POSSIBILE RISPOSTA:
Nel determinare le lotte del movimento operaio e
contadino, oltre alla oggettiva situazione di crisi, agisce anche
fortemente la suggestione della Rivoluzione d’Ottobre.
I contadini non vedono rispettate le promesse di riforma agraria
fatte durante il conflitto; negli anni 1919-1920, il cosiddetto «biennio
rosso», si assiste a un intensificarsi di occupazioni di terre,
guidate sia da socialisti sia da cattolici, che portò alla
decisione del governo Nitti di legalizzare le occupazioni per la
durata di quattro anni, purché i contadini si costituissero in
cooperative; i braccianti ottennero contratti collettivi di lavoro.
Gli operai, sempre nel biennio 1919-1920, attraverso un elevato
numero di ore di sciopero, ottennero notevoli miglioramenti
salariali e normativi: giornata lavorativa di otto ore, contratti di
lavoro collettivo, commissioni interne sindacali riconosciute dalle
aziende. Il Partito Socialista però non riesce a esprimere e a
coordinare in un programma unitario tutte queste azioni, diviso
com’è al suo interno fra una minoranza riformista, Turati, e una
maggioranza massimalista, Serrati.
La principale azione di questi anni, che segnò il punto più alto
ma anche la sconfitta delle lotte del movimento operaio, fu l’occupazione delle fabbriche, avvenuta nel 1920, durante il
governo Giolitti. In seguito alla rottura delle trattative in corso
con il sindacato dei metalmeccanici (F.I.O.M.), l’azienda Romeo di
Milano decide la serrata; gli operai rispondono con l’occupazione,
che nel settembre si generalizza a quasi tutte le fabbriche del
nord, dove si eleggono i «consigli» sul modello dei soviet.
Giolitti, convinto della sostanziale debolezza del movimento e della
poca fondatezza della volontà rivoluzionaria espressa dal PSI,
rifiuta di far intervenire l’esercito e lascia che le occupazioni
si esauriscano spontaneamente, offrendo aumenti salariali e vaghe
promesse di «controllo» operaio sulle fabbriche. |