interventi
5 marzo 2003

L'argomento di cui trattiamo in apertura del mese corrente è stato suggerito dalla lettura della cronaca relativa alle indagini svolte dal Sost.Proc. dr. Felice Casson di Venezia a proposito dello "smarrimento" di una pronuncia di compatibilità ambientale negativa emessa nell'agosto 2002 dalla Commissione Via Nazionale sul progetto di "bilanciamento delle capacità produttive degli impianti Cv 22/23 e Cv 24/25" per la produzione di cloruro di vinile monomero (CVM) presentata dalla società EVC-Ineos, in quel di Marghera.

L'intervento descritto nel progetto EVC-Ineos prevederebbe in particolare: l'aumento della produzione di CVM da 250 mila a 280 mila tonnellate annue e la produzione di PVC da 200 mila a 260 mila tonnellate, alcune modifiche negli impianti riducendo la necessità di movimentazione via nave del CVM, l'adozione delle migliori tecnologie disponibili e più sicurezza.

Secondo la ricostruzione degli avvenimenti effettuata dal Ministro dell'Ambiente nel corso di una audizione presso la Commissione Bicamerale d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti, a febbraio di quest'anno, la domanda di compatibilità ambientale è stata presentata in data 23 agosto 2000 (il testo integrale dell'audizione si trova nella rubrica "documenti").

"L'esame del progetto da parte della commissione per la valutazione dell'impatto ambientale del Ministero inizia in data 11 novembre 2000. In sede istruttoria, a seguito di sopralluogo effettuato il 19 dicembre 2000 e di riunioni tecniche fra i membri del gruppo istruttore vengono richieste alla società proponente integrazioni progettuali e chiarimenti tecnici. (…) Conclusa l'istruttoria in data 4 luglio 2002, su convocazione del direttore generale competente, si è tenuta una apposita riunione del comitato di coordinamento, alla quale hanno partecipato i componenti del gruppo istruttore, le amministrazioni interessate (Ministero per i beni e le attività culturali, regione Veneto, provincia di Venezia, comune di Venezia) unitamente alla società proponente, al fine di esaminare l'istruttoria relativa ai progetti di bilanciamento produzione stabilimento CVM e PVC di Porto Marghera ed acquisire ulteriori elementi informativi sia dalla società proponente che dalla regione e dagli enti locali competenti.

Nelle riunioni plenarie della commissione VIA dell'11 luglio e del 1 agosto 2002 sono stati discussi approfonditamente alcuni degli aspetti di impatto ambientale riguardanti il funzionamento dell'impianto. A conclusione della discussione, considerato che le conseguenze ambientali derivanti dal malfunzionamento della sezione di termocombustione avrebbero provocato emissioni inquinanti in atmosfera giudicate non accettabili sotto il profilo ambientale - sanitario, viene posto in votazione un testo di deliberazione, che risulta approvato all'unanimità e che comporta un parere negativo di compatibilità ambientale del progetto.

Nelle more dell'espletamento delle successive attività amministrative, in data 7 agosto 2002 la società proponente invia al Ministero una richiesta di sospensione della procedura (...) per poter presentare in tempi più brevi un'integrazione del progetto stesso".

Dai resoconti giornalistici emerge che gli oltre 40 membri facenti parte della Commmissione Via nazionale votano all'unanimità parere negativo di compatibilità ambientale perché il "progetto Evc non adotta "le migliori tecnologie", non risolve le insufficienze delle "guardie idrauliche" e non elimina il problema degli scarichi diretti in atmosfera di cloroderivati organici dal camino di emissione denominato E 13. "Il progetto non prevede interventi adeguati dal punto di vista tecnico e impiantistico, in grado di evitare che in caso di fuori servizio od emergenze vengano scaricati nell'aria e allo stato puro grandi quantità di sostanze clorurate tossiche e cancerogene, come è già accaduto nel 1999 (al riguardo è in corso un processo in Tribunale) e nello scorso mese di maggio. In questi casi l'utilizzo del Cs 18 di Enichem è giudicato insufficiente e si tratterebbe, quindi, di costruire un secondo termocombustore capace di sostituire quello esistente in caso di incidenti o semplici "fuori servizio", in modo da evitare l'emissione diretta attraverso il camino E 13 (sprovvisto di qualsiasi sistema di abbattimento degli inquinanti) di sostanze clorurate." (Il Gazzettinonline.it)

Già peraltro dall'audizione presso la Commissione Ambiente alla Camera del 7 febbraio 2002 della dr.ssa Vittadini, dirigente del Servizio VIA del Ministero dell'Ambiente, si era appreso che qualcosa non funzionava per il verso giusto:

"L'impianto dell'EVC è stato protagonista, nel 1999, di un rilevantissimo incidente con emissione in aria di CVM, quindi di una sostanza dichiaratamente riconosciuta come cancerogena per l'uomo. Questa emissione è dovuta non tanto ad un incidente o ad un cattivo funzionamento dell'impianto, ma al fatto che quest'ultimo è realizzato in maniera tale che quando gli scarichi non vanno al termocombustore, perché esso non ha più la capacità di accogliergli tutti, sfiatano, avendo forzato la guardia idraulica, cioè quella soglia d'acqua che li tiene e li convoglia normalmente verso il termocombustore stesso: la pressione di questi sfiati in tali casi forza l'acqua e gli scarichi vengono diffusi nell'aria senza aver ricevuto alcun trattamento. Questo non può essere definito un incidente, perché si determina a causa dell'esistenza di un impianto dotato di una struttura intrinsecamente insicura."

Vediamo di che incidente si è trattato. L'incidente dell' 8 giugno 1999, come puntualizza EVC, " è stato causato dallo scatto di una valvola di sicurezza dell'impianto Cv 22/23 che ha deviato e convogliato il flusso di CVM (circa 900 kg) agli sfiati del camino E13 senza conseguenze per gli operatori e la popolazione circostante". Sempre secondo EVC, "questo dispositivo di sicurezza ha funzionato a dovere, integrando la normale funzione del termocombustore che è proprio quella di minimizzare le emissioni in atmosfera. "

Secondo invece gli accertamenti di Provincia e Arpav tre tonnellate di CVM sarebbero finite nel termocombustore Enichem e una tonnellata è stata emessa direttamente in atmosfera dal camino E 13 privo di torcia. Gli impianti venero poi messi sotto sequestro dalla Procura che rinviò a giudizio 4 dirigenti EVC. Nel luglio 1999 una commissione del ministero dell'Ambiente, dopo un'ispezione gli impianti EVC, raccomanda di "eliminare la dispersione di CVM e DCE in atmosfera".

Il 12 agosto 1999 si verifica una nuova fuoriuscita di alcuni chicli di dicloroetano sempre al Cv22 durante le operazioni di riavvio della produzione, dopo due mesi di fermata. Il 29 Aprile 2002 si presenta una nuova anomalia all'EVC con emissione in atmosfera, sempre dal camino E 13, di 550 chili di clorurati, CVM e dicloroetano (DCE).

Dalla documentazione presentata da EVC al Ministero risulta che le fermate accidentali del termocombustore e il conseguente utilizzo del camino E13 risultano essere le seguenti negli ultimi 3 anni:

· 1998: 2 episodi per una durata totale di 14 ore;
· 1999: 3 episodi per una durata totale di 38 ore;
· 2000: 1 episodio per una durata totale di 96 ore.

E' evidente che questi episodi non potevano essere sottovalutati. Trattandosi di una istruttoria del progetto di EVC-Ineos sotto il profilo ambientale i commissari VIA non potevano che tenere presente gli incidenti occorsi negli ultimi anni ed esaminare le soluzioni adottate dalla ditta stessa per evitare il ripetersi di queste emissioni accidentali nell'ambiente esterno. Il fatto è che EVC non abbia presentato soluzioni accettabili in tal senso ne ha decretato la bocciatura. La bocciatura, cioè il parere di compatibilità ambientale negativo, non ha tuttavia trovato esplicitazione in un decreto del Ministero e sul mistero del parere scomparso sta per l'appunto indagando il magistrato Felice Casson.

Quel che interessa, nell'intervento di oggi, è invece l'aspetto tecnico della vicenda. Per quale motivo i dispositivi di sicurezza degli impianti EVC non sono, oggi, adeguati in modo da evitare il ripetersi di emissioni in atmosfera di sostanze come il cloruro di vinile monomero e il dicloroetano che, peraltro, sono classificate come cancerogene?

Ancor prima che si pronunciasse negativamente la Commissione VIA vi era già stato un intervento ministeriale che aveva messo in luce le medesime carenze.

In data 23 giugno 1999 il ministro dell'Ambiente Edo Ronchi infatti firma un'ordinanza di sospensione della produzione di EVC. L'ordinanza stabilisce che gli impianti mantengano le condizioni minime indispensabili di funzionamento per evitare i rischi connessi ad un'interruzione della produzione. Le produzioni di Evc potranno riprendere solo quando l'azienda avrà ottemperato ad alcune prescrizioni:

(N.B. EVC ha ricorso al TAR contro l'ordinanza ottenendone la sospensione)

La situazione del petrolchimico a questo momento è la seguente. E' previsto che tutti gli sfiati di processo, compresi quelli di emergenza derivanti dai dispositivi di sicurezza degli apparecchi a pressione (i reattori), siano condottati al termocombustore di Enichem. Tuttavia, come è stato osservato dai tecnici accorsi nell'immediatezza dell'incidente, a causa del fuoriservizio del termocombustore, lo scarico delle valvole di sicurezza degli impianti EVC ha un'altra destinazione.

L'anomalia, oggetto di interpellanza in Parlamento, viene così descritta:

"dalla documentazione presentata risulta che EVC è autorizzata a proseguire la propria attività in condizioni normali anche nel caso in cui si fermi il termocombustore che brucia i clorurati a valle dell'impianto; in questi casi parte dei clorurati vanno al forno inceneritore del CS28, ma un'altra parte (quella derivante dalla ossoclorurazione) esce senza alcun trattamento dal camino E13 che si trova al centro del reparto ed è alto 145 metri. A seconda del carico possono uscire dai 70 ai 220 KG/ora di clorurati. L'azienda in questi casi comunica alla Provincia che si sta usando il camino E13, queste emissioni non necessitano di alcuna autorizzazione ..(Vendola) "

Di questa interpellanza è importante sottolineare l'ultima parte, vedremo il perchè: "L'azienda in questi casi comunica alla Provincia che si sta usando il camino E13, queste emissioni non necessitano di alcuna autorizzazione".

Tornando ai giorni nostri: l'istruttoria VIA è destinata a ripartire, il Ministro ha chiesto la ripresentazione del progetto assieme alla ripetizione delle procedure. Le prospettive sembrano essere positive secondo quanto dichiara il management della EVC: " Abbiamo lavorato per diminuire le probabilità di eventi che possono portare a situazioni di emergenza fino a una probabilità inferiore a uno su un milione. Nello stesso tempo le integrazioni al progetto prevedono anche di diminuire l'entità delle emissioni dai dispositivi di sicurezza, trattenendo quanto emesso da questi fino ad annullare l'emissione in atmosfera, anche attraverso l'aumento delle capacità di trattenimento del sistema di collettamento degli sfiati (….) assicurando l'annullamento di ogni possibile emissione in atmosfera di sostanze clorurate, aumentando il recupero delle stesse contenute negli off gas e mediante l'installazione di filtri a carbone attivi che consentano di assorbire completamente i clorurati".

Pare finalmente che si sia imboccata la strada giusta. Tuttavia è lecito domandarsi cosa sarebbe successo se EVC non avesse avuto necessità di aumentare la produzione e quindi di dover richiedere una pronuncia di compatibilità ambientale, come prevede l'Accordo di Programma per la Chimica.

Ciò che colpisce in questa vicenda, che ne ha quindi motivato la ricostruzione, è che il mancato rispetto dei più elementari principi di buona tecnica mostra quanto si è perso della memoria storica di un incidente come quello di Seveso.

Un'incidente che costituisce una delle più nere pagine del nostro Paese, Seveso appunto, dal nome della cittadina lombarda che ospitava l'impianto della ditta ICMESA e nel cui stabilimento si produceva una sostanza denominata triclorofenolo, utilizzato per la successiva sintesi dell'esaclorofene.

Secondo la vicenda processuale l'evento iniziatore dell'incidente accaduto il 10 luglio 1976 fu l'insufficiente controllo del sistema di raffreddamento del reattore ove si produceva il tricolorofenolo, dopo l'arresto abituale prefestivo della produzione, e l'innesco di reazioni esotermiche secondarie. Il reattore non esplose ma, poiché lo sfiato del disco di rottura dava direttamente in atmosfera e non erano installati sistemi di raccolta e distruzione dell'eventuale rilascio di sostanze pericolose, una nube di vapori si diffuse su un'ampia zona circostante. La reazione incontrollata che si innescò produsse cioè sufficiente gas da superare il limite di pressione per l'apertura del disco di rottura posto sul reattore. Tale reazione inoltre incrementò la temperatura nel reattore fino a 450-500 °C, consentendo un imprevisto aumento della sintesi di 2,3,7,8 tetraclorodibenzodiossina, prodotto da una reazione secondaria.

Le gravi ripercussioni sanitarie di quell'incidente spinsero la Comunità Europea ad adottare la prima direttiva in materia di rischi di incidenti rilevanti, la 501 del 1982, recepita con incredibile ritardo dal nostro Governo solo nel 1988, e solo a seguito di enormi pressioni da parte della società civile (compresa una trasmissione televisiva come "Di tasca nostra"), con il Decreto del Presidente della Repubblica n.175.

Ma che cosa è esattamente un disco di rottura? Per trovarne la definzione esatta dobbiamo recuperare la normativa italiana in materia di apparecchi a pressione: "dispositivo di sicurezza costituito da un disco, e relativo elemento di supporto, che si rompe ad una determinata pressione e, al contrario di una valvola di sicurezza, mantiene aperto lo scarico dopo l'intervento". Ora la funzione di un dispositivo di sicurezza come il disco di rottura è quella di proteggere un recipiente che non deve esplodere, non deve cioè subire una pressione superiore a quella che meccanicamente può essere retta. Per questo motivo il disco di rottura è tarato ad una determinata pressione-soglia. La pressione interna al reattore sul quale è stato montato il disco può aumentare a causa di una reazione anomala che produce un eccesso di vapori o di liquidi pericolosi. Quando si rompe la membrana che costituisce la resistenza del disco alla pressione si ha una fuoriuscita istantanea di sostanze sottoforma di gas, se non la stessa massa di reazione.

Per evitare che la fuoriuscita di sostanze possa provocare danni alle persone è un principio consolidato di tecnica ingegneristica che, a valle del disco, lo scarico di emergenza sia deviato in un serbatoio di polmonazione. Al "blow-down", che è il temine con il quale si usa indicare tale sistema di contenimento, è abbinata una ulteriore trappola con la funzione di catturare i gas residui.

Quando i gas emessi sono combustibili, come nelle raffinerie, il metodo di elezione è costituito dalla cosiddetta "torcia" o "fiaccola", un dispositivo costituito da un bruciatore-pilota che provoca l'accensione di una fiamma al passaggio di dette sostanze provocandone la distruzione prima che finiscano in atmosfera. Quando le sostanze emesse sono invece di natura diversa ed, in particolare, se il sistema a torcia non è indicato poiché le basse temperature raggiunte potrebbero generare composti pù pericolosi dei primi, allora si usano soluzioni alternative, come per esempio termocombustori o filtri a carboni attivi. Come ben si comprende si tratta di opere per la cui progettazione è necessaria una cultura di tipo ingegneristico, non possono essere improvvisate, si tratta di valutare bene sia i rischi che i benefici delle diverse alternative.

Nel caso dell'Icmesa fu per l'appunto la mancanza di un sistema di contenimento ed abbattimento ad aver permesso la libera fuoriuscita della diossina.

Riferendosi alla vicenda processuale, che si concluse con la condanna dei responsabili legali, si viene così a scoprire che la mancanza di un convogliamento a valle del disco di rottura, apertosi in seguito alla forte pressione esercitata dai gas di reazione internamente all'impianto, e di un sistema di abbattimento delle emissioni pericolose sfuggite in attmosfera, costituiva violazione dell'art.361 del TITOLO VIII - Materie e prodotti pericolosi o nocivi, del DPR 27/04/55 n.547 "Norme per la prevenzione degli infortuni":

Art. 361. VALVOLE DI ESPLOSIONE NEI LOCALI PERICOLOSI.

Nei locali di cui all'articolo precedente devono essere predisposte nelle pareti o nei solai adeguate valvole di esplosione atte a limitare gli effetti esplosivi.Dette valvole possono essere anche costituite da normali finestre o da intelaiature a vetri cieche fissate a cerniera ed apribili verso l'esterno sotto l'azione di una limitata pressione.

In ogni caso le valvole di esplosione devono essere disposte in modo che il loro eventuale funzionamento non possa arrecare danno alle persone.

L'ultimo comma dell'art.361 venne cioè interpretato in senso estensivo riconducendo al temine "persone" non tanto o non solo i lavoratori presenti all'interno dell'azienda, ma anche tutti quei soggetti che, anche se ubicati esternamente alla stessa, potevano ricevere un danno dalla mancata previsione di un sistema atto a rimuovere questo pericolo.

Peraltro lo stesso concetto si ritrova nella normativa dedicata ai rischi derivanti dall'uso di apparecchi a pressione la cui legge quadro è ancor oggi rappresentata dal Regio Decreto n° 824 del 12/05/1927 " Approvazione del regolamento per la esecuzione del R.D.L. 9 luglio 1926, numero 1331, che costituisce l'Associazione nazionale per il controllo della combustione" (ANCC), ed in particolare in un suo regolamento attuativo, il DM 21/5/74, dove nel Capo IV si tratta esattamente delle "disposizioni sugli accessori di sicurezza e controllo dei recipienti fissi contenenti gas compressi, liquefatti o disciolti o vapori diversi dal vapore di acqua".

Art. 22. I condotti di collegamento e ingresso ai dispositivi di sicurezza nonché gli eventuali condotti di scarico devono essere dimensionati e realizzati in modo da non limitare la funzionalità dei detti dispositivi di sicurezza. Lo scarico dei dispositivi di sicurezza deve avvenire in modo tale da evitare danni alle persone

Se tuttavia, per un momento, si esce dall'aula del tribunale, ci si estrania dagli avvenimenti occorsi, si riprende la lettura degli stessi articoli dovendo semplicemente applicarne il dettato letterale, si potrebbe concludere che l'obbligo può essere assolto, per es., deviando il dispositivo di sicurezza oltre il colmo del tetto.

In effetti rileggendo gli atti processuali le giustificazioni poste a difesa degli imputati circa la mancanza del blow-down rimandavano al fatto di non conoscere l'esistenza di impianti equivalenti, ai seri dubbi sulla possibilità di costruire un impianto efficace per l'eliminazione dei rischi e che non ne creasse altri, e alla insussistenza di prescrizioni ad hoc ad essi impartita dagli organi competenti.

Come venne dimostrato nel corso del processo già allora si potevano citare esempi di realizzazioni ad hoc in impianti similari proprio per ridurre le conseguenze di incidenti (stabilimenti Dow Chemical e Coalite Chemical).

Ma è sull'ultimo punto che è indispensabile soffermarsi. Gli organi di controllo nel nostro paese di allora erano rappresentati dall'ANCC per le competenze in materia di apparecchi a pressione e dall'Ispettorato del Lavoro per l'applicazione delle norme quadro per la prevenzione degli infortuni. A seguito dell'entrata in vigore della legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale tali competenze sono poi passate da una parte all'ISPESL/PMP e dall'altra ai SPISAL delle USL. I PMP sono poi transitati alle ARPA con la legge istitutiva del '94 anche se, nella maggiorparte dei casi, le competenze sulla verifica delle apparecchiature a pressione è rimasta alle Unità Operative Impiantistiche e Antinfortunistiche (UOIA) che si sono mantenute alle USL. Fanno eccezione, per es, Arpa Veneto e Arpa Piemonte che hanno così ottenuto il trasferimento, assieme alle competenze sugli apparecchi a pressione, anche di pochi, ma preziosi, laureati in ingegneria.

Ritornando agli atti del processo emerge in effetti che, nonostante le verifiche effettuate sia dell'ANCC che dell'Ispettorato del Lavoro, mai fosse stata impartita una prescrizione simile a quelle che saranno poi le conclusioni del Tribunale. Evidentemente il dato letterale dei due articoli sopracitati non portava il personale ispettivo a prescrivere il sistema di raccolta e distruzione dei fluidi pericolosi che potevano fuoriuscire dai dispositivi di sicurezza del reattore. A dire la verità erano stati i tecnici dell'Icmesa a ritenere non applicabile la normativa dettata dal Regio Decreto n° 824 , avendo dichiarato all'ANCC che l'impianto funzionava a pressione atmosferica. Pertanto l'ANCC si era limitata a controllare il solo circuito del vapore che interessava il serpentino dell'impianto, senza sottoporre ad alcun collaudo d'esercizio il corpo interno del reattore. Anche l'Ispettorato del Lavoro aveva effettuato accertamenti nel corso del 1971 e del 1973, ma "sapendo che il reattore era sottoposto al controllo dell'ANCC aveva dato per scontata l'osservanza delle misure di sicurezza". La ricostruzione dei fatti vuole che l'Ispettorato abbia finalmente impartito la prescrizione citata all'Icmesa solo il 20 luglio 1976… ad incidente ormai avvenuto.

La conclusione che si trae dalla vicenda processuale è che, nel campo delle verifiche impiantistiche, il cui obiettivo principale è evitare che "l'apparecchiatura a pressione non scoppi", non si era mai chiesto agli organi di controllo di andare oltre il proprio mandato, richiedendo quell'attenzione alle conseguenze esterne di un eventuale incidente che diverrà il principio guida della legislazione in materia di rischi rilevanti. Si deve citare a questo proposito il tentativo dell'allora Ministro Tina Anselmi di voler recuperare lo sfilacciamento istituzionale evidenziatosi a seguito dell'incidente, tentativo che si esplicitò nella Circolare n.86 del 15/11/78 (si veda nella rubrica "documenti"), ma senza troppo successo. La soluzione, in verità insufficiente, fu trovata nel prevedere che l'ispettore ANCC segnalasse all'Ispettorato del Lavoro eventuali infrazioni di altre norme antinfortunistiche, diverse da quelle sottoposte alla sua vigilanza e si coordinasse in ogni caso con le Autorità Locali.

Quello che invece si doveva fare, e non si è fatto, era una modifica legislativa immediata della normativa antinfortunistica tale che, nero su bianco, non fosse più possibile scaricare liberamente in atmosfera i gas pericolosi fuoriusciti dai dispositivi di sicurezza. Purtroppo, mentre sotto il profilo dei principi di buona tecnica un intervento di questo genere è entrato ormai nel consolidato della cultura ingegneristica, non si ritrova a tutt'oggi un equivalente analogo nella legislazione italiana, sia che riguardi la protezione contro gli infortuni che la sicurezza ambientale. Per cui, se si volesse contestare l'assenza di contromisure sul piano dei rilasci accidentali dai dispositivi di sicurezza, si dovrebbe ancora fare riferimento agli articoli di 30-50 anni fa, sempre che sia rimasta la memoria storica di un incidente come quello di Seveso.

Peraltro, tenendo conto della lettera del testo e del fatto che nemmeno le ordinanze ministeriali resistono ad un ricorso al TAR, si può immaginare con quale tentennamento un ispettore possa impartire una prescrizione, oggettivamente onerosa, di tale genere. Vi è inoltre un problema generale, che le prescrizioni in materia antinfortunistica sono di esclusiva competenza delle USL e che tale potere ordinatorio non è estensibile agli organismi di controllo nella materia ambientale (che peraltro ne sono privi anche nell'ambito delle proprie competenze).

Così, mentre per quello che riguarda la vicenda EVC, si andrà, si spera, verso una risoluzione dei problemi, come riferito dal management, altrettanto non è lecito sostenere per tutti quegli impianti a pressione nei quali vengono lavorate sostanze pericolose e che non sono ancora stati oggetto di una attenzione istituzionale dedicata, cioè memore degli errori del passato, e sollecitata da criticità evidenti come quelle occorse ad EVC.

Si possono già ad immaginare le obiezioni a quanto detto. Non è vero che non vi siano altre norme che impongano l'installazione di sistemi di abbattimenti dei rilasci accidentali. C'è la legislazione in materia di emissioni in atmosfera, il DPR 24 maggio 1988 n.203, ed anche la normativa in materia di rischi di incidenti rilevanti, il DPR 175/88, emanato il 17 maggio dello stesso anno. Vediamo di descrivere come si tratti in realtà di occasioni mancate.

Andando a sintesi per quanto riguarda la legislazione sull'inquinamento atmosferico le emissioni degli impianti industriali sono state per la prima volta sottoposte a controllo con il DPR 322/71, regolamento attuativo della prima legge antismog, la L.615/66. L'efficacia di tale dispositivo venne molto ridotta sia dalla scelta infelice di ricomprendere nel campo di applicazione della norma quegli impianti ubicati solo in alcune zone del paese (le zone A), sia dal prevedere che il controllo avvenisse alle immissioni, cioè fosse richiesto di rilevare gli inquinanti aeriformi all'esterno dei confini di proprietà industriale, con tutto quel che ne consegue in merito alla difficoltà di dimostrarne la provenienza. La seconda fase, più efficace, almeno a livello di principi, avviene con il recepimento delle direttive CEE numeri 80/779, 82/884, 84/360 e 85/203, attraverso il citato DPR 203/88. Qui il controllo è previsto si faccia sul camino, sull'emissione, e la regolamentazione è estesa a tutto il paese. Per definire le norme alle quali attenersi in termini di limitazione degli inquinanti emessi bisogna attendere le linee guida del luglio 1990. Ebbene in nessuna parte di queste linee guida si tratta dei rilasci accidentali e dei modi di contenerne gli effetti sulla qualità dell'aria. Anzi, riprendendo un atto di indirizzo uscito l'anno precedente, il DPCM 21/07/89, non si può che rimanere "scioccati" dalla decisione del legislatore di escludere dall'ambito di applicazione del decreto, e cioè dalla procedura autorizzatoria di cui agli articoli 7, 12 e 17, gli impianti di emergenza e di sicurezza. Solo con successivo DPR 25 luglio 1991 si riparerà al clamoroso errore prevedendo che tale disposizione non sia applicabile per gli impianti di emergenza e di sicurezza riguardanti "le sostanze ritenute cancerogene e/o teratogene e/o mutagene e le sostanze di tossicità e cumulabilità particolarmente elevate, come individuate dai provvedimenti emanati ai sensi dell'art. 3, comma 2, del D.P.R. 24 maggio 1988, n. 203".

La riparazione in realtà è, come detto, solo di principio in quanto nessuna norma tecnica ne ha poi disciplinato l'autorizzazione. Quello che avviene a tutt'oggi? Ne abbiamo visto sopra un esempio: "l'azienda in questi casi comunica alla Provincia che si sta usando il camino E13, queste emissioni non necessitano di alcuna autorizzazione"

In effetti è proprio così poiché sempre con lo stesso DPR del '91, nel quale si intende anche individuare le attività le cui emissioni potevano essere considerate poco significative ai fini dell'inquinamento atmosferico, mentre si reintroducevano da una parte gli obblighi a carico degli impianti di emergenza e di sicurezza, dall'altro se ne vanificava lo scopo in quanto si stabiliva al punto 23 dell'allegato 1 che "sfiati e ricambi d'aria esclusivamente adibiti alla protezione e sicurezza degli ambienti di lavoro" non richiedono alcuna autorizzazione all'esercizio. Gli insegnamenti che si dovevano trarre dall'incidente di Seveso e mettere seriamente a frutto sono così rimasti nel cassetto. C'è di che riflettere.

Una seconda chance si è presentata in effetti con la messa a regime dell'altro decreto, il DPR 17 maggio 1988 n.175, concernente rischi rilevanti connessi a determinate attività industriali. Anche qui, senza entrare troppo nel dettaglio, basti dire che il campo di applicazione è stato definito con il combinato disposto tra una delle lavorazioni indicate in allegato I e la detenzione di una o più sostanze dell'Allegato III o IV nelle quantità previste. Si può immaginare come i rilevanti quantitativi in gioco abbiamo prodotto una importante, e corretta, selezione tra grandi e piccole realtà industriali, cosicchè se vi era una occasione perché uno o più soggetti istituzionali potessero rimettere in discussione i sistemi di contenimento a valle dei dispositivi di sicurezza degli impianti studiati, questa non è mai stata sfruttata per le imprese che lavoravano quantità di sostanze pericolose inferiori alla soglia.

Ma la cosa grave è che il medesimo non risultato si è avuto anche nella stragrande maggioranza degli stabilimenti ad alto rischio, come ci riferisce il Sindacato a Marghera: "l'incidente non c'entra niente, in realtà tra EVC e Ministero dell'Ambiente c'è una partita aperta da tempo. Un braccio di ferro che riguarda il piano di sicurezza dello stabilimento. Presentato nel '96, ma mai approvato dagli enti interessati. Come del resto tutti i piani di sicurezza presentati dalle industrie petrolchimiche italiane. Piani che debbono essere aggiornati ogni tre anni, ma che nessuno si assume mai la responsabilità di approvare".

Se si eccettuano le solite regioni virtuose come Toscana ed Emilia-Romagna, che peraltro trattavano impianti soggetti a dichiarazione, meno pericolosi dei primi, in generale nel nostro paese le istruttorie concluse con una approvazione, in particolare quelle a più alto rischio presso i Ministeri interessati (Ambiente, Industria, Interno) secondo la disciplina dettata dal DPR 175/88, risultano essere un numero effettivamente esiguo. Se le istruttorie non si concludono evidentemente è perché non c'è certezza sulle garanzie fornite dai rapporti di sicurezza presentati dalle industrie. Esiste la possibilità che questo "silenzio" serbato dalle Autorità sui processi amministrativi loro affidati dalla legge finisca poi per trasformarsi in un irrecuperabile "assenso" (il quale silenzio-assenso, come abbiamo ripetutamente sostenuto, non rappresenta altro che un segnale di fuga dalle responsabilità da parte di chi deve invece prendere delle decisioni, anche impopolari, ed è stato messo lì per questo)

A proposito dei 430 siti soggetti a notifica nel nostro paese (al 1996) la Comunità Europea, in un suo resoconto sull'applicazione negli Stati membri della direttiva 82/501/CEE del Consiglio, conclude per l'Italia che: "non sono disponibili dati sul numero di rapporti di sicurezza esaminati dalle autorità competenti e giudicati accettabili per un adeguato seguito amministrativo in conformità degli obblighi di cui all'articolo 7 della direttiva". (Relazione 2002/C 28/01).

Peraltro i siti censiti, a seguiti dei nuovi criteri definiti nel D.Lvo 334/99 (Seveso bis), sono scesi nel 2000 a 313, il che, forse, ne permetterà un più rapido (ri)esame.

In conclusione quello che si voleva far emergere dall'analisi condotta è che rimane ancora una vasta zona d'ombra nel campo dei rilasci accidentali da dispositivi di sicurezza installati su apparecchi in pressione. Si vorrebbe essere più ottimisti, ma dalle cronache che si raccolgono a proposito di incidenti che avvengono ancora oggi nell'industria, pare proprio che non si voglia raccogliere l'eredità scomoda della vicenda di Seveso, in modo che serva almeno da insegnamento.

Quello che si dovrebbe invece subito garantire è, da una parte, un serio intervento legislativo per risolvere le incertezze del dettato normativo e, dall'altra, la pianificazione di un programma di controlli mirati su tutti gli impianti in pressione all'interno dei quali si fanno reagire sostanze pericolose, in specie quelli che non sono mai stati assoggettati alla disciplina in materia di rischi rilevanti, demandandone l'effettuazione ai presidi regionali dell'ISPESL o delle Unità Operative Impiantistiche Antinfortunistiche delle USL (o alle Arpa, laddove avvenuto il trasferimento) che, oltre a detenerne le competenze, sono in possesso dell'anagrafica più aggionata riguardo agli apparecchi denunciati.

BIBLIOGRAFIA CONSULTATA
· Il caso Seveso - Aspetti impiantistici, normativi e processuali. G.Mulè. Fogli di informazione ISPESL Anno VI n.1/93;
· Metodi di indagine per l'individuazione di reazioni chimiche potenzialmente pericolose e delle misure impiantistiche associate. P.F.Ariano, A.Robotto, C.Zonato, C.Dibitonto. Sito web Rischio Tecnologico, Arpa Piemonte;
· Rischi potenziali, sicurezza e protezione ambientale nell'industria chimica. Italo Pasquon. Edizioni CLUP. Prima edizione 1989. Ristampa 1993.

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