interventi
 

INIZIATA LA DISCUSSIONE SULLO SCHEMA DI DECRETO LEGISLATIVO SULLA RESPONSABILITA' AMMINISTRATIVA DELLE PERSONE GIURIDICHE

L'argomento è già stato trattato su queste pagine. Con la legge 300/2000, pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. 250 del 25 ottobre 2000, l'Italia ha ratificato la Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee. Il testo è riprodotto in allegato all'intervento "Anche le società sono responsabili per i danni all'ambiente".

La novità più interessante risiede nell'art.11 laddove si attribuisce "Delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica" ed in particolare, per quanto ci interessa direttamente, quando le ipotesi di responsabilità degli enti, rispetto a quanto previsto dalle convenzioni ratificate, sono state ampliate a comprendere la commissione dei reati in materia di tutela dell’ambiente e del territorio, che siano punibili con pena detentiva non inferiore nel massimo ad un anno anche se alternativa alla pena pecuniaria.

Come ha giustamente affermato Guido Rossi:"E' passata una legge che stravolge completamente il diritto societario, che autorizza a dichiarare finalmente sepolte intere biblioteche giuridiche, ed è passata alla chetichella, senza che nessuno se ne sia occupato."

Ora è iniziata alla Camera, e precisamente nella Commissione Affari Sociali, la discussione sul testo scaturito dalla delega di cui si è detto. Non si è in grado di fornire lo schema di decreto per una consultazione, ma già alcune conclusioni possono essere tratte dal resoconto della seduta del 17 aprile 2001. Una, purtroppo, sembra già di dover scrivere. Il legislatore delegante, nella redazione dello schema, ha voluto attuare la sola lettera a) dell'articolo 11 della legge-delega, che riguarda i soli reati che formano oggetto delle Convenzioni ratificate con la legge di delega, quali i reati di concussione, corruzione e frode. Mentre l'ordine del giorno votato dalla Camera il 27 luglio 2000 impegnava il Governo a contenere l'esercizio della delega con riguardo ai soli reati indicati negli strumenti internazionali oggetto di ratifica, quello successivo del Senato impegnava il Governo a dare integrale attuazione alla delega, quindi con riferimento a tutti i reati indicati nelle lettere b), c) e d) dell'articolo 11, sul presupposto che altri strumenti internazionali (oggetto di futura ratifica) contemplano la responsabilità sanzionatoria degli enti nelle materie della tutela ambientale, del territorio e della sicurezza del lavoro.

Un occasione persa dunque? Ci si augura il contrario. Vedremo nel corso delle prossime commissioni, se ci sarà un ripensamento. Di seguito si fornisce il resoconto della seduta, in pratica costituito dall'approndito escursus giuridico del relatore, dal quale si può capire come lo strumento descritto contiene in sè grandi potenzialità, in grado di rappresentare quel deterrente che fino ad oggi è mancato nei confronti delle imprese responsabili di reati contro la pubblica amministrazione.

II Commissione - Resoconto di martedì 17 aprile 2001

Martedì 17 aprile 2001.

UFFICIO DI PRESIDENZA INTEGRATO DAI RAPPRESENTANTI DEI GRUPPI

L'Ufficio di Presidenza si è riunito dalle 15.40 alle 15.45.

ATTI DEL GOVERNO

Martedì 17 aprile 2001. - Presidenza del Presidente Anna FINOCCHIARO FIDELBO. - Interviene il Sottosegretario per la giustizia Marianna Li Calzi.

La seduta comincia alle 15.45.

Schema di decreto legislativo sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche.
(Esame e rinvio).

La Commissione inizia l'esame del provvedimento.

Anna FINOCCHIARO FIDELBO, presidente e relatore, osserva che lo schema di decreto legislativo in esame è diretto ad attuare la delega legislativa, che l'articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300, prevede in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica. Si tratta di una disciplina di estremo rilievo, poiché introduce, per la prima volta nell'ordinamento, una particolare forma di responsabilità amministrativa a carico di enti, nel caso in convenzioni internazionali alle quali l'Italia ha da tempo aderito, che la legge n.300 del 2000 ha ratificato.

Si tratta in particolare della Convenzione di Bruxelles del 26 luglio 1995 sulla tutela degli interessi finanziari delle comunità europee e dei relativi protocolli, della Convenzione del 26 maggio1997 sulla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle comunità europee o degli Stati membri e della Convenzione di Parigi del 17 dicembre 1997, sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche e internazionali (convenzione OCSE). Come si specificherà più avanti, il legislatore delegante ha inteso in realtà ampliare le ipotesi di responsabilità degli enti rispetto a quanto previsto dalle convenzioni ratificate, le quali si limitano a richiedere che sia sancita la responsabilità delle persone giuridiche solamente in ordine a particolare reati contro la pubblica amministrazione, così come peraltro è stato poi previsto nello schema di decreto in esame. Lo schema, in realtà, contiene anche altri casi di esercizio parziale della delega, sulla cui congruità ci soffermeremo quando analizzeremo le sue disposizioni in maniera specifica.

È tuttavia opportuno precisare sin da ora che la legittimità della scelta del legislatore delegante di ampliare, rispetto alle prescrizioni delle convenzione ratificate, le ipotesi di responsabilità, ricomprendendovi anche tutti quegli illeciti, si pensi a quelli in materia ambientale, che nella esperienza concreta sono espressione di quella che può essere definita come la «criminalità di impresa», non è assolutamente intaccata dalla mancata corrispondenza rispetto al dettato delle convenzioni ratificate. Queste, infatti, trovano comunque attuazione nella legge n.300 del 2000 e, per quanto interessa in questo momento, nell'articolo 11 di quella legge, che lo schema in esame è diretto ad attuare. La non corrispondenza tra le convenzioni e la norma delegante è, infatti, per eccesso e non per difetto, poiché questa oltre a prevedere gli illeciti indicati dalle prime ne individua anche altri. Tale precisazione dovrà essere tenuta presente quando si verificherà in quale misura lo schema di decreto sia conforme ai principi e criteri direttivi di delega, specialmente in relazione alla delimitazione della platea degli illeciti che determinano la responsabilità dell'ente.

Il carattere di novità, che per l'ordinamento ha la disciplina della responsabilità amministrativa degli enti, non può non ripercuotersi sulla complessità del contenuto dello schema di decreto in esame, il quale detta una normativa completa ed esauriente della materia sotto il profilo sostanziale e procedurale. Prima di soffermarsi su quelle disposizioni del testo che meritano una maggiore attenzione o in ragione del loro contenuto o in relazione ai principi di delega, ritiene che sia opportuno delineare sinteticamente le novità contenute nel provvedimento. Così come previsto nella legge delega, la responsabilità amministrativa riguarda le persone giuridiche, le società ed associazioni anche prive di personalità giuridica, e gli enti pubblici economici, mentre sono esclusi lo Stato, gli enti pubblici territoriali e gli altri enti pubblici non economici. La responsabilità riguarda alcuni reati contro la pubblica amministrazione, in particolare corruzione e concussione, e contro il patrimonio, in particolare truffa in danno dello Stato, che siano commessi dai responsabili degli enti o da persone sottoposte alla loro direzione o vigilanza, purché a vantaggio dell'ente stesso. Di estremo interesse è la norma che, al fine di evitare o di attenuare la responsabilità, prevede che gli enti possano preventivamente dotarsi di modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire la commissione dei reati per i quali è stabilita la loro responsabilità amministrativa. Questa comporta l'applicazione all'ente di sanzioni pecuniarie, sanzioni interdittive, la confisca del profitto del reato, e la pubblicazione della sentenza. Come si vedrà, il meccanismo di determinazione della entità della sanzione pecuniaria rappresenta una novità assoluta per l'ordinamento, in quanto utilizza il «sistema delle quote» per meglio commisurare la sanzione alla gravità del fatto e alle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente, che ne risponde esclusivamente con il suo patrimonio o con il fondo comune.

Sono previste inoltre sanzioni interdittive individuate in base alla specifica attività svolta dall'ente responsabile. In una ottica tutta incentrata su finalità specialpreventive, si stabilisce che la sanzione pecuniaria è ridotta quando il vantaggio per l'ente sia stato minimo, il danno cagionato a terzi sia stato di particolare tenuità, l'ente abbia risarcito il danno o eliminato le conseguenze dannose del reato, ovvero abbia adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Sempre in tale ottica è stabilito che le sanzioni interdittive possono essere evitate risarcendo integralmente il danno o eliminando le conseguenze dannose del reato prima dell'apertura del dibattimento, ovvero adottando moduli organizzativi idonei ad impedire il ripetersi di reati della stessa specie di quello verificatosi, o ancora mettendo a disposizione, ai fini della confisca, il profitto conseguito. Per evitare facili elusioni della nuova normativa è stabilito che la responsabilità per fatti antecedenti permane anche in caso di successiva trasformazione, fusione o scissione dell'ente. Per quanto attiene alle disposizioni procedurali, lo schema, secondo quanto stabilito espressamente dalla delega, stabilisce che la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell'ente è dello stesso giudice penale competente per i reati dai quali essi dipendono.

Si tratta di una responsabilità di enti, che la legge definisce espressamente «amministrativa», ma che non di meno rappresenta un momento decisivo nel dibattito che per lungo tempo ha diviso la dottrina in ordine all'ammissibilità della responsabilità penale delle persone giuriche, in quanto la ratio del provvedimento in esame sembra essere proprio il principio «societas delinquere potest». La natura «amministrativa» dell'illecito, in realtà, è poco rilevante di fronte all'imputazione prevista ex lege di soggetti collettivi. Come si legge anche nella relazione della Commissione Grosso, l'etichettatura (penale o amministrativa) dell'istituto è di secondaria importanza. Ciò che conta è invece l'aver risolto positivamente quella che è la questione di fondo che condiziona la prefigurabilità in astratto della responsabilità della persona giuridica: l'individuazione della persona giuridica come autonomo centro di interessi e di rapporti giuridici e matrice di decisioni ed attività dei soggetti che operano comunque nell'interesse dell'ente. In capo all'ente sono posti dei doveri, dal cui mancato rispetto derivano delle conseguenze direttamente sull'ente stesso, che non devono essere confuse con quelle che eventualmente scaturiranno anche a danno di chi per l'ente abbia operato. L'attuazione della delega prevista dall'articolo 11 della legge n. 300 del 2000 introdurrà per la prima volta nell'ordinamento tale meccanismo di imputazione di responsabilità. Ricordo che il superamento della concezione psicologica della colpevolezza a favore di quella normativa ha consentito di ovviare a quella che era una delle principali obiezioni alla raffigurabilità della responsabilità penale delle persone giuridiche. Si tratta di una critica legata all'articolo 27 della Costituzione, il quale richiederebbe un nesso psicologico tra il soggetto agente ed il fatto, che non può sussistere quando l'agente sia una persona giuridica. Il nesso è invece del tutto ammissibile quando la colpevolezza sia intesa nel senso normativo di rimproverabilità.

Per quanto il legislatore delegante e quello delegato definiscano la responsabilità in esame come amministrativa, in realtà è da chiedersi se non ci troviamo innanzi ad un tertium genus che, come si legge nella relazione di accompagnamento allo schema in esame, «coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell'efficacia preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia». In effetti lo schema delinea un modello sanzionatorio che presuppone la commissione di un reato, è regolato dai principi penalistici di «parte generale», è rassicurato dalle garanzie processuali penali e caratterizzato da sanzioni in parte del tutto nuove rispetto a quelle classiche del diritto penale. Si tratta quindi di una responsabilità che non può essere ricondotta neanche all'archetipo di responsabilità amministrativa delineato dalla legge n.689 del 1981.

Il provvedimento in esame può essere suddiviso in tre parti: la prima di parte generale contenente i principi che regolano la materia, la seconda di parte speciale descrittiva delle fattispecie illecite, la terza di natura procedurale avente ad oggetto il processo. Sono, infine, previste norme di attuazione e coordinamento. All'articolo 1 sono individuati i soggetti destinatari della normativa in esame. Secondo l'alinea del comma 1 della legge delega deve essere prevista la responsabilità amministrativa delle «persone giuridiche e delle società, associazioni od enti privi di personalità giuridica che non svolgono funzioni di rilievo costituzionale», mentre il comma 2 del medesimo articolo dispone che «per persone giuridiche si intendono gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuati lo Stato e gli altri enti pubblici che esercitano pubblici poteri». È da segnalare che il legislatore delegato non si è limitato a ripetere, come forse avrebbe dovuto, la formulazione della delega, ma ha preferito utilizzare una formula elastica, facendo riferimento a «le società e le associazioni anche prive di personalità giuridica».

Come si legge nella relazione, tale scelta è stata effettuata «in modo da indirizzare l'interprete verso la considerazione di enti che, seppur sprovvisti di personalità giuridica, possano comunque ottenerla», in quanto si ritiene che la formula utilizzata nella delega ricomprenda anche realtà di rilevanza minima, la cui responsabilità amministrativa, con tutto quanto ne consegue processualmente, possa essere diseconomica. In sede di espressione del parere parlamentare non si può non sottolineare che tale valutazione è stata già effettuata dal Parlamento in senso difforme dalle considerazioni del Governo, per cui, al fine di fugare qualsiasi dubbio di costituzionalità, si ritiene che, per quanto attiene alla individuazione dei soggetti responsabili amministrativamente, sia opportuno che il decreto da emanare riporti letteralmente la formula prevista dal comma 1, come specificato nel comma 2, dell'articolo 11 della legge n.300.

Non si può non condividere la scelta di sancire espressamente all'articolo 2 il principio di legalità, secondo i suoi corollari di riserva di legge, tassatività e irretroattività. Opportunamente tali principi di natura penalistica sono stati adattati alla peculiarità della materia. La disciplina della successione di leggi nel tempo è una novità, rispetto al modello delineato dalla legge n.689 del 1981, resa necessaria dalla incisività particolare delle nuove sanzioni «amministrative». Si ripete in massima parte quanto previsto dall'articolo 2 del codice penale. È stata disciplinata l'ipotesi di abolitio, in cui la responsabilità dell'ente viene meno con il reato in relazione al quale essa era prevista, oppure perché è stata abrogata direttamente la disposizione che ricollega ad un reato la suddetta responsabilità amministrativa. In entrambi i casi, il venir meno del giudizio di disvalore da parte dell'ordinamento avrebbe reso irragionevole il permanere della responsabilità in capo all'ente. Lo stretto legame tra responsabilità dell'ente e commissione di un reato implica poi che la medesima disciplina valga anche nel caso di sopravvenuta depenalizzazione di quest'ultimo.

Mentre nel caso di abolitio non è previsto alcuno sbarramento alla produzione dell'effetto favorevole per l'ente, più contenuto - esattamente come nel penale - l'effetto retroattivo in bonam partem nel caso di semplice successione di leggi, dove il limite invalicabile è segnato dal passaggio in giudicato della sentenza: qui, tuttavia, il fenomeno riguarda più da vicino soltanto le modifiche della legge che prevede la responsabilità amministrativa dell'ente, le vicende del reato rimanendo indifferenti rispetto a quest'ultima.
È infine mutuata la dizione del quarto comma dell'articolo 2 del codice penale, in relazione alle leggi eccezionali e temporanee, per le quali si esclude l'applicabilità delle norme precedenti. La previsione si ispira alla rilevata necessità di tracciare un parallelismo tra la disciplina del nuovo illecito e quella penale, e potrebbe rivelarsi utile in futuro: allo stato attuale dell'assetto normativo in materia sembra invece destinata ad avere un rilievo meramente teorico. È condivisibile certamente la scelta del Governo di non
ripetere le norme sulla decretazione d'urgenza nonché sulla dichiarazione di illegittimità costituzionale delle leggi, privilegiando i rispettivi principi generali.
Al fine di evitare facili elusioni, l'articolo 4 prevede che nell'ipotesi in cui l'ente che abbia in Italia la sede principale compia tuttavia reati all'estero sia possibile la sua sanzionabilità.
Come si legge nella relazione, gli articoli 5 e 6 sono il cuore dello schema, in quanto dettano i criteri di imputazione sul piano oggettivo, ispirandosi ai principi della immedesimazione organica. I principi e criteri direttivi sono dettati, in particolare, dalla lettera e) dell'articolo11, comma 1, che richiama i soli reati commessi dalle persone fisiche a vantaggio o nell'interesse dell'ente. La formula, che è stata testualmente riprodotta, costituisce l'espressione normativa del rapporto di immedesimazione organica. Secondo quanto previsto dalla delega, sono distinti i soggetti in posizione apicale dai soggetti in posizione subordinata.

È sicuramente opportuna la scelta di non effettuare, per i soggetti previsti dalla lettera a), una elencazione tassativa, preferendo una formula elastica, che si traduce in disciplina di una connotazione oggettivo-funzionale sia in relazione all'ipotesi in cui la funzione apicale sia rivestita in via formale, sia in rapporto all' «esercizio anche di fatto» delle funzioni medesime. Come è stato evidenziato nella relazione, questa seconda ipotesi è stata riconnessa alle funzioni di gestione e di controllo, che devono «concorrere ed assommarsi nel medesimo soggetto il quale deve esercitare pertanto un vero e proprio dominio sull'ente. Resta, perciò, escluso dall'orbita della disposizione l'esercizio di una funzione di controllo assimilabile a quella svolta dai sindaci.»
Anche i dipendenti sono in grado commettere reati che comportano la responsabilità amministrativa dell'ente, qualora il reato sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio dell'ente. Tale eventualità, che caratterizza specialmente quelle realtà economiche fortemente frammentate, è disciplinata dalla lettera b).

È infine prevista al secondo comma dell'articolo 5 la clausola di chiusura che esclude la responsabilità dell'ente quando le persone fisiche abbiano agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi. In tal caso il reato della persona fisica non è riconducibile all'ente perché non realizzato neppure in parte nell'interesse di questo.
All'articolo 6 sono previsti i criteri di imputazione sul piano soggettivo, che naturalmente si ispirano alla concezione normativa della colpevolezza. Pertanto al nesso di causalità materiale deve accompagnarsi il nesso soggettivo: il reato deve essere espressione della politica aziendale o quanto meno derivare da una colpadi organizzazione. Il Governo ha opportunamente optato per gli standards doverosi, ai quali l'ente deve conformarsi, anziché per i criteri ispirati al versari in re illicita. Si tratta di una opzione, che, oltre ad avere il pregio di applicare pienamente il principio costituzionale di colpevolezza, ha una portata generalpreventiva, poiché spinge l'ente ad attrezzarsi in modo tale da prevenire la commissione dell'illecito. Nel caso opposto, invece, l'illecito rappresenta un rischio di impresa inevitabile, ma ammortizzabile.
Nella relazione, a tale proposito, si legge espressamente che «piuttosto che sancire un generico dovere di vigilanza e di controllo dell'ente sulla falsariga di quanto disposto dalla delega (con rischio che la prassi ne operasse il totale svuotamento, indulgendo a criteri ispirati al versari in re illicita), si è preferito allora riempire tale dovere di specifici contenuti: a tale scopo, un modello assai utile è stato fornito dal sistema dei compliance programs da tempo funzionante negli Stati Uniti.» Si tratta di modelli comportamentali specificamente calibrati sul rischio-reato: attraverso la fissazione di regole di condotta si dovrebbe impedire la commissione di determinati reati.

I criteri di imputazione soggettiva divergono a seconda che il reato sia stato commesso da soggetti in posizione apicale o meno.
Per quanto attiene al primo caso, la disciplina prevista dallo schema potrebbe sembrare in contrasto con la delega, poiché apporrebbe delle condizioni ulteriori rispetto a quelle previste da questa, affinché l'ente sia responsabile. Osserva che la scelta del Governo è solo apparentemente in contrasto con la delega, in quanto, in realtà, essa è il risultato di una interpretazione costituzionalmente orientata di tali principi. In sostanza, l'interpretazione letterale di tali principi porterebbe ad una loro lettura non conforme ai principi costituzionali ed, in particolare, al principio di colpevolezza, in quanto si tradurrebbe in una ipotesi di responsabilità oggettiva, se non addirittura per fatto altrui. Secondo l'interpretazione letterale, per la lettera e), del comma 1, dell'articolo 11 sembrerebbe essere sufficiente la commissione del reato da parte di un soggetto che nell'ente rivesta un ruolo apicale, in quanto la circostanza che la commissione del reato sia stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi connessi alle funzioni di direzione e di vigilanza, si riferirebbe esclusivamente al caso in cui il reato sia posto in essere da chi a tali funzioni sia assoggettato: i sottoposti.

Al fine di superare tale interpretazione, nella relazione è espressamente dichiarato che «nella equivocità del dato testuale (la presenza di una virgola consente per contro di riferire il periodo altresì al caso in cui il reato sia stato commesso da soggetti in posizione apicale), sono state ritenute prevalenti le argomentazioni esposte in precedenza sulla necessità di costruire un sistema quanto più conforme ai principi costituzionali ed informato alla prevenzione.» Tale interpretazione si basa anche sulla empirica constatazione che nel modello di società commerciale attualmente più diffuso non necessariamente i soggetti in posizione apicale sono essi stessi espressione della «volontà sociale». Si assiste oggi alla frammentazione delle realtà organizzativamente complesse, per cui il management non si sviluppa più secondo un modello verticistico, ma si distende piuttosto su di una (ampia) base orizzontale, con la conseguente frantumazione dei poteri decisionali dell'ente. È evidente che imputare all'ente le conseguenze di comportamenti delittuosi tenuti da soggetti, che pure svolgono funzioni apicali, senza verificare che quei comportamenti siano legati all'ente stesso anche da un nesso psicologico (normativo), significherebbe ricorrere a criteri di imputazione su base meramente oggettiva.

Al fine di evitare che la ricostruzione del nesso psicologico si traduca in una probatio diabolica, è opportunamente prevista una inversione dell'onere probatorio. È stabilita una vera e propria presunzione che, nel caso di reato commesso da un vertice, il requisito «soggettivo» di responsabilità dell'ente sia soddisfatto, dal momento che il vertice esprime e rappresenta la politica dell'ente. Dovrà essere la societas a dimostrare la sua estraneità provando di aver adottato ed efficacemente attuato modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quelli verificatisi, vigilando sulla effettiva operatività dei modelli, e quindi sulla osservanza degli stessi. È interessante notare che a tal fine, per garantire la massima effettività del sistema, è disposto che la societas si avvalga di una struttura che deve essere costituita al suo interno dotata di poteri autonomi e specificamente preposta a questi compiti. Secondo lo schema in esame, quindi, l'ente dovrà dimostrare che il comportamento integrante il reato sia stato posto in essere dal vertice eludendo fraudolentemente i suddetti modelli di organizzazione e di gestione. Nel caso di «amministratore che agisce contro l'interesse dell'ente al suo corretto funzionamento, affinché venga meno la responsabilità dell'ente, non è sufficiente che ci si trovi di fronte ad un apice infedele, ma è necessario che non sia ravvisabile colpa alcuna da parte dell'ente stesso, il quale - attraverso il suo organismo - deve aver vigilato anche sull'osservanza dei programmi intesi a conformare le decisioni del medesimo secondo gli standard di «legalità preventiva».

Per i soggetti sottoposti si prevede all'articolo 7 una responsabilità dell'ente quando la commissione del reato sia stata resa possibile dal mancato adempimento degli obblighi di direzione o vigilanza. Al fine di evitare che il richiamo a generici standard di diligenza si traduca in una vuota clausola di stile, si prevede che i modelli devono diversificarsi in relazione allo specifico rischio-reato da prevenire. L'onere di provare la mancata adozione ovvero la mancata attuazione del modello da parte dell'ente grava sull'accusa. «La ragione è chiara (nulla poena sine culpa) e - lo si ribadisce - discende dalla gravità delle conseguenze suscettibili di prodursi in capo all'ente sul piano sanzionatorio. La puntualizzazione riveste peraltro un'importanza non secondaria anche nei casi in cui la misura sia applicata in fase cautelare, mettendo così al riparo dall'eventualità di un eccesso nel ricorso a misure cautelari potenzialmente assai invasive».
Altra norma estremamente rilevante è quella prevista dall'articolo 8, che ha per oggetto l'autonomia della responsabilità dell'ente e, quindi, il rapporto di imputazione con la responsabilità penale
. È esplicitamente chiarito la responsabilità dell'ente rappresenta un titolo autonomo di responsabilità, anche se presuppone comunque la commissione di un reato, per cui la responsabilità dell'ente sussiste anche quando l'autore del reato non sia stato identificato ovvero non sia imputabile. In entrambi i casi ci si trova di fronte ad un reato completo di tutti i suoi elementi e giudizialmente accertato, sebbene il reo, per l'una o l'altra ragione, non risulti punibile. Si tratta di un principio importante, poiché consente che, in tutte le ipotesi in cui, per la complessità dell'assetto organizzativo interno, non sia possibile ascrivere la responsabilità penale in capo ad uno determinato soggetto, e ciò nondimeno risulti accertata la commissione di un reato, l'ente ne dovrà rispondere sul piano amministrativo, purchè sia ad esso imputabile una colpa organizzativa consistente nella mancata adozione ovvero nel carente funzionamento del modello preventivo.

La responsabilità dell'ente resta ferma anche nel caso in cui il reato sussiste, ma subisce una vicenda estintiva. Si pensi all'utile decorso del termine di sospensione condizionale della pena ovvero alla morte del reo. L'unica eccezione meritevole è stata rinvenuta nell'amnistia, in presenza della quale, dunque, non potrà procedersi neanche nei confronti dell'ente. Si è infatti pensato che le valutazioni politiche sottese al relativo provvedimento siano suscettibili, in linea di massima, di valere anche nei confronti degli enti: in caso contrario, sarà onere del legislatore dell'amnistia escludere tali soggetti dall'area entro cui il provvedimento di clemenza può sortire effetti, anche mediati. L'ente, che abbia interesse ad un'assoluzione nel merito, potrà, al pari della persona fisica, rinunciare all'effetto estintivo dell'amnistia.
Il sistema sanzionatorio nella legge-delega si incentra su sanzioni pecuniarie e, «nei casi di particolare gravità», su sanzioni interdittive. Sempre secondo la legge delega, l'ammontare minimo della sanzione pecuniaria non deve essere inferiore a lire cinquanta milioni di lire, mentre l'ammontare massimo non deve oltrepassare i tre miliardi di lire. Nell'applicare la sanzione, il giudice deve tenere conto anche «dell'ammontare dei proventi del reato e delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente». La delega prevede poi due ipotesi di riduzione della sanzione pecuniaria: la prima concerne i casi di particolare tenuità del fatto, nel cui ambito la sanzione pecuniaria da irrogare non dovrà essere superiore a duecento milioni di lire né inferiore a venti milioni; la seconda si lega alla realizzazione della efficace riparazione o reintegrazione dell'offesa realizzata. La delega stabilisce infine il divieto del pagamento della sanzione pecuniaria in misura ridotta.

Quanto alle sanzioni interdittive, riservate ai casi di particolare gravità, la legge delega ne enumera sei: la chiusura anche temporanea dello stabilimento o della sede commerciale, la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell'illecito, l'interdizione anche temporanea dall'esercizio dell'attività, il divieto anche temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione, l'esclusione temporanea da agevolazioni, finanziamenti o contributi e l'eventuale revoca di quelli già concessi e, infine, il divieto anche temporaneo di pubblicizzare beni o servizi. La delega prevede poi una causa di inapplicabilità di una o più delle citate sanzioni interdittive in presenza di condotte di efficace riparazione o reintegrazione dell'offesa. È poi prevista la confisca e la pubblicazione della sentenza di condanna. La prima deve avere ad oggetto il prezzo o il profitto del reato o può essere adottata anche nella forma «per equivalente». La delega prevede inoltre un'ipotesi di reato e di responsabilità amministrativa dell'ente per le violazioni delle sanzioni interdittive, anche se applicate in via cautelare nel corso del procedimento.
Prima di passare alla descrizione del sistema commisurativo della sanzione pecuniaria, è opportuno precisare che lo schema di decreto ha attuato i principi sanzionatori in maniera conforme alla delega.
In particolare, ma lo si vedrà meglio più avanti, il Governo non ha previsto la misura della chiusura dello stabilimento o della sede commerciale.

Il sistema commisurativo «per quote», adottato per la sanzione pecuniaria, rappresenta una delle novità di maggior rilievo dello schema in esame. Tale sistema consente di calibrare la sanzione pecuniaria sulla capacità economica e patrimoniale degli enti senza violare i principi della certezza della pena, di uguaglianza e di proporzionalità della sanzione. Con il sistema delle quote, inoltre, si evita il rischio che l'elevato importo del limite massimo edittale sia applicabile alle piccole imprese, in quanto si tratta di un sistema che consente di tenere conto anche delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente, al contrario del tradizionale sistema «a somma complessiva». In questo contesto, il rinvio alle condizioni economiche si realizza attraverso l'articolo 133-bis del codice penale, secondo il quale le condizioni economiche operano contemporaneamente e sullo stesso piano rispetto ai restanti criteri di commisurazione, senza che tuttavia sia possibile discernere quale incidenza assumano le prime, da un lato, e la gravità oggettiva e soggettiva dell'illecito, dall'altro lato, nella determinazione dell'ammontare della sanzione pecuniaria. Come si legge nella relazione, «il sistema «per quote» delineato nello schema di decreto prende dunque atto dell'impossibilità di riprodurre la soluzione delineata nel codice penale, ma muove pur sempre dall'intento di salvaguardare l'istanza adeguatrice presente nell'articolo 133-bis del codice penale e di valorizzarne l'efficacia operativa, attraverso un cambiamento del paradigma applicativo che riconosca autonomia alla fase della valutazione delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente.» Pertanto, «a parità di gravità complessiva di un illecito, la sanzione commisurata solo su un tale coefficiente potrebbe risultare estremamente gravosa, fino al limite della non-sopportabilità economica, per un ente di piccole dimensioni, e rivelarsi per contro ineffettiva nei confronti di un ente di grandi dimensioni, munito di ragguardevoli risorse economiche e patrimoniali. In definitiva, la scelta del modello commisurativo conforma la l'efficacia della sanzione».

Il sistema commisurativo per quote adottato nello schema si ispira a quello dei «tassi giornalieri» diffuso in molti paesi europei, adottandone la struttura bifasica. «Si tratta una duplice scansione: dapprima, il giudice determina l'ammontare del numero delle quote sulla scorta dei tradizionali indici di gravità dell'illecito; poi, determina il valore monetario della singola quota tenendo conto delle condizioni economiche dell'ente. L'intera operazione si risolve nel combinarsi aritmetico di un moltiplicatore fissato dal fatto illecito con un moltiplicando ricavato dalla capacità economica dell'ente.» Il sistema consente di rispettare l'ammontare minimo e massimo della sanzione pecuniaria fissato dalla delega.
L'articolo 11, dedicato ai criteri commisurativi, stabilisce che il numero delle quote, in sede di individuazione della sanzione pecuniaria, viene determinato dal giudice sulla scorta della gravità del fatto. Per determinare il valore monetario della singola quota il giudice tiene conto delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente, allo scopo di assicurare l'efficacia della sanzione. La somma finale è frutto della moltiplicazione tra l'importo della singola quota e il numero complessivo delle quote che cristallizzano il disvalore dell'illecito.
La legge delega ha delegato il Governo anche a prevedere casi di riduzione della sanzione quando si è in presenza di fatti di particolare tenuità ovvero di condotte riparatorie da parte dell'ente. La riduzione di pena per la particolare tenuità del fatto viene disciplinata nell'articolo 12, comma 1, lettere a) e b). La riduzione di pena è pari alla metà della sanzione pecuniaria che verrebbe irrogata dal giudice e la sanzione da applicare per effetto della riduzione non potrà comunque essere superiore a duecento milioni né inferiore a venti.

La prima ipotesi ricorre quando l'autore del reato lo ha commesso nel prevalente interesse proprio o di terzi e l'ente non ne ha ricavato alcun vantaggio, oppure un vantaggio minimo. Pertanto, la tenuità non ha ad oggetto reato, bensì l'illecito dell'ente sotto il profilo della colpevolezza o quello oggettivo del vantaggio ricavato.
La seconda ipotesi di riduzione si fonda sulla particolare tenuità del danno patrimoniale. In tal caso opera anche una deroga all'ordinario regime di commisurazione della sanzione previsto dall'articolo 11 in ordine alla capacità economica e patrimoniale dell'ente, poiché un illecito di esiguo disvalore merita una risposta sanzionatoria parimenti esigua, qualunque ente sia stato a commetterlo.
Nel comma 2 dell'articolo 12, viene disciplinata una ulteriore ipotesi di riduzione di pena, legata al compimento di condotte riparatorie. La riduzione va da un terzo alla metà della sanzione pecuniaria se l'ente, prima dell'apertura del dibattimento, dimostra di aver risarcito il danno e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato o che comunque si è efficacemente adoperato in entrambe le direzioni. L'integrazione dell'attenuante è condizionata all'esistenza di due requisiti.
Il primo, di ordine temporale, postula che l'attività riparatoria sia stata realizzata entro un determinato termine, da rinvenire nella fase antecedente all'apertura del giudizio di primo grado. L'individuazione del termine è funzionale all'esigenza che la condotta riparatoria, come condotta antagonistica rispetto all'offesa, avvenga entro un lasso di tempo che, seppure non immediatamente prossimo alla commissione del fatto, non risulti troppo diluito nel tempo così da vanificare il valore insito nella tempestiva e riconoscibile attività di operosa resipiscenza meritevole di sanzione positiva. Il secondo requisito concerne la sfera delle attività riparatorie: queste debbono abbracciare non solo il risarcimento del danno ma anche le conseguenze dannose o pericolose del reato. Il secondo caso di riduzione della sanzione da un terzo alla metà opera a beneficio dell'ente che, prima del giudizio, abbia adottato e reso operativi i modelli di prevenzione del reato disciplinati dagli articoli 6 e 7. Si tratta anche in questo caso di una condotta lato sensu iscrivibile al genere delle condotte riparatorie, atteso che l'adozione dei modelli organizzativi, ove efficace, è in grado di disinnescare o ridurre sensibilmente il rischio della commissione di reati.

Si prevede, infine, un abbattimento della sanzione pecuniaria dalla metà ai due terzi se concorrono il compimento delle attività risarcitorie e riparatorie poc'anzi illustrate e l'adozione dei modelli di prevenzione dei reati.
In tutti i casi di riduzione della sanzione previsti dall'articolo 12, la sanzione pecuniaria non potrà comunque scendere al di sotto di lire venti milioni.

Altra questione sulla quale è opportuno soffermarsi è relativa alle sanzioni interdettive, Come abbiamo già visto, queste sono elencate nell'articolo 9, comma 2. Rispetto alla delega si registra l'omessa previsione della sanzione della chiusura dello stabilimento o della sede commerciale. Nella relazione si legge che tale omissione deriva direttamente dalla scelta del Governo di attuare la delega solo con riguardo ai reati che formano oggetto delle Convenzioni PIF e OCSE, in quanto «la chiusura dello stabilimento o della sede commerciale, infatti, è una sanzione tipicamente orientata a fronteggiare forme diverse di rischio-reato, segnatamente quegli illeciti che si situano nel cono d'ombra del rischio di impresa: si pensi ai reati in materia ambientale, all'omicidio o alle lesioni derivanti dalla violazione di norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro ovvero ai reati connessi allo svolgimento di attività pericolose.» Per i reati oggetto dello schema in esame sarebbero sufficienti le altre sanzioni interdittive, che meglio si adattano a colpire illeciti che, di regola, vengono consumati nel contesto di attività decisionali o negoziali e non già meramente esecutive. Il giudizio sulla legittimità della scelta di non prevedere anche quella che il legislatore delegante ha previsto la più grave tra le sanzioni interdittive è pertanto strettamente connesso a quello relativo alla scelta di base di dare parziale attuazione della delega sotto il profilo dell'estensione dell'ambito di responsabilità dell'ente. In effetti, non si può negare che la sanzione in questione è funzionale per lo più proprio a quei reati che il Governo ha preferito non inserire nello schema di decreto e non anche, invece, a quelli che in questo trovano attuazione. Naturalmente, qualora non si ritenga legittima la scelta del Governo di attuare parzialmente la delega, si dovrà considerare illegittima anche la scelta relativa alle sanzioni interdittive, salvo che non si ritenga comunque inapplicabile il principio che prevede che in casi di violazioni più gravi possa essere chiuso uno stabilimento. A ben vedere, infatti, si tratterebbe di una sanzione che avrebbe degli effetti definitivi, a danno del soggetto riconosciuto responsabile di un illecito, violando il principio costituzionale di rieducazione del colpevole, che, con gli opportuni adattamenti deve comunque trovare applicazione anche per gli enti. In realtà non solo i diritti costituzionali del soggetto colpevole verrebbero lesi, ma anche quelli di terzi, quali i lavoratori e i creditori sociali. Si tratta, quindi, di operare un bilanciamento tra norme costituzionali: da un lato, l'articolo 76, dall'altro, gli articoli 4, 27 e 41. Se sono questi ultimi a prevalere, la scelta del Governo di non prevedere la sanzione della chiusura definitiva dello stabilimento non è solamente opportuna, ma anche costituzionalmente necessaria.

Lo schema di decreto non è condivisibile nella parte in cui prevede l'applicazione della sanzione della interdizione temporanea dell'esercizio dell'attività. Si tratta infatti di una sanzione che di fatto, specialmente nel caso in cui si protragga oltre i sei mesi e sia applicata nei confronti di piccole imprese, si traduce in una vera e propria condanna alla chiusura dello stabilimento. Dovrebbero pertanto valere per tale sanzione le stesse considerazioni che hanno indotto il Governo a non prevedere nello schema di decreto legislativo la sanzione della chiusura anche temporanea dello stabilimento. Il Governo ha inoltre disciplinato tale sanzione senza tenere conto di quanto previsto espressamente dalla legge delega in ordine alla tutela dei diritti di terzi. In caso di interdizione anche temporanea dall'esercizio dell'attività dovrebbe essere prevista la nomina di un altro soggetto per l'esercizio vicario della medesima, qualora la prosecuzione dell'attività sia necessaria per evitare pregiudizi ai terzi. Lo schema di decreto si limita a prevedere la nomina di un commissario giudiziale solamente qualora l'applicazione della sanzione interdittiva comporti l'interruzione di un pubblico servizio o di un servizio di pubblica necessità. Tale carenza dello schema di decreto è censurabile, in quanto si traduce in un grave danno nei confronti di soggetti, quali possono essere i lavoratori o i creditori sociali, estranei alla commissione del fatto illecito.

Ritornando alla disciplina delle sanzioni interdittive, si sottolinea che queste si applicano insieme alla sanzione pecuniaria. È poi condivisibile la scelta del Governo di prevedere un sistema che contempli una disciplina generale delle sanzioni interdittive, applicabili di regola in via temporanea e, in casi eccezionali, in via definitiva. Sono inoltre previsti i requisiti necessari per l'applicazione delle misure interdittive. È necessario che l'ente abbia tratto dal reato un profitto di rilevante entità e il reato è stato commesso da soggetti in posizione apicale o da soggetti sottoposti all'altrui direzione e, in questo caso, la commissione del reato è stata determinata o agevolata da gravi carenze organizzative. Inoltre le misure possono essere applicate quando vi sia la reiterazione degli illeciti.
La durata delle sanzioni è stata compresa in una forbice che va da tre mesi a due anni, da ritenersi adeguata rispetto alla tipologia di illeciti della parte speciale. Di particolare importanza è la norma dell'articolo 14, in tema di criteri di scelta delle sanzioni interdittive, che stabilisce che le sanzioni interdittive devono avere ad oggetto la specifica attività alla quale si riferisce l'illecito dell'ente. Le sanzioni, per quanto possibile, devono quindi colpire il ramo di attività in cui si è sprigionato l'illecito, in omaggio ad un principio di economicità e di proporzione. Opportunamente l'ultimo comma dell'articolo 14 prescrive che alla sanzione dell'interdizione dall'esercizio dell'attività si debba ricorrere solo quando tutte le altre sanzioni risultino inadeguate.
L'articolo 16 individua le condotte di riparazione delle conseguenze del reato che permettono all'ente di evitare l'applicazione delle sanzioni interdittive temporanee. Ferma l'applicazione delle sanzioni pecuniarie, l'ente non soggiace alle sanzioni interdittive quando concorrono tre condizioni. Le prime due coincidono, in buona parte, con quelle di cui all'articolo 12, comma 2: si tratta, da un lato, delle condotte risarcitorie e riparatorie, da reputarsi integrate anche quando l'ente si sia efficacemente attivato in tal senso; dall'altro lato, si richiede che l'ente abbia provveduto ad eliminare le carenze organizzative che hanno determinato il reato, mediante l'adozione e l'efficace attuazione dei modelli organizzativi.

È opportuno ricordare che, a differenza di quanto si è previsto per le sanzioni interdittive applicate in via temporanea, quelle definitive non sottostanno al regime di obbligatorietà applicativa. La discrezionalità riconosciuta al giudice è collegata al carattere estremo di tali sanzioni: di conseguenza, pur ricorrendone i presupposti applicativi, si rimette al giudice il compito di effettuare ogni ulteriore, utile apprezzamento in concreto: potrebbero, infatti, verificarsi ipotesi in cui la prognosi di irrecuperabilità dell'ente ad una prospettiva di legalità, cristallizzata in via astratta dalla norma, potrebbe trovare parziale smentita nei fatti.
Gli articoli 18 e 19 prevedono le altre sanzioni applicabili nei confronti dell'ente, quali la sanzione della pubblicazione della sentenza di condanna e la confisca, irrogabile con la sentenza di condanna, che si atteggia a sanzione principale e obbligatoria. Essa viene configurata sia nella sua veste tradizionale, che cade cioè sul prezzo o sul profitto dell'illecito, sia nella sua forma «moderna», quella «per equivalente», in vista di una più efficace azione di contrasto contro la criminalità del profitto.
È condivisibile la scelta operata dal Governo in ordine alla disciplina della pluralità di illeciti, che, con gli opportuni adattamenti, non si discosta dai principi generali.
La sezione III del capo I dello schema di decreto costituisce la «parte speciale» del sistema di responsabilità degli enti.
Come si è più volte sottolineato, è attuata la sola lettera a) dell'articolo 11 della legge-delega, che riguarda i soli reati che formano oggetto delle Convenzioni ratificate con la legge di delega, quali i reati di concussione, corruzione e frode.

Non è certamente condivisibile la spiegazione che nella relazione è data a tale scelta, in quanto è fatto riferimento al contrasto, che in realtà vi è effettivamente, tra due ordini del giorno, che rispettivamente la camera dei deputati ed il senato hanno approvato in occasione delle approvazioni del disegno di legge. Mentre l'ordine del giorno votato dalla Camera il 27 luglio 2000 impegnava il Governo a contenere l'esercizio della delega con riguardo ai soli reati indicati negli strumenti internazionali oggetto di ratifica, quello successivo del Senato impegnava il Governo a dare integrale attuazione alla delega, quindi con riferimento a tutti i reati indicati nelle lettere b), c) e d) dell'articolo 11, sul presupposto che altri strumenti internazionali (oggetto di futura ratifica) contemplano la responsabilità sanzionatoria degli enti nelle materie della tutela ambientale, del territorio e della sicurezza del lavoro. In realtà, per quanto sia singolare tale situazione, non si può ritenere che il Governo si trovi innanzi ad una scelta tra una opzione minimalista (quella della Camera) ed una di più ampia portata (quella del Senato), in quanto il paradigma della scelta del Governo sono unicamente i principi e criteri direttivi dettati dalla legge delega. Irrilevante è poi la circostanza che la delega abbia un contenuto più ampio rispetto alle convenzioni ratificate. Sia pure sotto il profilo del diritto internazionale, un rilievo potrebbe avere l'ipotesi inversa.

Così come è sottolineato nella stessa relazione del Governo, non si può non rilevare che l'insieme dei reati di cui all'articolo 11, lettere a), b), c) e d), «ricostruisce, in modo più completo, la cornice criminologica della criminalità d'impresa, nel cui ventre distingue, da un lato, gli illeciti collegati a delitti precipuamente indirizzati al conseguimento di ingiustificati profitti, di regola espressione di una politica aziendale che mira ad aggirare i meccanismi di legalità che regolano la concorrenza e l'esercizio dell'attività produttiva; dall'altro lato, le violazioni che conseguono a reati espressivi di una colpa di organizzazione, che rappresentano una (e senz'altro la più grave) forma di proiezione negativa derivante dallo svolgimento dell'attività di impresa (il rischio-reato come una delle componenti del rischio di impresa)». È interessante la considerazione effettuata dal Governo circa la portata degli effetti della introduzione della responsabilità sanzionatoria degli enti, in ragione del suo carattere di forte innovazione del nostro ordinamento. La ragione che verosimilmente ha indotto il Governo a seguire la via minimalista non è tanto l'irrilevante contrasto tra Camera e Senato, quanto piuttosto l'esigenza di «contenerne, per lo meno nella fase iniziale, la sfera di operatività, anche allo scopo di favorire il progressivo radicamento di una cultura aziendale della legalità che, se imposta ex abrupto con riferimento ad un ampio novero di reati, potrebbe fatalmente provocare non trascurabili difficoltà di adattamento». Si tratta quindi di una valutazione politica, che come tale non ha conseguenze giuridiche (sotto il profilo del rispetto dell'articolo 76 della Costituzione), ma solamente eventuali ricadute di natura politica. Non si può certamente affermare che le norme che saranno emanate in attuazione, sia pure parziale, della legge delega siano incostituzionali.

Non si può comunque non sottolineare l'esigenza di dare piena attuazione alla legge delega, prevedendo la responsabilità degli enti anche per i reati in materia ambientale, edilizia e di sicurezza del lavoro, il cui contrasto, così come peraltro sottolineato nell'ordine del giorno approvato dal Senato, è oggetto di convenzioni internazionali, peraltro ancora non ratificate dall'Italia.
Per quanto attiene alla formulazione delle singole fattispecie illecite, la legge delega si limita a rinviare ad illeciti penali previsti dal codice penale o da leggi speciali.
Gli illeciti dell'ente si risolvono in massima parte in una colpa di organizzazione (difetto di controllo o di vigilanza anche verso i soggetti in posizione apicale). Si ribadisce che si tratta di colpevolezza normativa. Non vi è alcun nesso psicologico da scovare in concreto, bensì si deve procedere per un giudizio di rimproverabilità. Per assicurare l'uniformità e la coerenza interna del sistema delle cornici edittali, sono state selezionate tre fasce alle quali corrispondono altrettanti livelli di gravità degli illeciti penali, alla cui stregua sono stati poi disegnati gli editti delle sanzioni pecuniarie. Livelli di gravità che ovviamente sono stati concepiti come criteri regolatori «tendenziali» e non già come rigide e non altrimenti adattabili paratie.

È da segnalare che è stata opportunamente prevista anche una specifica disciplina del tentativo. L'anticipazione della soglia della punibilità, per quanto non espressamente prevista nella legge delega, deve essere considerata conforme ai principi da questa sanciti, poiché la delega si riferisce a reati per i quali è ammessa la forma di manifestazione consumata o tentata.
La norma dell'articolo 26 stabilisce che, in presenza di un delitto tentato, le sanzioni pecuniarie e interdittive applicabili all'ente sono ridotte da un terzo alla metà. È da sottolineare, rispetto alla disciplina del codice, in caso di recesso attivo è esclusa la «punibilità» dell'ente. Nella relazione si legge che tale «scelta è intimamente collegata alla filosofia preventiva che percorre trasversalmente l'intero decreto legislativo».
È prevista anche una disciplina del concorso di sanzioni interdittive. Si tratta di una norma estremamente interessante, in quanto evoca sia pure indirettamente la dottrina delle leggi organiche. La norma dell'articolo 83, segnatamente il comma 1, sancisce che nei confronti degli enti si applicano solo le sanzioni previste dal decreto legislativo, sul presupposto che questo, introduce la «nuova» disciplina organica della responsabilità sanzionatoria degli enti, destinata perciò a prevalere sulle diverse disposizioni della legislazione speciale.

Altra questione sulla quale la Commissione deve soffermarsi è la mancata attuazione della delega in ordine agli effetti civili conseguenti all'accertamento di responsabilità dell'ente. Le lettere t), u), v) e z) dell'articolo 11 dettano altrettanti criteri di delega in tema di effetti civili conseguenti all'accertamento della responsabilità dell'ente: nella lettera t) si prevede di riconoscere all'associato, al socio o al consorziato il diritto di recedere dall'associazione, dalla società o dal consorzio nell'ipotesi in cui sia stata dichiarata la responsabilità dell'ente per un illecito dipendente da reato, a condizione che il soggetto che intenda recedere non abbia svolto, neppure in via indiretta o di fatto, funzioni di amministrazione o di gestione, né abbia dato causa o prestato adesione alla commissione dell'illecito; nella lettera u) si delega il Governo a prevedere un'agevolazione nel promovimento dell'azione sociale di responsabilità ex articolo 2393 del codice civile per i danni provocati dall'accertamento dell'illecito correlato a fatti di reato, da realizzare attraverso la riduzione della frazione di capitale richiesta per l'adozione della relativa deliberazione assembleare; nelle lettere v) e z) vengono impartite direttive in tema di esercizio dell'azione individuale del socio o del terzo per il risarcimento del danno.

Il Governo ha ritenuto che tali criteri di delega non debbano trovare attuazione per due ragioni. Tralasciando la prima che è di natura meramente intenterpretativa, è opportuno soffermarsi su quella di ordine squisitamente politico, che si base sulla convinzione che che le forme di tutela in esame siano incompatibili con i principi del diritto societario, «accordando forme di tutela sinora sconosciute al socio che sia rimasto estraneo all'illecito, a discapito degli interessi dei creditori sociali e, più in generale, agli stessi profili di solvibilità dell'impresa.»
Nella relazione si sottolinea che il recesso dei soci e le azioni di responsabilità potrebbero di fatto comportare lo «smantellamento» dell'ente, con grave e irreparabile giudizio delle ragioni dei creditori. Si tratta inoltre di disposizioni sconosciute agli altri ordinamenti, per cui determinerebbero un pregiudizio notevole per la competività delle nostre imprese. Al Governo «sembra, quindi, pressoché inevitabile, oltre che opportuno, limitare le conseguenze dell'illecito dipendente da reato alla sola inflizione delle sanzioni pecuniarie e interdittive, già provviste di una non trascurabile forza dissuasiva.»

La Commissione è chiamata a stabilire se tale scelta del Governo abbia natura politica o se invece comporti una violazione giuridica dei principi della delega. Al contrario di quanto si è visto in ordine alla parziale attuazione dei principi relativi all'ambito di responsabilità dell'ente, nel caso in esame non è attuato un principio, che secondo il legislatore delegante caratterizza la stessa disciplina della resposabilità dell'ente: per quanto ciò possa non essere condivisibile, il Parlamento ha stabilito che il socius extraneus alla commissione dell'illecito debba avere piena tutela, per cui, qualora questa non sia prevista dal legislatore delegato, si avrebbe una disciplina qualitativamente diversa - e non quantitativamente, come nel caso degli illeciti non previsti - da quella desumibile dalla delega. La conseguenza di tale difformità opererebbe sul piano del diritto. L'unica via per non considerare vigente la parte della delega relativa alla tutela del socius extraneus è quella di considerare prevalenti i principi costituzionali sui quali si basano le ragioni dell'ente e quelle dei creditori sociali affinchè l'ente stesso non sia smantellato, rispetto a quelle di chi senza colpa subisca le gravi conseguenze di condotte illecite commesse da altri. A ben vedere, gli interessi dell'ente e dei creditori sociali hanno una valenza pubblica, in quanto la loro lesione avrebbe conseguenze deleterie dirette sulla stabilità delle imprese e dei mercati finanziari. È da ricordare che comunque l'ordinamento già attulmente offre ai singoli soci forme di tutela nei confronti degli amministratori. Per tali ragioni la scelta del Governo appare non solamente condivisibile, bensì giuridicamente necessaria.

Dall'articolo 34 e seguenti è dettata la disciplina processuale sul procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative. È stabilito, da un lato, che per il procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni amministrative si osservano, oltre che le norme del decreto, quelle del codice di procedura penale, in quanto applicabili; dall'altro lato, che all'ente si applicano le disposizioni processuali relative all'imputato, in quanto compatibili. In attuazione della delega, si è privilegiato il procedimento penale, consentendo questo di coniugare le esigenze di effettività e di garanzia dell'intero sistema.
Il giudice penale competente a conoscere gli illeciti dell'ente è quello competente per i reati a cui accede l'illecito amministrativo. È poi previsto, come regola generale, ispirata a ragioni di effettività, di omogeneità e di economia processuale, il simultaneus processus: il processo nei confronti dell'ente dovrà, cioè, rimanere riunito, per quanto possibile, al processo penale che ha ad oggetto il reato presupposto della responsabilità dell'ente. La regola non può valere in ogni caso: di conseguenza, nel comma 2 della stessa disposizione, vengono individuati i casi in cui occorre procedere alla separazione, senza che questa scissione del procedimento comporti una frattura con i principi generali del sistema che, come è noto, stabilisce la piena autonomia della responsabilità della persona fisica rispetto a quella dell'ente. La disposizione dell'articolo 37 prevede che nei confronti dell'ente non si possa procedere quando l'azione penale risulta improcedibile per la mancanza, originaria o sopravvenuta, di una condizione di procedibilità.
Non sussistendo particolari questioni inerenti alla congruità delle disposizione processuali, rispetto ai principi di delega, rinvia per la loro illustrazione alla dettagliata ed esauriente relazione del Governo.

Raffaele MAROTTA (FI), dopo aver ricordato di aver presentato un ordine del giorno diretto a sottolineare l'inopportunità di prevedere la sanzione amministrativa delle persone giuridiche anche per reati diversi rispetto a quelli contro la pubblica amministrazione, ritiene che, in realtà, l'esercizio parziale della delega sia incostituzionale, in quanto la volontà del legislatore delegante deve essere attuata dal Governo nella sua interezza. La scelta di applicare l'ordine del giorno approvato dalla Camera dei deputati è pertanto non corretta sotto il profilo costituzionale.

Anna FINOCCHIARO FIDELBO, presidente e relatore, dopo aver sottolineato l'opportunità che il provvedimento in esame sia ulteriormente approfondito dalla Commissione, rinvia il seguito ad altra seduta e sospende la seduta.

 

home page
l'autore
mappa del sito
tutti i links

 

 

news
leggi e sentenze
chiarimenti
interventi