SCHIFAZZO
Barca dal nome singolare era usata principalmente in Sicilia per i piccoli trasporti locali. Principalmente si potrebbe dire che si tratta di un’imbarcazione del Trapanese, perché le scarse fonti superstiti concordano nel darla presente soprattutto in quella provincia. De Negri cita una statistica del 1867, secondo la quale a Trapani esistevano allora ben 120 schifazzi, una vera flotta; ultimamente se ne è occupato anche Rocco Sisci, in un libretto troppo succinto per i nostri desideri (Tonnare e barche tradizionali di Sicilia, edizioni EDAS Messina 1991) riproducendo anche le foto di due schifazzi, ancora in uso a Trapani e Favignana. Lo schifazzo trapanese era armato ancora con un albero a vela latina, apparentemente in buono stato, il che è notevole. Quello schifazzo potrebbe ancora venir salvato, e magari portato a Stintino a gareggiare con le altre barche a vela latina.
Il trasporto sulle coste siciliane (e probabilmente anche pugliesi e calabresi) aveva per oggetto sale, vino, ortaggi, pesce, zolfo e materiali per costruzione. Oltre a questo, gli schifazzi venivano impiegati per la pesca. R. Sisci ricorda il loro impiego in coppia (paranza) per la pesca a strascico, e riporta il nome di una delle reti utilizzate, il “tartaruni” (turtanone), il che ci conferma il doppio significato del termine “tartana” (rete o barca).
Il termine “schifazzo” potrebbe avere dei collegamenti con lo “schirazzo”, un’imbarcazione non più annoverata in tempi recenti nelle nostre acque, ma ben presente nei documenti antichi. Pantero Pantera lo cita all’inizio del 1600 tra “i vasi che veleggiano alla quadra” (navi cioè attrezzate a vela quadra) e nella prima metà del 1500 il Sansovino e diversi altri autori veneti lo menzionano tra il naviglio minore in suo a Venezia.
Pare indubbio però che lo schirazzo fosse di origine orientale. “Turchesco” lo definisce il Dizionario di Marina dell’Accademia d’Italia, e questo ci sembra giustificato soprattutto perché Antoine De Conflans (1516) menziona gli schirazzi come battelli siriani e cretesi, oltreché come barche in uso a Venezia. Purtroppo, tra le scarse opere sulla marineria araba a nostra disposizione, non è possibile reperire alcun cenno ad un’imbarcazione, il cui nome somigliasse anche lontanamente allo schirazzo. Per completare il quadro, si può aggiungere che, oltre al francese rinascimentale “esquirace” usato da De Conflans, esistevano le corrispondenti voci in spagnolo e portoghese, il che fa ipotizzare che vi fossero schirazzi sulle coste magrebine. Di più non è lecito dire sullo schirazzo. Comunque sembra che non ci sia connessione tra lo schirazzo, imbarcazione orientale a vela quadra e lo schifazzo siciliano, tranne la somiglianza del nome. Somiglianza che del resto, solo esteriore e casuale, perché le leggi della filologia portano ad escludere che un termine “schirazzo” possa essere divenuto “schifazzo”, non essendo noto alcun caso di passaggio dalla “r” alla “f””.
Lo strano è che, mentre l’esotico ed obsoleto schirazzo compare in molti dizionari di marina, lo schifazzo, che era strumento di lavoro dei nostri marinai fino ai giorni nostri, è completamente ignorato. Il motivo, a parte le distrazioni, può essere che si è preso il termine come una variante locale di “schifo”. R. Sisci, che indubbiamente di dialetti siciliani se ne deve intendere, spiega il termine “schifazzo” come grossa barca, cioè grosso schifo, e ci sembra che sia nel giusto.
Infatti, il termine “schifo” era un tempo comunissimo, ed equivaleva a barca, canotto di servizio, portato sulle galee o sulle navi a vela sul ponte o a rimorchio. Il Pantera avverte che lo schifo del Mediterraneo occidentale equivaleva all’imbarcazione di servizio denominata “copano” a Venezia. “schifo” è di evidente derivazione germanica (schiff, o inglese ship). Il centro di irradiazione del termine nel senso di barca di servizio fu l’Italia, dove è documentato dal XIII secolo. Dall’italiano provengono lo spagnolo e francese esquife, che fu adottato anche dagli inglesi (skiff) e diversi termini corrispondenti in turco, egiziano, marocchino, ecc.
Quindi si tratta di un termine panmediterraneo, del quale “schifazzo” è una variante siciliana analoga a galeazza = grossa galea. Dall’uso come battello di servizio di navi maggiori a quello come piccola unità di cabotaggio indipendente il passo è breve e se ne hanno diversi illustri esempi.
L’unica fonte, da cui possiamo attingere la testimonianza di come questa barca era fatta, sono gli schizzi di Hennique. Ben quattro diversi schifazzi furono ritratti da eusto benemerito autore, ed in ognuno si possono riscontrare interessanti particolarità dell’attrezzatura. Risulta in generale con tutta evidenza che questa barca era caratterizzata dalla forma dello scafo, identica in tutti gli esemplari ritratti da Hennique, mentre per l’alberatura regna la più grande varietà di soluzioni.
Lo schifazzo a tre alberi, per esempio, ha il trinchetto piantato sull’estrema prora, alquanto inclinato in avanti. L’antenna di trinchetto ha un’orza (la manovra che tirava verso il basso l’estremità anteriore dell’antenna, detta carro nel Mediterraneo occidentale) che fa dormiente sul bompresso, ed addirittura su di un cavaliere scorrevole sul bompresso stesso. Il che è singolare. Questa antenna di trinchetto, poi, ha la drizza che scende a poppavia dell’albero, il che significa che questa vela probabilmente non veniva passata sottovento quando questo avrebbe potuto migliorarne la portanza. Ma forse, trattandosi di una vela piccola, si riusciva a passare il carro nonostante l’ingombro rappresentato dalla drizza.
La vela di maestra non era una vela “propriamente” latina, cioè triangolare; l’angolo prodiero era infatti tagliato, sicché la vela risultava di forma trapezoidale. Simili vele latine col “pizzo” tagliato appaiono spesso sulle barche arabe, tanto che molti le hanno volute definire “latine arabe”, il che appare del tutto fuori luogo.
Il taglio della parte anteriore della latina appare chiaramente visibile in un altro esemplare di schifazzo, che Hennique ritrasse invelato. Della vela maestra a prora ne manca un bel pezzo, il che permette di far portare meglio un trinchettina. Questo secondo esemplare di schifazzo porta all’estrema poppa una mezza con vela aurica, che è difficile da definire (più che al terzo dovrebbe essere definita “al quinto”). Vele di questo genere erano piuttosto rare in Mediterraneo, salvo che in Adriatico. Questo è un due alberi con maestra latina, mezzana aurica e due fiocchi.
Ancora un altro schifazzo ritratto da hennique mostra un’alberatura meno originale, vale a dire due latine, maestra e trinchetto ed un solo fiocco. Anche qui, l’antenna di trinchetto ha la drizza a poppavia dell’albero. Tutti gli esemplari portano in testa d’albero dei bozzelli, per i quali poteva essere filata una drizza per issare delle gabbiole volanti: quanta tela portavano queste piccole barche! E che fior di marinai dovevano essere disponibili allora in Sicilia per governare tanti diversi tipi di velatura.
L’ultimo esemplare di schifazzo ha un solo albero. Portava una grande vela latina più due fiocchi, più, col vento in poppa, la piccola vela quadra di gabbia volante. Questo schifazzo fu ritratto da Hennique in prospettiva, di prora, con una quantità di spugne issate ad asciugare con l’ausilio di due paranchi. Se ne possono apprezzare le linee piene, eppure piacevoli.
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