chiarimenti
13 dicembre 2002

Mi sono necessari chiarimenti in merito alla vicenda di seguito riassunta: un laboratorio di analisi caratterizza un rifiuto portatogli in laboratorio come non pericoloso, sulla base dei risultati analitici conseguiti ai sensi di legge.

Viene emesso un certificato con i dati della caratterizzazione e viene data come destinazione del rifiuto la discarica di 1a categoria sulla base dei criteri di assimilabità tecnologica. Sul certificato viene altresì specificato che il campione al laboratorio è stato consegnato da terzi.

A questo punto mi chiedo: se il certificato è stato utilizzato per accompagnare un rifiuto pericoloso (proveniente dallo stesso ciclo produttivo che ha generato il campione portato in laboratorio) in discarica di 1a ctg, può il laboratorio essere incriminato di emissione di certificato falso?


Il sistema sanzionatorio dettato dal D.Lvo 22/97 prevede una pesante pena per chiunque falsifica il certificato di analisi allegato al formulario di identificazione o comunque fornisce false indicazioni sulla natura e quantità dei rifiuti trasportati. In questo caso il certificato sarebbe formalmente vero e non falso, mentre è il suo utilizzo che viene considerato fraudolento. Poichè nelle prime fasi di una indagine non è sempre possibile distinguere chi ha frodato che cosa non si può escludere il coinvolgimento del laboratorista nei fatti per cui si procede, il che si immagina quanto sia spiacevole. La fenomenologia del falso certificato è andata tuttavia a ridursi.

Bisogna infatti sottolineare che fino alla fine del 2001 e a partire dall'entrata in vigore del D.Lvo 22/97 la necessità di effettuare analisi ai fini della classificazione dei rifiuti ha subito un notevole ridimensionamento. Residua ancora un obbligo di caratterizzazione chimico-fisica dal momento in cui il rifiuto speciale, proveniente da lavorazioni artigianali e industriali, deve trovare destinazione in una discarica di seconda o terza categoria di tipo B o C ai sensi della ancora vigente Delibera del Comitato Interministeriale 27 luglio 1984.

Con la Decisione 2000/532/CE e s.m.i il rinvio ad un test analitico è ritornato in auge per un certo numero di codici la cui traduzione nel nuovo CER può ricadere nella condizione della cosiddetta "voce specchio", la possibile alternativa tra due transcodifiche la prima delle quali identifica il rifiuto come pericoloso sulla base della concentrazione di determinate sostanze pericolose oltre le soglia stabilita dalla Comunità Europea.

Solo dal 1° gennaio del 2002, data di entrata in vigore della Decisione, e solo qualora la scelta si proponga tra due codici a specchio, sono applicabili i criteri in base ai quali è reso possibile al produttore dimostrare la classificabilità del rifiuto come non pericoloso. Tale dimostrazione è conseguibile con il supporto di un'analisi accurata delle sostanze presumibilmente presenti nello stesso sia per motivi derivanti dall'uso di certe materie prime che a causa di prodotti formatisi nel corso di reazioni secondarie o per una contaminazione subita nel corso del processo che lo ha originato ecc. Se invece ritiene di dover applicare il codice asteriscato, cioè per rifiuto pericoloso, nessuna analisi è richiesta.

E' risaputo che in questo secondo caso i costi dello smaltimento sono maggiori. Di qui l'interesse a conoscere esattamente la natura dei rifiuti prodotti attraverso una ricerca analitica dei rispettivi contenuti.

Nel caso in esame, evidentemente, questo interesse si è manifestato con la raccolta di un campione e l'invio ad un laboratorio di fiducia, dopo il 1° gennaio 2002. Il laboratorista, sulla base delle informazioni ricevute dal cliente, ha eseguito una serie di prove dirette a caratterizzare il rifiuto e con i relativi esiti di non pericolosità ha prefigurato come possibile destinazione lo smaltimento in discarica di prima categoria per rifiuti urbani e assimilabili.

A questo proposito bisogna tuttavia dire che l'assimilazione di rifiuti speciali a rifiuti urbani avviene ancora oggi sulla base di definizioni di tipo merceologico elencate al punto 1.1.1 della delibera citata e che tale corrispondenza non è convalidabile attraverso criteri di tipo analitico in quanto l'unica indicazione fornita dal legislatore è afflitta da evidente genericità. L'assimilabilità dei rifiuti speciali è infatti possibile "salvo non diano luogo ad emissioni, effluenti o comunque ad effetti che comportino maggior pericolo per la salute dell'uomo e/o dell'ambiente rispetto a quelli derivanti dallo smaltimento di rifiuti urbani". Ma qual è la pericolosità dei rifiuti urbani? Mancando qualsiasi indizio rispetto al generico "maggior pericolo", si finisce per rendere vera ogni supposizione come per il suo contrario, con buona pace della certezza del diritto.

L'impasse sarà superato con il recepimento ormai prossimo della Direttiva 1999/31/CE e l'emanazione del regolamento in materia di "criteri di ammissibilità dei rifiuti in discarica", già approvato in sede di Conferenza Stato-Regioni. A seguito delle nuove disposizioni il conferimento dei rifiuti verrà previsto secondo la ormai acclarata suddivisione in pericolosi e non pericolosi, alla quale si accosterà la categoria degli inerti, riducendo quindi a tre sole le possibili alternative di sistemi di confinamento definitivo. Giocoforza per poter destinare rifiuti industriali all'una o all'altra discarica basterà determinarne analiticamente la loro natura di pericolosi e non, la quale, si anticipa, sarà valutata in particolare mediante un test di cessione. E' chiaro che, fino ad allora, nella genericità delle affermazioni soprariportate, sostenere l'assimilabilità di un rifiuto speciale non pericoloso ai rifiuti urbani espone chi lo sostiene a possibili contestazioni, salvo non sia previsto in una regolamentazione locale.

D'altra parte è del tutto evidente che, anche in perfetta buona fede, si corre il rischio di un coinvolgimento in attaività illecite quando non si dispone dei mezzi o delle prove per dimostrare la propria estraneità a questi traffici. Purtroppo la maggioranza dei laboratoristi non coltiva uno dei più noti assiomi della chimica analitica: "l'analisi chimica inizia dal campionamento". Troppi cultori della materia preferiscono dedicarsi ad una caratterizzazione spinta del campione senza alcuna parsimonia di cifre decimali nell'espressione dei risultati, relegando in secondo piano il problema della sua rappresentatitività rispetto al rifiuto che si vuole analizzare. Troppo spesso si compiono errori di valutazione a causa di una fase di campionamento ampiamente trascurata o sottovalutata. Se invece si ponesse la professionalità al centro delle proprie azioni non si dovrebbero accettare commesse di sole analisi, ma pretendere anche l'esecuzione dei campionamenti come parte integrante della prestazione.

Per voler disgiungere le proprie responsabilità dalle altrui gli analisti che redigono il rapporto di prova sono soliti aggiungere in calce "campione raccolto da terzi", il che può essere utile per evitare conseguenze indesiderate a proprio carico, certamente non per escluderne un uso illecito e fraudolento.

La prestazione dovrebbe invece comprendere una visita sul sito di produzione del rifiuto e una indagine accurata sulle sue modalità di formazione, completa di fotorilievo. Tali informazioni andrebbero poi ad accompagnare il verbale di campionamento e il rapporto di prova al fine di poter pervenire ad un giudizio più esaustivo sulla sua composizione e destinazione finale. A voler escludere qualsivoglia intenzione non dichiarata si dovrebbe infine mantenere in deposito un secondo campione sigillato in modo da poterne disporre quale eventuale controprova. Poiché questa detenzione non può essere a tempo indeterminato, per gli immaginabili problemi di immagazzinamento che comporta, si potrebbe suggerire di legare la validità del certificato analitico alla scadenza del deposito.

 

 

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USO FRAUDOLENTO DEL CERTIFICATO ANALITICO CHE ACCOMPAGNA IL TRASPORTO DEL RIFIUTO