chiarimenti
12 marzo 2004

A volte ritornano. Questo interrogativo si ripresenta ormai con una certa periodicità senza che sia ancora possibile darvi una risposta definitiva. E' peraltro veramente defatigante seguire le peripezie logico-lessicali che, nelle pronunce dei vari consessi chiamati perennemente in causa per decidere sulla nozione di rifiuto, portano regolarmente ad asserire una cosa e il suo contrario senza apparente contraddizione. Qui, nel nostro sito, si segue l'avvicendarsi delle diverse linee interpretative con atteggiamento laico, confidando che, prima o poi, si arriverà ad una soluzione finale.

La tesi che si sostiene e che si ribadisce anche in questa occasione è che l'acceso dibattito tra gli assertori di un presidio totalizzante sulla disciplina dei rifiuti da una parte e, dall'altra, coloro che prescelgono la strada di escluderne a priori l'applicazione, non consegni alcun risultato positivo. Secondo chi scrive la conclusione più razionale di questa dilemma amletico è che la nozione di rifiuto andrebbe applicata sempre, ogni qualvolta vi siano le condizioni perché un prodotto non intenzionale di una lavorazione possa rappresentare, nel suo ciclo di vita, un rischio per l'ambiente. Tuttavia, e qui sta la differenza, ciò non deve necessariamente prefigurarne un medesimo trattamento normativo, ma anzi, proprio in ragione delle peculiarità di quel prodotto, si può optare per una rimodulazione delle regole così da calarle esattamente sulle condizioni d'uso o riuso dello stesso.

In poche parole, quando si presenta il caso, occorrerebbe che, invece di perder tempo in discussioni sterili, si ponesse mano ad una valutazione del processo che origina il rifiuto, che lo raccoglie, lo tratta e lo sottopone ad un nuovo processo analogo o diverso dall'iniziale. In ognuno di questi passaggi si stabilisca un bilancio tra entrate e uscite in termini di consumo o risparmio ambientale. Se il processo è in perdita allora serve trovare i correttivi attraverso una regolamentazione che può essere la medesima prevista per l'utilizzo industriale di materie prime o, in assenza, che ne rappresenti un'evoluzione perché appositamente "pensata" in ragione delle caratteristiche di quel prodotto non intenzionale.

Proprio il caso dei limi di decantazione costituisce un esempio sul quale testare la tesi sostenuta. E' noto che il limo è una frazione di suolo avente una granulometria compresa tra 0, 02 e 0,002 mm. Tipicamente è il prodotto di rifiuto dell'attività estrattiva, sia che si tratti del cosiddetto "sterile" estratto dai giacimenti di argille ma privo di significato commerciale, sia che costituisca l'impurezza delle ghiaie dalle quali separarlo attraverso un lavaggio ad acqua successivamente raccolta in bacini di decantazione. In entrambi i casi siamo di fronte ad una materiale del tutto naturale con potenziali alternative di riutilizzo, per es, per la ricomposizione ambientale come per il recupero di cave dismesse o esaurite.

Quali sono i rischi associabili al limo indesiderato? In teoria nessuno, non si sta parlando di un materiale pericoloso. Qualche attenzione in più andrebbe posta solo nel caso l'estrazione di ghiaie avvenisse in letti inquinati da rilasci non autorizzati di qualche insediamento industriale. Per il resto, se questo lo possiamo escludere, occorrono ovviamente i bacini in cui riversare le acque esauste del lavaggio in modo da separare con il tempo i solidi sospesi e poterle riutilizzare per lo stesso fine. Serve inoltre sistemare idraulicamente le aree di estrazione e deposito in modo che le piogge che interessano le superfici sfruttate a fini produttivi siano convogliate e raccolte negli stessi o altri bacini. Anche se si tratta di un parametro minore i "solidi sospesi" devono rispettare un limite in concentrazione nelle acque di supero destinate ai corpi idrici superficiali, ai sensi del D.Lvo 152/99, salvo che queste non siano tutte riutilizzate in ciclo senza perderne neppure una goccia. Con il passar del tempo tuttavia i bacini tendono a colmarsi e l'efficacia della decantazione a scemare, si corre il rischio di sfiorare acque melmose: viene il momento di rimuovere i depositi sul fondo in modo da ricostituire i volumi originali. A questo punto che si fa dei limi rimossi? Si riportano in superficie lasciandoli scolare a fianco dell'invaso per il tempo necessario e poi se ne decide l'uso. E' questo il punto critico. Se non si è organizzato il lavoro per tempo nelle migliori delle ipotesi si vanno a depositare cumuli di limo un po' dovunque, senza alcuna logica né attenzione al contesto, originando a poco a poco un paesaggio lunare. Escludendo l'impressione negativa che si ricava dallo stato dei luoghi, effetto più trascurato tra tutti quelli che interessano l'ambiente, il permanere dei cumuli all'aria aperta costituisce un fattore di inquinamento atmosferico a causa del sollevamento eolico di polveri leggere, le stesse che vengono poi di nuovo trascinate verso la rete idrica in occasione di eventi piovosi. Che cosa ci vuole per ridurre, se non eliminare, inconvenienti del genere descritto? Sostanzialmente occorre riconsiderare l'attività estrattiva anche sotto questo profilo fin dalla fase iniziale, quando si discute se autorizzarla e con quali prescrizioni. Si prevengono questi inconvenienti se fin dall'inizio sono state identificate le soluzioni per evitare la formazione di cumuli di limo a tempo indeterminato.

Se questo non succede i motivi sono diversi, nell'ordine:

allora scattano quei meccanismi per cui, a fronte di proteste e articoli sui quotidiani, serve l'azione dimostrativa e cosa di meglio che applicare la disciplina sui rifiuti?

La particolare lettura che viene data all'argomento comporta anche derive terminologiche come quelle di considerare il limo alla stregua di un fango industriale. Posto sotto quest'ottica la Cassazione conclude inevitabilmente che "i fanghi provenienti da impianto di lavaggio di materiali inerti, quali i minerali e i materiali di cava, costituiscono rifiuto speciale ex-art.7 del D.Lvo 22/97 non rientrando tra le specifiche esclusioni previste dall'articolo 8 dello stesso decreto" (Cass. Pen.Sez.III, 19 dicembre 2002, n.42949 Totaro L. ed altro).

E' proprio questo invece il caso che lo stessa Comunità Europea, consapevole della presenza di ordinamenti nazionali consolidati sullo sfruttamento delle risorse minerarie, prevedeva di escludere dal campo di applicazione della direttiva 75/442/CEE relativa ai rifiuti:

1. Sono esclusi dal campo di applicazione del presente decreto gli effluenti gassosi emessi nell’atmosfera, nonché, in quanto disciplinati da specifiche disposizioni di legge:

a) …

b) i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall’estrazione, dal trattamento, dall’ammasso di risorse minerali o dallo sfruttamento delle cave.

Dunque se disponessimo di una disciplina speciale da applicare a tale particolare tipologia di rifiuti in modo da garantire un livello equivalente di protezione ambientale quale quello garantito dalla direttiva quadro sui rifiuti non si porrebbe neppure il problema. Se l'attuale quadro normativo che regolamenta l'esercizio di attività di cava è insufficiente occorre porvi mano in modo da coprire l'attuale inadeguatezza.

E' sufficiente riprendere in esame le leggi regionali e aggiornare l'articolato includendovi disposizioni riguardanti la gestione dei rifiuti prodotti.

Per sostenere la "terza via" proposta è illuminante la lettura della pronuncia della Corte di Giustizia (Sesta Sezione) 11 settembre 2003 a proposito del caso AvestaPolarit Chrome Oy (Finlandia), proprio riguardante l'applicabilità della nozione di rifiuto ai resti dello sfruttamento minerario. L'attività della miniera consiste nell'estrarre il materiale grezzo tramite perforazione e brillamento e nel trasformarlo tramite frantumazione, digrossamento e raffinazione. La capacità annua della miniera è di 300.000 tonnellate di cromo digrossato arricchito, 450.000 tonnellate di cromo raffinato e 500.000 tonnellate di altri minerali. Per un anno di attività i detriti ammontano in media a circa 8.000.000 di tonnellate, i minerali a circa 1.100.000 tonnellate. Nella zona della miniera sono già accumulati circa 100 milioni di tonnellate di detriti. È previsto che, per circa 70-100 anni, una parte sarà utilizzata per riempire lo spazio sotterraneo della miniera, ma che, prima di ciò, le masse di detriti si saranno integrate nel paesaggio. Una parte di tali detriti ammassati potrebbe rimanere sul posto a tempo indeterminato. Solo una piccola parte dei detriti, circa un 20%, è utilizzabile come materia prima per conglomerati. Le masse di detriti già accumulate non possono servire per produrre conglomerati, ma possono però essere eventualmente utilizzate come materiali di riempimento per frangiflutti e terrapieni.

In particolare sono illuminanti i seguenti passaggi.

47. L'articolo 2, n. 2, della direttiva 75/442 prevede espressamente che direttive particolari possono disciplinare la gestione di determinate categorie di rifiuti. Esso precisa che tali direttive possono contenere disposizioni specifiche particolari o complementari a quelle della direttiva 75/442. Ciò significa che la Comunità si è espressamente riservata la possibilità di decidere regole adattate o più complete di quelle sancite dalla direttiva 75/442 per talune categorie di rifiuti non determinate in anticipo. È su questo fondamento che sono state così adottate, ad esempio, la direttiva del Consiglio 18 marzo 1991, 91/157/Cee, relativa alle pile ed agli accumulatori contenenti sostanze pericolose (GU L 78, pag. 38), e la direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991, 91/689/Cee relativa ai rifiuti pericolosi (GU L 377, pag. 20).
48. Tuttavia, contrariamente a quanto espressamente previsto per le categorie di rifiuti di cui al n. 1 dell'articolo 2 della direttiva 75/442, le categorie di rifiuti che sono oggetto di direttive particolari ai sensi del n. 2 di questo articolo rimangono nel complesso soggette alla direttiva 75/442, anche se, su taluni aspetti, possono essere accolte regole particolari che derogano alle sue disposizioni e possono essere decise regole complementari al fine di giungere ad un'armonizzazione più avanzata della gestione dei rifiuti di cui trattasi. Di conseguenza, la portata delle legislazioni o delle normative di cui rispettivamente al n. 1, lettera b), e al n. 2, dell'articolo 2 della direttiva 75/442 è diversa: l'intervento delle prime sottrae interamente le categorie di rifiuti di cui trattasi, che sono determinate in anticipo, alla sfera di applicazione della direttiva 75/442, mentre l'intervento delle seconde lascia in linea di principio le categorie di rifiuti di cui trattasi soggette a questa direttiva

………

50. Una tale interpretazione non è affatto contraria alla finalità della direttiva 75/442. Nella versione iniziale di questa, la parte essenziale delle categorie di rifiuti ora previste all'articolo 2, n. 1, lettera b), erano puramente e semplicemente escluse dal suo campo di applicazione. Così era anche nelle proposte della Commissione che alla fine avevano portato alla direttiva 91/156, presentate dalla Commissione rispettivamente il 16 agosto 1988 e il 23 novembre 1989 (GU 1988, C 295, pag. 3 e 1989, C 326, pag. 6). Tenuto conto delle caratteristiche molto particolari dei rifiuti di cui trattasi, il legislatore comunitario ha potuto preferire, in occasione dell'adozione della direttiva 91/156 e in attesa dell'adozione di nuove normative comunitarie adattate alle specificità della gestione di questi rifiuti, lasciare applicare legislazioni nazionali esse stesse adattate a tali specificità piuttosto che assoggettare i rifiuti di cui trattasi all'ambito generale della direttiva 75/442. Tuttavia, al fine di evitare che, in talune situazioni, la gestione di questi rifiuti non rimanga soggetta ad alcuna legislazione, come in precedenza, esso ha accolto un dispositivo ai sensi del quale, in difetto di normativa comunitaria specifica e, in via subordinata, di legislazione nazionale specifica, si applica la direttiva 75/442.

…….

52. Occorre tuttavia precisare che, per essere considerata come "altra normativa" ai sensi dell'articolo 2, n. 1, lettera b), della direttiva 75/442, che ricomprende una categoria di rifiuti elencata da questa disposizione, una legislazione nazionale non deve semplicemente riguardare le sostanze o gli oggetti in questione, ad es., da un punto di vista industriale, ma deve contenere disposizioni precise che organizzano la loro gestione come rifiuti, ai sensi dell'articolo 1, lettera d), della detta direttiva. Altrimenti, la gestione di questi rifiuti non sarebbe organizzata né sul fondamento della direttiva 75/442 né su quello di una normativa nazionale indipendente da questa, il che sarebbe contrario tanto alla lettera dell'articolo 2, n. 1, lettera b), della detta direttiva, che richiede che la legislazione nazionale di cui trattasi "copra" i rifiuti in quanto tali, quanto alla considerazione espressa al quarto considerando della direttiva 91/156, secondo la quale, "ai fini di un'elevata protezione dell'ambiente è necessario che gli Stati membri, oltre a provvedere in modo responsabile allo smaltimento e al ricupero dei rifiuti, adottino misure intese a limitare la formazione dei rifiuti promuovendo le tecnologie "pulite" e i prodotti riciclabili e riutilizzabili, tenuto conto delle attuali e potenziali possibilità del mercato per i rifiuti ricuperati".

Questa è la dimostrazione che è possibile astrarsi dalla discussione teorica per andare sul concreto. Sul tema specifico dei rifiuti dalla sfruttamento di cave e miniere si può (anzi si deve) optare per una disciplina alternativa che, pur non rinnegando la nozione di "rifiuto", ne applichi i presupposti sostanziali senza necessariamente discendere dalle stesse disposizioni, ma costruendone altre più consone alle caratteristiche del processo che li origina.

 

 

 

home page
l'autore
mappa del sito
tutti i links

 

 

documenti
leggi e sentenze
chiarimenti
interventi

 

 

 

MA I LIMI DI DECANTAZIONE SONO RIFIUTI?