José Saramago, Tutti i nomi, Einaudi, 1998, 252 p.

 

Il romanzo

Il signor José lavora alla Conservatoria Generale dell'Anagrafe. È un uomo abitudinario e grigio, una figura apparentemente senza storia, senza misteri. Nella realtà, però, il signor José coltiva un hobby assolutamente speciale: copia diligentemente e di nascosto le documentazioni conservate presso l'Anagrafe e riguardanti personaggi famosi, dove si riportano i nomi dei genitori, gli indirizzi, le date importanti della vita. José colleziona queste informazioni e le aggiunge a ritagli di giornale, fotografie, materiale vario sulle celebrità. Ha la fortuna di abitare in un piccolo appartamento adiacente alla Conservatoria, alla quale può accedere ogni notte, aprendo una vecchia porta, per "rubare" le informazioni private delle "star". È tuttavia sempre un po' rischiosa questa sua attività, qualcuno già sospetta... Dunque una sera José, vittima di timori e incertezze, tormentato dalla paura di essere scoperto, raccoglie affrettatamente e per sbaglio (insieme ad altri moduli da portare a casa, copiare e riportare a posto) qualcosa che nulla ha a che vedere con il resto: l'incartamento riguardante una donna sconosciuta di trentasei anni. Da quel momento José non ha più pace: deve andare a cercarla, vederla, parlarle, sapere di più su di lei. Questa indagine diventa un'ossessione per lui, e per raggiungere il suo scopo falsifica documenti ufficiali, interroga alcune persone ingannandole sullo scopo delle domande, ruba, mente, si trasforma..


Le prime righe

Sopra la cornice della porta c'è una placca metallica lunga e stretta, rivestita di smalto. Su sfondo bianco, le lettere nere annunciano Conservatoria Generale dell'Anagrafe. Lo smalto è crepato e sbrecciato in alcuni punti. La porta è antica, l'ultimo strato di vernice marrone si sta scrostando, le venature del legno, visibili, ricordano una pelle striata. Ci sono cinque finestre sulla facciata. Appena si varca la soglia, si sente l'odore della carta vecchia. Certo è che non passa giorno senza che in Conservatoria entrino incartamenti nuovi, degli individui di sesso maschile e di sesso femminile che fuori continuano a nascere, ma l'odore non cambia mai, in primo luogo perché il destino di ogni foglio nuovo, subito dopo l'uscita dalla fabbrica, è quello di cominciare a invecchiare, in secondo luogo perché, di solito più spesso sui fogli vecchi, ma tante volte su quelli nuovi, non passa giorno che non si scrivano cause di decessi e relativi luoghi e date, ciascuno apportando i propri particolari odori, non sempre offensivi per le mucose olfattive, come dimostrano certi effluvi aromatici che di tanto in tanto, impercettibilmente, attraversano l'atmosfera della Conservatoria Generale e che i nasi più fini identificano come un profumo composto metà di rosa e metà di crisantemo.
Subito dopo la porta compare un alto paravento a vetri con due battenti da cui si accede all'enorme sala rettangolare dove lavorano gli impiegati, separati dal pubblico da un lungo bancone che unisce le due pareti laterali, a eccezione, a una delle estremità, del ripiano mobile che permette il passaggio all'interno. La disposizione dei posti nella sala rispetta naturalmente le priorità gerarchiche, ma essendo, come ci si aspetterebbe, armoniosa da questo punto di vista, lo è anche dal punto di vista geometrico, il che serve a dimostrare che non esiste alcuna insanabile contraddizione fra estetica e autorità. La prima fila di tavoli, parallela al bancone, è occupata dagli otto scritturali ausiliari a cui compete ricevere il pubblico. Dietro questa, altrettanto centrata rispetto all'asse mediano che, partendo dalla porta, si perde giù in fondo, negli oscuri confini dell'edificio, c'è una fila di quattro tavoli. Questi appartengono ai funzionari. Dopo di loro si vedono i vice, che sono due. Infine, isolato, da solo, come doveva essere, il conservatore, a cui quotidianamente si rivolgono chiamandolo capo.


Il commento

Provo a dipanare, per quel che mi riesce, l'intricata matassa dei significati che ho trovato nel romanzo. Si tratta, premetto in partenza, di un'analisi limitata al presente romanzo e non all'opera completa dell'autore che non ho ancora (purtroppo devo dire) letto. Nel momento stesso in cui leggevo mi è subito balzato alla mente il raffronto
con Joseph K., creato da Kafka, piccolo uomo soggiogato e spaventato dall'opprimente burocrazia. Una burocrazia, in Saramago, che ingloba tutta l'esistenza, dalla nascita alla morte, e anche dopo, in una serie di moduli e certificati. Una burocrazia, ancora, che avviluppa il signor José, ultimo impiegato della Conservatoria, e unico personaggio di tutto il romanzo con un nome proprio, ma non solo. Lo stesso capo supremo della Conservatoria, alla fine, si vede costretto (?) a giocare lo stesso gioco di José, credo per dare un senso utopico alla propria esistenza, un modo difficile, faticoso e tortuoso per uscire dalle gabbie della burocrazia imperante. Anche il suicidio, ultimo atto disperato per abbandonare il mondo, non sembra sortire nessun effetto contro il potere della burocrazia: i morti suicidi trovano, infatti, collocazione nel cimitero in uno spazio loro appositamente riservato e ben delimitato. Solo l'intervento del pastore, figura umile e non pienamente inserita nel contesto sociale, più a contatto con gli animali che con gli uomini, libera tali morti da ogni legame burocratico scambiando i numeri delle tombe e impedendo la loro identificazione ai vivi.


Hanno scritto del romanzo.....

Manuel Vázquez Montalbán


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