si è
trattato soltanto di una panoramica molto sommaria entro un mondo complesso e
affascinante, un mondo in continua e rapida evoluzione, un mondo pieno di
risposte e al tempo stesso di domande sempre nuove e sempre interessanti.
Chi percorre con attenzione i sentieri della Scienza
non può non avvertire continuamente, nonostante i risultati molto
positivi, anzi proprio attraverso di essi, il bisogno di senso, il bisogno di unità, il bisogno di
globalità, il bisogno di assoluto. In una parola: il bisogno di
filosofia.
È quanto cercheremo di affrontare nel corso
di questo studio, soprattutto nel capitolo 4.
Prima di affrontare in modo sistematico
l’argomento del nostro studio, crediamo opportuno sottoporre alla
riflessione alcuni elementi che possono costituire un primo approccio, una
specie, per così dire, di “assaggio” dei problemi legati al
tema dei rapporti Scienza-Fede.
Il nostro discorso resta ancora, necessariamente,
frammentario: diventerà, speriamo, più organico, a partire dal
prossimo capitolo.
Nella storia della Scienza, nei suoi riflessi con i
discorsi fondamentali sull’uomo, discorsi evidentemente collegati alla Filosofia
e alla Fede, non sono mancati (e restano tuttora sempre possibili!) momenti di
urto e quindi di crisi.
Accenniamo ai due più evidenti e che hanno
avuto maggiore risonanza nella storia della cultura e dello sviluppo delle
idee. Sono due momenti legati a due nomi: Galilei e Darwin.
I fatti a cui ci riferiamo sono noti.
Galileo
Galilei
(1564-1642), studioso di Fisica, nel 1633 venne costretto dalla Congregazione
Romana del Santo Uffizio a firmare una dichiarazione di abiura delle tesi che
fino allora aveva insegnato, anche attraverso i suoi scritti (soprattutto
l’opera: “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”)
tesi che sostenevano l’ipotesi “copernicana” (o
“eliocentrica”, proposta da Nicola Copernico, 1473-1543) come
l’unica capace di spiegare il Sistema Solare, cioè (insieme con le
“stelle fisse”) tutto l’universo conosciuto a quel tempo.
La vicenda è stata chiusa in maniera
definitiva da Giovanni Paolo II, il 31 ottobre
“
Le parole che abbiamo citato poco sopra sono tratte
dalla relazione che il Card. Poupard ha tenuto nell’udienza di cui si
parlava, relazione che verrà ripresa più ampiamente dopo alcune
affermazioni tratte dal discorso di Giovanni Paolo II, tenuto nella stessa
udienza.
“A partire dal secolo dei Lumi fino ai giorni
nostri - ha detto il Papa - il caso Galileo ha costituito una sorta di mito,
nel quale l’immagine degli avvenimenti che ci si era costruita era
abbastanza lontana dalla realtà. In tale prospettiva il caso Galileo era
simbolo del preteso rifiuto, da parte della Chiesa, del progresso scientifico,
oppure dell’oscurantismo dogmatico opposto alla libera ricerca della
verità. Questo mito ha giocato un ruolo culturale considerevole [...].
Il caso Galileo ha contribuito ad ancorare parecchi uomini di Scienza in buona
fede all’idea che ci fosse incompatibilità tra lo spirito della
Scienza, da un lato e
Vediamo ora i punti più interessanti della relazione
del Card. Poupard, già citata.
“
[NOTA PERSONALE: una prova classica della rotazione
terrestre è il “pendolo di Foucault”, la cui prima
esperienza, fatta nel Pantheon di Parigi, avviene intorno al 1850. Il ruolo di
Galileo, nella Rivoluzione Astronomica è espresso molto bene dal
Foscolo, ne “I sepolcri”, dove dice: “... (la tomba) di chi
vide / sotto l’etereo padiglion rotarsi / più mondi, e il Sole
irradiarli immoto / onde all’Anglo che tanta ala vi stese /
sgombrò primo le vie del firmamento”. Galileo “vide”,
cioè intuì, senza riuscire a dimostrare, l’eliocentrismo, e
quindi “sgombrò” da pregiudizi le “vie del
firmamento”, “all’Anglo” (l’inglese Newton) che
le esplorò con volo potente].
4. Questa riforma implicita
della sentenza del 1633 divenne esplicita nel decreto della S. Congregazione
dell’Indice che ritirava dal Catalogo
dei Libri Proibiti [il famoso “INDICE”, n.d.r.] tutte le opere
in favore della teoria eliocentrica [...].
Charles Darwin (1809-1882) è il
secondo nome che citiamo e al quale è legato un altro grande momento di
crisi nei rapporti Scienza-Fede, “momento” che, almeno per certi
aspetti, non è ancora concluso.
Con la sua opera: “L’origine delle
specie”, pubblicata nel 1859, Darwin ha offerto una risposta affascinante
al problema aperto nei decenni precedenti dalla scoperta che la vita ha una
storia, una storia, in certo senso, parallela alla storia della Terra.
Darwin risponde con l’ipotesi della selezione naturale. Non possiamo
entrare nel dettaglio (ai paragrafi 5.6.2 e 5.6.3 toccheremo alcune
implicazioni che questa ipotesi ha con i problemi che ci interessano): è
sufficiente notare che le idee di Darwin sono state ampiamente usate (e,
talvolta, lo sono anche oggi) come strumento per la negazione delle
verità insegnate dalle Chiese cristiane sulla creazione e
sull’origine dell’uomo.
Solo poche parole di commento: Darwin, cristiano
solo formalmente, era, di fatto, nel suo intimo, ateo, o almeno agnostico, ma
questo ci interessa relativamente. Diciamo solo che da un lato la sua teoria,
modificata, o almeno ampiamente integrata dalle scoperte successive, fino alla straordinaria
rivoluzione portata dalla biologia molecolare, a partire dagli anni cinquanta
di questo secolo, contiene ancora oggi parecchi
problemi non risolti (e sui quali non ci fermiamo) e dall’altro richiamiamo,
fin d’ora, il principio che ci guiderà lungo tutto il corso.
Quando
Abbiamo già parlato nel capitolo secondo,
almeno a grandi linee, dei progressi che
Un atteggiamento simile, anche se più
raffinato, è stato assunto dalla corrente filosofica del Neopositivismo, nata nel Circolo di
Vienna (1929) e sviluppatasi in Europa e negli Stati Uniti d’America
negli anni Trenta. La scuola si chiama anche del Positivismo logico o dell’Empirismo logico (cfr. il paragrafo 4.2) e nega qualunque valore
conoscitivo a tutto ciò che non rientra nella conoscenza scientifica, la
quale è frutto di esperienze (= “empirismo”) colte ed
elaborate, attraverso opportuni e raffinati protocolli, guidati dalla Logica
moderna (= empirismo “logico”).
Più in generale possiamo chiamare “Scientismo”, anche al di
là delle due correnti citate, ogni atteggiamento che assume
Jacques Monod, (1910-1976), francese,
premio Nobel per
Alan H. Guth e Paul J. Steinhardt, su un altro argomento, l’origine
dell’Universo, in un articolo pubblicato dalla Rivista “Le
Scienze” (luglio 1984), presentano e spiegano un’ipotesi,
l’“ipotesi inflazionaria”, sulla quale, del resto, sono
ancora aperte le discussioni e su cui non ci fermiamo. È interessante
notare però la conclusione del loro articolo: “Il modello
inflazionario dell’Universo offre un possibile meccanismo grazie al quale
l’Universo osservato si sarebbe potuto evolvere da una regione
infinitesimale. A questo punto è forte la tentazione di fare un altro
passo avanti e ipotizzare che tutto l’Universo sia nato letteralmente dal
nulla”.
Torneremo anche su questo punto al paragrafo 5.6.1.
Qui anticipiamo solo un concetto che svilupperemo
più avanti e cioè che qualunque scienziato ha (deve avere necessariamente!) una sua
Filosofia, cioè una sua visione globale del mondo, della realtà
nel suo complesso, soprattutto sul senso, sul fine, se ne ha uno, della
realtà stessa. Ed è proprio questa Filosofia che spesso,
più o meno coscientemente, influenza anche la visione scientifica del
mondo e le ipotesi che vengono portate a suo sostegno. Non è difficile
vedere nell’affermazione citata (che, come vedremo, è un errore filosofico) un tentativo di
eliminare il ruolo di Dio nella creazione dell’universo (cfr. il
già citato paragrafo 5.6.1). Qualcosa del genere era già
capitato, sempre a proposito dell’origine e della struttura
dell’universo, ai sostenitori della teoria chiamata dello “stato
stazionario” (oggi praticamente abbandonata) che ammettevano un universo
senza inizio e senza fine: anche qui si poteva cogliere, al di là della
teoria scientifica, il desiderio di scalzare Dio ...
Ancora: anche tra i sostenitori della teoria oggi
più accreditata, sempre sull’origine dell’Universo, quella
del “BIG BANG” (cfr. il paragrafo 2.1) non è difficile talvolta
cogliere accenti che spingono a sostenere quella teoria anche perché
sembra più “conforme” al racconto biblico della creazione
(vedi paragrafo 5.4).
Non dobbiamo comunque prendere alla lettera queste
affermazioni; semplicemente vogliamo sottolineare l’idea che Scienza e
Filosofia non possono essere mai staccati nella mente di uno scienziato.
Sul versante opposto, rispetto ai sostenitori,
più o meno coscienti, del mito della Scienza, troviamo tutta
un’altra serie di sostenitori: quella di chi afferma la radicalità
della verità contenuta nella Bibbia, al punto da negare anche le
conquiste più evidenti del pensiero scientifico. Questo atteggiamento
è chiamato “fondamentalismo” perché in esso
Notiamo che atteggiamenti simili si trovano anche in
altre religioni, soprattutto nell’Islam, dove i fondamentalisti assumono
il Corano come fondamento assoluto della realtà in tutte le sue
espressioni e quindi lo vogliono
imporre, anche con la forza, nella società civile e politica. Si veda ad
esempio la drammatica situazione attuale dell’Algeria.
Citiamo due
esempi di fondamentalismo: anzitutto un gruppo di scienziati americani, che
sostengono il “creazionismo”, una dottrina secondo la quale
l’origine e lo sviluppo della vita sono spiegati a partire dai racconti
biblici contenuti nel libro della Genesi, in una visione
“fissista”, con negazione quindi di ogni ipotesi evoluzionista e di
tutte le ipotesi conseguenti alle scoperte scientifiche anche più
recenti. Sembra anzi che la corrente che sostiene questa tesi, negli Stati
Uniti d’America sia così potente da aver ottenuto in alcuni Stati
l’obbligo del relativo insegnamento nelle scuole pubbliche e private,
accanto alle teorie scientifiche classiche evoluzioniste e in concorrenza con
esse.
È evidente che nulla vieta ai ricercatori
creazionisti-fissisti di sostenere, con argomentazioni scientifiche, la tesi
della creazione (o apparizione sulla Terra) diretta e immediata, di ciascuna
specie biologica. Ma il cercare nella Bibbia una fondazione e una
giustificazione di tale ipotesi, è ignorare completamente la natura
della rivelazione biblica e della Fede cristiana e aprire la porta a nuovi
conflitti, ripetendo gli errori della questione Galileo.
Un secondo esempio lo prendiamo dai Testimoni di
Geova, i quali pure prendono alla lettera l’inse-gnamento della Bibbia. A
questo proposito cito un libro: “Insegnaci a contare i nostri giorni. La
cosmologia moderna e i metodi di datazione hanno smentito
Come era stato detto nell’introduzione del
presente capitolo, abbiamo voluto soltanto proporre una panoramica anche se non
completa, una specie di “assaggio” quindi, dei problemi che nascono
attorno al tema Scienza-Fede. Sono state date, occasionalmente, anche alcune
risposte, soltanto dei suggerimenti, delle semplici indicazioni, per ora ...
È chiaro che occorre approfondire, esaminare più dettagliatamente, più
ordinatamente, più
sistematicamente il tema che ci siamo proposti di trattare.
Come introduzione-preludio a questa trattazione ci
serviamo di un testo di Evandro Agazzi, (nato nel 1934), filosofo della
Scienza, pubblicato sul volume: “Valori, Scienza; Trascendenza”
(pagg. 10s), citato nella bibliografia: “
“Il
cerchio da chiudere”. Questa espressione è il titolo di un
libro di ecologia pubblicato alcuni anni fa (autore: Barry Commoner, ed.
Garzanti).
Ci piace usarla per indicare il senso complessivo di
ciò che stiamo trattando. A parte il contesto diverso nel quale
l’espressione era collocata nel libro citato, per noi significa il
cerchio del senso, del significato profondo delle cose che esistono, della
realtà che ci circonda, del mondo nel quale l’uomo vive ed opera e
che
Cerchio da chiudere vuol dire ricerca, attraverso
Il primo passo di questo cammino verso la chiusura
del cerchio del senso, attraverso il discorso filosofico, è un ramo
particolare della Filosofia, un ramo abbastanza recente che in questi ultimi
decenni ha avuto un grande sviluppo:
Non si tratta di qualcosa di intermedio tra
In sintesi possiamo dire: l’Astrofisico studia
le stelle, mentre il Filosofo della Scienza studia l’Astrofisico, che
studia le stelle
Naturalmente esistono diverse correnti di pensiero
sulla Filosofia della Scienza e non è il caso di affrontarle tutte.
Accenneremo soltanto alle due posizioni che ci sembrano più
significative, anche in rapporto al tema principale del nostro corso: la
posizione di Thomas Kuhn e quella di Karl Popper.
Thomas Kuhn (nato nel 1922) è
essenzialmente uno storico della Scienza, ma la sua teoria, espressa
soprattutto nel libro: “La struttura delle rivoluzioni
scientifiche” (ed. Einaudi), tocca anche problemi relativi alla Filosofia
della Scienza.
Kuhn distingue nettamente, sul piano storico, la
fase che chiama di Scienza normale,
dalla fase di rivoluzione scientifica.
Nel primo caso domina tra gli scienziati una certa visione relativa ad un dato
fenomeno o ad un dato campo di indagine. Questa visione viene chiamata “paradigma”: si tratta del
paradigma normale entro il quale indagare, classificare e spiegare tutti i
diversi aspetti della realtà studiata. Ad esempio, prima della ipotesi
di Copernico, era dominante tra gli scienziati il paradigma
“geocentrico”, cioè
Quando però non tutti i fenomeni riescono ad
essere inquadrati entro il paradigma normale, qualche scienziato avanza
l’ipotesi di un nuovo paradigma che pretende di includere in sé
tutto quello che spiegava il vecchio paradigma, ma anche di spiegare i nuovi
fenomeni. Può anche scoppiare una battaglia tra i sostenitori dei diversi
paradigmi, fino a che una delle due correnti ha il sopravvento. Solitamente il
nuovo paradigma ha la meglio semplicemente perché escono di scena,
cioè muoiono, i sostenitori del vecchio.
Un elemento importante in questa visione è la
incommensurabilità tra i
diversi paradigmi, e quindi le diverse teorie che da essi derivano. In altre
parole: ogni nuova teoria non è il superamento e quindi il completamento
della teoria precedente, ma si tratta sempre di qualcosa di nuovo, non
paragonabile a quello che c’era prima. L’espressione solitamente
usata di progresso scientifico non
significa affatto un fenomeno regolare e tranquillo (quale talvolta appare nei
libri di Storia della Scienza), ma qualcosa che procede a sbalzi, lungo una
strada piena di curve, un avanzare tra mille difficoltà ed anche a volte
un retrocedere. In ogni caso ciò che viene dopo è sempre
completamente nuovo rispetto a quanto esisteva precedentemente.
Un esempio tipico che viene portato a sostegno di
questa visione è il passaggio della Teoria
della Gravitazione Universale dalla formulazione di Newton (1642-1727) a
quella di Einstein (1879-1955), nella Teoria
della Relatività Generale, anche se esistono ipotesi diverse da
quella dell’in-commensurabilità, che spiegano questo
«passaggio».
Un altro pensatore di grande successo è Karl Popper (1902-1994), che espone la
sua teoria nell’opera fondamentale, “Logica della scoperta scientifica”
(ed. Einaudi). Popper considera come sensate
soltanto le proposizioni che possono essere sottoposte ad una prova di
falsificazione; false le
proposizioni che non superano tale prova; corroborate,
ma non ancora (né mai) vere, le proposizioni che superano positivamente
una o più prove di falsificazione.
Non esiste per Popper la verità di una
proposizione scientifica, ma soltanto un progressivo
“avvicinamento” alla verità, senza mai poterla raggiungere.
Al contrario una verifica pratica può sempre dimostrare la
falsità di una proposizione.
A parte le critiche interne fatte ad entrambe queste
due teorie, e sulle quali non possiamo fermarci, vogliamo sottolineare il
valore metodologico che la posizione di Popper riveste per qualunque
concezione, compresa quindi la visione cristiana del mondo. Troppo spesso e
forse con un po’ di faciloneria il
cristianesimo è stato visto come qualcosa che fa andare tutto e sempre
bene: “Se sei malato, prega; se soffri, il Signore ti benedice; se
peggiori, c’è sempre la grazia che ti sostiene; se muori, vai in
Paradiso ... “. Una proposizione, dice Popper, è sensata solo se
è falsificabile. E noi siamo effettivamente sempre pronti ad affrontare
e a superare le prove di falsificabilità di tutto quello che sosteniamo
... ?
Possiamo riprendere, a questo proposito, una frase
di Evandro Agazzi, Filosofo della Scienza (nato nel 1934):
“L’intero della Scienza non è (non coincide con)
l’intero della realtà”.
Occorre
Naturalmente non possiamo fare un trattato di
Filosofia, ma cerchiamo di indagare, alla luce della Filosofia, sui rapporti
tra Scienza e senso umano globale.
Possiamo incominciare con un panorama storico (molto
semplificato!) circa le posizioni sui rapporti tra Scienza e Filosofia. Abbiamo
due visioni: una prima, che potremmo chiamare “classica”, e una
seconda, che potremmo chiamare “moderna”.
Nella visione classica
(tanto per intenderci quella del mondo greco antico fino al Medio Evo),
Nella visione moderna
(quella che comincia dal ‘600, con Galileo, Cartesio e Newton), il
procedimento è inverso: dalla Scienza alla Filosofia, attraverso un procedimento
essenzialmente induttivo.
L’elemento unificante non è
Galileo e Newton consideravano se stessi come
“Filosofi naturali”. Il massimo trattato di Newton sulla Meccanica
in generale (e comprendente
Il discorso storico merita, però qualche
ulteriore approfondimento. Lo vediamo per punti.
a) 1600: nascita della
Scienza moderna. Certamente non mancano i problemi (e Galileo ne sa qualcosa!),
ma tra Scienza e Filosofia, e tra
Scienza e Fede in fondo c’è collaborazione: Galileo, Cartesio,
Newton, Leibniz sono credenti e sono profondamente convinti di dare lode a Dio
attraverso le loro scoperte. Si tratta semmai di vedere come è possibile
una tale collaborazione, ma la collaborazione, di fatto, esiste. Questo clima,
diciamo “positivo”, praticamente giunge fino all’Illuminismo,
che pur estraneo a religioni rivelate, ammetteva però l’esistenza
di Dio, in un atteggiamento chiamato “teismo” o
“deismo”.
b) La crisi scoppia
violenta nel secolo XIX, attraverso Feuerbach, Marx e soprattutto il positivismo, per opera di Comte. Il
positivismo, anche se professato esplicitamente solo da questo pensatore,
rappresenta una mentalità, un atteggiamento dominante nella cultura
scientifica e filosofica ottocentesca, confermato in ciò dagli
straordinari progressi operati dalla scienza e dalla tecnica del tempo. Comte
vede tre fasi fondamentali nella storia del pensiero umano: la fase teologica, nella quale domina l’atteggiamento
fantastico e mitico; seguita dalla fase filosofica,
dove è dominante la razionalità, una razionalità
però ancora aprioristica, limitata, legata al mito.
c) Per reazione a
questa mentalità positivistica, alla fine del secolo scorso e agli inizi
del ‘900 abbiamo varie correnti di tipo spiritualistico (ad esempio Bergson).
Queste posizioni non sono del tutto chiare: facilmente possono sconfinare nel
fideismo (cioè
d) Sconfitto il
positivismo (sia per i limiti legati alla Scienza stessa, sia soprattutto per
le conseguenze della Scienza nelle applicazioni belliche, è la crisi di
fine ‘800), chiaramente ritornano i problemi iniziali: il rapporto
Scienza-Filosofia. Si ammette facilmente che
e) La parabola del
neopositivismo, almeno dal punto di vista teorico, può dirsi conclusa.
Non così dal punto di vista pratico. Infatti crediamo che la più
grossa obiezione mossa oggi alla Fede e più in generale alla Filosofia
classica (metafisica) sia l’ipotesi
pragmatica, che esaminiamo nel paragrafo seguente.
Tutto il discorso precedente è stato una
panoramica (abbastanza generale e sintetica!) circa i rapporti tra Scienza e
Filosofia. Ora vogliamo riprenderlo per mettere a fuoco gli elementi
fondamentali del dibattito moderno attorno al problema. Non è ancora il
momento del discorso sulla Fede, ma occorre affrontare questi problemi, per
così dire, alla radice, e quindi avere il campo libero al momento di
trattare il tema centrale del nostro studio: i rapporti tra Scienza e Fede.
Se vogliamo riassumere, molto sinteticamente, ma in
modo efficace, gli atteggiamenti moderni sia sul piano teorico che su quello
della pratica, abbiamo due posizioni diverse e contrapposte, che possiamo
chiamare rispettivamente: atteggiamento pragmatico
e atteggiamento realista.
L’atteggiamento pragmatico è insieme teorico e pratico: per così
dire, attraversa tanto i pensatori quanto la gente comune. Alla base di tutto
c’è la convinzione che le cose non abbiano un senso, oppure se
hanno un senso questo sia soltanto una convenzione dell’uomo, convenzione
evidentemente legata alle abitudini, alle circostanze, alla mentalità,
alle tradizioni, in una parola: alla prassi. Manca perciò un fondamento
obiettivo e teorico al senso delle cose. È facile vedere che un atteggiamento
del genere rappresenta una seria minaccia alla fede cristiana; anzi, a nostro
avviso, la minaccia più grave attualmente esistente. Cerchiamo di
documentarlo da diversi punti di vista.
Ricordiamo una regola generale che esprime il nostro
atteggiamento fondamentale di fronte a tutte queste “visioni del
mondo” (che vengono presentate alle note seguenti): anche se non le
condividiamo come atteggiamento globale, tuttavia cerchiamo di cogliere in
ciascuna di esse tutto ciò che vi è di positivo, eventualmente correggendolo
in modo opportuno.
Anzitutto lo strutturalismo:
nato come metodo di indagine scientifica è diventato di fatto una
Filosofia, cioè un atteggiamento teorico e pratico globale. La struttura
si può definire, in generale, come un
insieme i cui elementi sono legati da una o più relazioni. Un
esempio tipico lo possiamo prendere dalla Matematica (da cui sembra aver avuto
origine, a partire dalla elaborazione dell’Algebra Astratta,
all’inizio dell’‘800): il numero 5 appartiene alla classe dei
numeri naturali, come il 3, il 9, ecc. Tra di essi sono definite le relazioni
di somma e di prodotto (che sono operazioni), di uguaglianza, di maggioranza,
di minoranza ecc. Nella visione strutturalista non ha importanza
l’essenza, la natura delle entità (per tornare all’esempio
precedente: che cos’è, in “se stesso”, un numero?), ma
la relazione o il complesso delle relazioni che legano tra loro le diverse
entità. Facciamo un esempio: il numero “
L’analisi
psicologica e psicoterapeutica. In questo campo l’uomo è fatto
oggetto di indagine; lo psicologo, e ancora di più lo psicoterapeuta,
nella loro professione, ne sentono (è proprio il caso di dirlo!), di
tutti i colori; la terapia efficace si ottiene riaggiustando o addirittura
ricreando la “visione del mondo” del paziente. Per guarire non
è importante dare una visione del mondo “vera”, è
molto più importante, anzi essenziale, dare, per ogni caso specifico,
una visione del mondo “che funzioni”. E la visione che
“funziona” per un paziente può non funzionare per un altro.
Quindi non esiste, o comunque non conta, una visione reale delle cose,
cioè una verità oggettiva, ma sempre e solo, il poter dare al paziente
qualcosa da far funzionare nella pratica. Da qui al passaggio (da parte dello
psicologo o dello psicoterapeuta) verso una posizione agnostica nei confronti
dei valori in generale, il passo è facile e breve. Del resto è
accertato che la più alta percentuale di scienziati atei o agnostici si
ritrova proprio tra gli psicologi (o psicoterapeuti) e i sociologi.
La psicologia
sperimentale. È abbastanza nota quella figura che, vista in un certo
modo sembra un’anatra e, ruotando il foglio di un quarto di giro, appare
come un coniglio. Ma che cosa rappresenta, allora? Eppure si tratta sempre
della stessa figura. Ancora: ricordiamo il gioco “sfondo-figura” in
quell’altro disegno che di primo acchito rappresenta una coppa; se
però si scambia lo sfondo con la figura, appaiono due facce di profilo
che si guardano. Un pittore contemporaneo olandese, Maurits Cornelis Escher,
scomparso nel
Addirittura esiste una scuola di psicologia comportamentale
di tipo pragmatico, che ha avuto
origine negli Stati Uniti, a Palo Alto. Secondo questa scuola la realtà
è quella che creiamo noi strutturandone opportunamente gli elementi
attraverso le relazioni. Parlare di realtà in se stessa, secondo questa
scuola, non ha alcun senso per l’uomo. Un esempio che viene spesso
portato dai sostenitori di questa scuola è tratto da un racconto di Mark
Twain, nel quale il protagonista è un ragazzo, che, per punizione,
invece di andare a giocare con gli amici, viene costretto a dipingere uno
steccato. Questo tale, di fronte all’atteggiamento canzonatorio dei suoi
amici, riesce a far passare come un privilegio la possibilità di
dipingere lo steccato, fino a convincere questi suoi amici che anche loro, a
turno, potrebbero dipingerne alcuni tratti, dietro un adeguato compenso. Alla
fine della giornata tutto lo steccato era stato dipinto più e più
volte e il ragazzo, furbo, aveva guadagnato un bel po’ di dollari!
Potremmo continuare ancora a lungo nella nostra
documentazione, che dobbiamo concludere, anche per ragioni di spazio, comunque
sembra abbastanza chiaro il senso generale di questa posizione: per
l’uomo la cosa essenziale è la sopravvivenza e quindi la creazione
di modelli che funzionino. Tale creazione è arbitraria e convenzionale
ed è frutto di una scelta, che potremmo chiamare, “per
fede”. In ciò, secondo questa ipotesi, sono identiche, per quanto
riguarda il loro scopo, tutte le teorie; scientifiche, filosofiche, religiose:
la sopravvivenza del singolo e/o della specie.
In altre parole: in campo scientifico una teoria
è “vera” (si fa per dire!) perché funziona. La cosa
importante non è la verità della teoria, cioè la sua
corrispondenza ad una realtà oggettiva, ma il suo buon funzionamento.
Domani troviamo una teoria che funziona meglio e adottiamo quella invece della
teoria adottata finora.
Chiaramente una dottrina come questa svuota
completamente qualunque posizione o Filosofia che pretenda di istituire un
senso globale alla realtà; e quindi svuota totalmente anche qualunque
discorso sulla Fede.
Che cosa rispondiamo?
La nostra risposta è molto semplice: è
sufficiente capovolgere l’obiezione stessa. L’ipotesi pragmatica
resta soltanto un’ipotesi, cioè una scelta, e, si badi bene,
anch’essa una scelta, in certo senso “per fede”. Chi
può stabilire se le cose hanno un senso solo perché l’uomo
vuole sopravvivere e glielo attribuisce comunque, oppure perché questo
senso lo scopre in esse, perché le cose lo possiedono indipendentemente
dall’uomo? L’intelligenza è la capacità di “porre dei rapporti” tra i vari
aspetti della realtà (come dicono certi moderni), oppure è la
capacità di “cogliere dei
rapporti” tra i vari aspetti della realtà, rapporti esistenti
per se stessi (come diceva Platone, e con lui tutti i filosofi classici)?
All’ipotesi pragmatica si può
contrapporre un’ipotesi alternativa: l’ipotesi realista. Ovviamente non un realismo ingenuo (la storia non passa
inutilmente!): tutti gli aspetti positivi messi in luce dal positivismo, dallo
strutturalismo, dalla psicologia, li manteniamo. Non possiamo certo dire
semplicemente: le cose esistono nella realtà esattamente così
come noi le conosciamo, la nostra mente ne è lo specchio ... Eppure
possiamo dire che esiste (al di
là del convenzionalismo, dello strutturalismo, di tutti i
“trucchi” più o meno abili, escogitati dalle varie scuole di
Psicologia), una struttura originaria,
indipendentemente dal soggetto che conosce, e che fonda, insieme con
l’intervento del soggetto stesso, la conoscenza di quella che noi chiamiamo
realtà.
Il reale possiede una sua unità, una sua
entità, che abbiamo chiamato “struttura originaria”, in
termini più precisi diciamo l’essere.
Un essere che si svela da vari punti di vista, che si presenta attraverso
infinite mediazioni diverse, ma che è e resta trascendente al soggetto,
cioè esiste indipendentemente dal soggetto che lo conosce.
“Intellectus fit quodammodo omnia”,
dicevano gli scolastici con un latino certamente non classico e piuttosto
facile, “l’intelligenza si fa, diviene (in certo modo) tutto”,
cioè tutto ciò che conosce. Sì, certo, ma, aggiungiamo
noi, si distingue sempre da tutto.
Proviamo a dire le stesse cose con un linguaggio
forse meno preciso, ma più accessibile: l’oggetto è quel particolare
risultato che otteniamo, guardando una cosa (cioè un individuo, un
fatto, un fenomeno) da un particolare punto di vista. È vero che
è l’uomo stesso “a ritagliare” un particolare punto di
vista, così come si ritaglia un pupazzo da un foglio di carta, ma
è altrettanto innegabile che l’uomo non crea la carta, con le
relative proprietà.
La nostra conoscenza potrà contenere anche
parecchi aspetti di mediazione, ma non potrà essere tutta e solo
mediazione, tutta e solo convenzione, tutta e solo pragmatica. Facciamo un
altro esempio: lo scultore “crea” un’opera d’arte da un
pezzo di marmo; è lui che sceglie il marmo e inventa a suo piacere
quello che gli pare più adatto ad esprimere la propria ispirazione.
Ricordiamo l’espressione usata da Michelangelo Buonarroti per definire
una scultura: “Un pezzo di marmo da cui l’artista ha tolto tutto
ciò che era superfluo”. È chiaro l’intervento
“arbitrario”, “libero”, “non legato a
schemi”, da parte dell’artista, ma è altrettanto chiaro che,
pur nella sua libertà, l’artista non potrà inventarsi a
piacere le proprietà del marmo, ma le trova così come sono e deve
adattarvisi se vuole utilizzarle per il proprio lavoro. Francis Bacon,
(1561-1626), filosofo inglese, ha tradotto questo concetto
nell’espressione diventata famosa: “Naturae non imperatur nisi
parendo”, “Alla natura non si comanda, se non obbedendovi”.
In sintesi: il soggetto non è
l’oggetto.
È importante, a questo punto, affermare che l’ipotesi realista tiene, cioè
è coerente, e su di essa si può costruire tutta una
Filosofia, chiamata appunto realista. Ad esempio si può sviluppare anche
una Filosofia della Scienza coerente con questa ipotesi.
È necessario che ci fermiamo ancora un poco
sull’ipotesi realista, perché farà da sostegno al tema
fondamentale del nostro corso.
Facciamo un altro esempio: il problema della misura. Misurare significa, in senso
più generale, associare a ciascuna grandezza, presa in una certa classe
di grandezze, un numero, preso in una certa classe di numeri, secondo un
procedimento opportuno; ad esempio la misura della lunghezza di un tavolo.
L’ente, la “cosa” è il tavolo; la lunghezza è
l’oggetto, cioè un qualcosa creato dall’intera-zione
uomo-tavolo. Chiaramente è l’uomo che “dirige” le
operazioni, che sceglie il tipo di misura da effettuare (lunghezza, volume,
peso, peso specifico, massa e, più in generale, velocità,
accelerazione, forza, energia, potenza, carica elettrica ecc.), che fissa le
unità di misura (che sono convenzionali e che vengono usate in generale,
ben al di là del nostro tavolo), che stabilisce metodi e procedimenti
... ma i risultati ottenuti esauriscono il tavolo, nel senso che quello che
appare è tutto e soltanto opera dell’uomo? Evidentemente no. Tutto
è opera dell’uomo, tranne le condizioni iniziali, cioè
l’esistenza di un quid, che chiamiamo ente, che esiste indipendente
dall’uomo e che rimanda all’essere.
Riprendiamo l’espressione già vista:
“l’intelligenza è la capacità di cogliere o di porre
rapporti”? Possiamo anche accettare il secondo modo di questa espressione
(il “porre rapporti”), ma lo dobbiamo intendere almeno così:
l’intelligenza può porre tutti i rapporti che vuole, tranne la
possibilità di porre rapporti; questa possibilità è data,
è offerta, l’intelligenza la trova già fatta. Da chi? Da
che cosa? Da qualcosa che non è l’uomo: diciamo più
precisamente dall’essere.
A proposito dell’ipotesi realista in campo
scientifico, vedi anche quanto sostenuto da John Polkinghorne e da noi
riportato al paragrafo 7.2 .
Ancora un esempio illustrativo, prima di concludere
questo paragrafo. Lo prendiamo da una espressione di moda nelle riflessioni
teoriche di alcuni decenni fa sugli sviluppi della Biologia: “L’ontogenesi ricapitola la filogenesi”,
cioè lo sviluppo dell’individuo, dalla nascita
all’età adulta, ripercorre gli stessi stadi attraversati dalla
specie a cui appartiene, nella lunga storia evolutiva della specie stessa.
Quale che sia il valore di questa proposizione all’interno della
biologia, a noi serve solo per stabilire
un parallelo tra lo sviluppo mentale di un bambino, quello
dell’umanità, quello di un pensatore e infine la nostra ipotesi
realista.
Lo sviluppo
del bambino: da una visione globale a una visione differenziata della
realtà. Dicono gli studiosi che nelle prime fasi di vita il bambino ha
una visione del mondo globale, complessiva; il mondo gli appare come un
tutt’uno indifferenziato. Ad esempio il bambino, nelle prime settimane di
vita, non sa distinguere neppure il proprio corpo da quello della madre. Solo
con la crescita sa riconoscere le persone, gli ambienti in cui vive, le
reciproche relazioni e a poco a poco impara a vivere, a rispondere
correttamente ai diversi stimoli fino ad apprendere tutte le sfumature e
persino tutte le sottigliezze e i trucchi della comunicazione: la diplomazia, l’ironia,
la metafora, i discorsi simbolici, quelli figurati, ecc.
Lo sviluppo
dell’umanità: agli albori della civiltà
l’approccio alla realtà era globale, attraverso una visione che
insieme era religiosa, razionale, mitica, simbolica, fantastica. Soltanto in
seguito si è avuta una separazione del “logos” dal
“mythos”, (Grecia, circa
Qualcosa di analogo accade ad ogni pensatore:
all’“inizio” (chiaramente si tratta di un inizio logico,
più che cronologico), ha una intuizione fondamentale, una “visione
del mondo” complessiva, un qualcosa di simile ad un’intuizione
poetica. Poi la sviluppa a poco a poco, la articola in discorso logico, ne
separa e ne approfondisce i vari aspetti, la sistematizza, la confronta, ecc.
Si può dire che, lungo il cammino, la arricchisce, nel senso che vi aggiunge “nuove cose”?
Sembra di no. Piuttosto ne esplicita i contenuti, ne chiarisce i rapporti, ne
sviluppa le relazioni, ma la intuizione fondamentale era già ricca e
completa fin dall’inizio.
Così è per l’ipotesi realista, vista nel suo
complesso. Alla base c’è un’intuizione fondamentale:
l’essere. Si tratta di una intuizione globale, ricca; in un certo senso
anche simbolica, poetica. In questa conoscenza fondamentale c’è
dentro tutto; c’è anzitutto la percezione di qualcosa che ci trascende, che non è solo il
frutto di una nostra invenzione. Poi la percezione di qualcosa da sviluppare,
da analizzare, da articolare nelle differenti prospettive e con differenti
metodologie: sono i diversi approcci della realtà (che esamineremo
sommariamente nell’ultimo capitolo). Ma anche qui: non è vero che
le conoscenze più sviluppate neghino l’intuizione precedente,
soltanto la esplicitano, la articolano, la sviluppano.
Vogliamo tradurre in forma sintetica il pensiero
espresso diffusamente in questo paragrafo, e che rappresenta la chiave di
lettura anche del problema fondamentale dei rapporti Scienza-Fede?
Ecco:
a) Esistenza di una
realtà oggettiva, non riconducibile esclusivamente al soggetto che
conosce, alla sua stessa conoscenza e alla arbitrarietà delle sue
opinioni e delle sue scelte.
b) Possibilità di conoscenza vera di questa
realtà, pur attraverso infinite mediazioni, perfezionamenti, diciamo
pure “creazioni” del soggetto.
c) Da un lato: possibilità di ricondurre tutta questa realtà alla sua struttura unitaria e
originaria: l’essere (è il problema dell’ontologia),
attraverso varie e più o meno complesse mediazioni.
d) Dall’altro: possibilità di ricondurre tutta la conoscenza alla percezione
fondamentale di questa unità e di questa originarietà
dell’essere, attraverso una intuizione fondamentale e le successive
articolazioni. Notiamo che l’intuizione fondamentale è simbolica,
poetica, quindi potenzialmente ricca e capace di lasciare spazio sia
all’analisi razionale di certi aspetti della realtà, sia ad altri
sviluppi, ad esempio (ma non è casuale!) alla Fede.
Ripetiamo ancora una volta che le due ipotesi
fondamentali che sono state esaminate, l’ipotesi pragmatica e l’ipotesi
realista non sono dimostrabili, proprio perché sono punti di
partenza che guidano tutto il processo di conoscenza del mondo reale. Possiamo
pensarli, in un certo senso, come qualcosa di analogo ai postulati o assiomi
che sono il punto di partenza delle teorie matematiche, ci riferiamo, ad
esempio alla Geometria Euclidea. Non si può dimostrare tutto in Matematica,
perché dimostrare significa “mostrare partendo da ...”,
cioè “mostrare qualcosa partendo da qualcos’altro”, ma
questo procedimento non può essere condotto all’infinito: occorre
trovare un punto di partenza. Ora, in Matematica, il punto di partenza è
costituito da alcune proposizioni che vengono “postulate”,
cioè richieste, ammesse, prese per se stesse, e sono appunto i
postulati, a partire dai quali vengono dimostrati i teoremi e quindi viene
costruita tutta la teoria. Le due ipotesi che sono state esaminate sono
esattamente l’analogo dei postulati della Matematica, che costituiscono
il punto di partenza per “tutto il resto”.
A questo punto possiamo riprendere in considerazione
e collocare nella giusta prospettiva
i rapporti tra Filosofia e Scienza.
Certamente questi rapporti non si configurano
più né in termini “classici”, dalla Filosofia alla
Scienza con procedimento deduttivo, né in termini “moderni”,
dalla Scienza alla Filosofia con procedimento induttivo.
Oggi si vede piuttosto un rapporto essenzialmente circolare: dalla Scienza alla Filosofia e
viceversa. Ciascuna dà il proprio contributo all’altra, e
dall’altra lo riceve.
Più precisamente:
Una Filosofia
senza
Una Scienza
senza
Circolarità,
quindi, e non gerarchicità o pretese di superiorità. Ciascuna si occupa dei
propri problemi ed entra con l’altra in rapporto di collaborazione. Questo
almeno in teoria; la prassi non sempre vi corrisponde, ma questo è tutto
un altro discorso ...
“Il
cerchio da chiudere”, dicevamo all’inizio di questo capitolo,
il cerchio del senso della realtà,
del mondo che ci circonda e nel quale viviamo. Abbiamo esaminato due
prospettive: quella pragmatica e quella realista.
L’ipotesi pragmatica equivale, per così
dire, alla chiusura di tanti piccoli
cerchi, ciascuno isolato dagli altri e riferito solo ad una situazione
specifica, limitata, chiusa in se stessa.
Al contrario l’ipotesi realista equivale alla
chiusura di un unico cerchio abbastanza
grande.
Nell’ipotesi pragmatica si rischia di non
chiudere mai il cerchio grande; nell’ipotesi realista si rischia di
chiuderlo male oppure di chiuderlo troppo presto.
La quota di rischio è presente in ogni caso: tocca a noi decidere dove e come collocarla.
Perché
tanto tempo dedicato a temi e problemi filosofici?
Chi ci ha seguito fin qui non avrà
difficoltà a capire che la radice dei problemi, e quindi delle
soluzioni, è anzitutto (anche se non solo) di tipo filosofico, in
particolare di quella che potremmo chiamare “Filosofia di base”, cioè la ricerca di quelle basi
fondamentali sulle quali costruire tutto il senso della realtà e che
sono state sintetizzate nelle due ipotesi: l’ipotesi pragmatica e l’ipotesi
realista. Prima di affrontare i problemi della Fede è necessario
sgombrare il campo, per quanto possibile, dalle difficoltà fondamentali
circa il senso della realtà, come abbiamo cercato di fare, altrimenti
non si può costruire un discorso su basi stabili.
Tutta la problematica precedentemente discussa si
può riassumere in alcune formulazioni che presentiamo schematicamente.
a) Appartenenza e distanza critica. Questa frase condensa quello che
riteniamo l’atteg-giamento serio
ed equilibrato di ogni ricercatore onesto, in qualunque campo, e in particolare
nel campo della Fede. Se affermiamo soltanto l’appartenenza, cioè
l’adesione ad una dottrina, senza distanza critica, corriamo il rischio
di assumere atteggiamenti dogmatici,
bigotti, tifosi ... Al contrario, se affermiamo la distanza critica pura,
cioè senza alcuna effettiva decisione di appartenenza, ci fissiamo in un
atteggiamento scettico. Nessuna
delle due posizioni è accettabile in chi vuole ricercare, prima, e
accogliere e professare, poi, un serio discorso di fede.
b) Circolarità tra sapere filosofico e sapere scientifico.
Scienza e Filosofia ci offrono reciprocamente contributi, diversi e
complementari:
c) Chiusura o non chiusura del cerchio del senso (ricordiamo il senso
che è stato dato, nel capitolo
Prima di affrontare i problemi specifici del
rapporto Scienza-Fede, desideriamo esporre per punti la nostra posizione sul
problema della Fede, attraverso la presentazione successiva, e un po’ schematica
delle diverse posizioni con le quali
siamo d’accordo.
a) Siamo d’accordo con
coloro che chiudono il cerchio,
cioè ammettono un senso per l’uomo, per le cose, per la vita, un
senso oggettivo e indipendente
dall’uomo stesso. Con coloro che ammettono una Filosofia non
pragmatica, un sapere fondamentale e fondamentalmente diverso dal puro sapere
scientifico. Anche le posizioni marxiste, tanto per fare un esempio,
appartengono a questa categoria.
b) Siamo
d’accordo con coloro che ammettono un senso trascendente, cioè che ritengono che la realtà
ha un senso conferito ad essa da un’intelligenza, da un progettista ...
Magari questo essere é cattivo, perché ci fa soffrire, ma
c’è. Questa categoria è più ristretta della
precedente: è la categoria, ad esempio, a cui appartengono i “teisti” (o “deisti”) del Pensiero Illuminista
(1700), chiaramente ben diversa dalle posizioni marxiste.
c) Siamo
d’accordo con coloro (e sono una categoria ancora più ristretta
della precedente) che pensano ad un Dio con cui poter instaurare un rapporto personale, sulla base di una
iniziativa dell’uomo. Ci riferiamo anzitutto alle grandi religioni
storiche, ad esempio il Buddismo, l’Islamismo, l’Induismo, anche se
ci sarebbe da discutere circa il tipo di
rapporto che i fedeli instaurano o possono instaurare con Dio,
all’interno di ciascuna di esse.
Una nota a parte merita l’Islam, che, come il
Cristianesimo, afferma l’esistenza di una Rivelazione data da Dio (Allah)
attraverso il profeta Maometto; ma qui sarebbe necessario un confronto (che non
facciamo) tra i due tipi di rivelazione.
In questa categoria collochiamo anche le varie
manifestazioni di quelle che vengono chiamate talvolta “religioni
naturali”, che si presentano lungo il corso della Storia
dell’umanità.
d) Infine siamo d’accordo
con coloro (e qui la categoria è veramente molto ristretta, almeno come
condizioni richieste per l’adesione, se non come numero effettivo di
persone che vi appartengono) che pensano ad un Dio con cui poter instaurare un
rapporto personale sulla base di una
iniziativa da parte di Dio stesso. È il problema della Rivelazione.
Se prestiamo attenzione a quanto esposto ci rendiamo
conto facilmente delle difficoltà obiettive a percorrere tutto questo
cammino, da parte di un “lontano”. La conversione appare, almeno
sul piano intellettuale, quasi un’impresa disperata: la distanza sembra
insormontabile. Per fortuna però non esiste solo il piano intellettuale:
l’esperienza religiosa è essenzialmente di tipo esistenziale,
è apertura al mistero, è apertura
all’amore ... e allora tutti i passi diventano possibili,
perché l’amore sa dare un senso anche dove la ragione pura non
arriva.
(Senza trascurare, evidentemente, che per un
credente, una conversione, cioè la conclusione di un cammino verso
Vediamo ora i problemi, cioè le scelte sulle
quali noi non concordiamo.
Cominciamo con l’ipotesi pragmatica, quella che è stata ampiamente
esaminata in precedenza.
Sono diverse le posizioni concrete riassunte in
questa ipotesi: abbiamo l’atteggiamento
strutturalista (quando lo strutturalismo passa da metodo d’indagine
scientifica a Filosofia vera e propria), l’atteggiamento neopositivista (unica verità è quella che
deriva da proposizioni scientificamente enunciabili e verificate), l’atteggiamento genericamente pragmatico
(quello che conta non è una verità oggettiva, ma una visione del
mondo che funzioni nella pratica, comunque venga prodotta dall’uomo).
Si è già trattato in precedenza di
questa posizione. Aggiungiamo solo due osservazioni.
È
praticamente inutile discutere di Fede se prima non si instaura un’intesa
circa il senso delle cose. Occorre ridiscutere insieme le ipotesi radicalmente diverse che
stanno alla base delle rispettive concezioni ... anche se appare
un’impresa quasi disperata,
per il fatto che le due visioni, l’ipotesi realista e l’ipotesi
pragmatica, sono proprio il punto di partenza, la fonte, per così dire,
di tutto il resto. Ora se è facile cambiare qualche aspetto di una
posizione, è molto difficile cambiarla totalmente.
È vero tuttavia, e questa è la seconda
osservazione, che esiste anche la possibilità
di assumere una posizione che sia al
tempo stesso cristiana e pragmatica o strutturalista. Abbiamo incontrato
personalmente chi negava risolutamente l’ipotesi realista, affermando
chiaramente di sostenere l’ipotesi pragmatica e al tempo stesso si
dichiarava cristiano (e praticante!). Secondo questa ipotesi le cose non hanno
un senso che si scopre con l’intelligenza, ma solo con l’amore.
Atteggiamenti come questi vanno evidentemente esaminati caso per caso, comunque
si tratta in genere di atteggiamenti fideisti: esistono due piani, il piano
della Scienza e più in generale della ragione e il piano della Fede. Non
esiste alcun punto di contatto tra i due, nessun rapporto. Sono, per
così dire, due mondi separati. È evidente che posizioni come
queste non ci possono trovare d’accordo dal momento che crediamo alla
funzione positiva della ragione sul problema della Fede.
Ci riferiamo a tre categorie di pensiero: coloro che
negano la trascendenza dello spirito
(tutte le posizioni materialiste di vario tipo, in particolare il marxismo), coloro
che negano la trascendenza di Dio
(in particolare ci riferiamo alla posizione di un filosofo italiano, Emanuele
Severino, che esamineremo oltre) e infine coloro che, pur ammettendo la
trascendenza di Dio, negano la
possibilità di una Rivelazione (in questa categoria mettiamo tutti i
tipi di razionalismo, in particolare gli atteggiamenti, abbastanza diffusi
nella cultura contemporanea, che si ispirano in genere al pensiero
dell’Illuminismo).
Circa gli atteggiamenti materialistici (marxisti in
particolare) e più in generale razionalistici, non c’è
molto da aggiungere a quanto detto in precedenza: un dialogo con i sostenitori
di queste posizioni deve partire praticamente da zero proprio perché le
divergenze, rispetto a chi crede, toccano le radici più profonde del
pensiero.
Ci soffermiamo invece sulla posizione di Emanuele Severino, un filosofo italiano
di impostazione razionalistica di tipo speciale, cioè
“monistica”. Severino si rifà alla posizione di un filosofo
greco, Parmenide (tipico è il titolo di un suo libro: “Ritornare a
Parmenide”, pubblicato in una raccolta di saggi dell’Autore stesso:
“Essenza del nichilismo”, ed. Paideia), che sostiene
l’esistenza soltanto dell’essere: l’essere uno, eterno,
immutabile, indiveniente. Tutta la realtà, tutti gli avvenimenti, tutte
le differenziazioni degli enti non sono altra cosa che l’apparire, il
manifestarsi di questo unico essere. Severino perciò, sulla scia di
Parmenide, nega tanto la molteplicità quanto il divenire.
Filosofia questa, certamente affascinante anche se
discutibile, soprattutto quando si afferma che tutta la decadenza
dell’Occidente (e quindi del mondo intero visto che l’Occidente ha
imposto a tutto il mondo la sua Scienza e la sua Tecnica) è legata
essenzialmente alle ipotesi di Platone e Aristotile, che, contro Parmendide,
hanno affermato l’esistenza del “non-essere relativo”, che
può nascere e scomparire. Severino afferma che, proprio a partire da
questa ipotesi è nata
Senza entrare in discussione circa
l’impostazione generale di questa Filosofia, che tra l’altro giunge
a negare l’esistenza di un Dio personale, ci sembra importante discutere
l’obiezione fondamentale che Severino pone al cristianesimo, proprio sul
problema dei rapporti ragione-Fede, molto vicino al problema che stiamo trattando
nel nostro corso.
La non conflittualità, anzi la
compatibilità tra Fede e ragione dove può trovare il proprio
sostegno? Se la non conflittualità è affermata in base alla Fede, allora siamo in un
fideismo, dove conta solo
Se invece questa compatibilità è
affermata in base alla ragione,
allora
Rispondiamo che il dilemma è soltanto
apparente e la spiegazione è già stata data implicitamente in
precedenza.
Esaminiamola più attentamente.
L’errore di Severino è di avere una concezione
monistica, come si diceva, del rapporto essere-pensiero, cioè della
conoscenza. Tutto ciò che la ragione conosce, lo conosce in modo
assoluto, categorico. È la assolutizzazione della ragione, la sua
esclusivizzazione.
Abbiamo visto invece che l’esperienza
fondamentale dell’essere, quell’intuizione globale e originaria
circa il senso delle cose non è di tipo razionale, ma è di tipo poetico-simbolico,
è apertura alla totalità, è percezione oscura e sintetica
che l’uomo è aperto a qualcosa di cui non coglie completamente il
significato.
È una
percezione, dicevamo, intuitiva quindi precedente sia alla ragione sia alla
Fede.
È un percepire che l’essere è
essenzialmente unitario e si articola variamente e quindi che ci sono diversi
spazi (pur nella loro unità fondamentale) per queste articolazioni, tra
cui lo spazio della Fede. La ragione, in un secondo momento logico, esplicita e
chiarifica questi nessi, in particolare analizza lo spazio della Fede (e abbiamo
In questo modo ci sembra di avere dimostrato
sufficientemente la “compatibilità” tra Fede e ragione, pur
nella loro reciproca indipendenza: le abbiamo messe in relazione, per
così dire, con il nostro “punto di partenza”. (Vedi anche il
paragrafo 5.5).
Sotto questo titolo vorremmo comprendere la
posizione di coloro che pretendono di dimostrare
l’esistenza di Dio, attraverso
Ad esempio un argomento che ricorre spesso è
il passaggio a Dio attraverso le teorie cosmologiche: tutto l’Universo ha
avuto origine dai quindici ai venti miliardi di anni fa, con il famoso
“big bang”. E prima che cosa c’era? Perché è
successo? E chi lo ha prodotto?
La risposta non può essere che Dio.
Un altro esempio che ricorre spesso è la
presenza del finalismo in Biologia. Un finalismo che
Potremmo anche continuare, ad esempio, con coloro
che sostengono la presenza dei miracoli a Lourdes come prova
“scientifica” del soprannaturale, oppure con coloro che,
soprattutto alcuni anni fa, tiravano delle conclusioni affrettate a partire
dagli studi più recenti sulla Sindone di Torino, per affermare che
c’è una qualche “prova”, in essa, della risurrezione
di Cristo.
Nell’ottobre del 1995, l’Editrice
Mondadori ha tradotto e pubblicato un libro dello scienziato Frank J. Tipler,
(americano, specialista nel campo della Teoria della Relatività) dal
titolo: “
Che cosa diciamo? Anzitutto occorrerebbe scendere
nei dettagli tecnici, e allora ci accorgeremmo che non soltanto i credenti
usano questo tipo di argomenti, ma anche i non credenti, per dimostrare le loro
tesi, e anch’essi lo fanno spesso con grande superficialità. Ad
esempio chi sostiene la possibilità di un Universo ciclico o vibrante
(cfr. il paragrafo 2.1) che continua autonomamente e automaticamente a
espandersi e a contrarsi all’infinito, dimentica il Secondo Principio di
Termo-dinamica (cfr. il paragrafo 2.4), che sostiene una inevitabile
degradazione dell’energia, cioè una non completa riutilizzazione
dell’energia stessa. È
perciò impossibile che l’Universo, dopo una dilatazione e una
successiva contrazione, possa ritornare esattamente nelle stesse condizioni
iniziali. Ma allora ritorna il problema che tutto deve essere cominciato: ma
come?
Anche a proposito dei fenomeni biologici,
l’ipotesi del caso non trova tutti d’accordo (ma su questo
torneremo più avanti), così pure non è poi tanto semplice
spiegare razionalmente i fatti eccezionali di Lourdes o
Comunque queste argomentazioni non ci sembrano
sufficienti per dimostrare le tesi dei credenti, perché il discorso
è un altro: è un discorso di fondo, di metodo. Dio non è assolutamente il
“tappa-buchi” della nostra Scienza, cioè colui che
arriva là dove la nostra Scienza attuale non è in grado di
arrivare. Anzitutto perché domani una Scienza migliore potrebbe colmare
le lacune della Scienza attuale ... e Dio andrebbe in pensione, ma soprattutto
perché Dio lo si raggiunge attraverso un’indagine non scientifica
(nel senso della Scienza Sperimentale), ma filosofica da un lato e di Fede
dall’altro. Semmai questi aspetti della Scienza ci possono stimolare
all’apertura verso il mistero: sono un invito, un invito importante, ma
niente più.
Ricordiamo l’episodio che viene attribuito a
Napoleone, imperatore di Francia e allo scienziato Pierre Simon de Laplace
(1749-1827), che gli spiegava il “funzionamento” del Sistema
Solare. Al termine della spiegazione Napoleone avrebbe detto allo scienziato:
“Tante parole sul Sistema Solare e nessuna all’Autore (cioè
Dio) di questo Sistema”, a cui lo scienziato avrebbe risposto: “Sire,
per le mie spiegazioni, non ho bisogno di questa ipotesi”. Affermazione
esatta, dal punto di vista scientifico, anche se di fatto lascerebbe supporre
un atteggiamento ateo, o anche solo agnostico, da parte dello scienziato.
Qui tocchiamo il punto chiave del nostro problema.
Esponiamo dapprima la posizione con cui non concordiamo, quindi la nostra, come
sempre.
“Galileo è stato un errore,
E invece no. O meglio: siamo d’accordo che i problemi
del passato (pensiamo a Galileo e anche ai problemi suscitati dalla teoria
dell’evoluzione di Darwin, tanto per ricordare ancora una volta i due
esempi notissimi che abbiamo citato al paragrafo 3.1) sono ormai risolti, ma
non possiamo assolutamente essere
sicuri che non ne sorgeranno di nuovi nel futuro. E, se sorgeranno, saranno
risolti? E come lo saranno? E chi ce lo garantisce?
La realtà è unica e i campi di
indagine sono diversi, ma i punti di contatto, o anche di attrito, tra Scienza
e Fede sono frequenti. Certo, ciascuna di esse deve rimanere nel proprio
ambito, deve riconoscere l’autonomia dell’altra, ma sono sempre
uomini che operano nei due campi, uomini con le proprie idee, i propri
sentimenti, le proprie emozioni, le proprie interpretazioni della realtà
e i conflitti possono sorgere da un momento all’altro.
Chiaramente il confronto resta sempre aperto, sia
per ripensare i rispettivi punti di
vista, gli ambiti, i metodi, i risultati e il loro significato, cioè
riflettere, chiarire, rielaborare, articolare, mediare ... sia per riformulare le proprie conclusioni,
cioè ripresentarle in forma più coerente con il proprio metodo e
più rispettosa del metodo e dell’ambito dell’altra.
Resta comunque il problema fondamentale: ci saranno
sempre confronti e quindi possibili conflitti tra Scienza e Fede, chi e come
garantisce che saranno sempre risolti? Chi e come garantisce che qualche nuova
scoperta scientifica non sia capace di
svuotare dall’interno tutta la nostra Fede?
Esaminiamo anzitutto alcuni documenti ufficiali
della Chiesa: li prendiamo dagli ultimi due Concili Ecumenici. Cominciamo con
il Vaticano I.
“
“A questa rivelazione
è da attribuirsi il fatto che quelle cose che nei misteri divini per
sé non sono inaccessibili alla ragione umana, nella presente condizione
del genere umano possano essere conosciute da tutti, facilmente, con ferma
certezza, e senza alcun errore” (Dz. 3005).
Attenzione! Questi testi sembra diano ragione a
Severino (v. paragrafo 3.3) nel senso che è di Fede (“
Vediamo invece il Vaticano II.
“La ricerca metodica
di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le
norme morali, non sarà mai in reale contrasto con
Anche qui attenzione! Dio appare la fonte di
entrambe le realtà, sia le “realtà profane”, sia le
“realtà della
fede”. Di fatto il Vaticano II richiama il Vaticano I, ma con un
linguaggio più moderno. Certo, Dio è la fonte di tutta la
realtà, nelle sue varie articolazioni, e quindi sono impossibili i
contrasti, ma il problema si ripresenta
se mi domando: come conosco Dio? Con la ragione oppure con
Chiaramente scartiamo ogni posizione puramente
pragmatica, suggerita da chi vede le cose dall’e-sterno:
La nostra posizione si rifà sostanzialmente a
quanto esposto in precedenza illustrando l’ipotesi realista. La realtà stessa è
profondamente unitaria e noi la cogliamo con quello sguardo intuitivo,
originario, fondamentale, oscuro e ricco, poetico, simbolico. Da questa
percezione prendono corpo e si sviluppano tutte le conseguenze teoriche e
pratiche della posizione che abbiamo presentato, due delle quali ci interessano
in modo particolare:
a) Anzitutto cogliamo,
nell’unità dell’essere, l’articolazione,
la mediazione, la riflessione razionale, che conduce all’analisi del
tutto e quindi alla Filosofia, alla Scienza, e poi ai vari rami della
Scienza e allo studio dei rapporti reciproci attraverso gli strumenti che di
volta in volta sono più opportuni.
b) Inoltre, ed è
altrettanto importante dell’osservazione precedente, percepiamo
intuitivamente che la ragione non è tutto, che c’è spazio per altre aperture, che l’essere non
si svela solo con la ragione; è chiaro: si tratta di percezione oscura e
non ancora esplicita. L’incontro con
E a questo punto, e solo adesso, possiamo dire che l’unità
dell’essere si fonda sulla unità di Dio, che non si contraddice, e
che con la ragione si può conoscere: è Dio stesso che,
rivelandosi, ce lo dice esplicitamente. In questo modo
“ricuperiamo” i testi dei Concili che abbiamo esaminato.
Quindi, in sintesi: unità della
realtà, percepita con uno sguardo intuitivo fondamentale; articolazioni
diverse attraverso la ragione; intuizione di altri spazi, che si aprono con
Concludendo possiamo affermare che la risolubilità dei conflitti tra
Scienza e Fede è garantita dall’unità profonda della
realtà che appare all’intuizione iniziale (chiaramente un
inizio logico, più che cronologico): un’intuizione che non è né di ragione, né di
Fede, ma appunto un’in-tuizione che abbiamo chiamato simbolica, poetica,
antecedente perciò tanto alla ragione quanto alla Fede.
Esposta con chiarezza la nostra posizione, possiamo
anche accogliere parzialmente l’ipotesi “prag-matica”, nel
senso che
Poi però ci si accorge che le cose non stanno
effettivamente così, gli atteggiamenti polemici si smorzano, i problemi
vengono riesaminati con attenzione e allora si arriva ad una soluzione. In
particolare, da parte della Chiesa, si riesce a cogliere meglio il rapporto tra
contenuto di una verità posseduta e relativo mezzo espressivo,
soprattutto per quanto riguarda i contenuti della rivelazione. Un esempio, che
potremmo chiamare “classico” a questo proposito, è
costituito dal linguaggio usato per il racconto della creazione: i famosi
“sei giorni”. Non si tratta evidentemente né di giorni, nel
senso attuale, né più in generale di epoche, o di periodi, o di
fasi, ma di sei “stanze”, o “strofe”, o più
semplicemente “parti” o “porzioni” in cui è
suddiviso il racconto, chiaramente un racconto in stile poetico, cioè simbolico
e allegorico. Tutt’altra cosa, evidentemente, è la descrizione
dell’origine dell’Universo data dalla Scienza.
Prima di concludere il capitolo vogliamo affrontare
alcuni problemi particolari sul tema del nostro corso, senza pretendere
né che comprendano tutti i problemi attualmente posti tra Scienza e
Fede, né tanto meno che le nostre proposte di soluzione siano le uniche
o le più complete.
Ricordiamo comunque ancora il nostro punto di vista
fondamentale, cioè la conciliabilità in linea di principio tra
Scienza e Fede in base al punto di partenza del nostro pensiero:
l’intuizione dell’essere nella sua fondamentale unità.
Nella nostra analisi ci serviremo soprattutto del
lavoro di Karl Rahner: “Scienza e Fede cristiana” (pagg.
29-84), pubblicato dalle Edizioni
San Paolo.
Si tratta del titolo di un libro (ed. Mondadori,
1984) di un fisico inglese, Paul Davies, che ci serve per introdurre un
problema attuale; possiamo schematizzarlo così: il problema di Dio e
della creazione, un confronto tra Fisica e Teologia.
Diciamo subito che la “fonte” principale
è proprio lo scienziato citato poco sopra. Il problema posto è
trattato a fondo e da angolature diverse nel suo libro: “Dio e la nuova
Fisica”, ma ricompare sporadicamente anche in altri libri e articoli
dell’autore stesso. Ricordiamo, tra gli altri, i libri
“Sull’orlo dell’infinito” e “Superforza”
(entrambi pubblicati da Mondadori),
e l’articolo “Questo mondo è così difficile, ci
vorrebbe Dio”, pubblicato su un supplemento al quotidiano “
La posizione di Davies è, tutto sommato, abbastanza oscillante tra
l’eliminazione di Dio e la possibilità che Dio comunque abbia un
ruolo nella creazione. Che cosa dice in sostanza? La “nuova”
Fisica (cioè
Che cosa rispondiamo?
Semplicemente che Davies (e questo vale anche per i
suoi “colleghi” che abbiamo appena citato) sarà anche un
ottimo scienziato, su questo non abbiamo niente da dire, ma certamente non è né un filosofo,
né un teologo, anche se si permette di trattare temi di Filosofia o
di Teologia sulla base di opinioni personali, che molto spesso non vanno al di
là di un comune buon senso.
E come il solo “buon senso” non ci permette di trattare problemi di
Fisica, non ci permette neppure di trattare problemi di Filosofia o di
Teologia.
Sulle tesi di Davies vedi anche il pensiero di
Polkighorne, riportato al paragrafo 7.4.
Certamente nel passato ci possono essere stati
filosofi o teologi che sostenevano teorie sorpassate scientificamente oppure
che sconfinavano indebitamente in terreni non di loro competenza. Ma oggi non
è più così.
Quindi certe
“pretese” che Davies attribuisce ai teologi sono puramente
inventate.
D’altro canto possiamo dire molto chiaramente
che le Scienze fisiche possono cercare dove, come e quando vogliono, in tutti i campi senza alcun limite o vincolo
(a parte le norme etiche che vincolano tutti!). Trovino pure, le Scienze
fisiche, che il mondo si è sviluppato “da solo”, in modo
autonomo, senza interventi diretti di Dio (attenzione però: una frase
come quest’ultima è già Filosofia e non più Scienza,
ma non approfondiamo!). La cosa essenziale è che dal proprio punto di
vista
Il punto è proprio questo: la creazione non
è tanto o soltanto un atto di Dio, ma è un rapporto profondo e totale tra Dio e il mondo, il Cosmo. Ora questo
rapporto viene colto sia attraverso un’analisi del mondo, nel suo
complesso, nella sua totalità, con metodi filosofici (e non
scientifici), sia, e a maggior ragione, nell’ambito della Rivelazione.
“Come” poi abbia agito Dio nella creazione, e nella conservazione
dell’Universo, questo né
Per inciso diciamo che sarà l’uomo
concreto, che è scienziato (o almeno che conosce i risultati della
Scienza) e che è al tempo stesso credente, a fare i collegamenti ...
come viene presentato nell’ultima parte (cfr. il capitolo 6).
In ogni caso, quali che siano le scoperte della
Scienza, essa ci dirà sempre e solo come
vanno (o come sono andate) le cose (magari ci dirà che la natura ha
delle potenzialità insospettate, ad esempio nel dare origine in modo
completamente autonomo a tutta la realtà nei suoi vari aspetti ... va
benissimo!), ma, ripetiamo,
Anche questo è un grosso problema. Lo
affrontiamo prendendo spunto da un libro di uno scienziato francese, premio
Nobel per
Monod è certamente magistrale nel presentare
i problemi dal punto di vista scientifico, poi però trae delle
conclusioni che vanno ben al di là della Scienza e toccano il terreno
proprio della Filosofia. Esaminiamo una delle sue conclusioni più tipiche:
“L’antica alleanza è infranta; l’uomo finalmente sa di
essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo da cui
è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è
scritto in nessun luogo” (pag. 143). L’Autore infatti, accettando e
sostenendo apertamente l’ipotesi dell’evoluzione in nome del puro
caso, nega la presenza del finalismo
come elemento fondamentale dell’evoluzione stessa. Nella sua
affascinante esposizione, Monod analizza i rapporti tra i due elementi presenti
nell’evoluzione del vivente: l’esistenza di un progetto, rilevabile
attraverso il finalismo (che lui chiama “teleonomia”), e
l’invarianza riproduttiva, cioè il fatto che tutte le strutture
elementari di ogni vivente (si parla infatti di Biologia molecolare) si
riproducono in modo costantemente uguale a se stesso, a parte qualche
piccolissima mutazione casuale. Quale dei due è “causa”
dell’altro? “Il finalismo è fondamentale, secondo le
religioni e tutte le filosofie creazioniste o spiritualiste - dice Monod - e
l’invarianza riproduttiva ne è la conseguenza, protetta, diretta,
orientata. Mentre in realtà - continua - quello che chiamiamo
‘finalismo’ non è altro che la conseguenza, per così
dire, un sottoprodotto della invarianza riproduttiva, unita a piccole mutazioni
accidentali e, come si diceva, puramente casuali”. Chiaramente, negando
il finalismo, viene negata anche la progettualità di Dio. In sintesi: progetto sì, progettista
no.
Si può accennare ad un altro problema
collegato: sembrerebbe che sostenendo una evoluzione di questo tipo si possa
affermare che “il più viene dal meno”, contro una posizione
tipica della Filosofia tradizionale.
Contro questa posizione, ed altre molto simili, si
è schierata da tempo una certa critica cattolica che pretende di
demolirle dall’interno, cioè con dei ragionamenti basati sul
valore scientifico delle affermazioni di Monod. Ma lo scopo vero di queste
critiche a Monod è l’affermazione dell’originalità
del finalismo e quindi la necessità della creazione e di Dio. Citiamo,
ad esempio, un articolo di Giovanni
Blandino pubblicato dalla rivista “Rassegna di teologia” (n. 3,
1986): “L’attività scientifica e divulgativa di questi
scienziati a favore del neodarwinismo [...] ha diffuso tra la gente la
convinzione che la dottrina neodarwinista sia stata ormai pienamente dimostrata
e che, quindi, la classica prova filosofica dell’esistenza di Dio basata
sull’ordine biologico sia senza valore. Anche molti sacerdoti cattolici
si sono convinti di questo” (pag. 241).
C’è poi una posizione abbastanza curiosa,
quella di David Bartholomew,
professore di Matematica in un Istituto universitario di Londra, che afferma
(nel libro: “Dio e il caso”, ed. S.E.I.) che Dio è
compatibile con l’ipotesi del caso, anzi che la scelta del caso è
il modo migliore con cui Dio poteva creare il mondo ed operare in esso.
Che cosa rispondiamo?
a) Anzitutto è
necessaria una rielaborazione più
attenta delle prove dell’esistenza di Dio, alla luce di tutta la
problematica moderna. Non dobbiamo aver paura della Scienza, che forse
può sconvolgere certe impostazioni tradizionali delle prove stesse, ma
che non può distruggere il valore delle prove in linea di principio.
È chiaro comunque che non possiamo occuparci di questo problema:
vogliamo solo affermare che a volte non serve sostenere certe
“prove” nella loro impostazione tradizionale, come sembra fare
Blandino.
b) Come già
detto, cioè come sempre, è necessario distinguere i piani: se
“loro” sbagliano quando pretendono di dimostrare la non esistenza di
Dio a partire da affermazioni scientifiche, anche qualcuno dei “nostri” sbaglia quando li critica,
apparentemente dall’interno della Scienza, in realtà introducendo
nel discorso scientifico proposizioni derivate dalla Filosofia o addirittura
dalla Teologia. In altre parole non deve essere la preoccupazione di
“perdere” qualcosa sul terreno filosofico, il motivo della critica
di posizioni scientifiche.
c) C’è
comunque una critica interna,
cioè autenticamente scientifica all’ipotesi del caso. Citiamo ad
esempio il libro di Pierre P.
Grassé: “L’evoluzione del vivente” (ed. Adelphi),
dove l’autore giudica nettamente insufficiente tale ipotesi e invita a
ripensare tutto il problema dal punto di vista scientifico (ma non si sogna
certo di rivendicare con questo l’esistenza di Dio!). Da questo punto di
vista non sembra valida nemmeno la tesi di Bartholomew:
tutto sommato anche qui si confondono i piani. Forse la sua analisi potrebbe avere un certo valore dal punto di
vista psicologico contro chi nega Dio in nome del caso.
d) Noi però
possiamo rivendicare tranquillamente la nostra autonomia e ammettere che il rapporto Dio-mondo è di tipo
trascendente, e solo in base a questo
rapporto possiamo affermare l’esistenza di un finalismo. Lasciamo che
siano gli scienziati a discutere liberamente sulla validità scientifica
dell’ipotesi del caso; se essi giungessero ad ammetterla come
definitivamente provata, ciò non toglierebbe una virgola alla nostra
tesi dal momento che, come si diceva, il finalismo, a carattere generale,
rientra da un altro punto di vista, cioè quello dell’analisi
filosofica. Analogamente va vista la questione circa il “più” e il “meno”. Chiaramente si tratta di
un “più” che viene da un “meno” quali appaiono a
livello empirico, fenomenologico. Nessuno però può negare che
chi, come noi, ammette l’esistenza di Dio, possa pensare che tutto è
profondamente e intimamente legato a Dio stesso che guida e coordina
l’evoluzione, naturalmente attraverso le cause seconde.
In definitiva è tutto il problema del rapporto
Dio-mondo che va rivisto e rielaborato anche alla luce delle scoperte
scientifiche.
Dicono le Scienze che entro il quadro generale
dell’evoluzione l’uomo “emerge”, cioè spunta,
viene su, viene fuori a partire dall’animale. Ma come si concilia tutto
questo con la storia della creazione dell’uomo, quale appare dalla
Rivelazione? Con il suo essere assolutamente diverso dall’animale?
Con la sua storia della salvezza? E quindi con il problema del peccato originale?
A proposito del peccato originale diremo qualcosa
nel prossimo paragrafo. Esaminiamo invece l’origine dell’uomo in se
stessa.
Rahner definisce l’uomo come “l’essere corporeo dotato di una
trascendentalità in linea di principio illimitata e di una apertura illimitata
all’essere in generale mediante la conoscenza e la libertà”.
Con questa definizione viene completamente eliminato il problema dei rapporti
tra intelligenza umana e intelligenza animale: la caratteristica
dell’uomo non è soltanto una intelligenza superiore a quella
dell’animale, che pure manifesta intelligenza, ma proprio questa trascendentalità, questa apertura illimitata all’essere,
mediante la libertà. In ciò si differenzia totalmente e
assolutamente dall’animale.
Trascendentalità, quindi, cioè capacità
di trascendere tutte le situazioni, le condizioni, gli ambienti in cui si trova
per porsi liberamente e coscientemente di fronte a se stesso e
all’essere, all’assoluto; in definitiva, a Dio. Questo è
ciò che caratterizza l’uomo.
È possibile pensare l’uomo inserito
nell’evoluzione universale? E come?
La risposta, anche quella ufficiale della Chiesa,
è “Sì” per quanto riguarda la corporeità, ad
una condizione, cioè: l’“anima”
dell’uomo è frutto di un “atto creatore di Dio”.
Se con ciò si intende “sottolineare -
dice Rahner - il fatto che la trascendentalità del soggetto umano non
può essere derivata semplicemente dai suoi presupposti materiali [...]
allora tale formulazione ecclesiale è nel giusto”. Se però
si intende per “creazione dell’anima” un atto di Dio,
cioè un intervento creativo
cronologicamente situato al momento dell’unione delle cellule
germinali, allora ci sono alcune difficoltà.
a) Prima di tutto
c’è il problema dei gemelli
monozigoti, che dovrebbe postulare un doppio intervento di Dio. Ma come? E
quando? Al momento del concepimento? Oppure al momento dello
“sdoppiamento” dello zigote (che avviene entro il quattordicesimo
giorno dal concepimento)? E non è facile districarsi in queste
difficoltà.
b) “Inoltre -
continua Rahner - se riflettiamo che la
causalità divina - che sopra abbiamo postulato come fondamento e
sostegno dinamico di ogni evoluzione, anche se non come fenomeno osservabile
dalle Scienze naturali - si specifica
ovviamente a seconda del fine dell’autotrascen-denza dal basso verso
l’alto, di cui essa è fondamento ontologico, allora possiamo
senz’altro dire che la causalità divina che sorregge
l’evoluzione in generale così come essa deve essere
all’opera qui, può essere identificata con la ‘creazione
dell’anima’ insegnata da Pio XII”.
In parole povere: non è necessario ammettere
o postulare un intervento diretto o miracoloso di Dio, basta rifarci alla
causalità generale, cioè al rapporto totale e profondo che Dio ha
con tutto il creato e che si differenzia
a seconda della natura dell’essere a cui si riferisce. Chiaramente
nel caso dell’essere umano, la causalità di Dio è
all’opera nel generare l’“anima”, senza con questo
“inter-ferire” con le Scienze naturali che “inquadrano -
è sempre Rahner - la nascita dell’uomo (come umanità e come
singolo) nell’evoluzione generale, senza
distinguere in partenza tra corpo e anima, e fare affermazioni diverse
su queste due parti (che rettamente
intese sono reali) dell’uomo”.
Come intendere e spiegare il problema del peccato
originale? E quindi il problema della morte, come relativa conseguenza; il
tutto collegato con lo stato di paradiso terrestre, non conciliabile con alcun
reperto di archeologia.
Vediamo.
Anzitutto il
peccato originale è un dogma definito dal Concilio di Trento, il
quale parla di un peccato “propagatione, non imitazione transfusum
omnibus” (Dz. 1513), cioè “trasmesso a tutti [gli uomini] per propagazione e non per imitazione”.
Come si concilia tutto questo con i dati della
Scienza? Secondo
a) Non esiste alcuna documentazione dell’esistenza di un mondo
iniziale paradisiaco, cioè il “paradiso terrestre” descritto
dalla Bibbia nel libro del Genesi.
b) Non è stabilito che l’uomo abbia avuto origine da
un’unica coppia (monogenismo), ma sembra più probabile
l’ipotesi poligenetica.
Anche se (1986) certi reperti archeologici sembrano
rivalutare l’ipotesi monogenetica: l’umanità avrebbe avuto
origine da un unico ceppo, al centro dell’Africa.
c) La morte e il dolore erano preesistenti ad un “peccato”,
ed anche all’uomo stesso, essendo inerenti alle strutture biologiche. Tra
l’altro, il dolore, in se stesso, è un elemento in favore della
vita, è un campanello d’allarme per prevenire ed evitare i
pericoli e gli oggetti dannosi; ad esempio il “caldo” più
intenso in relazione con il fuoco e le eventuali scottature.
Rispondiamo per punti.
a) Anzitutto osserviamo
che i racconti biblici sono sempre
mediati dalla mentalità, dalla cultura, dall’ambiente, dalla
personalità dell’autore. Certamente nel racconto del peccato
originale entrano immagini mitologiche:
risulta perciò molto difficile
distinguere a prima vista quanto in tali racconti è la cosa propriamente
affermata e quanto è il rivestimento mitologico. Neppure il ricorso alle affermazioni del magistero ecclesiastico
può essere sempre utile “perché - dice Rahner - in tali
affermazioni continua a volte a essere tranquillamente e irriflessamente
tramandato o continua a far sentire il suo influsso il linguaggio
mitologico”.
b) In questo quadro il
racconto certamente è di tipo
invenzione-elaborazione e non di tipo testimonianza: perché
l’autore non poteva essere presente ai fatti narrati e d’altro
canto l’ispirazione biblica non può essere rappresentata come una
specie di “suggerimento” di Dio all’orecchio
dell’autore. Sembra piuttosto il
racconto mitico di un uomo che riflette sulla condizione attuale
dell’uomo. L’autore ha rilevato un primo logico nella storia dell’uomo e lo ha raccontato come
un primo di tipo cronologico.
c) Noi possiamo
perciò accettare la prospettiva di Rahner, secondo cui
“bisognerebbe investigare meglio di quanto si sia fatto finora se tali
affermazioni (sulla protologia biblica e sul peccato originale, n.d.r.) parlano
realmente di uomini determinati posti all’inizio in senso cronologico
esatto (o di una prima popolazione, qualora non ci si debba attenere al
monogenismo) oppure dell’‘uomo’
di tutti i tempi e luoghi”. In questa prospettiva il peccato
originale è inteso come peccato dell’umanità nel suo
complesso, cioè il crearsi e lo stabilirsi di una situazione di peccato,
che ogni bambino che viene al mondo trova
e, crescendo in essa, la ratifica con la propria adesione, cioè
il proprio peccato personale. La storia
della libertà dell’uomo è coestesa quindi con la storia del
peccato dell’uomo.
d) Un rilievo particolare va posto sulla importanza della
solidarietà umana. Ogni uomo ha radici profonde entro il proprio
ambiente, la propria comunità, e più in generale entro la
comunità umana nel suo complesso. Pensiamo ai problemi del mondo grande
e piccolo, che quotidianamente vengono proposti a tutti e dei quali tutti
più o meno partecipano.
Chiaramente è possibile creare e vivere e
trasmettere una situazione di disordine, di rottura, cioè di peccato: il
peccato originale, appunto.
e) Quanto al problema della morte diciamo
senz’altro che un conto è la
morte come fine dell’esperienza umana e un conto è la morte come dolore, sofferenza, pena,
paura. Certamente è ammissibile anche teologicamente la morte come
conclusione dell’esperienza umana, indipendentemente dal peccato. Sentiamo
Rahner: “Ora poiché la morte presenta molti aspetti umani,
esistenziali, non derivabili dalla sua essenza biologica soltanto, è
senz’altro plausibile che questo o quel suo particolare aspetto sia dato
solo in e con la costituzione ‘segnata dal peccato originale’
dell’uomo e che senza il peccato esso non sarebbe stato sperimentato e
sofferto”. Chiaramente
Dicevamo nel primo capitolo dell’esistenza di
circa cento miliardi di miliardi di stelle, prendendo i valori medi sul numero
di galassie nell’Universo e sul numero di stelle per ogni galassia.
Qualcuna di esse, anche solo una su mille, potrebbe avere dei pianeti e quindi
su di essi potrebbe essersi sviluppata la vita, e persino la vita intelligente.
Una volta gli scienziati erano propensi a considerare il fenomeno della vita
come un fatto assolutamente eccezionale; oggi invece l’orientamento
è piuttosto per la considerazione che la vita è un fatto
abbastanza normale, poste certe condizioni. Tuttavia non abbiamo alcun dato di
fatto per provare che la vita esiste oppure che non può esistere al di
fuori del Sistema Solare: le distanze sono troppo grandi per qualche
esplorazione diretta, e, nonostante le ricerche accurate, non è stato
catturato finora alcun segnale che riveli la presenza di intelligenze nel
Cosmo. E, all’interno del Sistema Solare, è ormai accertato che, a
parte la nostra Terra, non esiste alcuna forma di vita.
Supponiamo che soltanto in un caso su dieci miliardi
di stelle sia avvenuto tutto ciò: avremmo in tutto l’Universo ben
dieci miliardi di civiltà.
a) Primo problema: deriva dallo stupore dell’incarnazione del
Figlio di Dio proprio sul nostro pianeta tra miliardi di altri. Stupore
perché, in certo senso, questo fatto sembra andare contro il superamento
dell’antropocentrismo, un processo iniziato con l’ipotesi
eliocentrica di Copernico e conclusosi solo poche decine di anni fa con la
scoperta che il Sole è una stella di media grandezza, situata in una
zona intermedia della nostra Galassia, la quale a sua volta ha dimensioni medie
rispetto alle altre galassie. Dal punto di vista della Scienza siamo
“cittadini dell’Universo” del tutto “normali”,
senza alcun privilegio particolare. Insieme a questo stupore, c’è
un senso di smarrimento che deriva dalla scoperta dell’“insignificanza”
del nostro pianeta, del nostro mondo, entro il mondo ben più vasto (ma
veramente molto più vasto, come si è visto all’inizio) nel
quale è collocato.
La risposta è duplice: anzitutto, per la
prima parte, appare meglio il senso di
Dio, della sua potenza, della sua sapienza, del suo amorevole
interessamento per l’uomo, per questo piccolo uomo che abita in un remoto
angolo dell’Universo ...
Inoltre, proprio da questa apparente sproporzione
tra quello che viviamo e quello che conosciamo nell’Universo, appare il
senso di superiorità dello
spirito sulla materia. L’universo con l’uomo è un conto,
senza l’uomo è un altro.
“Quando poi
b) Secondo problema: la “nostra” storia della salvezza e
la possibilità di altri mondi abitati da esseri intelligenti. Come è possibile? Come spiegare?
Prendiamo le parole di Davies, che abbiamo
già incontrato:
“Tra l’altro, se davvero esistessero
esseri estraterrestri intelligenti, molte religioni ne risulterebbero
sconvolte: verrebbe infatti meno uno dei loro cardini fondamentali, e
cioè il rapporto privilegiato tra Dio e gli uomini. La religione
cristiana ne risentirebbe in particolar modo proprio perché predica che
Gesù Cristo è Dio fatto uomo allo scopo di offrire la salvazione
agli uomini della Terra. Immaginare tutta una schiera di ‘Cristi
alieni’ che visitano sistematicamente ogni pianeta abitato assumendo l’aspetto
fisico degli esseri che li abitano suona assurdo e grottesco. Ma, in caso
contrario, gli alieni sarebbero destinati alla dannazione eterna”.
Si tratta di un problema difficile da risolvere sul terreno concreto perché le distanze astronomiche sono tali, che forse non sarà mai possibile sapere se esiste anche una sola civiltà estraterrestre. Resta comunque la questione di principio. Per la risposta ci serviamo, ancora una volta, delle parole di Rahner: “Chi volesse dilettarsi ad approfondire speculativamente questo problema [...] potrebbe dire che a tali esseri corporeo-spirituali bisogna ragionevolmente ascrivere un destino soprannaturale nella vicinanza immediata a Dio (nonostante tutta la gratuità della grazia), che però noi non possiamo sapere nulla della storia della loro libertà, che tuttavia dobbiamo ammettere. Né di fronte all’immutabilità di Dio in se stesso e all’identità del Logos si potrà dimostrare che una molteplice incarnazione in diverse storie della salvezza sia semplicemente inconcepibile. Diciamo tutto questo solo per mostrare che da parte della teologia non esiste necessariamente alcun veto assoluto contro una storia dello spirito su un’altra stella”.
Non abbiamo certo la pretesa di avere esaurito tutti
i problemi legati al tema del nostro corso e nemmeno di avere dato risposte
esaurienti a ciascuno dei problemi che sono stati presi in considerazione: ci
sembra piuttosto, dopo aver affrontato la questione da un punto di vista
più generale (capitolo 4), di avere analizzato, quasi a modo di campione,
una serie di problemi che ci sono apparsi più immediati, più
evidenti, più emergenti, quando si accosta il tema
“Scienza-Fede”.
A ciascuno di essi abbiamo cercato di dare le
risposte che ci sono sembrate coerenti con la nostra impostazione.
Possiamo perciò dire conclusa la parte del
“confronto”; ci resta la parte positiva, di “proposta”,
che affrontiamo nel prossimo capitolo.
La sosta al semaforo rosso della problematica
è stata piuttosto lunga, anche se necessaria. Abbiamo cercato di
sgombrare il terreno da tutte le difficoltà: speriamo di esserci
riusciti.
A questo punto lasciamo alle spalle i problemi e la
polemica; non ci preoccupiamo di chi la pensa diversamente: pensiamo a noi.
Riprendendo e modificando in parte una espressione già citata in
precedenza, diciamo: “Dalla
distanza critica all’appartenenza”.
Adesso possiamo partire per la parte positiva, di
apertura; per cercare di dare un piccolo contributo (piccolo, ma, speriamo,
significativo) al nostro modo di vivere
Cominciamo coll’esporre sinteticamente i
diversi modi, le diverse articolazioni con cui l’uomo si accosta alla
realtà per conoscerla, per esplorarla, in definitiva per viverla. Ci
serviamo di un libro ormai classico, ma tuttora valido, di Jacques Maritain:
“Distinguere per unire: i gradi del sapere”, ed. Morcelliana.
Tante volte, nel corso dell’esposizione,
abbiamo parlato dei diversi punti di vista, ciascuno dei quali valido,
legittimo, autentico, ma nessuno esclusivo degli altri. Ciascuno può e
deve far valere il diritto alla propria cittadinanza, ma non può
assolutamente negare tale diritto a nessun altro. Vediamoli, dunque, questi
modi. Fondamentalmente appartengono a tre categorie ben distinte:
a) APPROCCIO RAZIONALE. È l’approccio della ragione,
cioè del “logos”
dei greci classici, e viene tradotto nei diversi aspetti del ragionamento, sia
induttivo, sia deduttivo. Cioè, in parole semplici, il ragionamento
è il passaggio, attraverso opportuni procedimenti, da alcune
proposizioni, assunte come ipotesi, ad altre proposizioni, assunte come tesi.
Possiamo parlare anche di “discorso”,
dal momento che, etimologicamente, “discorrere” significa
“correre qua e là”, cioè il passare da una frase ad
un’altra. Espressione tipica, anche se non unica, del ragionamento,
è il “teorema” così come compare nella Logica o nella
Matematica. A questo tipo di approccio appartengono
b) APPROCCIO INTUITIVO. È l’aspetto emotivo, fantastico,
simbolico dell’approccio alla realtà. È legato al “mythos” dei greci classici e
comprende anzitutto l’Arte, nelle sue diverse manifestazioni, e poi la
mistica nei suoi vari aspetti, le varie forme di approccio alla realtà
legate al mito o più in generale agli aspetti simbolici della
realtà stessa, e anche le varie manifestazioni dell’esoterismo
(anche se su questo terreno ci sarebbero molte osservazioni da fare circa la
competenza e l’onestà di chi lo pratica). Ci possiamo mettere, pur
non ritenendole valide al fine di una autentica crescita umana, tutte le varie
forme di magia o di superstizione.
c) APPROCCIO FIDUCIALE. È l’accettazione di una
verità, non sulla base di un’intuizione, né di
un’esperienza diretta, né di un ragionamento induttivo o
deduttivo, ma sulla fiducia in
un’altra persona che ci comunica la verità stessa. A questa
categoria appartengono sia l’esperienza comune (sono molto più di
quello che si pensa le cose che accettiamo semplicemente dagli altri, senza averle
verificate personalmente!), sia
In sintesi: l’approccio intuitivo è un
approccio immediato (diretto) alla
realtà, mentre sia l’approccio razionale sia l’approccio
fiduciale, sono un approccio mediato
(indiretto), con mediazioni di tipo diverso, come abbiamo visto. Rimandiamo a
quanto già detto in precedenza (paragrafi 4.3 e 5.5) circa i rapporti
tra il fondamento ontologico della nostra conoscenza e le successive
articolazioni a seconda dei diversi punti di vista.
Cerchiamo ora di cogliere gli aspetti essenziali del
rapporto, diciamo in modo generico, tra l’uomo e il cristiano, per
vedere, nel prossimo paragrafo, il contributo della Scienza entro questo
rapporto.
Guardiamo indietro, alla lunga storia
dell’evoluzione che ha portato all’uomo: troviamo un “emer-gere” dell’umano
a partire dall’infraumano. È la storia
dell’umanità nel suo complesso, ma è anche una storia che
si ripete in ciascuno di noi, e lo abbiamo già esaminato da un altro
punto di vista: parte dal concepimento e giunge fino all’età
adulta. Abbiamo il livello biologico (mani, gambe, volto, cervello, cuore,
organi interni), il livello psicologico (coordinazione dei movimenti e
più in generale dell’attività, costruzione e utilizzazione
degli attrezzi, fino all’intelligenza, alla volontà,
all’amore, alla libertà), il livello sociologico (organizzazione
del gruppo e delle relazioni, posizione di tabù, soluzione dei problemi
legati alla sopravvivenza).
Più specificamente
umano è l’emergere dell’intelligenza, dell’amore,
della libertà.
Vogliamo provare a dare una definizione più
precisa dell’umano, dello specifico umano? Già Rahner aveva
parlato di “trascendentalità illimitata” che si pone di fronte
all’assoluto, nella libertà. Possiamo, in certo senso completare
questa definizione dicendo che l’umano è la capacità di gestire (cioè prendere in mano e
vivere, accettando o adattando) nella
libertà (cioè entro un quadro di autoprogettazione) la nostra condizione, che a sua volta
può essere definita come un
rapporto tra finito e infinito.
Naturalmente si potrebbero dire tantissime cose su
questa definizione ... come minimo rimandiamo ai trattati di
antropologia per le opportune spiegazioni e chiarimenti.
Vediamo invece lo specifico cristiano: dove e come si colloca in rapporto
all’umano? Il centro è il mistero di Cristo, cioè la sua
incarnazione, la sua morte e la sua risurrezione.
a) INCARNAZIONE. Significa l’assunzione totale dell’umano, del cosmico, della creazione, o
più esattamente della creazione umanizzata, cioè l’uomo,
tutto l’uomo con il suo corpo, il suo lavoro, la sua intelligenza, il suo
amore, la sua libertà, la
sua Arte, la sua Scienza, la sua Tecnica ... Tutto quello che c’è
di positivo dell’uomo e nell’uomo è stato assunto da Cristo,
cioè fatto suo, fatto proprio, valorizzato, mediante
l’incarnazione.
b) MORTE. È la radicale “trasgressione”
dell’umano, la radicale
relativizzazione, la radicale dichiarazione di inutilità
dell’umano, il radicale fallimento di tutto ciò che è umano,
in quanto umano. S. Agostino diceva: “Virtutes paganorum, splendida
vitia”, cioè “le virtù dei pagani sono dei vizi
splendidi”: sono splendidi, perché in sé stessi positivi,
buoni, ammirevoli; ma sono “vizi”, cioè non servono a nulla,
completamente inutili nella prospettiva annunciata e instaurata da Cristo.
c) RISURREZIONE. È la
collocazione dell’umano in un’altra dimensione
(“relativizzare”, infatti, etimologicamente significa
“mettere in relazione”), una dimensione assolutamente non
paragonabile con la precedente, assolutamente superiore: decisamente
un’altra. Quindi inutilità, relatività, fallimento della
dimensione precedente per rapporto a questa nuova dimensione. E qual è
questa nuova dimensione? Ci sono molti modi per definirla; le due immagini
migliori ci sembrano essere quella di “figli di Dio” e di
“incorporati a Cristo”. Attenzione: la morte è la negazione
di tutto, ma non é l’ultima realtà; l’ultima
realtà è l’inserimento in questa nuova prospettiva, di
tutto il mondo precedente. Tutto ciò che è umano, per così
dire, muore e rivive.
Cerchiamo di chiarire con un esempio: la
corporeità-spazialità. A livello puramente umano è
ambivalente: ci dà la possibilità e le condizioni per lo
sviluppo, per l’azione, per la crescita, per essere uomini. Ma al tempo
stesso rappresenta un ostacolo, nel senso di limite, di barriera
all’espansione di tutti i nostri desideri: la morte è il segno
più evidente di tutto ciò; è stato così anche per
Cristo.
Ma Cristo è risorto e da risorto non ha
eliminato la propria corporeità (“Accosta la mano e tocca il mio
fianco”, vangelo di Giovanni 20,27; “Avete qualcosa da
mangiare?”, vangelo di Luca 24,41), ma l’ha assunta in
un’altra dimensione, superando tutti i limiti legati ad essa e ai quali
era lui stesso soggetto, durante la sua vita. A volte si dice che il Cristo
risorto “passava attraverso i muri”, ma più esattamente,
seguendo i vangeli, dobbiamo dire che “appariva” e
“scompariva”, non legato, quindi ai limiti della corporeità.
Ecco perché San Paolo può dire:
“E se talvolta abbiamo considerato così Cristo, da un punto di
vista puramente umano, ora non lo valutiamo più in questo modo” (2
Lettera ai Corinzi 5,16), cioè quello che conta non è la
dimensione precedente, “carnale”, di Cristo, ma questa nuova
realtà, nella quale tutta la realtà precedente non è
negata, ma vi risulta inserita e trasfigurata.
Che cosa? Tutto!
Facciamo un esempio: ricevo un regalo, supponiamo
una penna stilografica. In essa non c’è scritto che è un
regalo; me lo dice, direttamente o indirettamente, colui che me lo fa. Ma che
cosa mi “dice” la penna? Mi dice come questo regalo è stato
fatto, che cosa c’è concretamente in questo regalo: la
funzionalità, la preziosità, la bellezza. Sono dei dati
oggettivi, presenti comunque nella penna, indipendentemente dal fatto che si
tratta di un regalo. La modalità del regalo consiste
nell’assumerli e nel collocarli appunto in un’altra dimensione:
quella del ringraziamento, o dell’amicizia, o dell’amore, o di un
qualunque altro sentimento amichevole.
Uno scienziato
ateo e uno scienziato credente
possono benissimo lavorare insieme ed intendersi perfettamente sul piano
scientifico. Però fanno due letture completamente diverse sul
significato del loro lavoro. Teilhard de Chardin, gesuita e scienziato francese
scomparso qualche decennio fa, dice chiaramente di sentirsi impegnato nel
lavorare con la materia almeno tanto quanto il collega materialista e ateo,
anzi più di lui, perché considera la materia un dono di Dio
(contro certi atteggiamenti di disimpegno in questo mondo, in vista
dell’altro mondo, assunti dai cristiani in altre epoche), però non
adora la materia: passa spontaneamente dal dono al donatore, Dio. “[Dio]
è in qualche modo - dice - sulla punta della mia penna, del mio piccone,
della mia pinza, della mia bussola - del mio cuore, del mio pensiero”
(“Le milieu divin”, ed Du Seuil, pag. 54, tradotto anche in
italiano).
Facciamo due altri esempi.
Il merlo
fischia e,
se vogliamo essere anche “poetici”, possiamo aggiungere “su
un ramo fiorito, in un tiepido mattino di primavera ... ”. Il pensiero
classico, un po’ ingenuo, diceva che con il suo canto il merlo dà
lode a Dio. Poi vennero gli scienziati moderni, più esattamente gli
studiosi di etologia, cioè del comportamento animale in generale e anche
umano, e affermarono che il canto del merlo, e di qualunque altro uccello, ha
delle funzioni particolari, ad esempio la “dichiarazione di proprietà”
sulla femmina e/o sul territorio, contro eventuali altri pretendenti o rivali.
Dio non c’entra più?
Certo,
Il secondo esempio lo prendiamo dalla danza. Immaginiamo
una ballerina classica che sta
danzando. Alla base, ma proprio alla “base molecolare” dei suoi movimenti
troviamo aspetti studiati dalla Fisica
e dalla Chimica, cioè le
particelle sub-elementari, elementari, atomiche e molecolari, le reazioni
chimiche nei muscoli, gli impulsi nervosi che si trasmettono lungo i nervi come
lungo dei cavi elettrici, l’ossigeno e lo zucchero che alimentano,
attraverso il sangue, le cellule che consumano energia ... Tutto questo riceve
un senso nella Biologia, cioè
nelle contrazioni muscolari, nel calore corporeo, nella regolazione del battito
cardiaco e della respirazione a seconda dello sforzo, nella complessiva
coordinazione dei movimenti ... A sua volta tutto questo riceve un senso nello spazio umano, cioè
nell’armonia, nel ritmo, nella grazia dei movimenti, nel gusto estetico,
nella trasmissione di un messaggio umano attraverso il gesto: commedia, o
dramma, o tragedia ... Se guardiamo le cose nell’ipotesi che stiamo
esaminando, cioè
E non si tratta di un esempio casuale; abbiamo in
Italia un caso concreto di una ballerina classica che si dichiara apertamente
cristiana e che proprio attraverso la danza vuole trasmettere un messaggio
cristiano: Liliana Cosi.
Siamo giunti alla fine del nostro breve corso sui
problemi relativi ai rapporti tra Scienza e Fede; cerchiamo ora di trarre
qualche conclusione complessiva. Come già altre volte in questo corso,
saremo un po’ schematici.
Tutta la realtà può essere guardata,
per così dire, sotto tre punti di vista generali: l’uomo, il
mondo, Dio; attraverso tre discipline particolari, rispettivamente
l’Antropologia,
Spazio
antropologico
e spazio cosmologico. Completiamo il
paragrafo precedente: abbiamo parlato delle “meraviglie della
natura”, come dono di Dio, ma è chiaro che tutto questo è possibile soltanto attraverso la presenza
dell’uomo. La natura si rivela come meravigliosa soltanto
all’uomo che la domina, che la usa, che la possiede, che le impone il suo
spazio, il suo tempo, i suoi ritmi ... magari rovinandola, talvolta (o
spesso!). In ogni caso per vedere le meraviglie della natura occorre prima
umanizzare la natura stessa. Si parla male, talvolta, del turismo, che
rovinerebbe certi luoghi incantevoli, e spesso è vero. Ma non
dimentichiamo che l’uomo può godere della natura solo se è
ben protetto contro il caldo, o il freddo, o gli animali pericolosi, o i
pericoli in genere. Altrimenti il primo compito diventa la sopravvivenza, e, di
fronte al problema della sopravvivenza, scompare anche la bellezza di qualunque
panorama.
Uno spazio cosmologico puro è lo spazio del terrore, delle insidie, della paura,
del bisogno, del riparo, e quindi, se vogliamo, del sacro, del magico ... sarebbero interessanti ulteriori sviluppi di questo
tema; qualche cenno sarà fatto più avanti. La storia cosmica
è colta come tale proprio perché c’è una storia umana
che vi si inserisce.
Anni fa c’è stata una spedizione
bergamasca alle cime del Pukajirka (una catena alpina dell’America
Latina) tra l’altro conclusasi tragicamente. Uno dei protagonisti,
durante il racconto della spedizione, riferiva in particolare dell’incontro
con le popolazioni indigene e riportava la domanda che alcuni di loro avevano
posto agli scalatori, sul perché volevano scalare quella montagna. La
risposta diretta è stata piuttosto evasiva, ma la vera risposta
l’ha data a noi che ascoltavamo la sua relazione e cioè:
“Noi scaliamo la montagna perché abbiamo la pancia piena”.
Una risposta un po’ cruda, ma vera: è chiaro che il montanaro che
vive magramente della sua montagna sarà poco disposto a godere dei
panorami alpini; soltanto chi ha risolto i problemi fondamentali
dell’esistenza può vedere la scalata come un piacere. Ebbene,
proprio
Spazio
antropologico
e spazio teologico. Proprio entro questo spazio umano, o antropologico,
trova posto lo spazio teologico, o divino, o cristiano, o della Fede. Tutto
è visto come dono (vedi quanto detto in precedenza), cioè offerto
a Dio, perché tutto è umanizzato, cioè posseduto
dall’uomo. Se il mondo appare ostile, non può certo essere visto
come dono, al massimo come avversario da vincere, o almeno da fuggire o da cui
proteggersi. Solo lo spazio antropologico è il luogo della Rivelazione
di Dio (“La gloria di Dio è l’uomo vivente”, diceva S.
Ireneo), non lo spazio cosmologico come tale. Quando si parla di teofanie, di
luoghi sacri, cioè intrinsecamente sacri, “separati”, per
volere del dio, siamo ancora nel regno della paura, della non umanizzazione
dello spazio. A poco a poco l’uomo, sia pure con fatica, possiede lo
spazio (e lo stesso discorso vale per il tempo), lo assimila, lo svuota di
significati mistici o magici, lo “secolarizza”. A questo punto abbiamo
due possibili sbocchi: l’ateismo, cioè la negazione della
trascendenza di Dio, e lo sbocco cristiano, cioè la affermazione della
trascendenza di Dio, ma anche la sua presenza nello spazio antropologico,
cioè nella storia. Non più teofanie e luoghi o tempi sacri, ma
presenza di Dio attraverso l’uomo: incarnazione di Cristo nella storia
dell’uomo e incarnazione della Chiesa nella storia degli uomini.
Allora tutto lo spazio cosmologico riappare come
dono vero, perché tutto (e non solo certe parti) è luogo
della presenza di Dio, perché l’uomo (e la sua libertà) lo
coglie come tale. Non è la chiesa-tempio
che fa l’Eucaristia, ma è la chiesa-persone:
la celebrazione potrebbe avvenire dovunque. E proprio l’atto centrale del
culto cristiano, l’Eucaristia, è un banchetto, legato quindi ad
una esperienza fondamentale dell’uomo, l’esperienza del mangiare,
che, se ordinariamente avviene in luoghi determinati (la propria casa, o la
mensa, o il ristorante) potrebbe avvenire, e di fatto avviene, in un luogo
qualunque. Così è per l’Eucaristia.
Certo l’uomo ha ancora ed avrà sempre bisogno di segni (templi, statue, altari; tempi
e momenti particolari), ma ormai sa che sono
convenzionali, simbolici, evocativi, pedagogici, non magici: è l’uomo stesso che li costituisce come
segni. Concludendo: lo spazio antropologico è, per così dire, il
perno, cioè il punto di articolazione, tra lo spazio cosmologico e lo
spazio teologico. O, più esattamente: lo spazio teologico si realizza
entro lo spazio antropologico, che è lo spazio cosmologico
“umanizzato”.
Vorremmo mettere al termine del nostro cammino, come
premessa per un eventuale cammino successivo, la frase di S. Agostino: “Signore, che io conosca te e che io conosca
me” (dalle “Confessioni”). Se conosco davvero Lui e se
conosco davvero me, allora capirò che
E allora, veramente, il cerchio del senso è chiuso, ed è chiuso nel modo
giusto.
Prima di chiudere questi appunti sul problema dei
rapporti tra “Scienza e Fede”, vogliamo presentare e commentare
brevemente un libro (pubblicato in Italia, dalla Mondadori, nel 1987) che
tratta problemi molto vicini ai nostri. A parte il titolo che, pur essendo
identico a quello del nostro corso, e quindi a quello dei presenti appunti,
come vedremo poco più avanti, non rispecchia totalmente il contenuto del
libro, interessa rilevare la notevole consonanza dell’Autore con quanto
da noi espresso, sia sul piano della Scienza, sia soprattutto sul piano della
Filosofia e della Fede.
L’Autore
è un fisico teorico inglese: è stato Professore di
Fisica-Matematica presso l’Università di Cambridge dal 1968 al
1979. Nel
Si tratta certamente di uno specialista a livello
mondiale nel campo della Fisica teorica, che, pur non avendo studiato Filosofia
e Teologia con lo stesso approfondimento dedicato alla Scienza, è in
grado comunque di poter stabilire con competenza un ponte tra i due rami di
ricerca e quindi di insegnare qualcosa anche a noi che stiamo meditando sugli
stessi temi e affrontando gli stessi problemi.
Il titolo
più appropriato per il libro che stiamo presentando, sarebbe:
“Scienza e Teologia” (del resto l’originale inglese aveva
appunto come titolo: “Un solo mondo: l’interazione tra Scienza e
Teologia”). Citiamo l’Autore: “Di fatto, Scienza e Teologia,
a mio avviso, sono entrambe tentativi di esplorare la realtà”
(pag. 3). Come già detto (cfr. il paragrafo 6.1) c’è una
notevole differenza tra
Il testo propone un gruppo di tesi, tra loro raccordate, e che si possono sintetizzare
così:
* Scienza
e Religione non sono in contrasto e uno scienziato può benissimo essere
credente.
* Nonostante
i limiti della razionalità, posti giustamente in evidenza
dall’epistemologia contemporanea, non si deve abbandonare la convinzione
che l’uomo possa cogliere frammenti di verità nel reale che lo
circonda.
* D’altra
parte, l’orizzonte del conoscibile non è riducibile soltanto a
ciò che esprimiamo col linguaggio delle Scienze sperimentali e
matematizzate: “esistono anche prospettive religiose, altrettanto
necessarie, ma esprimibili nel linguaggio qualitativo del simbolo” (pag.
13).
* Scienza e Teologia sono entrambi tentativi di esplorare la realtà: la loro reciproca interazione potrà essere a volte difficile, spesso risulta feconda; ma, in ogni caso, è praticabile.
Il ruolo assunto dalla Scienza nel 1800 e le
successive revisioni critiche, impongono un chiarimento circa la natura della
Scienza. Il difetto di molte interpretazioni che vanno per la maggiore, dallo
stesso Popper al sociologismo di Kuhn, all’anarchismo di Feyerabend, sta
nel non tenere in debito conto
l’effettiva pratica scientifica dei ricercatori.
Si scoprirebbe invece che, al di là di ogni
indeterminismo, convenzionalismo o funzionalismo, ciò che motiva la
ricerca scientifica è tuttora la convinzione della comprensibilità
della natura. Una posizione realistica perciò; di un realismo che
però deve essere “critico e
non ingenuo”, consapevole che le Scienze affermano solo brani di
verità, ponendo spiegazioni via via più adeguate, ma mai
definitive e incontrovertibili. Documentiamo con ampie citazioni prese dal
libro che stiamo esaminando.
“Supponiamo che l’Ufficio Meteorologico
venga dotato di una macchina sigillata avente la capacità di prevedere
in maniera corretta, una volta inseriti i dettagli della situazione
meteorologica della giornata di oggi, il tempo di ogni giorno dell’anno a
venire. Il ruolo predittivo dell’Ufficio Meteoro-logico, per quel che
riguarda la previsione del tempo, sarebbe perfettamente soddisfatto. Forse che
allora tutti i meteorologi dovrebbero far fagotto e tornarsene a casa? Niente
affatto! Essi sono anche interessati a capire il modo in cui l’atmosfera
terrestre, come una grande macchina termica, interagisce con il mare e le masse
continentali per produrre il nostro clima. Sono sicuro che dopo poco tempo
sorprenderemmo qualcuno intento a manomettere i sigilli della macchina nella
speranza di scoprire il suo funzionamento e sperando di raggiungere in questo
modo una migliore comprensione del sistema meteorologico di cui essa forniva un
modello tanto accurato. Nessuna descrizione dell’impresa scientifica
risulta adeguata se si dimentica di tenere nella giusta considerazione questa
ricerca di comprensione insieme all’esperienza della scoperta che
comunica agli scienziati la netta sensazione di essere arrivati a capire il
fenomeno. Non ho mai conosciuto nessuno che faccia ricerca nel campo della
Fisica fondamentale non motivato dal desiderio di comprendere meglio la
struttura dell’Universo. Le Teorie sulle origini come
“Le nostre facoltà di previsione
razionale sono decisamente miopi e limitate dalla contingenza delle cose, che
esistono indipendentemente da come pensiamo che dovrebbero essere. La
spiegazione più naturalmente convincente del successo della Scienza
è la sua capacità di cogliere la realtà in maniera
più sicura. Il vero obiettivo dell’attività scientifica
è la comprensione della struttura del mondo fisico, una comprensione che
non è mai completa, ma sempre suscettibile di ulteriori miglioramenti. I
termini di questa comprensione vengono determinati dalla natura delle cose. Questa è la concezione del realismo.
Essa corrisponde certo al modo in cui gli scienziati vedono abitualmente la
loro attività e costituisce uno stimolo perché i ricercatori
continuino ad avere fiducia nel loro operato. In gran parte, gli scienziati non
sono troppo interessati alla riflessione filosofica, come è ovvio:
questo loro atteggiamento è, probabilmente, solo frutto di un ingenuo,
ma diffuso malinteso. D’altro canto, il modo in cui i
‘fedeli’ considerano al loro attività deve avere un qualche
significato nella valutazione di quella data disciplina. Molti filosofi della
Scienza non ne hanno tenuto adeguato conto, convinti com’erano di saperne
di più degli scienziati, e hanno finito col non prestare più
sufficiente attenzione alla voce degli onesti ricercatori. Ma una volta
considerata con attenzione l’esperienza scientifica, il punto di vista
realista è, a parer mio, l’unico davvero adeguato” (pag.
37).
Ma, come si diceva, “perché il realismo
sia difendibile, deve essere un realismo critico e non ingenuo” (pag.
37s), cioè:
a) “La verosimilitudine
è tutto ciò di cui
b)
“In secondo luogo la nozione quotidiana di oggettività
può dimostrarsi insufficiente qualora ci si spinga in regimi fisici ancor più lontani
dall’esperienza comune. [...] La sorte del realismo non è
vincolata a quella delle semplici nozioni derivate dalla pura esperienza
quotidiana” (pag. 38).
c) “In terzo luogo un realismo critico non è cieco rispetto al ruolo del
giudizio nell’attività scientifica. Esso è infatti disposto ad
ammettere che l’immagine ingenua secondo cui precise previsioni teoriche
verrebbero messe a confronto con un’indiscutibile evidenza sperimentale e
condurrebbero così alla verità certa, è una descrizione
troppo grossolana di come
[...] Esistono sempre degli elementi che dipendono
dalla facoltà di giudizio soggettivo, non specificabili” (pag.
38s).
Anche il realismo ha dei limiti; sentiamo ancora
Polkilghorne:
“Per il realista critico il problema forse
più inquietante nasce dal fatto che per ogni insieme finito di dati esisterà sempre una varietà
di teorie esplicative possibili (potremmo chiamarlo il problema
‘anatra/coniglio’, vedi paragrafo 4.3). Un criterio razionale di
scelta tra le teorie potrebbe essere la fecondità.
È possibile rispondere a questo requisito in
due maniere: con la capacità di continuare a rendere conto di dati man
mano che se ne estende portata e accuratezza; con la scoperta di conclusioni
corrette derivate dalla teoria e non previste al tempo della sua formulazione
originaria” (pag. 39).
Come primo esempio viene citata la spiegazione
newtoniana del sistema solare: tutte le successive affinazioni delle misure
sono risultate in seguito in pieno accordo con essa. Ancora più
sorprendente fu la scoperta del pianeta Nettuno, solo in base alle
perturbazioni dell’orbita di Urano; tutti i calcoli vennero fatti sempre
in base alla teoria di Newton.
“Come esempio del secondo genere di
fecondità possiamo prendere la teoria di Dirac dell’elettrone. Nel
1928 il grande fisico inglese escogitò un’equazione che combinava
con successo
[...] Fu un regalo inatteso scoprire che la stessa
equazione spiegava anche il fatto, rimasto fino a quel momento misterioso, che
le proprietà magnetiche dell’elettrone hanno
un’intensità doppia rispetto a quanto ci si sarebbe ingenuamente
aspettati” (pag. 40).
Ma anche in questi casi le teorie mostrano i loro
limiti: la prima non spiega
l’avanzamento del perielio dell’orbita di Mercurio attorno al Sole,
la spiegazione verrà data dalla Relatività Generale di Einstein;
la seconda teoria non giustifica certe piccole discrepanze che richiedono la
spiegazione dell’elettrodinamica quantistica.
Concludendo: “Si è cercato di sostenere
una visione della Scienza secondo cui essa riesce davvero a cogliere la
realtà in maniera sempre più adeguata” (pag. 41),
però “la nostra discussione ha scalzato
Ancora una nota, prima di concludere questo
paragrafo.
La riflessione sul sapere scientifico porta anche a
sfatare la diffusa idea che sia vero solo ciò che è dimostrabile: argomento spesso avanzato
in modo intimidatorio (“dimostramelo”) da tanti novelli illuministi
(non assenti dalle aule scolastiche) per mettere al muro e squalificare la
testimonianza di una esperienza di Fede. Polkinghorne osserva che “la
verità trascende la ‘teorematicità’
(dimostrabilità). Anche nell’austera disciplina matematica
c’è più di quanto veda l’occhio calcolante”
(pag. 42).
Il riferimento d’obbligo è il famoso
teorema di Goedel del
Nel solco della Teologia anglicana, che a questo
livello non presenta sensibili scostamenti rispetto a quella cattolica,
l’Autore indica tre componenti basilari per l’indagine teologica:
L’Autore illustra ampiamente queste notevoli analogie tra
“La tradizione svolge certo un ruolo
importante all’interno della religione; però la stessa cosa accade
anche alla Scienza. Ereditiamo il patrimonio di coloro che ci hanno preceduto e
sarebbe disastroso se ogni generazione dovesse ricominciare da zero. [...]
Quanto maggiore è il ruolo del giudizio personale in un certo campo,
tanto maggiore è la necessità di correttivi offerti
dall’esperienza di chi ci ha preceduto” (pag. 44s).
“
“Anche se Teologia e Scienza presentano grandi
differenze riguardo la natura del loro oggetto, entrambe cercano però di
comprendere aspetti del modo in cui è il mondo. Ci sono dunque
importanti punti di affinità tra le due discipline. Esse non sono, come
invece vorrebbe una descrizione caricaturale, due attività del tutto eterogenee
- lucciole e lanterne - con asserzioni irrazionali da un lato e indagini
razionali dall’altro.
Il grado della loro relazione è espresso da
Carnes: ‘Le attività del teologo sono fallibili e le sue teorie
correggibili quanto quelle di ogni altro scienziato e qualsiasi altra
teoria!’ ” (pag. 57).
È il punto chiave di tutto il libro: esaminiamolo con un certo ordine
e una certa ampiezza.
Tra le interazioni evidentemente positive va
annoverata quella visione del cosmo ordinata, armoniosa e interconnessa che
porta gli scienziati più sensibili (tipo Einstein ... ) a intravedere
qualcosa al di là del sensibile e ad evocare pensieri confinanti con la
dimensione religiosa. “
Altro contatto significativo è quello
relativo agli stili di pensiero, sempre più consapevoli della
distinzione dei reciproci livelli e dei piani di indagine. “Abbiamo
già notato che Scienza e Teologia, benché‚ si occupino di
campi radicalmente differenti, non sono affatto distinte, come suppone invece
una popolare caricatura, l’una dall’altra nelle loro procedure di
ricerca della conoscenza (epistemologia) e nei loro problemi intorno alla
realtà (ontologia). Ognuna di esse, dal momento che deve mettere in
relazione la teoria con l’esperienza, è infatti correggibile e si
occupa essenzialmente di entità la cui rappresentabile realtà
è ben più sfuggente di quella dell’oggettività
ingenua” (pag. 97).
Se infine aggiungiamo che in ambito scientifico
stanno perdendo credito le posizioni “riduzioniste radicali”
(secondo le quali tutta la conoscenza si ridurrebbe alla conoscenza fisica
delle particelle elementari, ma se ne parlerà tra breve), diventa
più accettabile l’invito di Polkinghorne ai teologi
affinché‚ ricorrano senza paura delle idee scientifiche come
supporti per dilatare la propria immaginazione analogica; e l’analogia
resta uno dei principali strumenti teorici per il lavoro del teologo.
Circa i problemi candidati al conflitto, il nostro
Autore non vuol nascondere a tutti i costi le difficoltà: questioni come
le origini, i rapporti di Dio con il mondo, i miracoli e la vita futura,
trovano spesso posto nella moderna Astrofisica e nella Biologia, ma solo a
costo di estrapolazioni si troveranno in queste Scienze dei punti che
sostanzialmente minaccino il Dio creatore della Teologia cristiana, e il suo
amorevole interessamento per l’uomo; interessamento forse soltanto un
po’ più “sottile” di quanto si immaginasse.
Vediamo in dettaglio i singoli problemi.
Anzitutto il
problema circa le origini dell’Universo viste alla luce delle
più recenti teorie fisiche. Questo problema è già stato da
noi esaminato (cfr. il paragrafo 5.6.1) e riceve da Polkinghorne la stessa
risposta data da noi. A parte le difficoltà intrinseche di teorie di
questo tipo (cioè che pretendono che l’universo sia venuto fuori
dal “nulla”), la critica fondamentale è che “tale idea
[la creazione dal ‘nulla’, n.d.r.] potrebbe ben eliminare un Dio deistico
il cui unico ruolo sarebbe stato quello di accendere la miccia del big bang per
poi ritirarsi, in nessun modo minaccia il Dio creatore della Teologia
cristiana. Il suo ruolo di principio sostenitore dell’universo rimane
intatto. Le leggi della Fisica cui obbediscono i campi quantistici, che bisogna
assumere prima di poter cominciare a parlare scientificamente del processo,
sono espressioni della sua volontà e del suo disegno. Egli è il
fondamento stesso dei processi fisici e non qualcosa che vi partecipa”
(pag. 102). Ancora, e più in generale: “La creazione viene
correttamente intesa come un atto continuo della volontà di Dio che
preserva il Cosmo momento per momento. Non riguarda solo un certo istante
iniziale” (pag. 100). Come si diceva: la creazione è un rapporto
tra Dio e il Cosmo prima e più ancora che un atto specifico compiuto in
un dato momento.
Il problema
dell’interazione di Dio con il mondo. “Il Dio della cristianità non
è remoto. Il suo popolo si rivolge a Lui con la preghiera. La preghiera,
pur essendo una sorta di meditazione su Dio, ha anche un aspetto di richiesta.
Quest’aspetto non deve venire completamente liquidato come un infantile
appello a una sorta di Babbo Natale celeste. E tuttavia, in un’epoca
scientifica, possiamo ancora davvero credere che Dio interagisca con il nostro
mondo regolato da rigide leggi?” (pag. 105s). L’Autore scarta due
proposte, ingegnose, ma troppo sofisticate: “Il primo [modo di
intervenire di Dio] è quello di sfruttare lo spazio di manovra che Dio
ha lasciato a se stesso nel grado di indeterminazione che la teoria quantistica
individua alle radici subatomiche del mondo” (pag. 107). La seconda idea
scartata è la seguente: “Alcuni credono che Dio operi nel mondo
attraverso una combinazione di preveggenza e di una ingegnosa disposizione
delle condizioni iniziali, che porta a coincidenze tali da produrre eventi
dotati di significato. [...] Accidente non è però il termine
più adatto a queste circostanze; Jung l’avrebbe infatti chiamata
sincronicità” (pag. 109). La risposta dell’Autore è
un’altra e precisamente: “Il terzo modo in cui è possibile
che Dio influenzi il mondo è quello dell’intervento diretto, lo
specifico esercizio della sua volontà di raggiungere un fine
particolare” (pag. 111).
Questa risposta richiama il problema seguente e
rimanda ad esso la soluzione, cioè il
problema del miracolo con il quale ogni credente deve confrontarsi.
“La domanda non è ‘Come possono mai accadere?’, ma,
‘Perché‚ non accadono più spesso?’. Dio lascia
sovente che le cose seguano il loro disastroso corso. Se interviene, sembra
farlo a capriccio, concedendo solo occasionalmente un aiuto diretto”
(pag. 112). La risposta è
che questi eventi vanno inquadrati come momenti speciali della storia della
salvezza. “Il cambiamento delle circostanze può condurre a effetti
totalmente inattesi. Secondo il Cristianesimo, Dio era in Cristo in modo unico.
Se questo è vero, bisogna aspettarsi la possibilità di eventi
nuovi, in quanto Gesù rappresentava l’ingresso di un nuovo regime
nel mondo. Seguendo queste linee, credo sia possibile tratteggiare
un’immagine coerente attività di Dio nel mondo, un’immagine
che comprenda sia il fatto che nella nostra esperienza i morti non risorgono,
sia che Dio resusciti Gesù nel giorno di Pasqua (e anche che la tomba fu
trovata vuota)” (pag. 113s).
“La
speranza di una vita futura costituisce un altro punto di conflitto con
Riportiamo, infine, alcune critiche energiche che il
nostro Autore rivolge contro posizioni scorrette oppure non ben documentate.
La prima e più severa critica la rivolge
contro qualunque forma di riduzionismo,
secondo cui “alla fine tutto si riduce alla Fisica” (pag. 128).
“Un autoritratto di Rembrandt allora è solo un insieme di
macchioline? Un sonetto di Shakespeare nient’altro che ghirigori
d’inchiostro sopra un foglio di carta?” (pag. 128). La critica si
sviluppa lungo parecchie pagine che cerchiamo di riassumere. “Mi sembra
che un riduzionismo strutturale
possa venire accettato, che si possa sottoscrivere cioè la tesi per cui
le unità a partire dalle quali sono costituite le entità del
mondo fisico siano proprio le particelle elementari studiate dalla Fisica di
base” (pag. 128). Viene invece respinto invece “un riduzionismo concettuale, che nega
l’emergere, con la crescente complessità
dell’organizzazione, di livelli di significato totalmente nuovi e di
possibilità che non sono in linea di principio riducibili a quelli che a
loro soggiacciono” (pag. 129). Un conto è un atomo o una molecola
isolati e un altro sono molti atomi o molte molecole insieme a formare un
cristallo o una massa d’acqua con proprietà chimico-fisiche ben
diverse da quelle degli atomi o delle molecole isolate. “Il motto della
Scienza è stato ‘Divide et impera’ e la sua metodologia
principalmente riduzionista. È importante evitare, dunque, che gli
impressionanti successi di quest’approccio ci rendano ciechi di fronte
alla necessità di prestare la dovuta attenzione alle idee
olistiche” (pag. 133). Un altro modo di indicare l’approccio
scientifico alla realtà è stato chiamato il “coltello
analitico”: un approccio certamente fecondo, visti i risultati, ma
assolutamente da non prendere come esclusivo. Dopo avere documentato le sue
affermazioni con diversi esempi, l’Autore così conclude: “Il
programma riduzionista alla fine si mette in crisi da solo, diventa suicida.
Non soltanto riduce le nostre esperienze di bellezza, di obbligo morale, di
incontro con la dimensione religiosa, a ciarpame epifenomenico, ma distrugge
anche la razionalità. Il pensiero viene rimpiazzato da eventi nervosi
elettrochimici. Due eventi di questo genere non possono essere messi a
confronto nel discorso razionale. Essi non sono né‚ veri
né‚ falsi: accadono semplicemente. Se la nostra vita mentale non
è altro che la ronzante attività di un cervello simile ad un
computer interconnesso in maniera infinitamente complessa, chi può dire
se il programma che sta girando adesso sulla macchina è o no corretto?
È concepibile che quel programma sia stato trasmesso da una generazione
all’altra attraverso la codificazione del DNA, ma potrebbe anche
trattarsi solo della propagazione dell’errore. Se veniamo catturati dalla
trappola riduzionista non abbiamo più alcun mezzo per giudicare la
verità sul piano intellettuale. Le stesse asserzioni del riduzionista
non sono altro che impulsi nella rete nervosa del suo cervello. Il mondo del
discorso razionale si dissolve nell’assurdo chiacchiericcio
attività sinaptica. Credo francamente che ciò non possa esser
vero e nessuno di noi lo ritiene tale” (pag. 137s).
Una seconda critica viene rivolta alla visione che associa
“Dal punto di vista teologico l’accento
viene posto sull’esperienza mistica che, benché‚ sia
presente, come Capra pur riconosce, in tutte le tradizioni religiose, viene
particolarmente posta in rilievo dalle religioni orientali. La mistica
raggiunge l’unità con il fondamento di tutto l’essere e
perciò ha esperienza di Dio nella sua immanenza. Le religioni
d’Occidente, in misura maggiore di quelle dell’Oriente, cercano di
mantenere in equilibrio questo aspetto con l’esperienza di Dio nella sua
trascendenza, nel suo ruolo di signore del mondo. [...] Un segno della
trascendenza divina visibile nel regno della Scienza è
l’intelligibilità di un mondo retto da leggi. Ho sostenuto che
questa è la garanzia della realtà del mondo. Non è vero
che tutto si dissolve e la chiarezza della forma matematica sta al cuore della
Fisica fondamentale. Credo che la razionalità del mondo venga più
giustamente riconosciuta in una teologia naturale di tipo cristiano che in
quella delle religioni d’Oriente” (pag. 123).
Un’altra critica consiste nella eliminazione
di quello che lui chiama il “Dio
delle Lacune” (noi lo abbiamo chiamato, al paragrafo 5.4, il
“Dio tappabuchi”), fatto intervenire laddove esistono
difficoltà dal punto di vista
scientifico, perché‚ le colmi con la sua onnipotenza.
“Pensare che Dio venga in qualche modo privato del suo ruolo di creatore
dalla crescente completezza della descrizione scientifica dell’Universo
significa semplicemente demolire la divinità da quattro soldi del Dio
delle Lacune. Analogamente, nessuno sviluppo scientifico può da solo
confermare quel ruolo creatore” (pag. 100).
Infine riportiamo una critica di fondo all’impostazione di Paul Davies (sempre il
“nostro”, quello di “Dio e la nuova Fisica”).
“Chi, come Paul Davies, dice ‘non tenterò nemmeno di
prendere in esame esperienze di tipo religioso o di affrontare questioni
morali’ (o. c. pag. 10), deve rendersi conto che, pretendendo nondimeno
di parlare di Dio, assomiglia ad un cosmologo che nell’articolazione
della sua teoria dell’Universo è pronto ad accettare solo
ciò che si può osservare attraverso un telescopio ottico, ma
rifiuta però le altre informazioni che provengono dall’astronomia
radio e X” (pag. 47). E
Davies evidentemente sbaglia, così come sbaglierebbe l’ipotetico
cosmologo citato da Polkinghorne.
La posizione più innovativa nelle
problematiche esposte nel paragrafo precedente non è certamente la
difesa o il concordismo a tutti i costi. E’ piuttosto la capacità
costruttiva di integrare gli apporti delle Scienze in una riscoperta e
rinnovata “Teologia naturale”, la cui ripresa è più
che mai urgente nel contesto scientificizzato in cui deve svolgersi il
confronto tra il Vangelo e l’uomo.
Di tale teologia naturale Polkinghorne offre un
esempio con la sua immagine di un mondo
unitario (“One world”, cioè “Un (solo)
mondo”, è il titolo originale inglese del libro che stiamo
presentando e commentando, tradotto con “Sienza e Fede”), ricco,
multilivellare, interconnesso, della quale connessione Dio è fondamento
e garanzia: una struttura del reale pienamente espressa nel concetto di
sacramento, “meravigliosa fusione degli interessi di Scienza e
Teologia” (pag. 145).
“La realtà è
un’unità a molti livelli. Posso percepire un’altra persona
come un aggregato di atomi, ma anche come un sistema biochimico aperto in
interazione con l’ambiente, o come un esemplare di homo sapiens, (corsivo nel testo, n.d.r) come un oggetto di
bellezza, o come qualcuno i cui bisogni meritano il mio rispetto e la mia
compassione, o infine come un fratello per cui Cristo è morto”
(pag. 144s).
Prima di chiudere questa presentazione del libro di
John Polkinghorne ci piace sottolinearne ancora una volta gli aspetti positivi.
Anche se le prospettive sono leggermente diverse rispetto a quelle del nostro
corso, tuttavia è da rilevare la notevole consonanza con quanto abbiamo
esposto nel capitolo 6 (“Scienza e Fede: prospettive”). Chiaramente
Ci piace citare ancora una volta il nostro Autore in
un brano che, in certo senso riassume il suo e, lo diciamo timidamente, anche
il nostro pensiero.
“Il mondo descritto dalla Scienza, con le sue
caratteristiche di ordine, intelligibilità, potenzialità e
stretta interconnessione, mi sembra essere in sintonia con l’idea che sia
l’espressione della volontà di un creatore, sottile, paziente e
soddisfatto che si accontenta di compiere i suoi disegni attraverso il lento
dispiegarsi di un processo inerente a quelle leggi della natura che, nella loro
regolarità, non sono che pallidi riflessi della sua persistente veracità. Tuttavia l’eventuale
futilità dell’Universo mostra anche che la definitiva
realizzazione degli scopi del Creatore avverrà al di là di questo
mondo: e questo mi sembra il significato delle dottrine cristiane della
risurrezione della carne e della vita in un mondo a venire” (pag. 120).