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La casa di Wittgenstein
di Dario Smizer

"Schönberg disse: la cosa più importante nel comporre è la gomma per cancellare." / Anton Webern
 

A Vienna dovrebbe ancora esistere Argentinierstraße che un tempo si chiamava Alleegasse. Ludwig Wittgenstein crebbe lì, nel magnifico Palais Wittgenstein, che sorgeva nei pressi della Karlskirche. Tutto il quartiere era densamente popolato da aristocratici infeudati nelle loro fastose residenze, gente che stava solo un gradino al di sotto della nobiltà di corte. Il musicista Johannes Brahms soleva dire che i Wittgenstein "fra di loro si comportavano come fossero a corte". Ma a corte non erano di casa. Erano invece di casa, a casa Wittgenstein, personaggi come Brahms, Mahler, Schönberg, Berg e Webern. La prima esecuzione del Quintetto per clarinetto di Brahms ebbe luogo al Palais Wittgenstein. Brahms dava lezioni di pianoforte ai rampolli. Aria di famiglia respirava anche Richard Strauss, e non mancava agli appuntamenti serali il direttore d'orchestra Bruno Walter, lontano parente di Karl Popper per via d'una nonna. Ludwig era l'ottavo figlio di Karl. Rudolf si suicidò in America ingurgitando arsenico invece di bourbon. Sospettava di essere omosessuale. Hans, piccolo genio musicale che a quattro anni suonava come Mozart violino e pianoforte, scappò di casa a ventanni e di lui si persero le tracce. Kurt, che comandava un reparto durante la guerra, si sparò alla tempia quando la truppa si rifiutò di obbedire. Anche Paul e Ludwig si arruolarono per combattere la prima guerra mondiale. Paul perse il braccio destro e fu duramente colpito anche come musicista, visto che prima della guerra sedeva spesso al pianoforte in duetto con Richard Strauss. Anche Paul aveva un carattere notevole. Rifiutò di eseguire una composizione di Prokofiev, scritta appositamente per lui e la sola mano sinistra. Anche Ravel compose per Paul Wittgenstein, e questa volta il giovane mutilato si entusiasmò. Quanto al rapporto di Ludwig con la guerra, sappiamo molto dalla pubblicazione dei suoi diari. Ma ne parleremo altrove.

Ci siamo fatti un'idea di casa Wittgenstein. Una casa spesso sonante. Comunque equilibrata su un rapporto tra apparenza fastosa dell'esterno e contenuto artistico dell'interno: una corte in miniatura. Non sarebbe assurdo chiedersi se questa "casa" piacesse a Ludwig Wittgenstein e se egli si sentisse a casa tra gli interminati spazi dei saloni. L'infanzia rimane il "primo mattone" della nostra traballante esistenza. Ma, non facciamo della psicoanalisi in senso stretto. Teniamo solo fermo che ad un certo punto della vita, Ludwig fece una scelta a dir poco inconsueta. Alla morte del padre, diventò uno tra gli uomini più ricchi d'Austria. Decise di lasciare tutto il suo patrimonio a fratelli e sorelle, escludendo Margarethe, già arricchita dal matrimonio col facoltoso Richard Stonborough. Per la detta Gretl, Margarethe appunto, Wittgenstein decise di affrontare un impresa altrettanto inconsueta: divenne architetto e progettò una casa.
Siamo nel 1926, tempo in cui Wittgenstein aveva preso congedo dalla filosofia dopo la composizione del Tractatus, aveva già lavorato come maestro elementare in Hassbach e poi a Ottenthal, si era già ritirato a fare l'aiuto giardiniere nel convento di Hütteldorf, ove aveva seriamente pensato a prendere i voti. Il 3 giugno morì la madre.
Inizialmente, Gretl aveva affidato il progetto della nuova casa a Paul Engelmann, allievo di Adolf Loos e conosciuto da Ludwig sotto le armi. Del progetto di Engelmann rimangono disegni. Non si può dire quanto questi abbiano influito sul progetto di Ludwig, ma l'altra sorella, Hermine, dice che il risultato finale fu "integralmente" opera di suo fratello. Ciò che conta, ai nostri fini, è che il progetto della casa per la sorella, così come le esperienze di lavoro, si situa esattamente tra il "primo" Wittgesntein e il "secondo", tra il Tractatus e la svolta, se di svolta si può parlare. Aiuto-giardiniere, maestro elementare, architetto, sono parte della svolta, sono già svolta.
Dobbiamo notare quanto di tali professioni abbia a che fare con un leit motiv: seguire una regola. L'esperienza didattica, per quanto profondamente percorsa da un Wittgenstein aggiornatissimo su tutte le più recenti pedagogie e psicologie, è fondamentalmente volta ad insegnare regole ed a trarre regole dai giochi. Anche per cantare una filastrocca occorre seguire un insieme di regole. E' durante questa lunga fase che Wittgenstein approda ad una delle sue ipotesi più affascinanti. Significare qualcosa con un'espressione comporta l'obbligo ad usare l'espressione stessa in modo corretto. Pertanto, anche il comprendere l'espressione impiegata non è che un evento parallelo che vuol dire: saper usare l'espressione. E' vero che l'uno implica l'altro. Solo nel gioco, cioè nella prassi, noi impariamo l'uno e l'altro. Apprendiamo una regola applicandola con l'esercizio. Su questo piano, l'esercizio ingegneristico cui si sottopone Wittgenstein diviene una messa in pratica della logica. E non è sbagliato differenziare l'elemento strutturale dell'ingegneria da quello stilistico del'architetto. Alla fine della fiera, i due elementi si congiungono nella realizzazione concreta, ma l'elemento stilistico, cioè la scelta estetica, con quel tanto o quel poco di "residuo ornamentale" che ogni forma comporta anche quando "spogliata" di ogni superfluo, rimane uno dei grossi punti interrogativi. Perché mi piace una cosa? Non so, risponde Wittgenstein con candore. In teoria non dovrebbe saper dire allora, nemmeno perché la casa progettata ha assunto proprio quella forma. E' venuta così! Ci basta questa descrizione senza una spiegazione? Il problema è che Wittgenstein nega l'esistenza stessa di una necessità della spiegazione. La filosofia non può dare spiegazioni. E il filosofo, anche il più wittgensteiniano, non rinuncia a trovare un filo, un senso, ad una domanda che Wittegenstein ha detto "priva di senso".

«Quanto e in quale modo il lavoro progettuale, l'incontro e lo scontro con il mondo e la cultura della progettazione, la verifica dei fatti che da questa discendono, abbiano "giocato" nel superamento della visione conclusa del Tractatus, non può essere detto per accostamenti meccanici o attraverso documentazioni storiche, ma solo rileggendo la Casa di Wittgenstein, comparando l'intrecciarsi storico dei fatti edilizi e del dibattito filosofico nel contesto viennese ed europeo, considerando la casa in sé come palestra logica del mondo, come gioco concreto, come taglio sincronico nel lavoro mentale di W., che dal Tractatus, senza soluzione di continuità, porta alle Ricerche Filosofiche, cioè, in definitiva, come parte integrante della sua "ricerca filosofica".» (1)
L'idea è intrigante. E ancora più intrigante potrebbe risultare un'associazione con gli scritti di Heidegger sul "dimorare". Abbiamo davanti uno "sfondo comune", anche se Heidegger privilegia un contesto agreste, e Wittgenstein si orizzonta in una grande città, la Metropoli su cui riflettono Sombart, Simmel, Endell e Scheffler, per non dire Benjamin. Lo sfondo rimane comune per tanti motivi. La vita non dimora più nella totalità, scriveva Nietzsche nel Caso Wagner. E la musica che si ascolta a Palais Wittgenstein non è più quella di Brahms. Si affacciano elementi di disgregazione, irrompe l'atonalità. Il mondo va incontro alla décadence e l'Austria è la sua emergenza più densa e singolare. Per il conte Morstin, protagonista di un racconto di Joseph Roth, l'Austria è ancora una sintesi di familiare e lontano. Un lontano che evoca distanze. Nel romanzo di Musil, L'uomo senza qualità, l'illimitata compiutezza della vita termina nell'anarchia degli atomi, che è quanto Nietzsche scriveva e che Musil citava. Dall'anarchia non emerge un singolo e obbligato gesto razionale teso alla restaurazione dell'individuo, ma solo la disgregazione della volontà che, come dice Claudio Magris, «appare anche liberatoria, in quanto scioglie i particolari di ogni gerarchia che pretende di unificarli: l'anarchia degli atomi, prosegue Nietzsche, restituisce la "libertà dell'individuo", la "vibrazione e l'esuberanza della vita" svincolata da significati e valori. Nel caotico brulicare della vita, tutti i particolari acquistano una selvaggia autonomia, "eguali diritti per tutti".» (2) Non c'è più "il grande stile", o meglio, esso non dice più qualcosa di significativo, perché non sa indicare il centro del mondo. Vienna non è più un luogo di raccoglimento. Piuttosto di dispersione.

Cacciari allunga il tiro su Adolf Loos, e ne espone alcuni motivi, rinvenendo in Ornamento e delitto (1908) un testo importante, atto a decifrare la critica al Werkbund tedesco da un punto di vista economico. «E' questo il motivo fondamentale di Loos in Ornamento e delitto. Questo ragionamento economico vale nei termini del rasoio di Ockam, come criterio generale: esso è manovrato come nelle pagine "avvenire" del Tractatus wittgensteiniano. Non si dà qualità separabile dalla totalità attuale del modo di produzione e distribuzione delle merci. Ogni qualità deve rispondere alle esigenze e funzioni complessive di questo modo di produzione. Qualsiasi storicistica pretesa di continuità tra le caratteristiche "qualitative" del lavoro artigianale e la "qualità" del valore d'uso della merce capitalisticamente prodotta è apparente e illusoria. L'analogia dei termini (qualità - valore d'uso) mistifica una rottura violenta, un salto, una differenza radicale irreversibile. Il valore d'uso, nei suoi termini capitalistici, non ha nessuna "autonoma" qualità da manifestare.» (3)

Siamo, insomma, al nesso arte-profitto, all'impossibilità del valore inestimabile dell'arte. Non c'è più valore inestimabile. E se il tempo è denaro, non c'è più tempo e nemmeno denaro per la fine cesellatura. L'artigiano prende dalla nuova Architettura l'idea di un valore d'uso strettamente funzionale. Ed è la fine di un soggetto che voglia ancora realizzarsi trasfigurando la materia, lasciando in essa segni di divina e sublime ispirazione.
«L'accento dell'Aufklärung loosiana non cade affatto sulla "trascendenza" dell'arte rispetto ad artigianato e industria - ma sulla "trascendenza" reciproca di tutti questi termini: cioè, sulla molteplicità funzionale dei linguaggi. Separare significa portare-in-conflitto, non fissare astratte gerarchie di valore, misurare-calcolare differenze specifiche. Dove il Werkbund si "immagina"ponti, Loos teorizza abissi. Ciò vale tanto per la differenza in generale tra arte e artigianato, quanto per le differenze interne che strutturano i diversi linguaggi compositivi, nella fattispecie: i diversi linguaggi che compongono l'abitare, la casa, e sulla cui esperienza si definisce la Baukunst loosiana. Differenza fondamentale è quella che intercorre tra ciò che appartiene all'architetto, il muro, e il mobile, la composizione in generale dell'interno, che dovrà garantire il massimo di fruizione-trasformazione da parte di chi vive. Si tratta di una differenza di linguaggi, che nessuna "aura" di sintassi universali potrà mai superare.» (4)
Dunque - prosegue Cacciari - il concetto borghese (filisteo) di casa come totalità dell'abitare centrato su di una trasparenza reciproca di interno-esterno diventa logicamente falso. La casa è una pluralità di linguaggi. Non si può ridurre ad uno, come affermato da varie ideologie, compresa quella positivistica. Non si può "calcolare" la casa in tutto e per tutto. L'interno non dipende dall'esterno e l'esterno non dice nulla dell'interno. Non annucia alcunché di ovvio, di inferibile. Per vedere l'interno bisogna "entrare in casa".

«Chi intenda questa tendenza come un caso di eclettismo compositivo - dice Cacciari - è completamente fuori strada. Non la varietà dei linguaggi è qui l'essenziale, ma il loro comune riferimento logico: la necessità per ogni elemento e per ogni funzione di calcolare il proprio linguaggio e parlarlo coerentemente e comprensibilmente, di verificarne i limiti e conservarli all'interno di ogni forma - restare ad essi fedele, non volerli idealisticamente-romanticamente negare. Altrettanto lontane dal discorso di Loos appaiono tendenze pan-artistiche, "art-pour-l'art", di stampo aristocratico. La rigorosa limitazione del senso della produzione di valori d'uso è insieme la spietata definizione del senso del fatto artistico...» (5)

Venendo all'Oikos di Wittgenstein, Cacciari evidenzia quanto lo spazio della casa sia costruito dall'interno, e che esso sia reso dal proprio linguaggio. «Nè si progetta utopicamente l'esterno, a partire dal valore della Gestaltung - né è possibile salvare nell'interno i valori che il contesto metropolitano nega. Nè Hoffmann, né Wagner, - né Rilke - ma neppure Loos, la sua "dialettica sospesa" di interno-esterno. L'idea di un conflitto tra due livelli di valore, gerarchicamente impostato, neppure si dà. Il conflitto è con "tutto ciò ciò che resta", comunque indecidibile e intransformabile per i limiti di questo linguaggio - dunque, conflitto con la metropoli al di là di questo spazio e che in esso è necessariamente come silenzio.Ma, proprio per questo, tale spazio dimostra finalmente di riconoscerla senza più incanti o utopie, di saperne finalmente tutto il potere.» (6) L'unico rapporto tra questa casa ed il resto della metropoli è il suo apparire come edificio. In ciò Cacciari ravvede una classicità come "non espressività". E classico è il raggelarsi dei mezzi linguistici in un ordine antiespressivo, un ordine indifferente ai materiali, materiali senza qualità. «Il silenzio della casa, la sua impenetrabilità e anti-espressività, si sostanzia dell'ineffabile dello spazio circostante. Così è nel classico: l'architettura classica è il simbolo (nel senso etimologico) dell'in-finito (a-peiron) che l'avvolge. L'assolutezza astratta del suo ordine esalta il limite del linguaggio architettonico, il suo non-potere esprimere l'infinito circostante. Ma, insieme, di conseguenza, questo linguaggio si costruisce nella presenza di tale infinito e non è comprensibile che nella sua luce. Questa presenza del classico in Wittgenstein rappresenta uno degli eccezionali momenti nei quali lo sviluppo dell'ideologia contemporanea ne ha ricompreso la problematica autentica.» (7) Sarebbe interessante seguire Cacciari nel suo evidenziare la distanza irriducibile tra l'Oikos classico wittgeinsteniano e il Loos che tenta di riaccostarsi al "classico" nella nuova sede del "Chicago Tribune" del 1922. Ma dobbiamo rimanere alla casa di Vienna sulla Kundmangasse.
A tutta prima essa sorge nel tessuto urbano come un edificio ancora appartenente alla tradizione della villa aristocratica. Inserita in un piccolo parco, con aggregate le case del custode e del giardiniere, ha molto di simile con la struttura della villa Wagner 2 (Otto Wagner) e la villa di Hoffmann in Gloriettestrasse. Tale conformazione non andrebbe presa come un esemplare tipologico, ma come un ruolo. «Il particolare dislivello fra la casa e la via, la Kundmangasse, mette in risalto dall'esterno un tipico "valore" del gioco volumetrico di W. l'angolo o meglio, per la sua caratteristica purezza, lo spigolo. Nessun elemento viene a interrompere l'insieme degli spigoli. Essi, sia orizzontali che verticali, sono elementi fondamentali della logica dei volumi messa in atto da Wittgenstein.» (9) Ma a differenza della prima villa di Wagner, dove il volume è caratterizzato da un cornicione che allinea le finestre strette e lunghe, la linea sobria dell'edificio rimane un blocco compatto non alterato, non gonfiato, di linee purissime. Secondo Amendolaggine, dovrebbe essere evidente che Wittgenstein non ha affrontato coscientemente il problema dell'inserimento urbano della nuova costruzione. La città è un discorso di sfondo, anche se la scelta dell'intonaco risponde ad una caratteristica viennese evidenziata da Loos. Danzica è città di mattoni a vista, Vienna una città intonacata. «La casa è chiusa nel suo giardino, non ha facciata; la strada è un "accidente". Senza nessuna ideologia anti-urbana, W. non cerca soluzioni formali di connessione urbana. Intuisce che così facendo egli entrerebbe in contraddizione e non risolverebbe il problema: non potrebbe, con i suoi strumenti e nell'ambito del del suo gioco, determinare, controllare scientificamente l'operazione.» (10)
E' quindi l'organizzazione degli interni che costituisce il vero punto da decifrare. Nella casa la cucina e gli altri servizi sono interrati. C'è un piano adibito a living, probabilmente una reminiscenza del primo soggiorno inglese. L'attenzione quasi ossessiva di Wittgenstein per l'ordine e l'igiene, nonchè per la cucina, ci consente di comprendere la mentalità che presiede all'organizzazione. L'impegno di Wittgenstein è mirato allo scopo di costruire lo spazio di vita domestica della sorella. Ed egli si mise anima e corpo al lavoro, come ricorda l'altra sorella Hermine: tutto era importante, tranne tempo e denaro. E nel progettare, Wittgenstein esprime, secondo Amendolaggine, «la sua severa concezione del rapporto con le cose, non con le funzioni.» Una lampada nuda in netto contrasto con il baroccheggiante gioco delle illuminazioni viennesi. Alle spalle non c'è uno studio sulla luce, ma una sobria relazione con l'oggetto. Le pareti non sono bianche, ma rispecchiano la natura del materiale, come nella hall, oppure sono dipinte con colori tenui. «L'interno fa risaltare il senso delle caratteristiche dei locali, con spazi precisi, conclusi, con specifiche mansioni, ma non razionalizzate, non studiati - per, non caratterizzati - da. Ci troviamo di fronte alle stesse caratteristiche delle piante chiuse di tradizione classica viennese, mentre Loos chiaramente si rifà alle piante aperte dell'edilizia domestica anglosassone.» La pianta non consente una circolabilità circolare perfetta. Offre percorsi fissi e spesso "faticosi". La saletta per la colazione si trova isolata, rialzata di tre gradini dal piano della hall. Dalla cucina si giunge ad essa salendo di un piano e attraversando tutta la casa. L'appartamento privato della sorella condivide la terrazza con il salone di rappresentanza, ma è interessante notare che la stanza da letto vera e propria è inconsistente.

Hermine Wittgenstein ci invita a riflettere su alcuni particolari: «due piccoli, scuri radiatori di ghisa, che stavano in due opposti angoli di una piccola stanza; già la simmetria dei due neri oggetti nella chiara stanza da un sentimento di benessere! Gli stessi radiatori sono così perfetti nelle misure e nella loro precisa, liscia, slanciata forma che non sorprendeva se Gretl, ad eccezione del periodo di riscaldamento, li utilizzava quale sostegno per uno dei suoi begli oggetti, e quando io un giorno ammirai questi radiatori L. mi raccontò la loro e la sua via crucis e quanto tempo fosse passato prima che fosse raggiunta quella precisione che costituisce la loro bellezza. Ognuno di questi radiatori d'angolo consta di due parti che stanno una accanto all'altra ad angolo retto con una precisione al capello; fra esse è lasciato libero un piccolo spazio determinato al millimetro ed esse posano su piedi a cui devono esattamente corrispondere. Da prima furono fusi alcuni modelli, ma si vide che quello che L. s'immaginava non poteva assolutamente essere fuso in Austria; allora si presero all'estero alcuni pezzi di ghisa già pronta, ma subito si vide che era impossibile con questi raggiungere la precisione voluta da L. Intere parti di canna dovettero essere tagliate come inservibili, le altre furono sfaccettate esattamente al mezzo millimetro. Anche la l'installazione dei lisci otturatori, che erano diversi dal comune e furono fatti secondi i disegni di L., presentò grosse difficoltà...[...] in realtà passò un anno intero fra il progetto dei radiatori apparentemente così semplici e la loro consegna.» (11)
Questi ricordi di Hermine gettano nuova luce sul "secondo" Wittgenstein.

«Il progetto - scrive Amendolaggine è una macchina logica, può seguire leggi ineluttabili, ma la sua concretizzazione, il suo divenire mondo, casa, sfugge alle leggi causali come una macchina fisica, meccanica, di cui è impossibile controllare il funzionamento oltre un certo limite. Questa autoregolazione della realtà rispetto alle logiche matematiche compare chiaramente nelle Osservazioni: la macchina (la sua struttura) come simbolo del suo modo di funzionare: "la macchina potrei dire a tutta prima - sembra avere in sé il suo proprio modo di funzionare. Che cosa significa questo? Per il fatto che conosciamo la macchina ci sembra che tutto il resto - cioè i movimenti che essa farà - sia già perfettamente determinato.
Parliamo come se queste parti potessero muoversi solo in questo modo, come se non potessero far nient'altro.
Come mai? dimentichiamo dunque la possibilità che si pieghi, si rompano, fondano e così via?".» (12)


(1) Francesco Amendolaggine - La casa di Wittgenstein - in: Francesco Amendolaggine e Massimo Cacciari - Oikos Da Loos a Wittgenstein - Officina Edizioni 1975
(2) Claudio Magris - L'anello di Clarisse - Einaudi 1984
(3) Massimo Cacciari - Loos - Wien - in: Francesco Amendolaggine e Massimo Cacciari - Oikos Da Loos a Wittgenstein - Officina Edizioni 1975
Sul tema specifico della trasformazione borghese del mondo sono utilissime le pagine sulla "Rivoluzione industriale" di Guido Marenco su questo sito
(4) idem
(5) idem
(6) idem

(7) idem
(8) Francesco Amendolaggine - La casa di Wittgenstein - cit.
(9) idem
(10) idem
(11) estratti da Familienerinnerungen di Hermine Wittgenstein in appendice a Francesco Amendolaggine e Massimo Cacciari - Oikos Da Loos a Wittgenstein - Officina Edizioni 1975
(12) Francesco Amendolaggine - La casa di Wittgenstein - cit.

DS - ottobre 2006 -


Karl Wittgenstein







Hermine Wittgenstein







La casa per Gretl





casa di Loos






Adolf Loos



Il progetto firmato da Wittgensteiin e Engelmann



interno




Margarethe Wittgenstein
(particolari del ritratto di Klimt)








Margarethe



Otto Wagner