RAFFAELE CORSO: Gli amuleti calabresi      (3)

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                    da:  ALMANACCO CALABRESE, 1957, pg. 19

Gli amuleti calabresi

    Dal latino «amoliri» e non dall'arabo «hamalet», come si è pensato, la voce amuleto, generalmente, indica i piccoli oggetti che i superstizioni portano addosso per  salvaguardarsi dai temuti malefici. Nel parlar comune, gli amuleti sono spesso confusi coi talismani, dall'ebraico «tselem», immagine ( greco «telesma», arabo «tilasm»); ma tra gli uni e gli altri la differenza esiste, sebbene non sempre si tenga presente.

    Gli amuleti sono legati alle superstizioni mediche,  per profilassi sia fisiologica, sia magica, giacché, come tra i primitivi attuali, anche in passato tra noi, maleficio e malattia si equivalgono; onde , talvolta, gli amuleti sono scambiati coi feticci, dal portoghese  «fetiço», a sua volta derivato dal latino «facticium», col significato di oggetto incantato.

I talismani hanno carattere più ristretto degli amuleti, in quanto sono legati alle superstizioni  astrali; onde il popolino, d'un uomo senza fortuna, dice che non è nato sotto una buona stella. Ogni talismano è l'immagine di  una costellazione o di un pianeta, incisa sopra una pietra simpatica o una lastra metallica corrispondente ad un astro, fatta in tempo opportuno a riceverne l'influsso.

  Secondo il,volgo calabrese la parola jettatura ( dal napoletano jettare, dal latino jacio, gettare) indica un complesso di calamità, che emanano dall'occhio malefico o maligno; onde essa, non di rado è confusa col malocchio: Il proverbio che dice: «Occhiu malignu, anima sbinturata» compendia questa idea, che è diffusa tra i popoli della terra, e forse ha un fondamento, come attendono a dimostrare recenti studi.

    Per i calabresi l'immagine del jettatore si ha nell'uomo dalle sopracciglia folte e cucite, ovvero nell'uomo allampanato e abbattuto dalla miseria. L'uno e l'altro sono disposti per natura, al meleficio (talvolta, si osservano i loro atteggiamenti nel sonno !), nonostante che alcuni studiosi tendano a distinguere il malocchio dalla jettatura e siano propensi ad attribuire  quello ad una involontaria influenza. Tant'è vero che, lodato per le belle fattezze, l'uomo cerca di sottrarvisi talora ricorrendo allo scongiuro: «Fora malocchiu!», ovvero, come si fa in Bisignano nel salutare, al nome di San Martino.

    In qualche luogo, a Nicastro, per esempio, il malocchio si distingue dall'affascino, perchè laddove quello è dovuto allo sguardo maligno, questo è involontario, potendo provenire da un amico o da una lode pronunziata in buonafede, senza maligna intenzione; tant'è vero che possono vicendevolmente affascinarsi persone di una stessa famiglia.

    L'affascino colpisce comunque i ragazzi,  che sono esposti più  degli altri, per l'inesperienza, ai nefasti effetti delle carezze tra il fascino del bene e il fascino del male, poichè anche gli sguardi di una persona cara, perfino della stessa madre, possono aduggiare un individuo.  A  Cetraro, il neonato, non si fa vedere a chicchessia; e, nel caso si consenta a qualcuno di vederlo, il visitatore deve ripetere con la madre: «È bruttu! È malufattu! Prestu more!». Le donne di Acri poi, nel metter piede nella camera di una puerpera, sputano tre volte, come ai tempi di Teocrito, che ricorda l'uso nell'Idillio VI, e di Plinio, che ne riferisce i dettagli nella Storia naturale (XXVIII, XXXI) tutto compendiando nella sentenza: Terna despuere  deprecatione in omni medicina est.

    Gli amuleti servono all'uomo per prevenire, sviare o neutralizzare le temute influenze del malocchio; e, a seconda del loro ufficio, possono avere carattere profilattici, ossia preventivo e igienico, e carattere terapeutico o curativo. E poichè l'uomo estende la profilassi e la terapia a salvaguardare e a curare anche gli esseri e gli oggetti che gli appartengono, siano essi cose, animali  e piante utili, ne deriva che gli amuleti da lui usati, possono essere antropici, edilizii, zoologici e botanici: Sono antropici quelli che si portano addosso per l'integrità della persona e della salute; edilizii quelli che si collocano sulle case o si rappresentano sulle pareti o sui mobili, a tutela del nido e degli affetti; zoologici e botanici quelli che si adoperano per gli animali, il raccolto e i prodotti delle piante.

*  *  *

    Tra gli amuleti antropici troviamo caratteristici oggetti di osso e di metallo, per lo più prezioso (argento e oro) il gobbetto, il pesce, il cane, il lupo, il crescente lunare, il numero 13,  il ferro di cavallo, le corna, la mano con l corna e la mano in fiche. Quando si incontra un notorio iettatore,  si tende la mano a toccare qualche amuleto, ordinariamente di quelli che si portano nella tasca del panciotto o attaccati alla catena dell'orologio; e, quando ciò non sia possibile, si tocca un oggetto di ferro, o si fanno le corna con le dita. Singolari, fra tutti, sono il dente del drago,  altrimenti l'unghia della gran bestia,  l'artiglio dell'aquila, la zanna del lupo,  del cinghiale, del maiale, la branca del paguro, del granchio, dell'aragosta e varie conchiglie marine, tra cui la «purceiana» che, incastrata nell'argento, si porta contro il malocchio.

    Con gli epiteti di «drago» e «gran bestia» i calabresi, nella loro mitologia popolare, indicano lo squalo del periodo terziario, i cui denti si rinvengono nei terreni dell'epoca eocenica; ma scientificamente con quel nome si indica l'alce comune o il Cervus Alces. Le donne e i fanciulli nei villaggi li sospendono al collo sotto la camicia, in sacchettini; mentre gli agiati li legano in costoni di argento e di oro.

    Nella fantasia del volgo la «gran bestia» è il demonio o il diavolo, raffigurato in un mostro con zampe e coda di asino,  e non già l'asino, come ha creduto qualcuno, partendo dal concetto che esso sia la «bestia più grande tra gli animali domestici».

    Comunque, col nome di «unghia della gran bestia» si indica, in Calabria, la scure di selce delle epoche litiche, dai Cosentini detta «gaccia» o «gacciulla di lu tronu», mentre in altri luoghi, come nell'Umbria, si chiama con quel nome l'unghia del rinoceronte, che ha forma rettangolare.

    La simbologia cristiana influì sulla primitiva concezione popolare, trasformando in mostro demoniaco l'essere selvaggio prepagano; onde il drago antropofago, che comparisce nelle favole tradizionali, nascosto nelle viscere della terra, mostrando alla superficie qualche organo, per lo più l'orecchio che gli ingenui popolani scambiano per un fungo.

    Anche il lupo comparisce nelle favole. Non sono poche le famiglie dei pastori che hanno per il feroce animale un misto di paura e di riverenza,  credendolo di virtù prodigiose. Le zanne e la coda  di esso sono amuleti pregiati; e talvolta anche la pelle,  specie quella della fronte, che ridotta in brandelli, è portata dai pastori della Sila nelle scarpe o nello scapolare, senza ricordare che a Cosenza vi è l'uso di imporre al neonato,al fonte battesimale,  il nome di Lupo, accanto a quello sacro, che serve a distinguerlo fra i cattolici.

    Come al tempo dei romani, che vedono nella serpe lo spirito dei mani,  anche ora i calabresi,  scorgendola presso le case  e le abitazioni,  la credono l'anima di qualche parente in cerca dei superstiti.  A tal scopo, la serpe che si aggira nei dintorni della casa, è nutrita ed allevata, specie se di colore bianco. La sua uccisione è considerata un sacrilegio !

    Negli scapolari dei contadini di San Stoni si trova frequentemente la spoglia della serpe bianca, cioè la pelle che il rettile lascia a primavera, per impedire l'opera del malocchio e delle fattucchiere.

    È noto che, dappertutto,  nella regione e fuori, il bifolco quando riesce a catturare una salamandra bicipite viva, la porta come amuleto in un cannello bene otturato. Questo avviene comunemente, sulle montagne,  fra pastori e contadini, perchè nelle marine,  sulle coste e le spiagge gli amuleti sono tratti, a preferenza, dai pesci, dai testacei e da altre specie acquatiche. Non è raro il vedere al collo dei fanciulli, delle donne e dei pescatori, in sacchetti o incastonati, gli organi ossei di alcuni animali, che nel mare, come si crede,  sostituiscono gli esseri che si trovano sulla terra. L'aquila marina, il cane marino, la volpe marina, il vitello marino,  sono tra essi.

    Il pesce nella tradizione popolare e sin dai tempi remoti figura come segno o simbolo dell'abbondanza; onde  in varie favole comparisce come l'ispiratore felice. A significare tale concetto il volgo, in varie località, suole dire, per augurare il buon esito d'un affare intrapreso:

                            L'occhiu meu èni di pisci:

                            cchiù ti guardu e cchù ti scrisci.

    Parecchi anni fa, tra i pescatori delle marine calabresi, era in uso come amuleto, la Sirena d'argento con vari campanelli. Oggi, la Sirena, sebbene scomparsa nella sua rappresentazione classica, rivive scomposta negli amuleti a forma di pesce e di campanello, che i bambini ed i fanciulli portano a salvaguardia dalle cattive influenze.

    Contro la jettatura,  un pò dappertutto, si adoperano la coda della volpe e i peli del cane, la chiavetta maschia o mascolina e la mano di corallo, di osso, di oro nell'atteggiamento della  «res turpicula», di cui parla Varrone.

    Le madri, allontanandosi dalla culla, dove riposa il loro piccolo, sogliono coprire il corpicino con lo staccio, o porgli accanto la scopa, o sotto il guanciale utensili ed oggetti di ferro, convinte che nè il folletto (fujettu), nè le fate potranno aduggiare la loro creatura con le malie, dovendo prima contare i fili della scopa e i buchi dello staccio; e, fuggendo, in genere,  dal contatto del fero.

    Nel complesso degli amuleti,  che figurano sul petto o al collo dei bambini lattanti, non mancano di solito la chiave maschia, che secondo qualcuno (Bellucci) non è destinata ad usi pratici, tant'è che è d'argento, e  rappresenta l'antico fallo trasformato dalla Chiesa, per la sua oscenità in tale forma; e la gambuzza, che richiama alla mente l'analogo ex voto, sebbene tra l'amuleto e il voto passi una notevole differenza nella forma, nella materia e nel concetto. La gamba, ex voto,  che si vede presso l'altare dei Santi, esprime il ringraziamento per la riabilitazione miracolosa dell'arto; la gamba amuleto è un preservativo, per favorire l'agilità e la speditezza del passo. La chiavetta maschia per sopravvivere si è adattata alle nuove esigenze del popolo, prendendo il nome di chiavetta dello Spirito Santo; ma il suo uso è di origine molto antica, trovandosi adoperata fin dai tempi preistorici.

    A  prevenite la scrofala si attacca nel mazzetto degli amuleti, la branca di un crostaceo, preferibilmente del granchio per l'idea che essa scongiuri la gàngola, al modo della scrofolaria, giusta il principio simpatico del simile che agisce sul simile.

    Innumerevoli sono gli amuleti sanitari, che fanno pensare alla maniera con cui il volgo spiega l'origine di tante indisposizioni e infermità, ritenendole effetto della jettatura. Si comprende che,  così ràgionando, ricorra agli amuleti e non al medico, nè alle medicine per guarirle o estirparle dall'umano organismo.

    Amuleti sanitari sono le collane di corallo per il colore rosso, che si ritiene adatto contro l'itterizia. In qualche regione dell'Italia gli acini del corallo grezzo si portano addosso per regolare il corso naturale delle regole mensili delle donne, e si crede impallidiscano in tali ricorrenze sulle donne che li portano. In  molti villaggi le cuffie dei bambini hanno, in alto,  un fiocco rosso in forma di croce; in altri, poi,  il fiocco ha tre rami e spicca sulla cuffia dal lato della fronte, e mentre uno di essi è di coloro rosso, contro il malocchio, e il terzo giallo, contro la demenza; Nel territorio di Coccorino, un villaggio del monte Poro, i bambini in tenera età hanno sul petto e sul dorso un cordone nero; ed in altri portano al polso una fettuccia dello stesso colore.

 Carattere terapwutico hanno, in generale, i seguenti amuleti:

    1) la pietra del polipo (in vernacolo «a cacata d'u pruppu»), che dicesi si rinvenga sulle spiagge, fra i ciottoli trasportati dalle onde, e che, per la pupilla che raffigura, si strofina sulla palpebra,  in caso di infermità oculare. I pescatori di Nicotera la portano incastonata nell'anello;

    2) la pietra latteruola (un grosso acino d'agata) che,  come la precedente, si rinviene sulla spiaggia e che, per il capezzolo che porta impresso, si adopera dalle donne a favorire la secrezione del latte;

    3) la pietra aquilina (aquilinum) o dell'aquila, detta cos dagli antichi, che credettero si rinvenisse nei nidi del rapace, consistente in una limonita argillosa,  che porta all'interno, per il distacco, un bolo o nucleo, come un utero gestante; onde l'idea della pietra gravida che le donne nello stato interessante portano legata alla coscia o in altra parte del corpo;

    4) la rana ( volgarmente «granula»), che ha la forma di una ranocchia,  con cui si tocca il «mughello» o le ulceri aftose dei bambini, per farle scomparire.

    In Europa non è raro il caso di vedere una ranocchia con la testa infilata nella bocca del paziente, per l'dea che essa lo guarisca, prendendone la malattia. Il contenuto di questa superstizione è promitiov,  sebbene essa, col mutar dei tempi, si fosse adattata, per sopravvivere, alle credenze ulteriori, come ha dimostrato Giuseppe Bellucci;

    5) il laccio o spago (lazzu) della rete o «minaita», che i marinai sogliono legare alla cintura, sotto la camicia, o al polso, alle caviglie, al collo, contro i dolori artritici;

    6) il cerchietto di osso (curuja) per eliminare il prurito alle gengive, nel caso di difficile dentizione dei bambini.

    Carattere sacro hanno, invece alcuni amuleti in uso fra i cattolici timorati,  sebbene essi siano in sostanza  la sostituzione di altri del mondo pagano e prepagano.

    Fra i tanti amuleti sacri ricordiamo il «Giesu» (Gesù),  formato da un sacchettino contenete alcune sostanze benedette: l'oliva o la palma, l'incenso e il sale. Talvolta il «Giusu»  si trova infilato nelle vesti battesimali, come si può rilevare da quello della collezione del compianto colonnello garibaldino Achille Fazzari,  in Ferdinandea. In quel di Ioppolo, per liberare qualcuno dal malocchio, che l'infesta o potrebbe colpirlo, si ricorre ai suffumigi, con l'accendere attorno al suo corpo frusti di palma e d'oliva e chicchi d'incenso benedetti. In altri luoghi (Coccorino)  si crede giovi ala bisogna, contro il pericolo di malocchio, il terriccio del sacrato portato addosso, in un sacchettino; in altri (Cetraro)  una pietruzza raccolta in un crocevia, dopo l'ave; e in altri ancora, la pietra della Madonna,  che è un ciottolo bucato, che si rinviene presso il Santuario.

* * *

    Come gli umani organismi, a cui servono di dimora, di ricettacolo, di casa, sono salvaguardate le abitudini, mediante l'uso degli amuleti.

    Una delle prime cure del popolano è quella  di proteggere la casa dal fujettu (folletto), che s'immagina piccolo, indiscreto e amorevole, sebbene capriccioso e scherzoso. Il fujettu, come si crede, si sente un pò dappertutto, nelle città e  nei villaggi, e frequenta di solito le case contigue abitate da sette famiglie con sette focolai.

    Il popolo di Nicotera marina per evitare le molestie che il folletto suole dare agli inquilini di una nuova casa, lega con una fune i piedi posteriori di una sedia, come se fossero corna.

    Per le sue stranezze il fujettu ha fatto pensare al demone della casa greca e al lare di quella latina.

    Nella campagne e nei borghi, sull'arco della porta di ingresso delle case si vedono delle maschere, ora scolpite in pietra viva, ora plasmate in creta. Scolpita in pietra è quella che si osservava,  fino a pochi anni fa, sul portone del palazzo Mùmuli, nel rione Giudecca, in Nicotera. L'uso, nella regione, è antico, come risulta dalle maschere rinvenute negli scavi archeologici, sebbene i tipi odierni inclinino ad aggiungervi le corna, per far intendere che il mostro del mascherone raffiguri il diavolo.

    Talvolta le maschere sono sostituite onde è facile vedere il pastore sospendere sull'ovile la testa ossea del proprio ariete, l'agricoltore le corna del proprio bue e il mugnaio il cranio dell'asino, che in vita lo servì a trasportare la farina.

    Generalmente, l'amuleto più usato contro la jettatura, è il ferro dell'asino o del cavallo, attaccato alla parete o alla parto;  ma esso deve essere rintracciato a caso, per terra, per spiegare la sua influenza. L'uso pare risalga all'antichità dato che l'Orsi nel 1913,  ne rintracciò uno in una tomba di Locri Epizephiri.Si ha un bel dire, quindi, asttribuendone l'invenzione ad un generale giapponese nell'anno 1596.

    Talora,  qualche villico imbattutosi nel gufo e catturatolo, lo inchioda con le ali distese sull'uscio del pagliaio,  credendo, in tal modo, di tener lontane dalla sua dimora le avversità. Sul tetto delle abitazioni qualche boccale, qualche fiasco, o addirittura qualche bottiglione, servono a proteggere la dimora dai cattivi influssi; ma l'amuleto più in vista in tali luoghi è rappresentato dalla pianta del malocchio, che ha le  foglie aguzze come aculei. Anzi, dicesi, che quand'essa si mostra avvizzita, preannunzia una disgrazia nella casa. Qualche volta la pianta coltivata contro il malocchio è la ruta, che secondo il proverbio, «sette mali astuta».

    I temporali sono promossi dai demoni,  che agitano l'atmosfera, e  scongiurano i malefici effetti, si ricorre ad alcune sostanze benedette, come a un mozzicone d'una candela accesa al Santo Sepolcro, a un pezzettino di pane della cena, ad un tizzone del ceppo di Natale o del Sabato Santo, ovvero al «panetteddu» di San Nicola; e, nei luoghi dove il rito esiste, al grano di questo santo. In Nicotera, dopo aver fatto bollire  convenientemente un pò di grano, si espone al sereno nella notte del sei dicembre, perchè il Santo lo benedica con la suo orina; onde poi l'uso di distribuirlo ai compari e agli amici, che lo conservano e lo adoperano contro i temporali.

    Una vecchia opinione, invano distrutta dalla scienza, è quella per la quale il popolo ritiene produzioni o concentrazioni di fulmini, gli strumenti e gli utensili dell'età della pietra, denominandoli «cugnu di tronu», perchè li crede caduti a caso sulle abitazioni e sugli alberi, durante i forti temporali. Per la norma che il simile agisca contro il simile, si pensa di adoperarli contro le  fulminazioni, nell'idea di salvare la casa e la famiglia che l'abita. tra i pregiudizi che li concernano, due sono fondamentali:per un di essi, il filo o lo spago che avvolge il «cugnu di tronu», buttato nel fuoco, non brucia; e, per l'altro, che i «cugni» si cacciano sette palmi sottoterra, sollevandosi un palmo all'anno. Il contadino superstizioso, che rinviene, zappando, qualche «cugno», non osa toccarlo, temendo una sventura.

    Nel territorio di Cosenza un amuleto diffusissimo, che si vede dipinto dappertutto, sulle pareti della case, sui mobili e sugli utensili, è l'otto e il nove, che alcuni studiosi spiegano col ricondurre  due numeri alle tradizioni magiche, dicendo con Plutarco e i Pitagorici: «Il nove è il primo quadrato fra tutti i  numeri, originato dal tre caffo e perfetto,  e l'otto è il primo cubo procedente da due, che è pari. Il pari pii, è numero mancante, imperfetto e indeterminato...; e il caffo, che è maschio,  diviene generativo ed acquista forza quando si congiunge col pari». Stando al compianto illustre sacerdote professore Francesco Bartelli, l'otto e il nove dei Consentini altro non sarebbe che la trasformazione simbolica  dell'oscenità pagana, la quale, contro il fascinum, soleva esibire il fallo con tutto lo scroto; onde poi, l'otto e il nove; questo in sostituzione del pene, e quello in sostituzione dei testicoli.

    Non sono meno numerosi gli amuleti per gli animali domestici. In generale, si pensa che questi siano continuamente minacciati dagli esseri diabolici; onde, anche per essi, la protezione amuletica, che talvolta è preceduta o accompagnata da rituali suffumigi d'incenso e palma benedetti, con la recita di opportuni scongiuri.

    Gli animali sono dotati di una particolare chiaroveggenza; e, specialmente, i buoi e gli asini possono essere spaventati dagli spiriti maligni, che essi vedono a preferenza dell'uomo. La necessità di tutelarli, induce i contadini a non lasciarli all'aperto, ma di custodirli nelle stalle, attaccando alle pareti effigi sacre o crocette di legno o di canne, o frusti di palma o rami di oliva benedetti. I buoi ed i giovenchi, o cavalli e gli asini adorni,, come i fanciulli, di nastri rossi e neri, che talora penzolano ai lati delle orecchie; i maiali portano al collo fettucce nere; quando non  abbiano addosso medaglie di santi protettori o «abitini» o «Giesu».

    Il protettore del bestiame vaccino, in Calabria, è San Nicola; quello dei maiali Sant'Antonio e quello dei bachi da seta San Giobbe. Nei luoghi dove questa industria è in fiore, alla bigattiera si suole attaccare un panno rosso,  come si fa con la chioccia per la cova delle uova e la custodia dei pulcini.  In Laureana di Borrello è credenza che la stella del tre giugno abbia il dominio meteorico sui tre mesi estivi di giugno, luglii e agosto; onde a scongiurare il pericolo che il maltempo sopraffaccia i bozzoli, le popolane si adoperano a circondare le canicci di jevolo ( sambucus ebulus). Le donne, pi, nel territorio di Cosenza, nel mettere i semi serici a covare, infilano un ago nella pezzuola che li contiene. Ma, invero, non è un ago; è un chiodo, che porta il nome di aco, della specie di quelli che i mulattieri di Aprigliano sogliono sospendere alla sonagliera delle loro cavalcature contro il malocchio, specialmente quando le impiegano in un corteo nuziale.

    L'allevamento dei bachi a Nicastro è in relazione cogli Evangeli di San Marco e di San Luca; onde le donnicciole che lo curano, quando il sacerdote intona il Vangelo del primo, recitano questi versetti:

                        U Vangelu secundu Marcu,

                        U siricu s'ammattula;

 

cioè si rende abbondante, e perciò si presta a far manne; mentre quando recita l'altro,si segnano, dicendo:

 

                        Ccu lu Vangelu secundu Luca,

                        U siricu s'affuca,

 

ossia, si affoga.

   

    E passiamo alle piante, che gli agricoltori curano, pel timore che esse non conducano a maturazione i frutti. A tale scopo, si sparge pei campi o vi si semina,  addirittura, qualche ramo benedetto di oliva o di palma (arrama santa). Talvolta, nel terreno preparano per la piantagione, si spargano le briciole del Pane della Cena insieme col sale; e, quando le campane squillano a gloria, annunziando la resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, i contadini corrono di solco in solco, ad abbracciare gli alberi senza frutti, contrassegnandoli con una fettuccia nera. In Ioppolo si usa fare dei suffumigi alle piante di alto fusto, per preservarle dal malocchio, accendendovi palme ed incenso benedetti.

   

    Comune alle genti della sponda mediterranea africana è l'uso di riporre sopra gli alberi senza frutto qualche sasso contro la jettatura, pel principio della somiglianza magica, in quanto caricando un albero di pietre, esso si caricherà di frutti.

 

    Singolare è il costume dei guardiani. Con questo nome gli uomini dei campi indicano i fantocci, che essi sogliono costruire con vecchi abiti o con cenci,appellandoli anche «spaventapasseri» dall'ufficio che hanno di tener lontani gli uccelli dai seminati. I guardiani derivano dai medievali saltari, ma assumono, in Calabria, forme superstiziose, che nulla hanno da vedere coi saltari  o uomini della polizia rurale nelle oscure età del medioevo.

 

    Il mostro cornuto è fascinofugo!

 

* * *

   

    Tel il quadro degli amuleti nella Calabria contemporanea; e non è facile, nè agevole, risalire agli esordi, alle applicazioni e alle origini loro, anche perchè negli amuleti regna una grande confusione, per il sovrapporsi di popoli e popoli, che ha  o mescolato i loro usi e le loro credenze, le loro religioni e le loro civiltà.

 

   Gli studiosi della materia si sono provati invano, nonostante che alcuni di essi mettessero a profitto l'etnografia, madre delle tradizioni popolari. Allo stato degli studi soltanto una cosa si può rilevare: che non pochi amuleti contemporanei hanno radici antichissime, che si perdono nella storia dell'uomo; e che vari sono gli amuleti che nostrano tuttora il carattere pagano o prepagano, nonostante che nuovi culti li avessero riplasmati, per  adattarli alle odierne esigenze.  La mente ci porta ai cosiddetti «cugni di tronu», che perpetuano,  pur tra i lumi dell'odierna civiltà, pregiudizi, che forse furono comuni agli uomini della preistoria. E ci porta anche a considerare il lupo nelle tradizioni popolari della Sila, che lo fanno pensare come un totem, per le zanne, la pelle, il nome, che sono elementi tutelari dei boscaiuoli.

   

    La storia degli amuleti è cmplicatossoma e, per ricostruirla, non bastano i paralleli cercati, di volta in volta, nelle epoche storiche, preistoriche e nei continenti etnologici. Bisognerebbe caso per caso, rifare le cerimonie e le pratiche rituali che si riferiscano ai singoli amuleti, come quello della ranocchia, la quale prima di diventare amuleto terapeutico, è stata adoperata viva, per assorbire le ulceri aftose dalla bocca dei bambini.

 

    E qui cade acconcio il dire che gli amuleti seguono la storia dell'uomo  nelle credenze e negli usi, nella tecnica e nei culti, abolendone nel tempo alcuni, e adottandone altri.

 

    Un'altra importante questione riguarda la statistica amuletica; poichè, secondo qualcuno, gli amuleti sono più diffusi nel mezzogiorno d'Italia, che  nelle altre regioni, specie in quelle settentrionali. Questo concetto lanciato nel 1896, fu dotato, più tardi, di una base numerica, raffigurando come un cono il complesso degli amuleti con lo attribuirne alla cima, cioè alle provincie settentrionali, il 5 per cento, il 20 per cento alle provincie centrali e il 75 a quelle del mezzogiorno. Questa asserzione non è basata, perchè mancano ricerche metodiche sulle differenti nostre regioni. Il capitolo relativo agli  Amuleti nel libro La Medicina delle nostre donne del dottor Zeno Zanetti, mostra, nell'Umbria, una quantità di amuleti, vari e diversi, che mancano nelle altre regioni. Diremo, perciò, che l'Umbria è alla base del cono immaginato dal  Bellucci ?

 

    La storia della materia è ancora da fare; e quando essa sarà tentata, bisognerà tener conto principalmente di tre cose: 1) che alla formazione degli amuleti concorrono i tre Regni della natura, dalle pietre ai metalli, dagli animali alle piante; 2) che l'arte e la tecnica  nel loro sviluppo vi contribuiscono efficacemente; 3) e che gli amuleti sono sono sempre rinvolte al bene. Accanto agli amuleti benefici, si trovano quelli malefici all'umanità.

   

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BIBLOGRAFIA

    Le indicazioni bibliografiche sugli amuleti sono lunghe e complesse. Nell'impossibilità di darne notizia, limitiamo la bibliografia alle principali opere interessanti,  con speciale riguardo alla Calabria e a quelle generali.

    Per la differenza fra amuleti e talismani,  vedi A. FIDI, Trattato pratico dei atlismani,Milano, 1925; G. BELLUCCI, Gli amuleti. Un capitolo di psicologia popolare, Perugia, 1908;  ID., Amuleti italiani contemporanei. Catalogo descrittivo., Perugia, 1898; ID., Gli  amuleti, negli «Atti del primo congresso di etnografia italiana», pp. 21-27, Perugia, 1912; ELWORTY, The Evil Eyre, Londra, 1895; S. SELICMAN, Der böse Blick und Werwandschaft, Berlino, 1919; J, MARQUES RIVIÈRE, Amulettes, talismans et pentacles, Parigi, 1938; VILLIERS PACHINGER, Amulette und talismane, Monaco, 1927; L. DA CAMARA CASCUDI, Estudo sobre algunos amuletos no Brazil, Madrtid, 1949; le voci della «Enciclopedia italiana» e dell'«Handwörterbuch der deutschen Aberglaube»; G. BORGHESE, La jettatura, Messina, 1896; R. CORSO, Amuleti , in «Il mezzogiorno», 26 maggio 1954. Per la Calabria: D. CORSO, Superstizioni, credenze ed amuleti, in «Arte e storia», S. IV, n. 9, pp. 262 segg.: R. LOMBARDI SATRIANI, La jettatura e il  malocchio, in «Biblioteca delle Tradizioni Popolari Calabresi», VII, pp. 146 segg., Napoli, 1952;G: ROMEO, L'affascino, in «Scintilla», I, 1°, 1929; A: ADRIANO, L'affascino, nel volume «Carmi, Tradizioni, Pregiudizi nella Medicina Popolare Calabrese», Cosenza, 1932; F. Stancati, Il mio paese, Nicastro, 1949; V. DORSA, La tradizione greco-latina negli usi e nelle credenze della Calabria Citeriore, 2a ed., Cosenza, 1884.