Il Bar   h  Acca tagliato

               

               

Un pomeriggio, uscita dal lavoro, ero ancora molto nervosa perché avevo litigato a causa del bar “Acca tagliato”. Era molto strano quello che accadeva lì dentro, ma nessuno voleva credermi.
Due giorni prima avevo preso la terza strada a partire dalla via dove abito: "Washington Street".
Avevo visto un grande edificio di color rosato. Al piano terra vi erano grandi vetrine con enormi pasticcini dall'aria invitante, torte di ogni tipo e un grande cartello che diceva: "Venite a prendere un caffè da noi e preparatevi a una sorpresa!". 
Al piano superiore si estendeva un vecchio balcone - che doveva avere più o meno quarant'anni - nascosto da una tenda rosata.
Siccome quella scritta non era cosa che si vedeva tutti i giorni mi aveva stuzzicato parecchio; tanto da farmi entrare per vedere cosa succedeva e nel frattempo bere qualcosa.
Dentro c'era un signore in smoking che accoglieva le persone e le faceva accomodare a dei tavolini molto eleganti. Fin qui tutto normale, ma adesso arriva il bello.
Un cameriere, che diceva di chiamarsi Kresdauff, si era nel frattempo avvicinato e mi aveva chiesto che cosa desideravo.
Quando gli avevo risposto: "Un succo di frutta alla pesca, per favore!" si era mostrato talmente sbalordito che mi era sembrato di essere capitato su un altro pianeta. Kresdauff era rimasto come pietrificato.
Dopo un po' si era ripreso ed avviato, probabilmente in cucina. 
Nel frattempo mi ero messa ad osservare un enorme specchio che si stendeva per tutta la parete alla mia sinistra.
Contrariamente a come avrebbe dovuto essere non c'era la mia immagine riflessa, ma si vedevano volare inesistenti bicchieri di birra e aranciata che, invece di riempirsi, vuotavano il contenuto nelle bottiglie che si tappavano poi automaticamente. E camerieri che correvano all’indietro e pezzi di vetro che dal pavimento risalivano sui vassoi a ricomporre bicchieri prima frantumati sul pavimento. Stava succedendo davvero la stranezza di cui avevo letto poco prima all'entrata.
Nel frattempo era arrivato il cameriere con il mio succo di frutta alla pesca.
Mi chiese se poteva sedersi al tavolino ed io, con un cenno del capo, avevo fatto capire che poteva accomodarsi.
Avendomi vista così sbalordita, si vedeva che moriva dalla voglia di svelarmi il segreto di quel locale così strano…
Kresdauff cominciò a parlarmi di un microcosmo, che una volta l’anno, emanando un vortice nero, risucchiava tutto quello che si trovava nelle vicinanze dell’apertura; nessuno di quelli finiti lì dentro, a suo dire, era mai tornato indietro. Né si era mai saputo che cosa ci fosse al di là di quel misterioso buco nero. Siccome il giorno in cui il vortice misterioso si sarebbe riaperto sarebbe stato l’indomani, bevvi frettolosamente il succo e decisi di ritornare il dì seguente.
Il giorno dopo tutto sembrava ‘normale’ come al solito, quando improvvisamente un buco nero si formò sulla parete dello specchio dove non esisteva il riflesso del mio corpo.
Risucchiava tutto rapidamente e neanche una potentissima calamita avrebbe resistito a quella potenza del microcosmo.
Risucchiò anche me. La pelle mi si tirava. Nel nuovo mondo — che io temevo sarebbe diventato la mia tomba — non ero dopotutto molto a disagio. Anche se ero l’unica, su quel pianeta, che si stupiva per il suo colore bianco e l’assenza di gravità. Si poteva volare, come se si stesse nuotando. Era stupendo, ma la cosa più strepitosa era il fatto che su quel mondo non esistevano né poveri né ricchi. C’era solo da godersi la vita: non bisognava neanche preoccuparsi di mangiare, perché non esisteva cibo e ci si nutriva di aria. Cominciai a capire perché nessuno era mai tornato indietro.
Secondo la testimonianza di Kresdauff il vortice si apriva una volta all’anno e quindi avrei dovuto aspettare trecentosessantacinque giorni per poterne uscire. In realtà a me sembrarono solo due ore passate nel completo ozio. Il buco nero si riaprì in quattro e quattr’otto. In un secondo mi ritrovai dove non avrei mai pensato: ero stata catapultata in ufficio, nel grattacielo dove avevo il mio studio.
Piuttosto scossa avevo cominciato a riflettere sull’accaduto e a pensare come giustificare la mia lunga assenza, mentre camminavo lungo il corridoio, ma non mi sembrava che i colleghi fossero tanto sorpresi di vedermi.
Era come se non fosse mai successo niente: anzi che il tempo non fosse mai passato.
Per questo avevo poi litigato con quelli che sostenevano che il bar non esisteva.
Io, però, sono convinta che non era stato un sogno; anche perché uscendo dall’ascensore mi sento salutare con un: “Buonasera!”.
“Buonasera!”, rispondo automaticamente. Poi mi giro a guardare indietro, era Kresdauff che si allontanava.

Marilena M.

 

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