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John Stuart Mill

La teoria economica di Stuart Mill ed il problema del socialismo

E' opinione abbastanza diffusa che Stuart Mill cominciò ad essere semisocialista dopo il fatale incontro con Harriet Taylor, nel 1830.
Probabilmente è vero, nel senso che questa donna, essendo molto intelligente ed anche molto sensibile ai problemi umani, lo costrinse a misurarsi in modo non semplicemente freddo e teorico con problemi umanitari.
Ma non dobbiamo confondere l'ispirazione con la formulazione esplicita di una preferenza e il disegno teorico conseguente.
Maurice Dobb, storico dell'economia di orientamento marxista, scrive: « L'influsso della Taylor su quest'opera [I Principi di economia politica] (che, osserva Leslie Stephen, "diventò popolare come nessun'altra in questo campo dopo la Ricchezza delle nazioni) è così significativo che sembra opportuno dedicargli qualche parola, sia pure per inciso. Come dice Mill stesso, l'influsso della Taylor conferisce al suo libro quella tendenza generale per cui esso si distingue da tutti i precedenti trattati di economia politica, una tendenza che consiste principalmente nello stabilire la giusta distinzione tra le leggi della produzione della ricchezza, che sono reali leggi di natura, dipendenti dalle proprietà degli oggetti, e le forme della distribuzione che, soggette ad alcune condizioni, dipendono dalla volontà umana." Altri economisti, dice Mill, confondono le due cose "sotto la comune definizione di leggi economiche...incapaci di essere abolite o modificate dall'azione umana." (Principi -pag. 198) In altre parole la distribuzione del reddito è per Mill il prodotto di istituzioni sociali modificabili cioè un fatto "istituzionale" e storicamente relativo, non "naturale" o universale. Una dichiarazione così esplicita rappresenta senza dubbio un progresso nei confronti dei predecessori di Mill, nonchè delle posteriori teorie dell'"imputazione". Non per caso Marx ha osservato che "sarebbe estrema ingiustizia metterli (uomini come J.S. Mill) in un sol fascio con il gregge degli apologeti dell'"economia volgare", anche se, beninteso, dichiarazioni come quella citata erano per Marx indicazioni ancora inadeguate del nesso tra la distribuzione e i rapporti sociali di riproduzione.» (Storia del pensiero economico - Maurice Dobb - Editori Riuniti - Roma, 1973)

Questa distinzione non fu contestata solo da Marx, ma soprattutto da quelli che potremmo definire economisti di destra. Per motivazioni diverse, ovviamente, e del tutto opposte a quelle di Marx, ma con argomenti sostanzialmente simili.
Rimane che proporre una diversa distribuzione della ricchezza derivante dai profitti, è socialismo solo fino ad un certo punto. La caratteristica fondamentale della società, anche operando una diversa distribuzione dei profitti, sarebbe rimasta la concorrenza tra produttori ( e venditori) in un regime di libero mercato, a base capitalistica, cioè con molto denaro alle spalle all'inizio di qualsivoglia attività.
Questa soluzione per il socialismo lasciava intatta quella che era considerata la "naturale" tendenza a produrre di più e meglio, cioè la "competizione" tra esseri umani.
Non credo sia il caso stabilire quanto vi sia di naturale nella "competizione". L'antropologia comparata dimostra che vi sono state e vi sono tuttora società poco competitive e, visto il loro grado di sviluppo, non credo abbia molto senso contestare la loro vicinanza alla natura. Però è un fatto che la competizione sia una componente innata nel periodo dell'infanzia e dei giochi presente in moltissime società umane, allo stesso modo della solidarietà e dei vincoli di sangue. Basta poco per stimolarla e, forse non serve nemmeno stimolarla. Ma, se è indubbio che non sempre la competitività si indirizza a produrre di più per acquisire ricchezza, diviene altrettanto esplicito che, senza competizione, le società ristagnano, non si rinnovano, crepano prima del tempo. La pianificazione socialista, proprio nel momento in cui sembrava esaltare il massimo possibile della razionalità, ovvero la cooperazione di tutti al raggiungimento del bene di tutti, falliva perchè comportava la frustrazione dei talenti delle individualità potenzialmente più creative, e generava insoddisfazione perchè appiattiva verso il basso l'uguaglianza economica, e non premiava secondo meriti. Anzi, sovente, premiava secondo principi mafiosi, come nell'Urss ai tempi di Breznev.
Non è scritto da nessuna parte che la pianificazione debba anche negare l'esercizio delle libertà individuali, ma è indubbio che nel totalitarismo reale del comunismo di stato del Novecento, paradossalmente più acuto ai tempi di Breznev e della nomenklatura che a quelli di Stalin, si possano leggere non solo fattori ideologici, ma anche esigenze obiettive di tenuta del sistema. Un sistema ordinato, esattamente come una macchina, o come un organismo vivente, non può permettersi guasti, o disfunzioni, o malattie. Ecco perchè, in definitiva, una pianificazione totale rischia sempre di portare all'eliminazione di tutte le voci di critica e di opposizione ed a forme di totalitarismo.
Ciò può essere facilmente verificato quando facciamo un programma noi stessi e tentiamo di pianificare il suo sviluppo. Ogni opposizione viene vista come un ostacolo, perfino un sabotaggio, alla nostra volontà. Tutto ci infastidisce, tendiamo ad assolutizzare la nostra meta a dispetto di tutte le circostanze e rischiamo facilmente di perdere il rispetto per l'autonomia e la libertà degli altri.
Inoltre, un sistema elefantiaco di pianificazione porta inevitabilmente alla burocratizzazione, dunque al rallentamento, allo scoraggiamento di ogni iniziativa individuale, anche la più disinteressata. In un sistema pianificato, fatalmente, si viene ad instaurare una mentalità nella quale è permesso solo quello che è esplicitamente autorizzato, ed è vietato o sconveniente, tutto quello che non lo è.

Il problema, se questo fatto può costituire "problema", è che Mill risultò alla fine semi in tutto: fu semisocialista, semiliberale e semipositivista. Rispetto a Bentham ed a suo padre fu semiutilitarista.
Certo: Mill non fu mai un semirivoluzionario; non lo fu per niente. Qualsiasi innovazione, anche la più avanzata, doveva avvenire nel quadro istituzionale dato, ed in modo pacifico. Come fosse possibile, per Mill, introdurre elementi di socialismo senza provocare scossoni devastanti, lo abbiamo già visto: il problema era nelle mani dei lavoratori stessi e la via era quella delle cooperative di produzione, da un lato, e lo sviluppo delle Unions sindacali dall'altro.
La storia prese un'altra direzione perchè in Inghilterra si fecero soprattutto cooperative commerciali, e bisognerà andare sul continente per vedere sorgere qualche tentativo di cooperative di produzione. Furono esperimenti che persero via via d'importanza, sia perchè la forza economica del sistema delle imprese finì con lo stritolare le deboli strutture cooperative, sia perchè la direzione del movimento operaio passò, soprattutto dopo il 1870, nelle mani di marxisti ortodossi, persino più marxisti di Marx, e comunque poco inclini a sviluppare esperimenti di socialismo applicato a comunità produttive.
Per certi aspetti fu presente in Mill anche una terza via, quella dell'associazione del lavoratore all'impresa. Fu quella meno conosciuta e meno seguita, anche perchè presentava e presenta sempre il rischio dell'incertezza. In questo schema Mill prefigurava come possibile la considerazione del lavoratore come socio senza capitale, o con quote minime. La sua retribuzione, allora, non veniva più calcolata come salario, ma come parte del profitto prodotto, ed era quindi a tutti i titoli una divisione dell'utile.
In questo quadro sarebbero venute a cadere molte delle successive critiche all'organizzazione capitalistica della società e della produzione fondate sull'alienazione del lavoro e sull'estraneità del lavoratore alla produzione. Interessati come i padroni, e perfino più di loro, all'aumento della produzione e della redditività, i lavoratori stessi avrebbero messo in atto comportamenti finalizzati al miglioramento del lavoro, per il loro stesso profitto.
A tal proposito vi sono, col senno di poi, diversi elementi che giocano totalmente a sfavore di questa teoria. Il primo ed il più evidente è che il ciclo produttivo si svolge in condizioni dinamiche e che l'innovazione tecnologica spinge inevitabilmente alla riduzione di mano d'opera. Ci si troverebbe quindi di fronte non all'equivalente di un licenziamento, ma al problema dell'eliminazione di un socio.
Il secondo elemento di difficoltà è che gli stessi lavoratori sono stati e sono restii a condividere l'incertezza: meglio un salario minimo, ma certo, che un profitto superiore incerto. Il terzo è che le organizzazioni sindacali hanno ragione di esistere se i lavoratori sono contrapposti all'impresa e quindi possono rivendicare diritti, riduzione d'orario e salari più alti. Cessano di avere questa funzione se i profitti d'impresa vengono equamente divisi tra soci con capitale e soci senza capitale. Ed è per questo che sono sostanzialmente poco aperte a queste sperimentazioni.
Il quarto è che molte volte la proposta di trasformare il salario in una remunerazione ottenuta divedendo i profitti, era poco meno che un imbroglio volto ad ottenere una riduzione dei salari stessi. A memoria d'uomo tale proposta è stata avanzata spesso in fasi di recessione e difficoltà, e, probabilmente, quasi mai in fasi di sviluppo ed alti profitti.

A mio avviso, la difficoltà di inquadrare Stuart Mill in una corrente di pensiero precisa depone a suo favore: essere socialista con riserva, liberale con riserva, positivista con riserva, è disonorevole solo per chi crede valga la pena di spendere tutta la vita a cantare le lodi dell'idea, invece che a verificare fino a che punto essa sia vera in pratica.
Il numero e la qualità delle riserve che egli avanzò rispetto a tutte le dottrine elencate, dimostra solo che egli si fece via via consapevole che non c'è teoria che fosse di per sé perfetta. Ognuna comportava controindicazioni e conseguenze negative, accanto a vantaggi. Si trattava allora di decidere quale fosse la più vantaggiosa, e per chi, in un determinato momento. Ed anche, coraggiosamente, di seguirne contemporaneamente più d'una, inventando soluzioni pratiche che contenessero geniali sintesi di tutte o di qualcuna.
Mill fu un eclettico, ma non un indeciso, semmai una persona sempre consapevole delle conseguenze di ogni affermazione filosofica o politica. Ma nella difesa della libertà individuale e di pensiero fu indubbiamente coerente dall'inizio alla fine: senza libertà il socialismo non è preferibile al capitalismo in nessun luogo ed in nessun tempo, anche se è perfettamente visibile che il capitalismo in sè è una restrizione della libertà, in quanto costringe tutti coloro che vivono in povertà entro confini sempre più inaccettabili.

Abbiamo già visto che Marx criticò la divisione tra sfera della produzione e quella della distribuzione.
Nel Capitale scrisse: questa divisione ... « si fonda sulla confusione e sulla identificazione del processo sociale, con il processo lavorativo semplice, che deve compiere anche un uomo artificiosamente isolato, senza alcun aiuto sociale. In quanto il processo lavorativo è soltanto un processo tra l'uomo e la natura, i suoi elementi semplici rimangono identici in tutte le forme dell'evoluzione sociale. Ma ogni determinata forma storica di questo processo ne sviluppa la base materiale e le forme sociali. Quando è raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata vien lasciata cadere e cede il posto a un'altra più elevata. Si riconosce che è giunto il momento di una tale crisi quando guadagnano in ampiezza e in profondità la contraddizione e il contrasto tra i rapporti di distribuzione, e quindi anche la forma storica determinata dai rapporti di produzione ad essi corrispondenti, da un lato, e le forze produttive, capacità produttive e sviluppo dei loro fattori, dall'altro. Subentra allora un conflitto fra lo sviluppo materiale della produzione e la sua forma sociale. » (Il Capitale, libro I, pag. 958)
Che cosa voleva dire Marx?
Marx contestò a Mill, come pure a Ricardo ed a tutti gli economisti inglesi, il mancato riconoscimento del carattere storico e dunque transitorio del capitalismo. Per Marx il capitalismo non era naturale, ma storico nel suo insieme. Per Marx storia naturale e storia dell'uomo non erano la stessa cosa. Ciò è particolarmente evidente nel primo capitolo di Per la critica dell'economia politica, dove a proposito della naturalità della produzione, egli parla di robinsonate da XVIII secolo.
Mettendo in prosa corrente il testo marxiano, si ha che non si può cambiare distribuzione del profitto senza cambiare e il modo di produzione e il distributore, e poichè il distributore è il proprietario dei mezzi di produzione, della fabbrica, dei macchinari ecc..., bisogna che la proprietà degli stessi passi ad altri. Ma attenzione, perchè non scrive "stato", scrive "produttori", anzi, finisce col lasciare tutto nel vago.
Il conflitto, che è reale e naturale (naturale sia per Marx che per gli economisti inglesi), confinato da Mill nell'ambito della distribuzione dei profitti come smisurata ed iniqua differenza tra profitto del capitalista e salario dell'operaio, che si potrebbe anche scrivere come salario del capitalista e profitto dell'operaio, venne riportato indietro da Marx al modo di produzione, anzi all'indissolubile nesso tra produzione delle merci e distribuzione del profitto. Marx insistette sulla forma, anzi la formazione storico-sociale del capitalismo, come qualcosa di essenzialmente diverso da tutte le formazioni storiche sociali precedenti.
E se guardiamo alla sostanza delle cose e dei rapporti, abbiamo che nella fase feudale il proprietario della terra metteva al lavoro dei servi della gleba o dei braccianti e che essi godevano del minimo, mentre egli si appropriava del massimo, in cambio di una semplice protezione armata ed in virtù di una giustificazione "divina" (teologica) all'ordine sociale esistente.
Nel regime capitalistico, questo rapporto fondato sull'iniquità muta nella forma, mentre nella sostanza, da un lato muta, e dall'altro rimane intatto, cioè conserva molto di quanto si esprimeva in precedenza. In apparenza, per Marx, sulla scia degli economisti classici, tra capitalista e operaio avviene uno scambio: salario in cambio di lavoro e lavoro in cambio di salario.
La prima realtà che appare è che questo scambio è ineguale.
Già i cosidetti socialisti ricardiani, Hodgskin e W. Thompson in particolare, avevano attribuito a scambi ineguali il profitto del capitale, ma Marx andò oltre: affermò che "il plusvalore non si spiega con lo scambio".
Nei Grundrisse si legge: « Nell'insieme dell'attuale società borghese, questo ridurre a prezzi, la loro circolazione ecc., si presentano come il processo di superficie, sotto il quale però, nel profondo, si svolgono ben altri processi, nei quali quest'apparente uguaglianza e libertà degli individui scompaiono...Infine non si vede che già nella semplice determinazione del valore di scambio e del denaro è contenuta in forma latente l'antitesi tra salario e capitale ecc.»
Non è questa la sede per approfondire il pensiero di Marx, ma un chiarimento sul problema specifico dello scambio tra salario e lavoro appare necessario, per esplicitare che Mill non fu così miope come credette, poi, la scolastica marxista.
Quello che Marx interpretò come mistero da svelare e portare alla luce, cioè la disuguaglianza, era invece molto evidente. Ciò che andava spiegata era la causa della stessa.
Esisteva un saggio di sfruttamento del lavoro umano, ma dire che corrispondeva al plusvalore, come riteneva Marx, cioè alle ore di lavoro in più che l'operaio forniva gratis al capitalista, era come affermare che in sede di distribuzione dei profitti questo pluslavoro non veniva riconosciuto. In sostanza: sia Mill che Marx fecero la stessa diagnosi, e qui ha davvero poca importanza la querelle attorno al problema del valore ed alla non scientificità del plusvalore. Se si sta a Mill, il problema è la quantità dei profitti, cioè una categoria per nulla astratta, anzi, concretissima. Com'è possibile che l'utile netto di una impresa sia così alto, ed i salari reali (o monetari; per ora trascuriamo questa differenza) siano così bassi?
La differenza tra Marx e Mill sta nella terapia. Mill fu per una soluzione che non alterasse i rapporti di proprietà, chiese solo giustizia; Marx fu per una espropriazione degli espropriatori, e qui, francamente, su questa cura da cavallo, non si può che lasciare la parola alla storia del comunismo reale, sempre ricordando, comunque, che la rivoluzione russa fu una smentita di Marx e non una conferma. Per Marx la Russia era il paese meno adatto ad una rivoluzione socialista. Almeno su questo ebbe ragione, altro che chiedere scusa ai proletari di tutto il mondo.

La distinzione di Mill tra sfera della produzione e sfera della distribuzione fu ripresa dal filosofo tedesco Dühring, in qualche misura assimilabile al tardo positivismo tedesco, e fu criticata piuttosto aspramente da Engels nell'AntiDühring. Il problema è che Dühring espose tesi e concetti di storia dell'economia politica totalmente erronei non solo agli occhi di un marxista, ma a quelli di un qualunque economista. E qui Engels, sdegnato e divertito allo stesso tempo per le naiserie (sciocchezze) di Dühring, si fece prendere la mano dalla polemica, perdendo un'importante occasione per dire qualcosa di nuovo.
Trascrivo il passo di Engels: « E con ciò, invero, siamo riusciti felicemente a considerare la ricchezza dai due punti di vista essenziali della produzione e della distribuzione; ricchezza come dominio su cose, ricchezza di produzione, lato buono; ricchezza come dominio su uomini, ricchezza di distribuzione, quale sinora esiste, lato cattivo; aboliamolo! Applicato alle condizioni odierne ciò vuol dire: il modo di produzione capitalistico è buono e può restare, invece il modo di distribuzione capitalistico non vale niente e deve essere eliminato. A un tale assurdo si arriva scrivendo di economia senza neppure avere un concetto del nesso tra produzione e distribuzione. »(Antidühring - seconda sezione - capitolo V - Teoria del valore - ed Riuniti - Roma, 1985)

Alla luce di quanto affermato finora, questa critica di Engels a Dühring, non apportò alcun contributo alla ricerca di soluzioni al problema di una maggiore giustizia economica, ma servì solo a reiterare in modo dogmatico un antagonismo tra proletari e capitalisti che, comunque, non portò alcun giovamento immediato e mediato alle condizioni dei lavoratori nell'Europa centrale ed occidentale. Storicamente furono i sindacati, le forze riformiste, il movimento cooperativo, e per la verità, il partito comunista italiano, specie sotto la direzione di Berlinguer, a raccogliere l'eredità riformista ed a proporsi una trasformazione democratica e socialista senza scosse rivoluzionarie.
Ciò senza dimenticare che anche nel Pci prevalse storicamente una visione statalista dell'economia e una sopravvalutazione dei concetti di programmazione e pianificazione. Ma rimproverare a dei comunisti di non essere stati abbastanza liberali è come rimproverare ai liberali di non essere stati abbastanza socialisti. Come vedremo, Mill ebbe, anche su questo terreno, alcune intuizioni felici nel saggio On Liberty. Fino a quando - dice Mill - un partito non sarà abbastanza maturo da esprimere insieme una visione sia progressista che conservatrice, è bene che sia fedele alla sua ispirazione di fondo.

Il contributo di Mill ad una teoria realistica del socialismo, non si limitò alla felice intuizione del fatto che per arrivare ad un semisocialismo, non occorre una rivoluzione politica, ma solo una crescita culturale dei lavoratori e la loro organizzazione in sindacati o cooperative. Da un lato c'è il riconoscimento che la buona volontà dei singoli operatori economici è fondamentale: non si fa un buon sindacalismo se si assumono solo logiche rivendicative e si contestano, per partito preso, tutte le strategie aziendali.
Il lavoratore ha tutto da guadagnare se l'impresa per la quale fatica è prospera, e tutto da perdere se l'impresa va in malora.
Lo stesso diritto di sciopero si scontra, pertanto, su questo limite invalicabile: il danno procurato al capitalista non può essere mortale. Anche perchè la decurtazione conseguente allo sciopero di un giorno può essere mortale per l'operaio almeno quanto lo potrà essere per il capitalista dopo dieci giorni di sciopero.
Dall'altro lato, c'è un abbozzo della teoria dello stato che è soprattutto in negativo, cioè un ridimensionamento del ruolo dello stesso, sia in senso dirigistico ed interventista (lo stato come coordinatore delle attività economiche e soggetto di una una sua presenza attiva con proprie imprese), sia in senso legislativo e ideologico.
Queste posizioni vennero a culminare nel saggio On Liberty, una delle opere più importanti di tutta la storia del pensiero umano.

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