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Quella volta che Wittgenstein prese l'attizzatoio e si scagliò contro Popper
di Guido Marenco
Kant, Popper, liberalismo, comunismo, democrazia, Bobbio: queste le parole attorno alle quali si sta macinando dalle nostre parti. Sono parole che hanno un senso perché la comunità dei parlanti e dei leggenti che ci frequenta, più o meno ne intende il significato e l'uso corretto, nonché la rilevanza ed anche il sottinteso.
Ma fuori del "giro", ho qualche dubbio che se dici "teoria kantiana della conoscenza" qualcuno capisca che intendi. E con questo siamo a Wittgenstein, seconda fase, il Wittgenstein che riconobbe esserci espressioni che hanno un senso anche se non vengono da osservazioni della realtà, se non descrivono un segmento del mondo, ma si riferiscono ad un sapere memorizzato nei libri, od una costruzione intellettuale complessa quale l'ideale della ragione di cui parla Kant.
Il gioco a cui giochiamo, direbbe ancora Wittgenstein, non richiede particolari autorizzazioni alla ragione od al senso comune. Richiede solo di rispettare le regole grammaticali e logiche di esposizione. Di ciò di cui nessuno parla a ragion veduta fuori di questa sala-giochi, non è detto che si deve tacere. Che è pressappoco la conclusione cui giunsi molti anni fa pur'io, riconoscendo il che senso ha parlarne , visto che mi sono comunque trovato costretto a chiedermi: "che senso ha parlarne?"

Parlarne?
Ma nell'ottobre del 1946, finita la seconda guerra mondiale da un bel po', in un salotto del Moral Science Club di Cambridge, Ludwig Wittgenstein stava per scagliarsi contro Popper con un attizzatoio. Fu fermato da un tempestivo intervento di Bertrand Russell, che si tolse la pipa di bocca e disse: "Wittgenstein, posi immediatamente quell'attizzatoio."
Altro che parlarne!
Non era una normale disputa tra filosofi. O forse lo era. Nella sua totale anormalità, anche il filosofo ridiventa normale, fin troppo, quando viene toccato nel profondo, provocato, scosso, ridicolizzato. Perde il controllo e la dignità (ma forse, quella crede di averla già persa) e sente il bisogno di una scarica liberatoria.
Ma non generalizziamo. La maggioranza dei filosofi, per carità, è sicuramente gentile ed amabile, conosce le regole del gioco, sa che anche la polemica più aspra non deve ricorrere ai corpi contundenti per argomentare. Però... però mi sa che quella sera la posta in gioco fosse un poco più alta, non era solo un confronto di opinioni. E Wittgenstein la visse come una sfida mortale contro un avversario perfido e malvagio. Capire perché credo sia quasi impossibile, se nemmeno nelle testimonianze (quella di Peter Munz, ad esempio) si opera una ricostruzione esatta dei fatti e delle parole che furono dette.
Ho idea che Popper abbia offeso Wittgenstein rimprovendogli il fisicalismo della scuola di Vienna, in pratica rimproverandogli di essere ancora quello che non era più. Ed anche probabile che Popper non si sia limitato ad un uso garbato dei termini: nel gioco a cui stavano giocando dare del fisicalista a qualcuno era come dare del laziale a sor Annibale in un bar della Garbatella. O come dare del finocchio ad un tizio vestito di piumini e brillantini al raduno del gay pride.

Orbene, lo si sarà capito: Popper mi è sempre stato sui coglioni. Esageratamente. Il bello è che condivido alcune sue idee, forse molte più di quanto di quanto fossi disposto ad ammettere fino a poco tempo fa. Perché mi fa questo effetto pesante e sgradevole? Forse, per un motivo analogo a quello di Wittgenstein, perché anch'io potrei sentirmi accusare di fisicalismo, o persino di empirismo, di deduzionismo e di altri crimini filosofici, ovviamente secondo il codice Popper.
Una volta ammesso che io sia una persona di esperienza, avendo visto e toccato con mano molte cose e molta gente, molti modi di agire, di fare, di ragionare, mi sento in diritto di formulare alcune previsioni, anche negative su come andranno le faccende in certo contesto, ovvero in un certo gioco. Popper, questo diritto me lo ha sempre negato, tacciandomi come determinista oggi, come storicista domani (altro forma di offesa tra le più frequenti), negando quasi ogni forma di legittimità all'esperienza umana concreta, all'osservazione, al ragionamento sull'osservazione accumulata. Francamente non capisco questo livore preconcetto. Ed anche il ricorso a Kant non mi pare corretto, perché Kant ha sempre affidato all'esperienza il fondamento di ogni nostra conoscenza. Ha ragione nel dire che ogni ipotesi deve essere rigorosamente controllata, ma ci avesse detto una volta, in modo chiaro e comprensibile da dove vengono le ipotesi, se ce le manda Dio o l'arcangiolo Gabriello, oppure nascono da associazioni mentali ed alchimie neurali. Con Popper non si sa. E' geniale chi fa ipotesi, è stronzo chi prima di aprir bocca ci pensa su e ricapitola tutto quello che occorre a buttar lì un'ipotesi.

Vi venisse in mente di considerare questo intervento non come un articolo tra i tanti, ma come un attizzatoio, scartate subito l'idea: è solo un boomerang. Se manca il bersaglio me lo ritrovo sul grugno, ahi che dolor...

gm- 2 giugno 2004