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Il Convento e la Chiesa dei Domenicani

S. Domenico, convento e chiesa, è la sintesi dell'egemonia dell'arte rinascimentale, nel contesto architettonico dello "stile mendicante", in Muro Leccese; è la testimonianza più nobile della continuità della storia politico-sociale e religiosa, non soltanto della cittadina che ospita il complesso domenicano, ma anche degli altri centri che ruotarono intorno ad essa dal Cinque al Settecento. Pur tra i ruderi del convento e i misfatti perpetrati nella chiesa attigua (i restauri vi hanno, in minima parte, come era logico, riparato), il visitatore sente palpitare, ancora oggi, l'anima della Chiesa controritormistica, prima e dopo Lepanto (1571), quale richiamo all'unità della fede e alla raccolta delle forze spirituali, in quel mondo latino su cui più fortemente e saldamente si poteva puntare per sopperire ai tagli profondi operati dalla riforma. I Padri Predicatori (o Domenicani) giunsero in Muro negli anni che segnarono il fervido periodo post-tridentino: che poi furono gli anni del maggior prestigio domenicano nella storia italiana e meridionale. E fu merito dei muresi aver compreso l'importanza dell'avvenimento che segnò, il 13 dicembre 1562, l'ingresso ufficiale dei Domenicani nella loro città. I figli di S. Domenico di Guzmàn (1170-1221), allorché giunsero a Muro, non avevano nè un convento nè una chiesa propria. Per un ventennio seguirono le fasi della costruzione della loro casa, che, nella icnografia (o pianta) originaria doveva essere grandiosa, situata sui ruderi dell'antico cenobio dei monaci italo-greci, distrutto dai turchi dopo la presa di Otranto, nel 1480. I monaci di Muro erano ben collegati con quelli di S. Nicola di Càsole, il cui famoso cenobio sentì per primo i colpi della catastrofe otrantina. Càsole è a un fischio dal Colle di Minerva, dove avvenne l'eccidio più tragico della storia italiana al mattino dell'età moderna. I monaci italo-greci di Muro seguirono, a breve distanza, la sorte dei confratelli di Otranto. I Protonobilissimo non trovarono difficoltà a dotare i Domenicani di Muro dei beni dell'abazia di San Spiridione in Sanàrica (masseria Incanelli) e poi di quelli di San Zaccaria, che era un "beneficio" dei preti di rito greco, già in declino - e questo fatto è sintomatico - proprio quando i Predicatori ponevano piede in Muro Leccese.Il convento fu terminato nel 1583. È probabile che il titolo dello Spirito Santo (ovvero "Santo Spirito", come venne chiamato con l'espressione più vicina al "grico" locale), a cui il convento domenicano è dedicato, fosse stato ereditato, con piacere, da quello che gli avevano dato i monaci italo-greci: la teologia trinitaria del domenicano Tommaso d'Aquino aveva attinto a piene mani dalla patristica orientale. E i Domenicani pugliesi avevano intitolato la loro "provincia" all'Aquinate. Anche se il progetto, voluto da Giovanni Battista I Protonobilissimo, comprendeva convento e chiesa "per modum unius", tuttavia è certo che quest'ultima fu iniziata quando già il convento era terminato. I Frati Predicatori, in ogni modo, s'erano nel frattempo progettata e realizzata anche una loro cappella nel "corpus" architettonico dello stesso convento: alcuni accenni lo testimoniano, a chi voglia soffermarsi tra i ruderi del chiostro. Chiesa e convento subirono trasformazioni nell'arco di circa due secoli: fino, cioè, a qualche anno prima che quei Frati lasciassero Muro, dopo la soppressione. Gli accennati restauri della chiesa risalgono al 1962; e si deve dire, a loro merito, che i muresi hanno salvato il salvabile e restituito il tempio al culto, dopo l'abbandono in cui per circa un secolo e mezzo era stato lasciato. Ma quel che fa maggior pena è la visione desolante di quello che fu il convento, opera magistrale di Giovanni Maria Tarantino, il famoso architetto e scultore di Nardò, che operò nel Salento tra il 1573 e il 1620. I ruderi del convento domenicano di Muro sono, forse, la dimostrazione più significativa dell'abbandono in cui sono state lasciate le opere d'arte nel Salento. Gli altri conventi, sparsi un po' dovunque in Terra d'Otranto, hanno conservato in qualche modo la loro struttura di fondo, perchè sono stati destinati a caserme, sedi comunali, carceri e scuole. Eccettuato il convento degli Agostiniani a Melpignano, quello degli Olivetani dei Santi Nicolò e Cataldo, a Lecce: e in parte, quello dei Minimi, ad Otranto, il resto dell'edilizia monastica salentina è andato in rovina. La stessa sorte è toccata al convento domenicano di Muro Leccese. Scorrendo gli atti di alcune visite pastorali degli arcivescovi di Otranto, dagli inizi fino alla metà dell'Ottocento, si ha l'idea esatta dell'agonia lenta ma ineluttabile di questo capolavoro dell'architettura salentina. Nel 1801 l'arcivescovo Vincenzo Maria Morelli firmava, in data 31 marzo, il verbale della sua visita a Muro dalla residenza del convento dei Domenicani. Redattore-segretario del verbale fu l'accolito Marino Paglia. Il 3 ottobre 1804, il medesimo arcivescovo redigeva dalla stessa sede murese l'atto d'una ulteriore visita, con la perizia, sobria ma precisa, che era caratteristica di quel vescovo e del suo segretario-convisitatore, Marino Paglia (divenuto poi arcivescovo di Salerno), che questa volta si firma da diacono. Il colpo mortale fu inferto al convento (e, quindi, anche alla chiesa attigua) in conseguenza delle leggi napoleoniche di soppressione degli Ordini religiosi (1809). I Domenicani abbandonarono la loro sede; nè vi tornarono più. I Borboni, ritornati a Napoli nel 1815, pur mostrando di volersi interessare del recupero delle case religiose e delle chiese abbandonate (Ferdinando I delle Due Sicilie restituì solo cinque conventi pugliesi ai Domenicani), si dimenticarono letteralmente della lontanissima Muro. Nè gli amministratori locali, impegnati in tutt'altro e presi dal vortice della lotta antiecclesiastica, furono più zelanti degli ultimi re di Napoli. Nel 1838, la visita dell'arcivescovo Vincenzo Andrea Grande (nell'atto redatto in Murò. 18 ottobre, ma non più nel convento, che era stato la residenza abituale dei vescovi "visitatori") si interessa delle "sepolture" nella chiesa di S. Domenico. Sicchè il complesso domenicano si prepara a diventare un cimitero! La relazione della visita del 1841 (fatta puntualmente. come era d'obbligo. ogni tre anni e datata al 23 settembre) fa annotare testualmente all'arcivescovo Grande: "La chiesa di S.Domenico, comunque (sic) elegantissima nell'edificio, essendo sprovveduta di ornato negli altari, si permette la celebrazione nei soli trè (sic) Altari principali, maggiore cioè, il Rosario e S. Domenico. Il Cimitero adiacente a tal chiesa è ben formato, vi manca però la diligenza in chi ne prende cura col fare ben chiudere le sepolture, perchè l'esalazioni sono ben sensibili, e perniciose. Si prega il Sindaco a provvedere a tal bisogno coi mezi (sic), che abbia in suo potere. Muro in S. Visita 23 settembre 1841". Redattore-segretario del verbale fu il sacerdote Vincenzo Stincone. Il 24 ottobre 1844, il medesimo arcivescovo Grande, acuto e pungente quando era il caso, scrive da Scorrano la relazione della sua visita a Muro: ed esprime il solo rammarico in un solo termine, assai pregnante: "Quella [cappella] di San Domenico è deserta". Esattamente un secolo dopo, le truppe alleate, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, avrebbero completato l'opera di desolazione in quel complesso che fino a tutto il Settecento era stato un dignitoso studentato per tutto il Basso Salento. D'altra parte, nel 1853 la "provincia domenicana" di Puglia, che aveva scritto fin dal suo nascere (1525) una storia densa dì avvenimenti significativi in molti centri salentini, fu soppressa e incorporata a quella napoletana. La Chiesa di S. Domenico, comunque, a croce latina con una sola navata conta nove altari ed è ricca di affreschi. Recentemente, quasi a voler ritornare agli antichi splendori, è stata sede del Consiglio Informale dei Ministri dell’Agricoltura dell’Unione Europea.

 

 

 

 

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Aggiornato il 10/02/2003