jamm02.jpg (102626 byte)

IL DISTRETTO, L'ULTIMA RAPINA…

 

Prima di entrare nel merito della ricostruzione storica dei fatti di "Jamm' mò", è necessario tratteggiare in grandi linee il contesto di politica economica nel quale quei fatti si produssero. Un contesto nazionale ed internazionale perché, anche a voler considerare a sé stante il fazzoletto di terra che è la Valle Peligna, non si può non ritrovare in esso il trait d'unione che lo lega all'intero sistema cui appartiene.

E’ notorio il ruolo che gli Stati Uniti svolsero per la ricostruzione dell'Europa. I governanti di quel paese, nell'impostare un piano di aiuti alle nazioni europee del blocco occidentale, si posero come obiettivo di fondo quello di creare un'Europa forte, economicamente sicura e quindi in grado di fronteggiare politicamente il blocco orientale.

Gli studiosi di economia abruzzesi, Mattoscio e Pelino, in una loro relazione allegata agli atti del convegno "Anni 50: il Piano del lavoro in Abruzzo", promosso dalla Camera del Lavoro di Sulmona nel novembre del '79, hanno citato diffusamente il Country Study dell'economista americano Paul Hoffman, uno degli amministratori del Piano Marshall. Nello Study presentato al Congresso americano nel febbraio del '49, Roffman ha criticato "l'incapacità italiana di promuovere la crescita, che doveva essere l'unico vero obiettivo dei paesi occidentali e supporto ineliminabile del confronto con il blocco orientale". Gli aiuti del piano Marshall, sosteneva ancora Roffmann, dovevano far raggiungere all'Italia il livello proprio dei paesi europei sviluppati, eliminando la disoccupazione ed il basso livello della produzione e dei consumi. Ed un ruolo fondamentale in questo senso avrrbbe dovuto svolgere lo Stato mediante una mole massiccia di investimenti pubblici.

Sul tema della localizzazione delle risorse e di incentivazione dello sviluppo regionale, l'analisi di Hoffmann implica che, volendo fare della eliminazione delle zone di arretratezza il principale obiettivo macroeconomico, occorreva innanzi tutto fare dell'intervento nel Mezzogiorno una dimensione costante della politica governativa, e non una forma di intervento straordinario separato dagli altri comparti dell'economia, e quindi predisporre opportunità di investimento molto più numerose nella regione più arretrata rispetto a quella sviluppata. Al contrario in Italia si è avuta una politica economica che ha provocato squilibri comulativi nelle regioni sottosviluppate: l'Abruzzo è una delle regioni che più hanno risentito della mancata impostazione in termini di uno sviluppo qualificato del problema regionale, ed è a questa grave deficienza che va attribuito il suo persistente sottosviluppo relativo nel corso degli anni '50. (Mattoscio-Pelino, op. cit. pag. 58).

Lo stato, continuano Mattoscio e Pelino, preferì seguire, tra l'altro, una politica economica caratterizzata da una manovra monetaria, quella ormai divenuta nota con il nome Einaudi-Pella. Va detto, comunque, che nell'immediato dopoguerra, fino ai primi anni '50, e quindi a ridosso dello incipiente boom economico, la politica economica dei governi centristi, in vista dell'integrazione economica con gli stati europei, scelse di sostenere l'industria del Nord, ritenuta capace di reggere il confronto con gli apparati industriali dei partner europei, invece che prevedere un'industrializzazione del Mezzogiorno, ancora tutta da inventare.

Tuttavia, al fine di ridurre la disoccupazione ed elevare il tenore di vita delle masse meridionali, i governi centristi, messa da parte l'ipotesi dell'industrializzazione, si avvalsero in primo luogo della valvola dell'emigrazione ed in secondo luogo di importanti strumenti di politica economica quali la Riforma Fondiaria e la Cassa per il Mezzogiorno.

Il primo di questi due strumenti, attraverso particolari meccanismi, avrebbe dovuto mettere a disposizione delle masse bracciantili meridionali, e di alcune altre aree del paese particolarmente depresse e per questo assimilate al Mezzogiorno, oltre 8 milioni di ettari di terreno. I fatti poi dimostrarono che gli espropri interessano solo 800 mila ettari di quelli previsti, dei quali 650 mila effettivamente nel Mezzogiorno. (A. Graziani, "L'Economia Italiana dal '45 ad oggi", il Mulino, Bologna, 1979, pago 48). Qualcosa di positivo questa riforma produsse, ma solo in quelle ristrette zone nelle quali venne accompagnata da intense opere di trasformazione dell'assetto del territorio in funzione di una sua maggiore produttività agricola; in altre zone, nelle quali pure avrebbe dovuto operare, e soprattutto in quelle interne rispetto alle coste, la riforma portò solo espropriazioni, ed in quantità minima; le produzioni basate su un'agricoltura arida crearono redditi estremamente modesti.

La Cassa per il Mezzogiorno venne istituita con legge il 10 agosto del 1950, ed in seguito alla scelta di sostenere l'apparato industriale del Nord, a questo nuovo istituto venne affidata la realizzazione di notevoli infrastrutture civili nel, Sud, quali strade, opere idrauliche, scuole, ospedali. E ciò perseguendo l'obiettivo di aumentare l'occupazione, il tenore di vita ed il livello di reddito nel Mezzogiorno che così sarebbe divenuto, tra l'altro, un'area di espansione commerciale per i prodotti industriali del Nord.

Accanto a questa manovra - che, considerato lo stato di degrado e di sottosviluppo del Mezzogiorno, assunse i tratti di un intervento umanitario più che quello di un vero e proprio piano di politica economica - ne venne contemporaneamente proposta un'altra, minoritaria e marginale date le premesse, in direzione dell'industria. In questo caso venne, però, adottata una forma indiretta di intervento, attraverso una manovra che verrà detta degli incentivi, con mutui agevolati al 3% o a fondo perduto per gli insediamenti industriali nel Sud di piccole e medie imprese che avrebbero potuto così ridurre il costo iniziale di impianto o il costo di esercizio.

La caratteristica umanitaria, e quindi in larga parte assistenziale, di tale politica economica, non prevedendo investimenti produttivi, si risolse alla resa dei conti in uno spreco. L'economista inglese Vera Lutz, che si è preoccupata della questione in un saggio pubblicato sulla rivista "Mondo Economico" il 29 ottobre 1960, intitolato "Una revisione critica della dinamica dello sviluppo del Mezzogiorno", ha scritto che le strade costruite dalla Cassa per il Mezzogiorno: "(...) servivano ormai agli abitanti del mezzogiorno soltanto per abbandonare i loro paesi di origine". Ma, emigrazione ed altro a parte, un effetto particolare di questa manovra economica dei governi centristi si ebbe nel configurare la struttura degli apparati politici del Sud. Gli enti locali gestirono la realizzazione delle infrastrutture civili, decidendo sia dal punto di vista amministrativo che da quello economico relativamente, è chiaro, alla spesa di queste risorse finanziarie. Inoltre questa situazione, essendo la gestione della Cassa per il Mezzogiorno centralizzata, di fatto determinò una saldatura di natura clientelare tra gli uomini politici degli enti locali meridiona1.i e quelli eletti nel Palazzo romano. Ne nacque un intreccio politico, sociale ed economico che dura ancora oggi anche in presenza di, istituzioni di democrazia decentrata e che condiziona il modo d'essere della società civile meridionale. È di qui che bisogna partire per capire le ragioni del fatto "Jamm' mò".

Riassumendo brevemente le già enunciate e schematiche premesse teoriche poste dai governi centristi di quel periodo a fondamento della propria politica economica, possiamo dire che, per raggiungere l'obiettivo della diminuzione della disoccupazione, dell'aumento del tenore medio della vita dei cittadini e dell'integrazione economica del paese nel mercato europeo, venne potenziato l'apparato industriale del Nord, mobilitando tutte le energie del paese in questo senso e, limitatamente al Sud, attingendo a piene mani nella riserva di mano d'opera che questo rappresentava. Mano d'opera non qualificata e a basso costo. Nel meridione si attenuò la morsa della disoccupazione attivando un flusso migratorio interno ed esterno al paese, cercando di avviare la Riforma Fondiaria e con gli interventi diretti della Cassa per il Mezzogiorno.

Senza entrare in ulteriori analisi su questo tipo di politica economica, è necessario mettere in rilievo, come già parzialmente qui è stato fatto, che il passaggio dalle premesse teoriche alla concretizzazione di tale manovra comportò la degenerazione della stessa in strumento di potere clientelare al servizio del partito di maggioranza relativa. Bisogna inoltre tener presente che la centralità decisionale degli interventi finanziari comportò per gli uomini politici degli enti locali meridionali la necessità di avere una testa di ponte nella stanza dei bottoni del Palazzo romano. La necessità, cioè, di avere a Roma parlamentari che, impegnati in prima persona in incarichi di governo, a qualsiasi livello, potessero, in ragione della massa di voti rappresentata, incanalare verso i collegi elettorali di provenienza la maggiore quantità di finanziamenti possibile, anche se a scapito, dell'interesse generale.

Con il sistema elettorale introdotto nel nostro paese nel dopoguerra, soprattutto con la dilatazione territoriale dei collegi elettorali, Sulmona, e per essa il partito di maggioranza relativa - l'unico che aveva inviato propri rappresentanti in parlamento - perse la possibilità di avere propri uomini nel Palazzo nei momenti cruciali della dislocazione delle risorse finanziarie per il Mezzogiorno. Già questo fatto costituiva di per sé un evidente motivo di risentimento da parte dei notabili democristiani sulmonesi nei confronti dei loro amici della provincia che, per essere presenti nel Palazzo, potevano meglio soddisfare le esigenze patronali del proprio collegio, procurando ad esso finanziamenti o impedendo che il Governo e la, Pubblica Amministrazione in genere adottassero provvedimenti contrari all'economia dello stesso.

La decisione di sopprimere il Distretto Militare di Sulmona, adottata contro ogni logica di un'equa ristrutturazione logistico-militare, ed ultima spoliazione in ordine di tempo di altri uffici amministrativi di varia natura - tutti riassorbiti dal capoluogo provinciale - esasperò questo risentimento non tanto per l'episodio in sé, quanto invece perché chiariva, al di là di ogni ragionevole dubbio, che sul piano della gestione clientelare del potere il gruppo democratico cristiano di L'Aquila non era disposto a concedere nulla agli "amici" delle altre zone. Il blocco degli "amici" di Sulmona e della Valle Peligna si convinse che veniva messa in discussione la propria sopravvivenza, minacciata di morte per asfissia causata dalla invadente potenza dei capi aquilani e dalla povertà endemica della zona, destinata a durare nel tempo. E l'immediata concretizzazione della difesa della propria esistenza venne trovata nella mobilitazione popolare in difesa del Distretto Militare, periodicamente ricorrente, dallo sciopero dell'agosto del '54 fino alle dimissioni del consiglio comunale il 30 gennaio del '57. In questa data il gruppo dirigente della Democrazia Cristiana sulmonese, di fronte al trafugamento notturno del Distretto Militare, rispose con il "suicidio" di tutte le istituzioni civili cittadine. Ma il 'cupio dissolvi' posto in atto con le dimissioni di tutti gli organi dell'ente locale sulmonese, non travolse il gruppo dirigente DC che in tutte le situazioni, anche le più drammatiche, è sempre riuscito a salvaguardare la propria identità e compattezza qualitativa, anche se quantitativamente compromessa. A distanza di oltre un quarto di secolo da quei fatti, riesaminandoli nella loro completezza, si ha l'impressione che la prima parte della vicenda "Jamm' mò", durata ben tre anni e mezzo, altro non sia stata che una vicenda interna della Democrazia Cristiana; che, cioè, sia stata una partita giocata e vinta dalla DC aquilana da una parte contro la DC sulmonese dall'altra. Una partita fatta concludere in maniera dignitosa e retorica non da un democristiano, bensì da un personaggio dignitoso e retorico che con la Democrazia Cristiana aveva poco da spartire: il liberale Marchese Mazara.

Se perciò si è parlato di rivolta borghese per dare un'etichetta a "Jamm 'mò", con molta probabilità ci si è lasciati condizionare, oltre che dai numerosi personaggi che occuparono la ribalta, anche dall'aspetto di questa prima parte della vicenda che, sebbene opportunamente dissimulato, si leggeva tra le righe. La seconda parte di "Jamm' mò" nasce da una rivolta popolare ma produce gli effetti che erano stati perseguiti, ma non ottenuti nella prima. Nella prima fase i protagonisti li troviamo tutti all'interno dell'entourage democristiano e sono figure di liberi professionisti, ufficiali a riposo ed esponenti della vecchia nobiltà locale; il popolo, se ci si passa il termine, aveva svolto soltanto una funzione di comprimario, utile allo svolgimento della commedia, ma sul tessuto di una trama intrecciata da altri. Nella seconda fase i protagonisti della prima vengono spazzati via ed i comprimari occupano prepotentemente la scena, non rispettando più le battute del copione. Viene però inconsapevolmente avviato quel processo che consentirà ai notabili DC locali di farsi "borghesia di stato", nonostante la sconfitta ad opera dei boss aquilani.

L'innesco alla deflagrazione dei due giorni di rivolta violenta viene dato dalla "calata" del Prefetto da L'Aquila a Sulmona. Il funzionario del governo viene a rampognare gli uomini dell'ente locale, e non solo quelli, per essersi dimessi dalle cariche pubbliche (1). Non sono stati trovati documenti o testimonianze che consentano di affermare con certezza che il Prefetto, nell'occasione, abbia riunito nella sua persona le figure del funzionario di governo e del commissario di partito giunto a Sulmona non solo per ristabilire il turbato ordine costituzionale, ma anche quello compromesso e proprio del partito della DC. Pure questa è un'ipotesi che non può essere sottaciuta perché sorretta da indizi non trascurabili.

Ma, tornando alle cause dei due giorni di rivolta violenta, la presenza del Prefetto a Sulmona, come abbiamo detto, fu la causa scatenante. Le ragioni più profonde, però, vanno ricercate nelle condizioni di estrema povertà in cui viveva la maggioranza della popolazione sulmonese. In un'intervista rilasciata all'inviato di "Paese Sera", il segretario comunale, il dottor Ferri, affermava che almeno il 40% della popolazione censita non possedeva alcun reddito e, concedendosi una nota ironica e nel contempo tragica, continuava affermando che dal momento che nessuno a Sulmona andava in carcere per furto, non riusciva a capire come quel 40% potesse vivere, in quanto l'unica prospettiva che in quella situazione avrebbe potuto assicurare il pane quotidiano era quella di darsi al furto come professione. È evidente che in una situazione di questo genere non si può pensare di gestire questioni interne di partito sull'onda e con la strumentalizzazione di una protesta socialmente diffusa. All'ennesima provocazione la collera popolare, alimentata dalla disperazione della disoccupazione e della mancanza di prospettive, andò per proprio conto, prendendo la mano a chi pensava di poter cavalcare la tigre con ogni tranquillità. E Sulmona, così, fu sbattuta in prima pagina a sottrarre con la sua "rivoluzione" spazio ed interesse allo scandalo Montesi-Piccioni.

Tuttavia subito dopo, nel luglio del '57, dopo i dibattiti parlamentari aventi ad oggetto i fatti di Sulmona del marzo e dopo la campagna elettorale del maggio per il rinnovo dell'amministrazione comunale, il Parlamento, con legge numero 634, disciplinò l'istituzione di Consorzi tra enti locali per Aree e Nuclei per lo sviluppo industriale. Visti i risultati deludenti ottenuti dalla Riforma Fondiaria e dalla Cassa per il Mezzogiorno, i governi centristi si persuasero ad adottare, per tentare di risolvere, il problema del Mezzogiorno, la linea dell'industrializzazione attraverso una manovra più articolata di quella propria degli incentivi. La legge 634 del 30 luglio del '57 stabiliva che i consorzi avrebbero dovuto individuare i suoli da destinare ad aree di sviluppo industriale, allestendo in essi tutte le infrastrutture di supporto per i futuri apparati produttivi. Le imprese che avessero deciso di insediarvisi avrebbero ottenuto agevolazioni più elevate di quelle previste per il Sud dalla Cassa, e cioè contributi a fondo perduto in ragione del 20% del costo iniziale dell'impianto e molte altre di carattere fiscale. La legge, inoltre, introduceva una differenziazione tra Aree e Nuclei, indicando nelle prime le zone con una più spiccata vocazione industriale che non i secondi. Di queste ne furono indicate, con testualmente alla normativa, quattro: la Napoli-Caserta-Salerno, la Bari-Taranto-Brindisi, la Catania-Siracusa e la Porto Torres. In poco tempo da pochissime unità, Aree e Nuclei divennero oltre 50 e dal '58 al '63 si ebbe una cospicua ondata di investimenti nel Mezzogiorno tanto che si toccò la punta massima storica del 25% rispetto al totale nel settore nazionale della industria. Anche questo intervento lasciò il suo segno nella società meridionale. A questo proposito l'economista Augusto Graziani, (op. cit., pag. 73), afferma testualmente: "Le aree di sviluppo industriale erano state concepite in opposizione all'azione centralizzata della Cassa, come esperimenti di decentramento della politica di industrializzazione e di maggiore autonomia delle forze politiche locali. Sebbene in linea di principio questa avrebbe potuto dare luogo ad una gestione più democratica dell'intervento, è assai discutibile se ciò sia di fatto avvenuto. Infatti, sul piano tecnico, i Consorzi risultarono sovente incapaci di organizzarsi in maniera adeguata e l'intervento di sostegno della Cassa si accrebbe progressivamente, sia nella fase di creazione delle aree che in quella successiva di gestione. I Consorzi utilizzarono invece la loro autonomia sul piano della gestione politica; e la utilizzarono in direzione non di rado clientelare, sfruttando i mezzi finanziari di cui disponevano come strumenti di lotta politica. Dalla politica di industrializzazione non nacque dunque una nuova classe di borghesia industriale, ma ne uscì ulteriormente sviluppata e consolidata una classe di burocrati amministratori, la cosiddetta borghesia di stato, che agì essenzialmente quale strumento di conservazione sociale".

Ed è sulla lotta tra i gruppi democristiani di L 'Aquila e Sulmona, tesi a divenire ciascuno borghesia di stato a scapito dell'altro, che è nato il fatto di "Jamm' mò" nei suoi aspetti di protesta borghese e di rivolta popolare.

 

Note:

(1)

In primo luogo la dipendenza gerarchica diretta del Prefetto dal Governo implica di per sè non solo una dipendenza di natura strettamente amministrativa, ma anche un rapporto fiduciario di natura politica che in quel periodo era molto forte. In secondo luogo si può dire, e le cronache dell'epoca lo dimostrano, che il Prefetto abbia mantenuto contatti diretti non solo con il Comune e con il Comitato di difesa cittadino, ma anche e soprattutto con il gruppo dirigente vero e proprio della Democrazia Cristiana di Sulmona. Da segnalare a questo riguardo un trafiletto apparso su un quotidiano che riportava una notizia secondo la quale il 22 febbraio del '57 una qualificata delegazione della Democrazia Cristiana sulmonese era stata convocata a L’Aquila per un colloqui con il Prefetto. Nella notte tra il 28 e 29 febbraio il Distretto venne trafugato con una metodologia operativa certo non predisposta all’ultimo momento.

 

PREMESSA

JAMM' MÒ

CAPITOLO 2