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KNOW HOW

Da quanto detto finora, si intende come tutte le vicende connesse alla storia della rivolta popolare di Sulmona rappresentino insieme un punto nodale della vita politica, amministrativa, economica e sociale del capoluogo Peligno e del suo comprensorio. Questa storia, però, pur riguardando tutta la società peligna, appartiene anche e soprattutto alla Democrazia Cristiana. Esiste un nesso indiscutibile tra la storia di questo partito e quella dello sviluppo del territorio nel quale esso ha operato. La Democrazia Cristiana di Sulmona, da intendersi come una somma di gruppi o di clan politici cooperanti sulla base di una identità di interessi non solo ideologici, è stata l'artefice principale, se non esclusiva, dell'attuale assetto della realtà sociale nella Valle Peligna e a Sulmona. L'interazione tra le forze politiche e sociali che storicamente si contrappongono alla, Democrazia Cristiana e questa stessa hanno prodotto effetti che certo hanno influito sul suo disegno politico complessivo. Ma questo aspetto particolare dell'indagine che si va compiendo può e deve costituire l'oggetto di un altro e più approfondito studio da effettuare in altra sede. In questa è opportuno ricostruire come e quando la Democrazia Cristiana si è appropriata degli strumenti che le hanno consentito di dare una propria impronta alla società sulmonese incanalandone lo sviluppo in una direzione piuttosto che in un'altra. E il nodo cruciale di questa indagine va indicato nelle giornate del 2 e 3 febbraio del 1957.

Si è già avuto occasione di dire come l'intreccio politico, e politico-economico, sotteso alla vicenda complessiva di "Jamm' mò" ha visto come maggiore protagonista la Democrazia Cristiana ed i suoi uomini, dal vertice alla periferia, nella sua qualità di struttura politica in grado di ideare e gestire un intervento complessivo nel governo del territorio. Il presupposto essenziale di questa capacità del partito di maggioranza relativa, sia in sede nazionale che locale, risiede essenzialmente nei consensi elettorali raccolti nell'aprile del '48. A Sulmona, già dall'aprile del '46, data delle prime elezioni amministrative del dopoguerra, la Democrazia Cristiana raccolse 5.308 voti su 10.954 votanti pari al 48.5% dei voti. La sinistra unita raccolse invece 3.812 voti, in percentuale il 34.8%. Questi risultati, senza andare troppo a fondo nell'analisi, si può dire trovino la loro giustificazione nel fatto che l'apparato amministrativo fascista, o quanto rimaneva di esso nell'ultimo periodo bellico e che dové occuparsi di mandare avanti l'azienda "città di Sulmona", venne sostanzialmente travasato nel nuovo ordine amministrativo repubblicano, completo di armi e bagagli clientelari.

Il risultato elettorale del '46 si ripeté nel '51, al rinnovo dell'amministrazione comunale. Di nuovo la Democrazia Cristiana, pur perdendo un punto o due in percentuale, conferma il proprio primato: 5.300 voti, il 46.12%, e 18 seggi in consiglio, la maggioranza assoluta. Il PCI ed il PSI, presentatisi divisi, ottengono rispettivamente 1.597 voti (13.95%) e 3 seggi il primo, e 1.816 voti (15.8%) e 3 seggi il secondo. Si affaccia sulla scena politico-amministrativa la lista civica "Campanile e Cupola" che con 211 voti 1.8 %) ottiene 1 seggio. Sono questi i dati dai quali partire per valutare il sommovimento elettorale seguito alla fine della seconda tornata amministrativa del dopoguerra. Il momento elettorale, 27 maggio del '56, cade nel pieno della crisi del Distretto Militare. Tra questi due fatti esiste un nesso, un collegamento rappresentato dalla volontà del gruppo dirigente della Democrazia Cristiana di Sulmona di entrare a far parte, per il territorio di propria competenza, della gestione di quella manovra di politica economica, alla quale risultavano legati oltre che l'emancipazione da una condizione di sottosviluppo dell'intera zona, anche la costituzione di una struttura di potere direttamente controllata dalla Democrazia Cristiana stessa.

Tale politica, tuttavia, per poter essere compiutamente realizzata, soprattutto nelle sedi periferiche del paese, comportava di necessità la presenza in queste di un punto di riferimento, solido, compatto ed unito. Era cioè necessario che in un determinato ambito territoriale esistesse una ed una sola leadership capace di contenere l'azione degli avversari politici e dotata di un'autorità riconosciuta anche all'interno delle varie correnti democristiane. Non era questo il caso della regione Abruzzo. Qui la Democrazia Cristiana, pur vantando un primato di tutto rispetto nei confronti dei partiti avversari, non aveva al suo interno una leadership riconosciuta, ma solo gruppi che lottavano per acquisire una supremazia politica sugli altri. È noto il ruolo svolto in questo senso dai gruppi aquilani e pescaresi. I democristiani di Sulmona, non essendo in grado di coagularsi attorno ad un cavallo di razza che potesse rappresentarli all'interno del Palazzo romano, si divisero tra le correnti maggioritarie nella regione, mantenendo tuttavia una generalizzata sensibilità municipalistica che li portava a nutrire una buona dose di rancore nei confronti dei boss regionali.

Non è stato possibile ricostruire una mappa dettagliata e fedele della suddivisione in correnti della Democrazia Cristiana di Sulmona in occasione della crisi di "Jamm' mò".

È certo, comunque, che in quelle circostanze tra i democristiani sulmonesi prevalse quel raggruppamento che si opponeva all'invadenza degli "amici" aquilani i quali, tesi a divenire borghesi di stato per proprio conto, non esitavano certo a sacrificare gli interessi del territorio provinciale a tutto vantaggio di quelli del capoluogo. L'unica arma a disposizione dei democristiani di Sulmona, per arginare e capovolgere questa situazione, venne individuata nella protesta popolare. Il declassamento del Distretto Militare fu, dunque, il "casus belli" di una strategia ben più vasta; fu, cioè, il segnale mediante il quale fu fatto intendere ai boss provinciali e nazionali della Democrazia Cristiana che il gruppo dei notabili sulmonesi non avrebbe assistito passivo ed impassibile ad una distribuzione di denaro pubblico nella regione che avesse registrato l'esclusione della Valle Peligna. Era però necessario montare il caso senza farlo apparire per quello che in realtà era: uno scontro interno tra le diverse istanze territoriali del partito della Domocrazia Cristiana. E a togliere la castagna dal fuoco ci pensò il Comitato di Difesa Cittadina.

Non è stato possibile stabilire con certezza quali siano stati i padrini che hanno tenuto a battesimo questa associazione di salute pubblica. Tuttavia quale suo primo presidente venne eletto il generale Ruggieri. Siamo nell'agosto del '54; il generale a riposo diverrà sindaco nelle elezioni comunali del '57. È, questo fatto, da considerarsi l'alfa e l'omega politico di "Jamm' mò", il principio e, più che la fine, il fine dell'intera vicenda. Ma, procedendo con ordine, è da rilevare come, dopo aver incanalato il processo sui binari voluti la Democrazia Cristiana si sia ritratta nel mucchio degli altri partiti politici per confondersi con essi e scrollarsi di dosso l'immagine di primo motore del caso. Subito dopo la crisi dell'agosto del '54 il generale Ruggieri passa le consegne al dottor Giorgio De Monte, allora militante del PSLI, Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. Questi, dopo un breve interregno, le cederà a sua volta al colonnello Sardi iDe Letto, lo stratega dei tre tempi della prima fase di "Jarnrn' mò".

L'azione è dunque predisposta e può avere il suo svolgimento. Non è però uno svolgimento lineare: in tutta la vicenda c'è qualcosa che sfugge ai più; ci si rende conto che esiste un aspetto della situazione noto solo ad alcuni addetti ai lavori. Si ha l'impressione di assistere ad una surreale partita a scacchi: le mosse della scacchiera dovrebbero essere riportate su un tabellone per consentire ad un pubblico più vasto di seguire la partita. Ma accade che sul tabellone vengano riportate le mosse di un solo giocatore, mentre le pedine dell'altro rimangono immobili nella geometria del loro schieramento iniziale. Eppure le pedine cadono da ambedue le parti, segno di una partita giocata senza esclusioni di colpi. Si verificano, infatti, dimissioni a catena all'interno della Democrazia Cristiana: la figura più illustre che lascia quel partito è quella dell'avvocato Giovanni Autiero, vicesegretario provinciale del partito ed ex podestà di Sulmona nel periodo tremendo dell'interregno tra la fine della guerra e la liberazione di 5ulmona da parte dell'esercito alleato. Tuttavia la DC, entro la fine dell'anno, riesce a comporre le fila scompaginate e propone alla cittadinanza sulmonese un manifesto nel quale assicura solennemente che il Distretto Militare di Sulmona non verrà sottratto alla città. Questa presa di posizione lascia perplessi gli altri partiti; la DC ha il potere di far rimanere il Distretto a Sulmona? se sì, dica come. Le dimissioni a catena ed il manifesto sono testimonianze esplicite di profondi contrasti determinati da quanto accade per il Distretto e dalla contrapposizione dei gruppi sulmonese ed aquilano. Tutto, però, rimane nella "camera caritatis" delle segreterie democristiane. Negli anni '55 e '56 il pericolo del trasferimento del Distretto si ripresenta, ma più che gli scioperi e le delegazioni a Roma valse a scongiurarlo il fatto che si stavano avvicinando le elezioni amministrative. P. sintomatico che il Ministro della Guerra, come veniva allora chiamato, su esplicita richiesta rivolta dal sindaco di Sulmona al segretario nazionale della Democrazia Cristiana, Fanfani, e all'onorevole Natali, non renda esecutivo il provvedimento di trasferimento delle pratiche giacenti al Distretto di Sulmona, ormai declassato, a quello di L 'Aquila. Il 27 e 28 maggio del '56 il Distretto Militare era ancora in città.

A questa data si conclude il secondo periodo amministrativo del dopoguerra e si vota per il terzo. La Democrazia Cristiana, in quanto tale, ne esce letteralmente dimezzata: dal 46.12% passa al 28.1 %; su 18 consiglieri ne perde 9 e da 5.300 voti ne raccoglie solo 3.310. È un tracollo? a prima vista, sì; in realtà si trattò della registrazione in termini elettorali dei dissidi interni al partito di maggioranza relativa: in quella stessa tornata elettorale vennero fuori due liste civiche dei Coltivatori Diretti, la lista della "Vanga" e la lista dei "Coltivatori Diretti Indipendenti", che ottennero complessivamente 4 seggi, 3 la prima ed 1 la seconda. Queste due liste non vennero fuori dal nulla: dal fianco della Democrazia Cristiana si staccarono dolorosamente queste due costole, a testimonianza diretta dei dissidi interni. Ma in quella tornata elettorale, a parte una sensibile avanzata delle sinistre, se ne registrò un'altra, quasi miracolosa: quella della lista Campanile e Cupola, di ispirazione liberale. Questa lista guadagna d'un colpo più di mille voti e tre rappresentanti in Consiglio. Anche su questa formazione politica si riversarono voti di provenienza democristiana.

Più che come una sconfitta elettorale, la situazione determinatasi all'indomani delle elezioni del '56 va letta come un momento della vita del partito della Democrazia Cristiana a Sulmona. La sconfitta, infatti, presuppone la presenza di un vincitore, ma l'avanzata della sinistra non deve trarre in inganno: i suffragi raccolti dal partito comunista e dal partito socialista dipendono essenzialmente dalla suggestione che i loro uomini seppero creare in qualità di protagonisti sulla piazza durante le crisi del '54 e '55, come del resto accadde per il movimento sociale. E quanto accade all'interno della Democrazia Cristiana viene puntualmente riprodotto in sede amministrativa.

L'aspirazione di questo partito a farsi borghesia di stato non è un fatto pacifico e cosciente al punto da essere teorizzato a tavolino da tre o quattro teste d'uovo ed accettato senza problemi da una truppa disciplinata. Alcune correnti interne non condividevano la tendenza, che per somma algebrica poi veniva fuori, e che era quella di creare un centro di potere autonomo sul territorio, svincolato dal patrocinio del clan aquilano o pescarese. I boss regionali avevano i loro uomini nella sezione DC di Sulmona e questi ultimi, pur dovendo far buon viso a cattivo gioco sul tema specifico del Distretto Militare, dovevano certamente dare battaglia per altri versi, cercando di estendere l'influenza dei propri capicorrente nella zona. Ma, nel caso particolare, se il gruppo prevalente della DC sulmonese avesse vinto la battaglia del Distretto, ciò avrebbe potuto significare una cosa sola: che cioè il gruppo sulmonese era riuscito a trovare un proprio protettore all'interno dei meandri del Palazzo romano. Questi, inoltre, non sarebbe stato né aquilano, né forse pescarese, ma, con ogni probabilità, un grosso calibro nazionale che, una volta lanciata una testa di ponte in Abruzzo, avrebbe potuto istallarvisi e scacciarne i boss indigeni imponendo un proprio proconsole. E ciò dal punto di vista dell'attribuzione della leadership regionale. Il pericolo, nell'ipotesi avanzata della vittoria del clan democristiano sulmonese sulla questione del Distretto, sul versante della gestione del potere regionale, sarebbe consistito nel fatto che il nuovo patrono dei ribelli, fatto il miracolo del Distretto, avrebbe potuto farne altri e, così, Sulmona si sarebbe sostituita ai capoluoghi di provincia nell'accaparrare i finanziamenti della Cassa per il Mezzogiorno. Tutto questo non doveva accadere. Di qui i fortissimi contrasti interni alla DC sulmonese determinatisi tra le diverse correnti e manifestatisi nella tornata elettorale del '56.

Perciò, se all'inizio la questione della soppressione del Distretto Militare di Sulmona rivestiva solo l'importanza che si può normalmente annettere ad un atto di normale amministrazione di un Ministero, con il procedere del braccio di ferro voluto dalla DC sulmonese, per quella aquilana veniva acquisendo tutta la valenza di una necessità di sottogoverno imposta dalla tutela di ben altri interessi che non quelli legati alla struttura militare.

E solo in questi termini si spiega la brutalità dei modi con i quali si provvedette al trasferimento del Distretto di Sulmona a L'Aquila.

Con le elezioni del '56, nella sala consiliare di Palazzo San Francesco accade un fatto del tutto inopinato: va a sedere sulla poltrona di sindaco il marchese Panfilo Mazara, gentiluomo di estrazione liberale eletto nella lista Campanile e Cupola. Un laico a Palazzo San Francesco, nel 1956, è un fatto assolutamente rimarchevole. È vero che la Democrazia Cristiana ha perso 9 consiglieri su 18, ma una poltrona di sindaco non viene abbandonata senza colpo ferire. Questa soluzione, però, si rivelerà molto propizia alla Democrazia Cristiana: di lì a qualche mese la crisi di "Jamm' mò" sarebbe precipitata e non è da escludere che qualcuno lo sapesse. Il sindaco liberale, quindi, marchese e gentiluomo, venne eletto perché gestisse la crisi di "Jamm' mò" al posto di un democristiano? Che il Distretto, declassato, fosse destinato a prendere la strada che portava a L'Aquila era comunque un fatto certo; incerte risultavano solo l'epoca e le modalità dell'avvenimento. In ogni caso, la presenza di un sindaco laico al momento della esecuzione dell'odioso provvedimento ministeriale sarebbe stata di gran lunga preferibile alla presenza di un sindaco democristiano. Ma se non si può attribuire ad un preciso calcolo di parte democristiana il verificarsi di questo nuovo assetto amministrativo ai vertici del Comune di Sulmona, non si può fare a meno di constatare come i protagonisti effettivi dello scontro, e cioè gli uomini della DC, l'un contro l'altro armati, appaiano, nello stesso, in ruoli secondari, almeno agli occhi dell'opinione pubblica cittadina. Infatti, se al Comune si è insediato nella poltrona di sindaco un liberale, ed alla testa del Comitato di Difesa Cittadina ancora un liberale, gli uomini della Democrazia Cristiana figurano, nella maggior parte dei casi, nella qualità di mediatori ai vari livelli istituzionali. Anzi è lo stesso onorevole Natali che, insieme a Spataro, telefona poche ore prima che il Distretto venga trasferito, per dare ampie assicurazioni al marchese Mazara di non preoccuparsi affatto in quanto il provvedimento di trasferimento dell'ufficio militare non sarebbe stato, almeno per il momento, attuato. Ma nella notte tra il 27 ed il 28 gennaio avviene irreparabile.

A quel punto lo scontro tra i gruppi aquilano e sulmonese della Democrazia Cristiana si consuma con la vittoria dei boss provinciali sui locali. Secondo i dettami della "dietrologia", la brutalità del trasferimento notturno non può che significare una cosa sola: è il gruppo aquilano della DC che deve svolgere una funzione di leadership in provincia; i notabili sulmonesi devono prendere atto di questa situazione, ed altro potere non potranno avere se non all'ombra dei potenti aquilani e solo dopo che questi avranno consolidato la propria area di influenza. Questo deve essere considerato il finale negativo dell'azione democristiana tesa a creare a Sulmona quella struttura di governo del territorio peligno mediante l'impiego del pubblico denaro.

Ma dopo l'improvviso precipitare del dramma, inopinatamente la svolta. La calata arrogante del Prefetto a Sulmona e lo scatenarsi della collera popolare rimettono tutto in gioco. Dal 28 gennaio al 2 febbraio, la popolazione sulmonese, sebbene rabbiosa per la beffa notturna, aveva dovuto registrare lo stato di fatto ed incassare il colpo. Con lo sciopero generale e le dimissioni di tutti i consiglieri comunali, Sulmona celebra una sconfitta che è essenzialmente una sconfitta dei leaders democristiani locali.

Allora perché la rivolta? è indubbio il fatto che l'episodio del Prefetto dette l'occasione al suo esplodere. Ad una beffa non si poteva aggiungere impunemente un'altra, e la rabbia esplose. Ma era una rabbia dalle radici più profonde. La popolazione aveva assistito ad una serie di manovre delle quali aveva colto solo alcuni aspetti. In tre anni, sempre sul finire dell'estate, la questione del Distretto si era puntualmente riproposta ed era puntualmente rientrata. E quelli erano anni in cui i disoccupati italiani avevano ricevuto dal governo, invece che posti di lavoro, il consiglio di acquistare una valigia, imparare una lingua ed emigrare. La vicenda della soppressione del Distretto Militare, anche se in termini confusi, aveva evidenziato, al di là di ogni dubbio, che il Governo aveva abbandonato a se stessi i cittadini del meridione. Non solo, ma attraverso provvedimenti iniqui e contrari all'interesse dello stesso Stato, sottraeva le misere risorse dalle zone più povere per dirottarle verso altre più potenti. La rivolta delle due giornate di Sulmona nacque, quindi, dalla rabbia della popolazione e non poté essere perciò "una rivolta borghese" come suggerì immediatamente la stampa nazionale che inviò a Sulmona giornalisti del calibro di Villy De Luca, Alberto Consiglio e Giancarlo Del Re. I cosiddetti borghesi, colonnelli, generali a riposo, nobili e professionisti, avevano ormai giocato tutte le loro carte, ed avendo perso, da bravi borghesi appunto, si erano bruciati romanticamente le cervella immolando la propria immagine pubblica in un rito collettivo in consiglio comunale e giungendo persino ad organizzare il proprio funerale. Cos'altro può significare, infatti, la deposizione di una corona d'alloro sul monumento ai Caduti, in una evenienza del genere, se non portar fiori sulla propria tomba? L'autocommiserazione, a volte, può rivestire anche quest'aspetto: considerarsi Caduti per la Patria. Tali dovevano sentirsi gli aspiranti borghesi di stato sulmonesi. La sottrazione del Distretto per loro dové significare senza alcuna possibilità di equivoco la impossibilità di giungere a costituire a Sulmona un centro di potere politico ed economico autonomo dalla tutela dei capi aquilani.

Per questi motivi il 2 febbraio, quando scoppiò la rivolta, il Prefetto, rifugiandosi in Comune, si trovò di fronte, schierati in bell'ordine e costernati, i protagonisti "borghesi" della crisi causata dal Distretto; tutti lì, a battersi il petto e ad umiliarsi: il colonnello Sardi De Letto, lo stratega dei tre tempi, era lì ad offrire la mano al funzionario in un eccesso di amicizia e solidarietà, frustrato dallo sdegnoso e sprezzante rifiuto del funzionario rabbioso per le attenzioni tributategli dal popolo sulmonese in rivolta. Ma proprio mentre i cittadini di Sulmona bastonavano e sbeffeggiavano le forze dell'ordine, inopinatamente si realizzava il disegno dei borghesi di stato.

A Sulmona si ebbe la fortuna, in quel frangente, di non registrare alcun fatto di sangue, fatta eccezione per il ferimento del giovane falegname. f1 Partito Comunista impedì che l'azione rivoltosa degenerasse, tenendo a freno le teste più calde della piazza. Ma dopo la rivolta popolare si giunse all'assurdo che quanto più grave fosse stato il bilancio della stessa, tanto maggiore sarebbe risultata la vittoria degli aspiranti borghesi di stato sulmonesi. Il risultato più immediato delle due giornate di Sulmona si colse infatti nella reazione della opinione pubblica nazionale e degli echi che di questa reazione si ebbero in parlamento. Durante le campagna elettorale per il rinnovo del consiglio comunale dimessosi il 30 gennaio del '57, il Parlamento votò la famosa mozione Corbi-Spataro. Questa era stata tratta da un promemoria steso a sei mani da Claudio Di Girolamo, Giovanni Autiero e Vincenzo Masci, ed aveva il pregio di fare puntuale riferimento alle risorse della zona e nell'individuare un piano di aiuti finanziari per strappare la Valle feligna dalla sua endemica miseria. Senonché accanto a questo pregio, quella mozione presentava un difetto che ne inficiava alla base l'intera credibilità; era una mozione votata dal Parlamento sotto la spinta dell'opinione pubblica nazionale e nell'imminenza di una campagna elettorale amministrativa. Il fatto stesso che poi fosse stata quasi integralmente ripresa dal promemoria dei tre uomini politici sulmonesi dimostrava come, nonostante le migliori intenzioni, il Parlamento non avesse, nell'occasione, idee proprie su come intervenire in questa parte del Mezzogiorno. Anzi il dibattito sui fatti di Sulmona costituì l'occasione per il rinnovarsi di uno scontro tra i sostenitori della linea liberista in politica economica, e le sinistre che con Di Vittorio facevano diretto riferimento al Piano del Lavoro della CGIL. Risulta evidente dalla lettura della mozione che nessuna delle due linee venne adottata.

Quindi la mozione non risultò essere che un atto formale, di fronte al quale il Governo, nella sostanza, non si sentì affatto impegnato.

Nella campagna elettorale che seguì di lì a poco, infatti, si ebbero i primi segnali dell'intervento statale nell'economia della Valle Peligna. Il Ministro del Tesoro, il democristiano Campilli, nei suoi comizi elettorali si lanciò in una serie mirabolante di promesse. Sin dall'inizio la popolazione di Sulmona si rese conto del fatto che quelle promesse non potevano essere mantenute e le definì "campillate". Ma il personaggio governativo di fronte allo scetticismo ironico con il quale venivano accolte le sue parole, lanciò una minaccia che pressappoco suonava in questi termini: "state buoni e votate per la Democrazia Cristiana, altrimenti 'una fabbrica' non verrà...". E questo fu il segno della vittoria per i democristiani sulmonesi. Quando ormai sembrava tutto perso, la rivolta popolare aveva impressionato a tal punto le gerarchie democristiane che si decise di aiutare gli amici del Partito di Sulmona, non attraverso la realizzazione di quanto previsto dalla mozione, bensì attraverso l'uso degli incentivi per la industrializzazione per il Mezzogiorno che costituivano il momento marginale della manovra di politica economica avviata con la Cassa per il Mezzogiorno.

Nel maggio si andò alle elezioni con la DC avviata a ricomporre le fratture. Si risolleva, infatti, al 41.81% e riconquista 13 seggi. La maggioranza assoluta per il momento è persa, ma le due liste dei "Coltivatori Diretti della Vanga" e degli Indipendenti rientrano all'ovile.

Vengono recuperati i voti della lista "Campanile e Cupola"

che scompare e, mentre il marchese Panfilo Mazara si ritira dalla scena politica, un giovane commerciante, dinamico ed intraprendente, Paolo Di Bartolomeo, abbandona la barchetta liberale per salire sul transatlantico democristiano. Mentre i socialisti mantengono intatti i propri suffragi, conquistano 2 seggi i comunisti (6 seggi, 20.28% e 2.330 voti) ed un seggio il Movimento Sociale (3 seggi, 1137 voti pari al 9.87%). Diviene sindaco di Sulmona il generale, Ruggieri. Ricomposte al suo interno le gravi fratture, la Democrazia Cristiana affronta il terzo (quarto se si considera l'amministrazione Mazara) periodo amministrativo del dopoguerra, durante il quale viene dato il via ad una complessa manovra politica ed economica tendente ad industrializzare la Valle Peligna. Attraverso gli incentivi per l'industrializzazione del Mezzogiorno in quegli anni si avviano le trattative per far insediare nella Valle Peligna l'Adriatica Componenti Elettronici. Sul finire degli anni '50 verrà posta la prima pietra della fabbrica. Nel manifesto annunciante la cerimonia venne scritto, scomodando il Virgilio delle Ecloghe, "et carpent mea poma nepotes" (i posteri raccoglieranno i miei frutti) e seguivano i nomi dei due Vescovi di Sulmona, il titolare ormai invecchiato, il buon patriarca Luciano Marcante, ed il Vicario, Francesco Amadio, un marchigiano energico e combattivo, e gli altri dell'ingegner Fonzi, un dirigente d'azienda, anche questo marchigiano energico e combattivo, delle eccellenze Natali e Gaspari e così via. Era nata la Borghesia di Stato.

Il primo segnale di questo lieto evento viene colto nella tornata elettorale per il quarto periodo amministrativo sulmonese del dopoguerra. Nel novembre del '61 le urne dei seggi elettorali danno il seguente e perentorio risultato: Democrazia Cristiana, 6.366 voti, pari al 54.40%, 20 consiglieri; PCI, 1831 voti, pari al 15.64%, 5 consiglieri; PSI, 1275 voti, pari al 14.75%, 4 consiglieri; MSI, 651 voti, pari al 5.56%, 1 consigliere. Questi dati possono riassumere il senso della rivolta popolare del 2 e 3 febbraio a Sulmona. Nata da presupposti "borghesi", cioè interni al partito della Democrazia Cristiana, quella rivolta ha avuto una storia e motivazioni proprie ed è stata usata per il raggiungimento di quei risultati per i quali "i borghesi di stato" di Sulmona avevano lottato ed erano stati sconfitti dai loro "amici" aquilani. Dopo l'insediamento dell'ACE a Sulmona, che altro non era se non la multinazionale tedesca Siemens Elettra sotto smentite spoglie, avvenuto nel '63, verrà creato il Consorzio per il Nucleo Industriale (1970) e quindi verrà l'insediamento della Fiat. Quindi l'autostrada, le altre fabbriche. Masse di finanziamenti pubblici da gestire per investimenti che a dir poco non si dimostreranno produttivi.

Questi, però, sono aspetti diversi della stessa storia sui quali per il momento ci fermiamo.

 

CAPITOLO 7

JAMM' MÒ

I DOCUMENTI