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10 luglio 2002

(ovvero come rispondere alle critiche rivitalizzandone i contenuti)

Nelle riviste di settore, negli atti dei convegni, sui siti web, sui quotidiani economici, sulle tesi universitarie, laddove si tratta e si discute di massimi sistemi attorno al tema ambientale, è frequente imbattersi in premesse quali: " E' ormai indispensabile il superamento di un approccio basato sul tradizionale "command and control", rappresentato da un coacervo di divieti, obblighi, controlli e sanzioni, strumento il quale ha dimostrato una evidente insufficienza nel correggere la complessità dei fenomeni che stanno erodendo le riserve naturali del pianeta e compromettendo gli ecosistemi.. " e via di questo passo.

Con una entrèe di tale impatto emotivo, quasi una parola d'ordine tra gli addetti ai lavori, si può essere ragionevolmente sicuri di aver sollecitato l'attenzione della platea e di aver stabilito buoni margini per l'accoglimento delle proposte che interessa presentare, tanto si riterranno in contrapposizione all'approccio tradizionale, vetero e logoro, del comando e controllo.

Tuttavia sebbene vi siano numerose prove sul fatto che questo filone-pensiero sia attualmente quello dominante, e che coloro i quali non dimostrano di appartenervi corrono il rischio di ritrovarsi in una improvvisa condizione di mobbing, mancano invece all'appello motivazioni e giustificazioni, sorrette da dati e analisi, che mettano gli scettici nella (in)felice posizione di doversi ricredere.

Cioè, per essere espliciti, del comando e controllo non è nota la ragione dell'insuccesso né alcuno si è preso la briga di dare una qualsiasi dimostrazione della sua inefficacia, almeno di principio.

Volendo invece iniziare una discussione serena la prima cosa che ci si deve domandare è di cosa stiamo parlando. Se si tralasciano le tante descrizioni sommarie una definizione precisa di cosa sia l'approccio "comando e controllo" non è ancora stata data alle stampe. Per fornire un primo contributo alla discussione si proverà lo scrivente.

Se leggiamo i due termini sotto forma del "combinato disposto" pare ovvia una prima conclusione: il controllo non è che il mezzo attraverso il quale si giudica del buono o cattivo esito di un comando. Perché il processo possa aver luogo dobbiamo quindi disporre di almeno tre attori: chi dispone il comando, chi lo esegue e il soggetto terzo che ha il compito di rapportare al primo i modi della sua applicazione.

Esempi classici di comando e controllo si ritrovano nella disciplina militare o in campo elettronico. Pur nella varietà di termini l'esigenza da soddisfare è sempre la medesima. Si esprime un comando per ottenere un fine, si predispone un controllo per ricavarne un'informazione. L'informazione richiesta ha una duplice funzione, l'una in alternativa all'altra: se l'esito è coerente il processo ne esce confermato, cambiano gli ordini quando il risultato non è quello atteso.

Si mette in evidenza, cioè, la capacità dello strumento di rimodellarsi, di reagire in modo dinamico secondo l'informazione ricevuta.

Cercando nella disciplina ambientale la traduzione più vicina all'esempio descritto dovremo considerare, in qualità di comando, non tanto il divieto o la limitazione i quali hanno la caratteristica della fissità potendo al massimo essere rimossi, quanto l'autorizzazione. Tipicamente questa è stata la scelta strategica del legislatore. Il bene si tutela quando è noto il soggetto che può metterlo a rischio.

Stabilito un campo di applicazione i comportamenti che rientrano al suo interno sono soggetti ad una valutazione preventiva. Se dal confronto non emerge una corrispondenza rispetto ad una lista di requisiti l'autorizzazione non viene rilasciata. Non a caso l'avvio di attività senza l'ottenimento dell'autorizzazione prevista è spesso considerato nel sistema sanzionatorio tra i reati di pericolo.

Il reato c'è comunque anche se sotto il profilo dell'effettività questo non ha, fino a quel momento, esitato le estreme conseguenze. Non è del resto immaginabile come possa avvenire in altro modo l'espressione del principio della ponderazione degli interessi. Se non si conosce qual è il livello di pericolo come si pensa che possa essere ritrovato un equilibrio tra i due pesi?

Stabilire l'indispensabilità di un atto di assenso significa quindi ritenere indifferibile la conoscenza di tre fattori:

· i dati anagrafici dei "comportamenti" che possano mettere a rischio la risorsa, matrice, bene, ecosistema ecc;

· la loro localizzazione e quindi la conseguente contestualizzazione, senza le quali non sono note le interferenze possibili;

· i relativi pesi, le misure di queste interferenze, da mettere sulla bilancia degli interessi.

In questo modo abbiamo già identificati tutti gli elementi che saranno sottoposti al futuro controllo. Inoltre se rileggiamo la storia recente della legislazione ambientale potremo scorgere una certa ripetibilità di intenti: da una parte conoscere i fattori di pericolo, dall'altra la volontà di pianificarne le possibili ricadute.

Cioè quello che dovrebbe apparire evidente ai più è che l'approccio del comando e controllo non è fine a sé stesso, ma trova in realtà la sua ragion d'essere nel supporto alla tracciabilità del territorio. Chi è il pianificatore che decide sui grandi temi come sulla tutela delle acque, sulla gestione dei rifiuti, sulla qualità dell'aria senza aver raccolto i dati del problema? Come si pensa di risanare senza aver note le fonti delle interferenze?

Dunque "controllare per conoscere", questo è ciò che in molti non hanno ancora capito.

Ma anche "controllare per correggere", e non solo il comportamento, ma tutto il processo, tutta la sua filiera, e a ritroso, a feedback, lo stesso comando, la stessa pianificazione che devono sapersi rimettere in discussione quando dal fronte arrivano notizie sconfortanti.

Non di meno il legislatore deve farsi perdonare un peccato grave, quella della genericità, delle parole prive di contenuto. Spesso la sua maggior attenzione è dedicata ad esprimersi secondo i canoni del diritto, a rispettare le regole della corretta allocuzione, senza penetrare nelle pieghe dei criteri, delle tecniche, delle conduzioni e delle manutenzioni. A questo pensino gli altri, coloro ai quali è trasmessa la competenza.

E allora, nel deserto di "buone pratiche", nella evanescenza dei termini (qualcuno ha mai provato ad esplicitare cosa si intenda per "idoneo"?) non rimane che far buon uso di questa delega. Se ne è fatto buon uso? Qui può iniziare il dibattito, a partire dalle considerazioni soprariportate.

Comando e controllo è un approccio tipicamente rivolto all'attività di impresa di produzione beni e servizi. La fase che prelude al rilascio dell'autorizzazione (il comando) è, se ben sfruttata, foriera di una messe informativa, tutta contenuta nella documentazione da presentare. Da questo contenitore l'autorità attinge notizie, apprende nozioni, assorbe soluzioni.

Con il principio che per es. "tutti gli scarichi devono essere autorizzati" si consegna cioè uno strumento potente che esplica il suo massimo effetto proprio nel campo ambientale.

Poiché non è ancora dato disporre di una serie circostanziata di standard strutturali o gestionali da applicare ai settori produttivi per la prevenzione dei fattori di degrado ambientale (né è scontato il loro aggiornamento laddove emanati) il legislatore ha così delegato all'autorità competente la facoltà di valutare caso per caso, istanza per istanza, con la discrezionalità di imporre determinati requisiti ad personam, le cosiddette prescrizioni.

Peraltro, in una tematica quale quella descritta, dove gli effetti si esplicano, per così dire, "in campo aperto", dove quindi le ricadute generano risposte molto diverse a seconda del contesto di insediamento, era difficile poter pensare di regolamentare tutto senza incorrere in errori di previsione.

Sono allora le prescrizioni la vera e propria modalità di lavoro attraverso la quale viene (o dovrebbe essere) esercitato il modello di comando e controllo. L'autorizzazione non è altro che una sorta di carta d'identità dell'attività d'impresa dove si riportano sia le caratteristiche anagrafiche del processo studiato, sia l'elenco dei "doveri" ai quali si deve dare applicazione nell'esercizio.

Ma, e qui vengono le dolenti note, la strategia soffre di alcuni pesanti condizionamenti. Il primo è il principio della "separazione delle carriere", per utilizzare un termine di attualità, cioè a dire questa caratteristica tutta italiana per cui non c'è identità tra il soggetto che autorizza o quello che controlla, sono spesso servizi diversi, se non proprio corpi del tutto estranei all'amministrazione di "comando". Si dice che, nella materia ambientale, l'amministrazione è "attiva".

Questa sorta di dogma che sembra insuperabile ha fatto sì che spesso le attività di controllo nel nostro paese siano state studiate e condotte in solitaire, mancando cioè qualsiasi tipo di rapporto con l'autorità di riferimento. Si svolgono ispezioni e si raccolgono campioni senza che si ritenga necessario un minimo di coordinamento, di programmazione, di intesa con l'amministrazione che ha rilasciato l'atto.

Se c'è invece un valore aggiunto nel metodo tradizionale è proprio questo, come sopra si diceva, del ritorno delle informazioni le quali servono ad una moltitudine di usi, primo e più importante quello di far cessare i comportamenti in violazione della norma e naturalmente di rimettere il soggetto in una condizione di legittimità, riparando se del caso i danni prodotti.

Per sottolineare il concetto: non può essere che i "comandi" siano noti al solo intestatario dell'autorizzazione, ed oltre questo il nulla. L'autorità deve invece mettersi nelle condizioni di comprendere qual è il risultato delle sue azioni. E come possibile altrimenti se non prima investendo di precisi compiti e direttive il soggetto pubblico al quale spetterà l'esecuzione dei controlli del caso?

In sintesi il successo del metodo tradizionale sta tutto nella programmazione delle attività, nello stabilire le annualità dei controlli, quanti, dove e soprattutto come verranno svolti, in considerazione di ciò che si ritiene prioritario sulla base di un bilancio territoriale che viene redatto grazie alle conoscenze raccolte sia nella fase ex-ante che in quella ex-post. Per dirla meglio "i controlli si preparano", non si improvvisano.

Non solo, bisognerebbe superare una volta per tutte anche questa resistenza alla condivisione della fase istruttoria, per cui il soggetto controllore deve solo e soltanto "andare a vedere". Il sistema strutturato in questo modo non può che portare al modello "guardie e ladri" e non altro.

Invece capire la complessità delle produzioni, comprendere la dimensione degli impatti, indagare sull'effettività delle mitigazioni e, alla fine, garantire l'efficacia dei controlli, tutto questo non può avvenire a prescindere dal fattore "conoscenza", ancora una volta. Laddove si è creato un net-work di relazioni i risultati non tardano a mancare.

Ma la soluzione più efficace è, dovrebbe stare, nel nuovo "chi istruisce controlla", per sottolineare l'importanza che le due azioni si concentrino nello stesso soggetto (letterale, nella stessa persona), perché è così che la P.A. impara dai propri errori, dalle proprie (sopra o sotto) valutazioni.

Infine non dobbiamo lesinare critiche al legislatore quando, in nome di un malinteso spirito di semplificazione, introduce come metodo il silenzio-assenso. Non è altro che l'annuncio di una dismissione dalle funzioni di P.A., quando invece questa avrebbe il compito di regolare l"afflusso", di orientare lo sviluppo, di governare il territorio.

Allora, alla fine, se passa questo principio, ciò che guadagneremo in unità di tempo sarà quello che perderemo in termini di prevenzione. A voi stimare quale piatto della bilancia sarà a questo punto più "pesante".

Per concludere nessuno può ragionevolmente sostenere che le politiche ambientali si debbano solo e solamente basare sull'approccio "comando e controllo", anzi l'integrazione è benvenuta e ogni nuova formula deve essere sperimentata per aggredire il problema da tutt i lati. Né ci si deve astenere dal potenziare meccanismi "premianti" che stimolino scelte ed atteggiamenti che altrimenti sarebbe difficile vedere da tutti condivisi. Tuttavia una cosa è sviluppare intese, accordi, best-practices, altra è rinunciare all'esercizio della responsabilità.

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