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1 luglio 2001

ALTA VELOCITA': INQUINATI GLI INERTI

Nei giorni scorsi si è fatto un gran parlare della vicenda Altà Velocità e delle conseguenze a livello ambientale prodotte in particolare dall'escavazione di gallerie sul fronte toscano della tratta. Il fragore intorno all'iniziativa della magistratura di sequestrare i cantieri del Cavet, il consorzio di imprese incaricato, general contractor TAV, è naturalmente motivato dalle dimensioni dell'opera pubblica, dai suoi rilevanti riflessi sociali, tenendo conto delle maestranze che si ritrovano da un giorno all'altro senza lavoro, dal lievitare dei costi nudi e crudi che questa fermata comporterà sulla spesa finale (due miliardi al giorno di perdite). La domanda che la maggiorparte di noi si è fatta, compreso lo scrivente, è come sia possibile che un'opera di così elevato impatto con il territorio non sia stata oggetto di un approfondito esame preventivo, proprio per non trovarsi poi nelle condizioni di dover rivedere l'impianto del progetto alla luce di imprevisti emersi nel corso del suo avanzamento. Le cose che non si capiscono sono tante. Grazie tuttavia alle potenzialità della rete e alla lettura delle testate giornalistiche online alcune curiosità è possibile soddisfarle. Un contributo è venuto anche dall'NG it.scienza.geologia al quale ci siamo rivolti per avere lumi.

I fatti

Alle 5 della mattina di sabato 23 giugno è scattata una maxi-operazione di sequestro. Sotto sequestro è stato posto il cantiere T11 della galleria Marzano nel Mugello (diciotto chilometri di tunnel) così come è accaduto a 23 tra cave per l'estrazione del materiale inerte e discariche. Motivo l'essere state utilizzate per il conferimento non autorizzato di rifiuti pericolosi costituiti dagli scarti di lavorazione prodotti dal traforo delle gallerie. Le indagini sono cinque, tutte cominciate nel ’99, e raccolte in un unico procedimento. Una settantina di capi di imputazione, 8 reati contestati tra i quali smaltimento non autorizzato dei rifiuti, danneggiamento e impoverimento delle falde acquifere, inquinamento ambientale, truffa ai danni della Regione Toscana (classificando una parte di quei rifuti come inerti, secondo la procura fiorentina, la Cavet avrebbe infatti evitato di pagare la tassa regionale di quattro lire al chilo per i rifiuti non inerti), 350 pagine di decreto di sequestro, un «libro» consegnato per conoscenza anche ai sindaci del Mugello.

L'evento non è stato frutto del caso. L'inizio delle indagini risale al giugno del 1999, con un esposto alla Procura nel quale gli abitanti di alcuni comuni del Mugello segnalavano il prosciugamento di sorgenti e molti pozzi svuotati. Il 14 settembre del 1999 gli ispettori dell'Agenzia regionale per la Protezione dell'Ambiente della Toscana (ARPAT), controllando una cava sita a San Piero a Sieve, scoprono un bel quantitativo di fanghi pressati provenienti dai cantieri Tav scaricati direttamenti in falda. La cava si trova a poche centinaia di metri da alcuni pozzi di attingimento dell'acquedotto pubblico di San Piero. Dai carotaggi nei luoghi dove veniva depositato lo «smarino» (il materiale di scavo), era uscita, in varia misura, una contaminazione degli inerti da olii minerali. Le ispezioni continuano e i primi sequestri di Arpat e vigili urbani ai cantieri T10, T7, T5, risalgono all’ottobre del 1999.

I perchè

Per capire cosa ha provocato oggi una iniziativa così clamorosa, è necessario prima comprendere come si svolgono le operazioni di scavo delle gallerie del Cavet. "Una volta creato il varco con l'esplosivo si inizia a scavare ma è necessario contemporaneamente consolidare la volta per evitare frane. Scavo e consolidamento avvengono utilizzando una macchina - la «spriz beton» - che mentre avanza creando l'arco superiore spruzza una soluzione di cemento liquido. In pratica la volta viene nebulizzata col cemento che impiega poco tempo a fare presa. Dopo il passaggio della «spriz beton» all'interno della galleria passa la cosiddetta «cassaforma», un altro macchinario che dà forma alla volta. Quindi è il turno di un'altra escavatrice che procede a formare la parte inferiore dell'ovale della galleria. Si tratta di macchine enormi che per evitare di essere ricoperte dal cemento che invade il traforo vengono ricoperte con enormi quantitativi di olio minerale. Ed è appunto questo olio chiamato in gergo «disarmante» che finisce sul terreno, si mischia all'acqua presente in quantità e al cemento creando fanghi altamenti inquinanti (Il Tirreno 24 giugno).

Il responsabile di tutto è, per l'appunto, l'olio minerale utilizzato in gran quantità per cospargere le frese e gli altri macchinari utilizzati in galleria. Semplicemente ci si è dimenticati di considerare che la conseguenza dell'uso dell'olio sui materiali di risulta provenienti dall'escavazione è la loro contaminazione e quindi l'inutizzabilità come inerti per i ripristini di cave o riempimenti di discariche di seconda categoria tipo A, per inerti appunto. Il fango di perforazione e lo stesso smarino, cioè le terre e le rocce di estrazione, ne contengono concentrazioni rilevanti, fino a 4.000 milligrammi per chilo. Il dato è dell'ARPAT: 4 grammi per chilo, 4 Kg per tonnellata, non sono uno scherzo e non può essere che questa presenza venga considerata fisiologica. Se vogliamo calcolare quanto olio minerale è finito in cava, a partire da una concentrazione media di 2000 mg/kg, si moltiplica per i due milioni di tonnellate che, in via approssimativa, si stimano essere stati i materiali di risulta scaricati, il valore finale è impressionante: 4.000 t.

Le ipotesi

Quello che sconcerta è che lo studio di impatto ambientale non abbia messo in luce questo rischio. Dai resoconti giornalistici si legge che la Conferenza dei Servizi, chiamata ad esprimersi sull'opera, aveva previsto fin dal 1995 che le terre e delle rocce di scavo sarebbero finiti in determinati siti, autorizzati dagli enti competenti e destinati successivamente ad essere interessati da interventi di sistemazione ambientale. Per quanto si possa dubitare delle capacità professionali dei tecnici che redigono o ai quali si sottopongono questi studi, il problema di dove sistemare i milioni di metri cubi di materiale di escavazione non può neanche per errore o dimenticanza essere ignorato.

Come si legge per es.nel parere VIA 7 gennaio 2000 della Regione Liguria relativo al "Terzo valico Genova - Arquata Scrivia - Novi Ligure" che verrà realizzato dall'altro Consorzio, general contractor della TAV, il COCIV, i materiali di risulta in area ligure sono i seguenti:

Cantieri

Volume in banco

Riuso

Discariche, riempimenti

Borzoli

461500

415000

46150

Fegino

207000


207000

Molinassi

1375700

156000

1219700

Maglietto

940000


940000

Nel SIA come siti di deposito, discariche, riempimenti sono indicati il Porto di Voltri ed altri riempimenti sempre in ambito portuale per 2 milioni di mc, il Monte Gazzo (Cava Cont ) per il recupero di 65 mila mc, Cravasco per il recupero di 2 milioni e 300 mila mc.

L'esempio serve a mostrare come il problema non sia effettivamente sottostimato. Allora cosa è successo di diverso nel caso della tratta toscana. Le ipotesi sono due.

La prima nasce dalle dichiarazione delle Associazioni Ambientaliste: secondo Legambiente e Wwf in quel tratto la Tav non ha mai ricevuto la valutazione di impatto ambientale, il Tar del Lazio a conoscenza delle omissioni si trincerò dietro la rilevanza nazionale dell’opera, la procura circondariale di Firenze si dichiarò incompetente.

La seconda può essere desunta dalle risultanze delle indagini partite immediatamente sul fronte emiliano, dopo le prime notizie dei sequestri: i trafori del versante bolognese non hanno prodotto le medesime conseguenze perchè non vengono utilizzati oli minerali, ma semplicemente acqua. Un errore di sottovalutazione quindi, quello di avere assimilato ad una le tecnologie di escavazione, mentre la particolare fresa usata nella galleria di Marzano del Mugello necessita di coadiuvanti diversi rispetto alle normali tecniche.

C'è una terza ipotesi, quella del pubblico ministero che ha aperto il fascicolo delle indagini. Il Cavet , avrebbe volutamente ignorato o sottaciuto il problema a causa dei costi derivanti dal dover provvedere ad uno "smaltimento" di terre e fanghi contaminati, invece che ad un ripristino o a un riempimento di cave dismesse. Così farebbero pensare le dichiarazioni del Cavet stesso a proposito della definizione di rifiuto relativa allo smarino: "Dal ‘92, quando venne fatto il progetto dell'Alta velocità Bologna-Firenze, ad oggi, questa definizione è già cambiata tre volte: all'inizio non era un rifiuto, poi con il decreto Ronchi diventò rifiuto e ora non lo è più di nuovo. Ma le regole si fanno prima che inizi il gioco: se nel ‘92 ci avessero detto che tutto il materiale di scavo andava buttato in discarica, la previsione dei costi sarebbe stata diversa, molto più alta (Il Tirreno 25 giugno)»

Da queste parole si riesce a comprendere quale sarà la linea difensiva processuale del Cavet. La messa in discussione della nozione di rifiuto a proposito dei fanghi di estrazione, terre e rocce di escavazione, trasportate in cava. Per chiarire i termini della questione bisogna tornare un po' indietro.

La definizione di inerte

E' quella che è sempre mancata nella disciplina dei rifiuti a partire dalla prima legge quadro, il DPR 10 settembre 1982 n. 915, fino ad arrivare al decreto Ronchi n.22/97. Poichè nel DPR 915 la classificazione dei rifiuti, speciali o tossico-nocivi, si basava sulla concentrazione limite di sostanze pericolose, anche per poter inquadrare la nozione di rifiuto inerte era necessario la sua caratterizzazione chimica. In realtà quello che interessava veramente era la possibilità che il rifiuto cedesse o meno le sostanze pericolose in esso contenute all'ambiente, suolo o falda circostante. Per questo si prendeva a prestito il test di cessione utilizzato per distinguere la conferibilità dei rifiuti, accettati nelle discariche di seconda categoria, tipo B, quando "sottoposti alle prove di cessione di cui al par. 6.2, diano un eluato conforme ai limiti di accettabilità previsti dalla tabella A della legge n. 319/1976, e successive modifiche, per i metalli compresi nell'allegato al decreto del Presidente della Repubblica n. 915/1982."

Il legislatore non aveva in effetti dettato una particolare metodica per decretare l'inerzia di un rifiuto per cui, per tutta una serie di prodotti di scarto che non rientravano esattamente nei codici CIR individuati alla lettera M, la loro accettabilità nelle discariche di seconda categoria, tipo A, per inerti appunto, veniva verificata tramite il test di cessione sopracitato. Non veniva peraltro in aiuto neanche la Comunità Europea che si limitava a descrivere una nozione qualitativa dell'inerzia.

Risoluzione del Consiglio, del 7 maggio 1990, sulla politica relativa alla gestione dei rifiuti:

e) «rifiuti inerti»: i rifiuti che non subiscono alcuna trasformazione fisica, chimica o biologica significativa. I rifiuti inerti non si dissolvono, non bruciano né sono soggetti ad altre reazioni fisiche o chimiche, non sono biodegradabili e, in caso di contatto con altre materie, non comportano effetti nocivi tali da provocare inquinamento ambientale o danno alla salute umana. La tendenza a dar luogo a colaticci e la percentuale inquinante globale del rifiuti nonché l'ecotossicità dei colaticci devono essere trascurabili.

La discussione dottrinale

Il dibattito si è pertanto trascinato fino ai giorni nostri. Alla natura tecnica del problema si sono aggiunti infatti altre variabili, questa volta di squisita derivazione giuridica.

La discussione trova radice nel fatto che l'art.8 del D.L.vo n. 22/97 esclude dal suo campo di applicazione, "in quanto disciplinati da specifiche disposizioni di legge", i rifiuti risultanti dalla prospezione, dall'estrazione, dal trattamento, dall'ammasso di risorse minerarie e dallo sfruttamento di cave. Un ragionamento convincente si tra dalla Sentenza del Tribunale di Grosseto in data 23/3/2OOO nella quale si ritiene che proprio quando non esistono specifiche disposizioni di legge disciplinanti i materiali di scarto risultanti dalle attività minerarie essi debbono essere ritenuti ricompresi nel così detto decreto "Ronchi"

Il dibattito si era comunque già incanalato verso un altro tema correlato, quello trattato dall’articolo 7, comma 3, lett. c) del “Ronchi” quando indica espressamente tra i rifiuti speciali: "b) i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo". Con il D.Lgs. 389/1997detto Ronchi bis, su richiesta della Commissione UE, era stata sì soppressa la lettera d) dell’art.8, comma 1 del D.Lgs. 22/97 la quale escludeva dal novero dei rifiuti i materiali non pericolosi derivanti dall’attività di scavo, ma il mancato coordinamento con l'art.7 sopracitato lasciava impregiudicata la domanda se dovevano essere sempre considerati rifiuti o solo al caso presentassero elementi di pericolo (quali non era dato di conoscere). Una cosa era certa. Secondo il comma 1-bis dell'art.8 "Non sono in ogni caso assimilabili ai rifiuti urbani i rifiuti derivanti dalle lavorazioni di minerali e di materiali da cava".

Da queste poche note si riesce già a comprendere in quale labirinto giuridico sia andata a finire la questione relativa ai materiali di scavo. Gli orientamenti sono antitetici in quanto, rispettivamente, ritengono tali materiali soggetti alla disciplina dei rifiuti o estranei alla normativa del decreto Ronchi.

Sull'argomento, il "partito del rifiuto" motiva la propria valutazione con riferimento al punto 7.31 dell'Allegato 1, Suballegato 1, al DM 5 febbraio 1998 riguardante il recupero agevolato dei rifiuti non pericolosi (S.O. n. 72 alla G.U. 16 aprile 1998, n. 88). In questo punto si individuano tra le tipologie di rifiuti che possono essere recuperate in modo agevolato, cioè senza autorizzazione, ma previa sola comunicazione, le “terre e rocce di scavo”. Ergo sono rifiuti..

Una voce decisamente autorevole, e molto in tema, quella della Corte di Cassazione, si esprime recentemente con Sentenza della III Sezione penale n.2419 del 24 agosto 2000 relativa alla costruzione del traforo della Foce in Liguria, Comune di Riccò del Golfo e in esito al sequestro di un terreno di oltre 20.000 metri quadrati dove si stabilisce in modo inequivocabile che le terre da scavo sono rifiuti (anche se non pericolosi) e il loro stoccaggio non autorizzato integra gli estremi di una discarica abusiva.

Terre da scavo contaminate

Per tornare però all'aspetto tecnico del problema è necessario adesso menzionare il Decreto Ministeriale n. 471 del 25 ottobre 1999 il quale recita: "Regolamento recante criteri, procedure e modalità per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei siti inquinati, ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, e successive modificazioni e integrazioni." L'impatto del decreto è notevole. Dopo più di 15 anni dall'uscita del primo DPR 915 si stabiliscono quali sono i criteri per considerare contaminati un sito, un'area, una località. In particolare colpisce la definizione di Sito Inquinato:

" sito che presenta livelli di contaminazione o alterazioni chimiche, fisiche o biologiche del suolo o del sottosuolo o delle acque superficiali o delle acque sotterranee tali da determinare un pericolo per la salute pubblica o per l'ambiente naturale o costruito. Ai fini del presente decreto è inquinato il sito nel quale anche uno solo dei valori di concentrazione delle sostanze inquinanti nel suolo o nel sottosuolo o nelle acque sotterranee o nelle acque superficiali risulta superiore ai valori di concentrazione limite accettabili stabiliti dal presente regolamento".

Per poter determinare l'estensione della porzione inquinata occorre procedere alla raccolta di campioni sui quali rilevare la concentrazione delle sostanze elencate nella Tabella 1 dell'Allegato 1 al decreto. Come dice l'introduzione dell'Allegato 1 "I valori di concentrazione limite accettabili sono riferiti a suolo, sottosuolo e materiali di riporto del sito e influenzati dalla contaminazione del sito; i suddetti valori si applicano per tutta la profondità che si ritiene necessario campionare ed analizzare per definire l'estensione dell'inquinamento e per progettare interventi di bonifica che garantiscano l'eliminazione dell'inquinamento delle matrici ambientali." I valori di concentrazione sono espressi in mg/kg di sostanza secca, cioè del materiale stesso privato della sua umidità naturale.

E' a questo decreto che l'ARPAT ha fatto riferimento per poter valutare la pericolosità della situazione venutasi a creare con il riporto dei materiali di risulta dalle escavazione di gallerie all'interno di cave e discariche, alcune delle quali in diretto contatto con la falda acquifera.

E' con l'uscita sempre di questo Decreto che finalmente anche il Ministero dell'Ambiente interviene nel dibattito.

Con Circolare del 28 luglio 2000, n. UL/2000/10103, "Applicabilità del D.Lgs 22/97 alle terre e rocce da scavo" il Ministero risponde alla domanda:

"Si chiede di conoscere se ed a quali condizioni le terre e rocce provenienti da scavo soddisfino la definizione di rifiuto di cui all'articolo 6, del D.Lgs 22/97 e debbano, quindi, essere sottoposte al relativo regime giuridico, amministrativo e di controllo. In particolare, viene evidenziato che l'art. 7, comma 3, D.Lgs 22/97, classificherebbe come rifiuti speciali le terre da scavo solo se pericolose e, di conseguenza, si prospetta che non dovrebbero essere considerate rifiuti tutte le terre da scavo non pericolose:

a) In primo luogo si ritiene che debbano sempre essere considerate rifiuti le terre da scavo che presentino concentrazioni di inquinamenti superiori ai limiti accettabili stabiliti dal D.M. 471/99 per i siti con destinazione verde privato, pubblico e residenziale. In tal caso, infatti, si pone l'evidente esigenza di controllare l'utilizzo delle terre e rocce da scavo al fine di prevenire il trasferimento di inquinamenti e determinare l'inquinamento di altri siti con conseguente obbligo di bonifica dei siti medesimi

b) Si ritiene, che non debbano essere qualificate rifiuto e, di conseguenza, non rientrino nel campo di applicazione del D.Lgs 22/97 le terre da scavo che presentino concentrazioni di inquinamenti inferiori ai limiti accettabili stabiliti dal DM 471/99 per i siti ad uso residenziale, verde privato e pubblico, e che siano destinate al normale ciclo di utilizzo della terra quali, a mero titolo esemplificativo, sottofondi e rilevanti stradali, rimodellamenti morfologici, usi agricoli, riempimenti, ecc."

Naturalmente Ministero e Cassazione non si trovano d'accordo sulla nozione di rifiuto.

A proposito dell'inchiesta sentiamo cosa dice l'Arch.Campos Venuti, ormai ex Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici: "Che ne pensa dell’inchiesta sulla Tav? «Lì il baco è di vecchia data, di circa dieci anni fa. Contravvenendo alle norme europee abbiamo dato senza concorso l’Italia ai consorzi che fanno l’Alta velocità. Il controllo naturale e democratico che c’è in tutti i Paesi occidentali, di un appalto fatto alla luce del sole, non c’è stato. Non che non ci siano controlli oggi, non c’è stato il primo. Lì dentro hanno messo tutti, dalla Fiat sino alle cooperative di Ravenna, l’universo modo economico. E’ chiaro che partendo così i controlli poi sono più difficili». (Corriere della Sera 25 giugno).

Conclusioni

Da questo resoconto, che necessariamente ha dovuto dilungarsi più del previsto per la varietà dei collegamenti esistenti tra il tema principale e le sue variabili, si traggono alcune considerazioni. La più amara è che le opere pubbliche in questo paese continuano ad essere sinonimo di distruzione delle risorse ambientali. Se si persevera ad ignorare la necessità di studiare gli effetti a breve o a lungo termine della cantierizzazione, non ci si può poi stupire se queste cose avvengano. La differenza questa volta è nella presenza dei controlli ambientali, che ci sono stati e che hanno risposto con metodo e nel merito di problemi nuovi, mai affrontati.

Purtroppo, e questa non è invece una novità, quello che sembra sia mancato è l'intervento delle autorità, locali e centrali, seppur avvertite di quanto succedeva con dovizia di particolari e di informazioni. Alcune domande rimangono quindi senza risposta: dov'erano i Sindaci, le Province, la Regione, il Ministero, l'Osservatorio Ambientale Nazionale, quando l'ARPAT segnalava gli episodi di smaltimento incontrollato dei fanghi contaminati? Perchè in questo paese il rispetto delle regole deve essere sempre e solo una preoccupazione della magistratura? Perchè questa deve svolgere un'azione supplente nei confronti delle autorità, le quali prime devono utilizzare i poteri e le competenze a loro assegnate dalle leggi per bloccare le iniziative illecite, gli abusi?

Quando i dibattiti sulle politiche ambientali dirigono sull''argomento del "comando e controllo" per esemplificare un sistema di tutela ambientale che non ha dato i risultati sperati, si pensi alla vicenda dell'Alta Velocità. Verrà naturale la riflessione. Quello che sono mancati non sono i controlli, ma i comandi.

 

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