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10 novembre 2003

Non è affatto semplice discutere della corretta gestione dei rifiuti da demolizione a causa di una molteplicità di sentenze sull'argomento dagli effetti spesso contradditori. La prima osservazione da fare riguardo alla questione è che se esiste questa prolificità di giudizi è perché il fenomeno dell'abbandono dei rifiuti edili non è ancora stato ridimensionato e quindi i motivi per portare nelle aule dei tribunali queste violazioni ci sono tutti. D'altra parte è tuttavia importante rilevare come, dalla descrizione dei fatti riletti nelle premesse di ogni sentenza, i riscontri degli organi di controllo non riguardino solo ed esclusivamente la fattispecie citata, ma si estendono anche a considerare altri tipi di infrazione legati alle modalità del deposito temporaneo, del recupero nello stesso luogo di produzione, del riutilizzo fuorisito, del trasporto senza formulario ecc. In pratica il settore delle demolizione è diventato una sorta di laboratorio ove si sperimenta l'applicazione del Decreto Ronchi in tutte le sue sfaccettature compreso l'aspetto più insidioso e foriero di infinite controversie come la definizione di rifiuto. Ora, che si arrivi ad alcune conclusioni condivise sull'applicabilità del complesso articolato normativo non può che avere una sua utilità, tuttavia, come vedremo più avanti, se il massimario in materia di rifiuti si fonda sull'analisi delle problematiche del solo settore edilizio c'è il rischio che tutta la discussione sia travisata dalle particolari connotazioni di questa attività.

Una seconda ossevazione ci si permette di avanzare. Consideriamo quante siano le imprese che lavorano in edilizia e quanti rifiuti di demolizione producano (il che avviene normalmente per piccoli volumi, più raramente per grandi). Tenuto conto dell'elevato numero di cantieri aperti in qualsiasi realtà locale, proprio per la visibilità di questo fenomeno e per il facile approccio che richiede, non si vorrebbe che questo diventi il settore di elezione per una dimostrazione della capacità repressiva dei corpi di polizia ambientale, mentre altri contesti molto più impattanti, ma "meno avvicinabili", sono liberi di produrre danni indisturbatamente.

Ciò detto esaminiamo il profilo produttivo del rifiuto di demolizione. E'chiaro che questo si forma nel momento in cui un manufatto od una sua parte viene sottoposto ad una trasformazione, quindi non necessariamente abbiamo rifiuti solo dalla fase della demolizione, ma questi possono in parte originarsi anche dalle varie fasi della costruzione. Per chi intende applicare la norma la domanda fondamentale, alla quale spesso si cerca da fornire una risposta inequivoca, riguarda l'individuazione del produttore o detentore del rifiuto. Le due definzioni non sono equivalenti, il detentore è il soggetto responsabile del rifiuto per un certo periodo, anche se non ha contribuito a produrlo. Tuttavia la commistione dei ruoli che si presenta all'osservatore richiede di sviscerare anche questa posizione.

Il parere di chi scrive è che l'impresa edile incaricata di demolire/costruire svolga chiaramente una "prestazione servizi" con la particolare caratteristica di essere svolta nel domicilio del committente. L'art. 6, c. 1, lett. b) del DLgs 22/97, che ricalca l'art. 1 della direttiva 91/156/CE, definisce: "b) produttore: la persona la cui attività ha prodotto rifiuti e la persona che ha effettuato operazioni di pretrattamento o di miscuglio o altre operazioni che hanno mutato la natura o la composizione dei rifiuti. E' evidente che i rottami, i calcinacci, le piastrelle rotte, che costituiscono i rifiuti di questa particolare categoria di prestatori d'opera, possono essere prodotti solo presso il committente. Questa singolarità può risultare confondente, non solo per la coincidenza geografica dei due soggetti, ma anche per le prassi in uso che spesso rimandano una qualsiasi decisione circa la destinazione finale dei rifiuti solo al completamento dell'opera. Salvo casi nei quali la ridotta disponibilità di spazio non richieda di liberarsi in anticipo sui tempi delle macerie accumulate è infatti spesso l'ultimo periodo quello in cui si prende in considerazione la necessità di fare pulizia nell'area cortiliva della costruenda abitazione. A questo punto scattano i problemi che, come è ovvio, riguardano il "chi paga" i costi del trasporto e dello smaltimento.

Succede spesso che sul cantiere si siano avute successioni di imprese (c'è chi fa il grezzo e chi le finiture), ognuno delle quali ha dato il proprio contributo alla produzione di macerie o altre tipologie di rifiuti assimilabili agli urbani. Distinguere a chi tocca diventa a sua volta un'"impresa". In effetti la figura giuridica che si riscontra più spesso verso il termine dei lavori è quella del "detentore di rifiuti" il quale ha acquisito la direzione del cantiere con tutti gli annessi e i connessi. Nella contrattazione con chi è richiesto di effettuare lo smaltimento degli inerti non deve sorprendere che si rischi ogni volta il litigio.

Dalle conclusioni di questa contrattazione discendono le sorti dell'ambiente circostante. Nelle migliori delle ipotesi l'appaltatore iniziale si incarica del trasporto dei rifiuti verso il più vicino impianto di recupero inerti sia questo un impianto fisso che un impianto mobile. Nelle altre il rifiuto viene scaricato dove capita, oppure si crea una necessità come quella del riempimento di un'area depressa. A volte l'area depressa consiste in un vero e proprio invaso realizzato ad arte e successivamente riempito.

Che le violazioni in materia di rifiuti da demolizione siano numerose dipende anche dalla particolare arretratezza culturale dei soggetti societari che svolgono questa attività, quelli a minore spessore imprenditoriale. Non è un caso che in questo comparto si assista anche ad un elevatissimo tasso di inottemperanza alle norme sulla tutela dei lavoratori, alle evasione in materia di contributi, al lavoro nero, alla presenza di clandestini. Non è un caso che proprio in questo settore si sia formato un crogiolo di microimprese, costituite da un unico lavoratore, registrato come artigiano. Così come non è un caso che sia in questo stesso ambito che si produce il fenomeno dell'abusivismo edilizio, o nelle cui fila si insinuano le mire della malavita. Quando si discute di come ridimensionare gli effetti ambientali più problematici conseguenti ai consumi, tra i quali per l'appunto quelli dei rifiuti, uno degli elementi su cui tutti concordano nel fare leva è l'educazione, la sensibilizzazione dei cittadini e delle imprese. Ebbene il settore edilizio è una delle sfide più difficili da questo punto di vista, sia per i motivi detti, che per l'estrema polverizzazione delle attività.

Peraltro è complicato per la pubblica amministrazione affrontare l'abbandono di inerti in quanto rischia di introdurre distorsioni nell'affermazione del libero mercato. Trattandosi in effetti di rifiuto industriale non può rientrare nella pianficazione pubblica, ma deve necessariamente trovare uno sbocco autonomo. In questi anni si è quindi assistito alla promozione di incentivi per il recupero industriale degli inerti. E' così che è nata la tecnologia R.O.S.E. (Recupero Omogeneizzato Scarti Edilizi), sulla quale sono state effettuate numerose ricerche sia sotto il profilo della tecnologia di trattamento, che di quella dell'utilizzo dei materiali riciclati.

Per "stimolare" il mercato ad abbandonare la prassi dello smaltimento in discarica di categoria 2 A, se non quello della discarica abusiva, il legislatore ha quindi stabilito delle procedure semplificate in materia.

I rifiuti da demolizione, per essere riutilizzati, devono essere trattati in appositi impianti di frantumazione, selezione e classificazione. La possibilità di ottenere materie prime seconde da questi rifiuti è, infatti, prevista dal D.M. 5 febbraio 1998, che al punto 7.1.3 dell’allegato 1- suballegato 1- per quanto riguarda le attività di recupero prevede: "….fasi meccaniche e tecnologicamente interconnesse di macinazione, vagliatura, selezione granulometrica e separazione della frazione metallica e delle frazioni indesiderate per l'ottenimento di frazioni inerti di natura lapidea a granulometria idonea e selezionata….".

Non per questo si assiste ad un calo all'apertura di nuove discariche controllate per rifiuti inerti. Tuttavia l’attività di smaltimento nelle discariche di seconda categoria non si pone come un ostacolo all’attività di riciclaggio in regioni, dove l’introduzione dell’eco tassa (tributo istituito con la L. 549/95, che per i rifiuti inerti derivanti dal settore edilizio è fissato con Legge Regionale in misura non inferiore a 2 LIt e non superiore alle 20 LIt/kg.) e l’"effettiva riscossione" del tributo ha sensibilmente incrementato il costo complessivo del conferimento in discarica, consentendo agli impianti di riciclaggio di conseguire un vantaggio assoluto di costo nei confronti delle discariche [Bressi e Zummo, 1998]. Ancora una volta però è necessario distinguere tra le diverse realtà del nostro Paese, perché ci sono Regioni come l’Emilia Romagna dove il tributo è stato applicato nella misura massima proprio sullo smaltimento dei rifiuti inerti, regioni come il Friuli Venezia Giulia dove la sovrattassa è stata fissata nella misura minore e ancora altre zone in cui l’incremento della tariffa di smaltimento in discarica non ha fatto che favorire il fenomeno già diffuso dell’abusivismo.

Agli impianti fissi che utilizzano tecnologia R.O.S.E si sono aggiunti ben presto gli impianti mobili, anche se questi non sono sempre in grado di eliminare efficacemente materiali come carta, plastica e legno, che possono costituire un problema per la qualità dell’aggregato riciclato (Galgano, 1998). La necessità di contenere l’entità dei macchinari da trasportare ha infatti impedito di dotare questi impianti di efficaci sistemi di selezione, per cui essi consentono soltanto il recupero grossolano di metallo e la riduzione volumetrica delle macerie, ottenendo di fatto un prodotto non molto diverso da quello originario (Galgano, 1998), a meno che il materiale non venga sottoposto a separazione prima del trattamento.

In Italia al momento attuale esistono, presumibilmente, 50/70 impianti mobili di frantumazione e una trentina di impianti fissi, anche se un vero e proprio censimento non risulta essere mai stato effettuato.

Peraltro gli impianti mobili innescano un processo virtuoso che è quelle del "recupero delocalizzato". La loro temporanea dimora in cantieri di grandi dimensioni favorisce infatti un afflusso di conferimenti non preventivato dai cantieri minori i cui appaltatori si sentono motivati dall'abbattimento dei costi del trasporto, altrimenti significativi. E' altrettanto vero, tuttavia, che queste condizioni favorenti sono spesso frustrate per un malinteso senso della protezione ambientale a causa dell'elevato numero di infrazioni che si possono contestare ai conferitori esterni, privi di formulario per il trasporto. Cosa che, peraltro, avviene anche in prossimità degli impianti fissi. Naturalmente, in un'ottica di bilancio costi-benefici delle attività di prevenzione degli illeciti, tale forma di repressione finisce per ottenere l'esatto contrario di quello che si vorrebbe come risultato. Per questi motivi molte amministrazioni provinciali si sono mosse per la predisposizioni di accordi di programma in grado di favorire in ogni modo possibile il conferimento degli inerti aglli impianti di recupero agendo anche sulla riduzione degli oneri burocratici. Il che naturalmente non ha mancato di sollevare polemiche.

In questo difficile scenario si innestano le diverse sentenze di primo, secondo e terzo grado sulle cui conclusioni si formano nuovi convincimenti e nuove contestazioni, ribaltando approcci ritenuti troppo "liberali", e ottenendo così da alimentare la già alta confusione di ruoli e di responsabilità che esiste in materia. Uno dei filoni più aggressivi sotto questo punto di vista è quello, come detto in apertura, dell'esatta individuazione della figura di "produttore" di rifiuti inerti da demolizione. Ha iniziato la:

Corte di Cassazione con Cass. Sez. III,

sent. n. 4957 del 21 aprile 2000, Rigotti e altri, rv. 215943

Il proprietario dell’immobile committente o l’intestatario della concessione edilizia con la quale si consente l’edificazione di un nuovo edificio, previa demolizione di altro preesistente, devono essere considerati produttori dei rifiuti derivanti dall’abbattimento del precedente fabbricato: pertanto, si considera produttore, in relazione a quanto previsto al primo comma lettera b) dell’articolo 6 del D.L.vo n. 22/1997 chi, persona fisica o giuridica, con la sua attività, materiale o giuridica, abbia prodotto i rifiuti. Il proprietario di un immobile non cessa di averne la materiale disponibilità per averne pattuiti in appalto la ristrutturazione o la ricostruzione, giacché incombe sempre, in capo allo stesso, un obbligo di vigilanza e controllo in virtù della responsabilità propria del custode ex articolo 2051 c.c. Pertanto, a norma dell’art. 10 del D.L.vo n. 22 del 5 febbraio 1997, la posizione di garanzia e l’obbligo di attivarsi per impedire l’evento, nonché gli adempimenti necessari per andare esenti da responsabilità discendono da tale dettato normativo, specifico della disciplina dei rifiuti. Il produttore e detentore di rifiuti sono i soggetti penalmente responsabili dello smaltimento dei rifiuti. Pertanto, non è ammissibile il trasferimento, per via contrattuale, della propria posizione di garanzia ad altro soggetto egualmente obbligato per la stessa tutela. Il direttore dei lavori, in tema di smaltimento dei rifiuti, non assume posizioni di garanzia né ha doveri di controllo, giacché altri sono i suoi compiti

Su questa scia se ne sono formate altre, tuttavia è indispensabile sentire anche le opinioni dissenzienti.

Corte di Cassazione Penale
Sez. III, 21 aprile 2003, n. 15165 (ud. 28 gennaio 2003).
Pres. Toriello – Est. Onorato – P.M. Danesi (diff.) – Ric. Capecchi.

Invero, il committente di lavori edilizi e/o urbanistici, come quelli per la costruzione del piazzale che il (omissis) ha affidato alla ditta (omissis) , è corresponsabile assieme all’assuntore dei lavori per la violazione delle norme urbanistiche, ai sensi dell’art. 6 legge 47/1985: come tale ha un obbligo di vigilanza ovvero una posizione di garanzia ai sensi dell’art. 40 cpv. cod. pen., sicché può essere ritenuto corresponsabile, per esempio, di lavori edilizi commessi dall’assuntore in difformità dalla concessione, in quanto non ha impedito, dolosamente o colposamente, un evento che aveva l’obbligo di impedire.

Diversa è invece l’ipotesi di violazioni della normativa sui rifiuti, eventualmente commesse dalla ditta assuntrice dei lavori edili. A questo riguardo non è ravvisabile alcuna fonte giuridica (legge, atto amministrativo o contratto) che fondi un dovere del committente di garantire l’esatta osservanza della anzidetta normativa da parte dell’assuntore dei lavori. (In questo senso non sembra condivisibile l’applicazione che dell’art. 40 cpv. c.p. ha fatto Cass. Sez. III, sent. n. 4957 del 21 gennaio 2000, Rigotti e altri, rv. 215943).

Se la versione più sostenuta è la prima le ricadute in termini di ottemperanza alle disposizioni del Ronchi appaiono in tutta la loro contradditorietà. Occorrerebbe infatti che il proprietario dell'immobile compili i formulari di trasporto richiedendo la prestazione di impresa iscritta all'Albo. E tutto per un'attività una tantum poiché risulta difficile pensare che questo proprietario demolisca più di un immobile che non sia il primo. Avremmo così una moltitudine di rifiuti edili di demolizione prodotti da singoli cittadini e nessuno da imprese. Il che dimostra l'insensatezza di questa strada.

Un'ultima recentissima sentenza della Cassazione introduce una nuova variabile, quello del riutilizzo in loco, in grado di produrre più danni che utili. Con il sostegno dell'interpretazione autentica di rifiuto e sfruttando l'analogia a proposito delle terre e rocce di scavo che sono state escluse dal campo di applicazione del D.Lvo 22/97 in virtù di una loro contaminazione inferiore a quella stabilita per le zone industriali dal DM 471/99 (che, come è noto, è frutto dei comma 17 e 18 dell'art.1 della c.d. Legge Lunardi, L.443/2001) la Suprema Corte ha ritenuto di assolvere il Consorzio Intercomunale per il Disinquinamento Ambientale della provincia di Macerata dal reato di gestione di rifiuti non autorizzata in quanto gli inerti prodottisi dalla demolizione di un muro e subito riutilizzati quali sottofondo di un piazzale dello stesso consorzio non potevano rientrare nella definizione di rifiuto essendo stati reimpiegati nello stesso luogo senza ulteriore trattamento. Inoltre la relativa pulizia dei detriti, privi di cemento-amianto, gomme di veicoli (?) e altre sostanze estranee, non ponevano problemi di compatibilità ambientale.

Ora è evidente che una vicenda del genere ha una significatività dal punto di vista ambientale uguale a zero e quindi bene ha fatto la Corte ad assolvere tenendo conto che nessun danno era stato prodotto con questo riutilizzo in loco. Tuttavia in queste conclusioni sono evidenti alcune distorsioni.

Per es. ragionando a contrario si tratterebbe di reato se il riutilizzo riguardasse detriti misti a sostanze estranee? Non è forse questo di cui si preoccupa il legislatore, di conoscere prima la composizione dei rifiuti per valutare la loro conformità al riutilizzo? E' proprio con il controllo preventivo delle attività di gestione rifiuti che si vorrebbe evitare forme di recupero o di smaltimento in grado di produrre danni all'ambiente. In questo modo, posponendo il giudizio di compatibilità ambientale a cose concluse, si corre il rischio di promuovere un pericoloso "fai da te". E di questi comportamenti quali conoscenze potremo avere se non ci sarà obbligo né di autorizzazione né di comunicazione?

Altra conseguenza è sulla recuperabilità degli inerti: se ognuno se li smaltisce in casa, allora cosa ci stanno a fare gli impianti industriali di riciclo? Non si comprende come da una parte sia necessario che il recupero avvenga attraverso "….fasi meccaniche e tecnologicamente interconnesse di macinazione, vagliatura, selezione granulometrica e separazione della frazione metallica e delle frazioni indesiderate per l'ottenimento di frazioni inerti di natura lapidea a granulometria idonea e selezionata….", mentre dall'altra il detrito può essere reimpiegato così come si trova, anche in pezzature inidonee, basta che non esca dai confini di proprietà.

Vedremo come si evolverà questa nuova linea di pensiero.

Corte di Cassazione – Sezione Terza Penale

Sentenza 25 giugno – 2 ottobre 2003 n. 37508

(Presidente Toriello, Relatore Postiglione; Pm - difforme – Iacoviello; Ricorrente Papa

Nel caso che interessa il presente giudizio i detriti erano conseguenza di un processo di produzione (comprendente la demolizione di un muro ed il reimpiego integrale sul posto), senza trasformazione preliminare, con riutilizzo certo in attività compatibile (materiale di riporto per sottofondo di un piazzale antistante). Il materiale presente nel muro demolito (compresi alcuni blocchi di cemento misto a ferro) non presentava carattere di disomogeneità, né era mescolato a sostanze diverse (tipo eternit, gomme di veicoli e comunque sostanze estranee a quelle già presenti nell’opera demolita), sicché non si poneva in concreto un problema di preventivo trattamento per non compatibilità ambientale. Il materiale non è stato trasferito da un soggetto (produttore) ad un altro (utilizzatore), perché è mancata la volontà di disfarsi di esso. Il legislatore nazionale è già intervenuto con la legge 443/2001 escludendo le "terre e rocce da scavo", anche di gallerie, dall’ambito dei rifiuti e dalla relativa normativa (D.Lg.vo 22/97), perfino nell’ipotesi che siano state contaminate durante il ciclo produttivo (purché non oltre determinate concentrazioni).

Si consente in tal modo il riutilizzo di materiali derivanti da attività di escavazione, perforazione e costruzione.

Certamente esiste una differenza con i materiali di demolizione degli edifici, ossia con i cosiddetti inerti. Tale differenza non comporta una ontologica diversità, posto che il riutilizzo di rocce e terre di scavo può avvenire – a certe condizioni – anche se esista una contaminazione.

Nel caso concreto, i detriti di demolizione non contengono materiali disomogenei significativi sicché alla luce dell’art.14 L. 178/2002 e dell’indirizzo comunitario sopracitato, si può pervenire allo stesso risultato di cui alla L. 443/2001, escludendo la natura di rifiuto, secondo un criterio non astratto di valutazione. Manca la prova di un reale pericolo per l’ambiente ed il riutilizzo è avvenuto secondo i principi enunciati.

 

 

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LA DIFFICILE GESTIONE DEI RIFIUTI DI DEMOLIZIONE