ELVIS!
(1935-1977)
Avevo da poco compiuto 10 anni quel 16 agosto 1977 ed
ero in macchina coi miei genitori, in vacanza, quando la radio diede la notizia
che Elvis aveva lasciato la scena di questo mondo per entrare nella leggenda.
Di lui sapevo “solo” che era uno dei mostri sacri della musica, abituato ad
associare il suo nome, per sintagma, all’ appellativo di Re del Rock, un po’
così, per sentito dire. Ricordo che i miei ne rimasero dispiaciuti, come se
se ne fosse andato un vecchio amico che si conosce da sempre e che ci ha
accompagnato fino a quel momento, ma anche con la consapevolezza, più o meno
inconscia che prima o poi, ma forse più probabilmente “prima”, sarebbe
accaduto l’ inevitabile.
Nei giorni seguenti i giornali erano ovviamente pieni di articoli sul triste e
clamoroso evento, ma l’ impressione che ne trassi fin da subito fu quella
dell’ ennesimo artista “maudit”, dedito a sesso, droga (nel suo caso anche
cibo) e rock and roll alla stregua di Jim Morrison o di Jimi Hendrix. Nulla di
più sbagliato, l’ avrei capito più avanti, ma, a tutt’ oggi, non riesco a
dimenticare quella condanna di debosciato che strisciava neanche troppo
larvatamente fra le righe dei commenti a metà tra il moralistico e il
compassionevole che facevano (non tanto) bella mostra di sé sulla stampa
sciacalla.
Poi, come tutte le umane vicende, anche l’ immagine di Elvis svanì dalla
ribalta mediatica, per ritornare ad affacciarsi alla mia attenzione diversi anni
dopo, guardando in TV un brano di un concerto live in cui un uomo che appariva
stanco, oltremodo appesantito ed abbondantemente sudato, cantava, ispirato, le
note di “My way”, avvolto in un abito che sarebbe stato improponibile per
chiunque altro (e lo era, oggettivamente!), ma che indosso a lui stava come un
manto regale. E la stessa canzone gli calzava a pennello, quasi come un commiato
ed un testamento. Regale anch’ esso, perché questo è l’ aggettivo che mi
suggeriva quella scena che ad altri occhi più cinici avrebbe potuto sembrare
decadente.
Altre volte, nel corso degli anni, l’ immagine di Elvis sarebbe ritornata alla
mia attenzione, ma mai così prepotentemente come un anno e mezzo fa, (2005)
momento a partire dal quale l’ interesse per la musica di Elvis mi ha
letteralmente preso la mano (e l’ orecchio!) in un crescendo sorprendente
anche per me stesso.
Folgorato da Elvis! Spesso la sua musica mi accompagna nelle cuffie, nello
stereo dell’ automobile, a casa, in ufficio. La sua voce, a volte struggente,
a volte esaltante, mi cattura; la sua parabola umana ed artistica scintillante e
malinconica, fino alla tragedia, mi commuove. La
sua musica mi esalta e mi rilassa al tempo stesso. Spesso mi trovo a cantare
Hurt, Can’ t help fallin’ in love, My Way, Unchained Melody...
Ma cosa può ancora trasmettere Elvis, oggi, qui e adesso?
Quella regalità di cui parlavamo prima rimane immutabile a dispetto degli anni
e delle mode. La sua voce, specialmente quella profonda e spesso malinconica del
periodo dei “seventies” (quello che preferisco, e che sento
più vicina per tempo e per sensibilità), riesce ancora a far vibrare le corde
dell’ animo, come una sorta di novello Orfeo.
Ora, conoscendolo meglio, sento ancora più stridenti quei giudizi sommari e
qualunquistici usciti subito dopo la sua scomparsa. E’ indubbio che Elvis
facesse uso smodato di farmaci per le sue numerose patologie, alcune indotte
perfino dai farmaci stessi che assumeva. Così come è altamente probabile che
le cattive abitudini alimentari e farmacologiche ne abbiano affrettato la
prematura scomparsa, ma altrettanto certo è che Elvis non fu quel
tossicomane depravato sessuale come certa stampaccia pruriginosa ha insinuato.
Ovviamente non è mia intenzione postulare una causa di beatificazione di Elvis,
ma credo sia doveroso ristabilire un giudizio corretto sul conto di un artista
affatto unico ed originale, straordinariamente sensibile e “pulito”
moralmente, che ha pagato in prima persona certi suoi eccessi che non si sono
mai taciuti, neanche da parte dei fans più integralisti, ma che non sono stati
quelli millantati dai detrattori di carriera e di complemento.
Molto male ha ricevuto, dal destino e da chi ha incrociato nel breve cammino
della sua vita e se del male ha fatto, lo ha fatto (inconsapevolmente)
verso se stesso.
E’ stato un artista che viveva del contatto col suo pubblico, la sua gente, a
tal punto da abbandonare lo scintillante mondo di Hollywood, dove aveva
interpretato oltre 30 film, non certo capolavori, ma assai redditizi a vantaggio
esclusivo del palcoscenico, suo vero terreno di conquista. E sul palco non
lesinava sorrisi, strette di mano e baci, nonché foulards, cinture, mantelli ed
altri ammennicoli del suo strabiliante guardaroba, non cedendo mai ad eccessi di
divismo isterico e sdegnoso.
Al termine di una delle sue ultime
esibizioni, maestose come e più di sempre, a dispetto delle precarie condizioni
fisiche e della malafede delle linguacce, Elvis si congedò con queste parole
terribilmente presaghe: “Until
we meet you again, may God bless you. Adios!”, mentre l’orchestra attaccava
le note di “Can’ t help fallin’ in love”, brano che di solito
accompagnava l’ uscita di scena del re del Rock .
Adios Elvis, grazie di tutto.