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John Stuart Mill

Natura, Dio e religione


Sotto il titolo Essays on Religion vennero raccolti e pubblicati postumi, a cura della figliastra Helen Taylor, tre saggi intitolati rispettivamente Natura, Utilità della religione e Teismo. Si tratta di saggi di valore diseguale e poichè il più importante, oltre che esteso, mi sembra il terzo, ho ritenuto opportuno trattarlo separatamente.
I primi due Essays erano stati composti in un periodo compreso tra il 1850 ed il 1858; Teismo nel periodo immediatamente precedente la morte.

I probabili dubbi di Mill
Se i primi due saggi non vennero pubblicati in precedenza fu perchè Mill nutrì nei loro confronti qualche dubbio. Il problema è delicato per diversi motivi. Il saggio sulla Natura, se da un lato veniva chiaramente a preludere ai temi di On liberty, dall'altro esprimeva considerazioni talmente negative sugli istinti e la naturalità dell'uomo, che pareva entrare in contraddizione con le stesse tesi sulla libertà, tra le quali era chiaro che il libero sviluppo individuale comporta necessariamente uno sviluppo degli istinti migliori e peggiori. Molto saggiamente Mill decise di puntare sulla libertà e tenere in archivio le sue più che lecite riserve sulla bontà naturale dell'uomo e sulla bontà della natura.
Una seconda causa dei dubbi di Mill può essere individuata nel fatto che nel 1850 era stato pubblicato il lavoro di Herbert Spencer intitolato Social Statics: or, the Conditions Essential to Human Happiness Specified, and the First of Them Developed.
Questo scritto poneva all'ordine del giorno questioni come l'evoluzione biologica e umana non espressamente affrontate da Mill e che comunque necessitavano di un ulteriore approfondimento: le riflessioni milliane sulla natura umana, in prima battuta, apparivano oltremodo statiche rispetto alla dinamica evolutiva storico-biologica propugnata da Spencer.
Nel secondo saggio, Utilità della religione, comparivano affermazioni piuttosto impegnative sui possibili caratteri di Dio, in un quadro che non ne negava l'esistenza, ma l'onnipotenza. Ludovico Geymonat presentò questi scritti, da lui stesso tradotti, nel '53 e pose l'attenzione sul fatto che Mill, finissimo logico, aveva denunciato l'impossibilità che Dio fosse ad un tempo infinitamente buono ed infinitamente potente. Fosse insieme l'uno e l'altro, il mondo non esisterebbe così.
Parlando di potere limitato di Dio, un Dio giudicato pasticcione nel momento creativo, indubbiamente buono, ma impotente nei confronti del male, in effetti a Mill non passò nemmeno per la testa di considerare che Dio stesso potrebbe aver deciso di non intervenire più nella vita degli uomini, se non su espressa preghiera, e comunque non in modo da limitare in modo pesante la libertà, l'autonomia e il destino degli altri esseri umani.
Secondo gli stessi testi della storia sacra, Dio si limitò a qualche miracolo, inteso come guarigione, ed ad una serie di insegnamenti non sempre facilmente comprensibili perchè fondati sul principio che chi non segue i precetti divini, verrà reso cieco e sordo in misura crescente a qualsiasi stimolo intellettuale. E sui figli ricadranno le colpe dei padri. Unica eccezione, voce fuori del coro, quella del profeta Ezechiele.
Ora questo è indubbiamente lo scoglio contro il quale confligge ogni razionalità quanto affronta l'analisi delle origini del cristianesimo sui testi sacri. In continuità con le profezie di Isaia, Gesù parlò solo in parabole alle grandi masse, perchè esse potevano ascoltare e vedere senza realmente comprendere, totalmente vittime delle colpe dei padri.
Il Dio buono che rende ciechi e sordi gli uomini volontariamente non è accettabile dal filosofo e nemmeno dal teologo più scaltrito; ci voleva e ci vuole una spiegazione di questa volontà cattiva di Dio come base stessa di ogni ulteriore ragionamento.
Altrimenti non rimarrebbe altra strada che acconciarsi a credere, rinunciando a ragionare, oppure ragionare, rinunciando a credere, in una eterna lacerazione senza speranza.
Inutile sperare di trovare una risposta in questi saggi di Mill. Essi rimangono al di sotto del problema. In un primo tempo avevo introdotto nel corpo stesso di questo scritto una mia riflessione; ho ritenuto opportuna riscriverla in modo più articolato rinviando gli interessati a Una nuova teodicea? (dove ateismo e teismo possono convergere?)

Torniamo all'insufficiente comprensione di Dio nel suo concetto teogico-filosofico più elevato da parte di Stuart Mill.
Esistevano in proposito sia la Teodicea di Leibniz, una vera e propria difesa di Dio di fronte ai tribunali umani che lo accusavano di essere autore del male e della sofferenza, e l'argomento kantiano, riportato nella Critica della Ragion pratica, secondo il quale se Dio fosse visibile, se, per intenderci, sorgesse ogni giorno come il sole, l'uomo non sarebbe affatto libero e la sua stessa moralità, che è uno dei fini della Creazione, perderebbe del tutto valore perchè l'uomo agirebbe sotto la costrizione del timore della punizione e non per libera e ponderata scelta. In altre parole: il dubbio sull'esistenza di Dio può essere proficuo perchè è solo in questo dubbio che l'uomo è libero di scegliere radicalmente e persino in relativa autonomia, e quindi risultare a tutto tondo come una prosecuzione di Dio con altri mezzi.
Il bello è che Mill, pur percorrendo una strada del tutto diversa, a mio giudizio erronea nelle premesse, arrivò pressapoco alla stessa conclusione: la ragione umana è il frutto di una conquista fatta giorno per giorno. Sbaglia radicalmente chi afferma che Dio vorrebbe da noi obbedienza, fede ed istinto, non ragione, perchè questa, a ragion veduta, è una posizione che conduce al fanatismo religioso e non alla crescita dell'uomo.
Purtuttavia, non si sfugge all'impressione che Mill, negando l'onnipotenza divina, di fatto venne a rilanciare il manicheismo, cioè la dottrina che afferma che fin dal principio vi è lotta tra Bene e Male, e che queste forze hanno forza pressochè pari.
Geymonat scrisse che non è vero. "Nulla infatti è più lontano dal Mill che la mentalità metafisica del manicheismo, nulla gli ripugna maggiormente che un qualsiasi tentativo di divinizzazione del male. Non ha senso per lui parlare di due principi assoluti dell'essere. "
Infatti Mill parlò di due forze in campo, inserite nel mondo. Ma non è per questo che il discorso cambia: di fatto si veniva a riconoscere che esiste un campo del Male e che il suo potere d'attrazione è pari a quello esercitato dal Bene. I mali non vengono identificati, chiamati per nome e cognome, un po' come se tutti i diavoli fossero satana e come se il male fisico non avesse un suo statuto del tutto autonomo dai satanassi e fosse piuttosto riconducibile alle leggi di natura.
Per Mill c'è il Male. Poco importerebbe poi, che il significato di Male avesse, ovviamente, in Mill, un significato del tutto diverso da quello dei manichei. E' evidente che per Mill il Male è il fideismo irrazionale e fanatico, l'oscurantismo; il Bene è la Ragione, la scienza, il progresso, il modo di vivere civile, la Libertà.
Anche Mill, dunque tentò una teodicea, cioè una giustificazione di Dio. Ma è evidente che egli ricorse all'unico argomento incompatibile con il monoteismo, ovvero la non onnipotenza di Dio e l'esistenza di esseri, signorie e potenze di pari dignità.

Utilità della religione
Visto che abbiamo trattato subito del centro del problema, tanto vale proseguire nell'analisi completa del secondo saggio.

Mill partì dalla domanda, già esposta in altra forma a Comte nelle sue lettere, circa l'utilità di criticare la religione in nome della verità, qualunque essa fosse, rischiando così di contribuire ad una possibile infelicità degli esseri umani che della stessa religione avrebbero vitale bisogno.
La questione assume una forte tinta di dramma individuale: « E' una situazione molto penosa per uno spirito coscienzioso e colto, l'essere attratto in direzioni contrarie dai due più nobili oggetti di ricerca: la verità ed il benessere generale. Un tale conflitto deve inevitabilmente produrre una crescente indifferenza verso l'uno o l'altro di tale oggetti, e più probabilmente verso entrambi. Molti di coloro che potrebbero rendere servizi giganteschi tanto alla verità che all'umanità si credono di poter servire l'una senza danno per l'altra, sono o totalmente paralizzati, o indotti a limitare i propri sforzi a questioni di secondaria importanza dal timore che che qualsiasi effettiva libertà di pensiero, o qualsiasi considerevole rafforzamento o ampliamento delle facoltà speculative dell'umanità nel suo insieme, togliendo loro la fede, potrebbe risultare il modo più sicuro per rendere gli uomini viziosi e miserabili. »

Deprecando lo spreco di energie assorbito dal tentativo, giudicato ormai vano, di puntellare le credenze religiose con argomenti di ogni tipo, Mill risolse di affrontare la questione così: « Non basta affermare che non può esservi conflitto tra verità e utilità, e che se la religione è falsa, dal suo rigetto non può che venire un bene. Infatti, sebbene la conoscenza di una qualsiasi verità positiva costituisce un'utile acquisizione, non si può affermare la stessa cosa, senza riserva, della verità negativa. Allorquando l'unica verità accertabile è che nulla può venire conosciuto, non veniamo in possesso, mediante tale conoscenza, di alcun fatto nuovo dal quale farci guidare; e tutt'al più restiamo soltanto scossi nella nostra fiducia in qualche precedente segno indicatore che, sebbene inesatto, poteva tuttavia essere rivolto nella stessa direzione delle migliori indicazioni in nostro possesso, e, se più visibile e più facile a leggersi, poteva mantenerci sulla retta via, quando non avessimo scorto le altre.»
Messo in prosa corrente questa contorsione del pensiero milliano vuol dire: se abbattiamo l'idolo e la chiesa che lo contiene non abbiamo più nulla che ci guidi. E' meglio o è peggio? Ignorando Mill, che la falsità della religione è determinata dalla credenza che Dio governi il mondo umano, costituisca autorità ed altri simili baggianate, è evidente l'imbarazzo del filosofo. Ma se la questione fosse stata posta in modo diverso, ovvero a partire dal principio che Dio non governa il mondo umano nemmeno nelle teocrazie, anzi men che mai in quelle, una tale questione non aveva alcuna ragione di esistere. Chi non sarebbe, allora, pronto a combattere questa falsa credenza, ovvero che un dio cattivo come nessun uomo mai riuscì ad esserlo, governi il mondo e produca lager nazisti, regimi teocratici, ed incoraggi guerre sante, inquisizioni, conversioni forzate con la spada alla gola come ai tempi del magno Carlo, re dei Franchi?

Una simile impostazione del tutto sbagliata perchè incapace di cogliere il problema vero, cioè in cosa consista la falsità della religione, non poteva che condurre ad una serie di affermazioni sbagliate.
Infatti, scopo del saggio, secondo Mill, era: «Ci proponiamo di cercare se la fede in una religione, considerata come una mera persuasione, prescindendo dalla questione della sua verità, sia realmente indispensabile al benessere temporale dell'umanità; se l'utilità della fede sia intrinseca e universale oppure locale o temporale, ed in un certo senso accidentale; ed inoltre, se i benefici che esso procura non possano venir ottenuti altrimenti, senza le notevolissime intromissioni di male, da cui, anche nelle forme migliori di fede, quei benefici vengono sminuiti.»
Inutile dire che messa così la questione non ha senso. Al contrario, smascherando la menzogna religiosa, cioè l'assurda idea che Dio governi la società civile sempre, si salva Dio da giudizi stupidi, lo si rende chiaro e comprensibile, e poi ognuno è libero di crederci o non crederci, visto che, in fondo, la differenza è minima: molto dipende da noi. Noi diamo i nomi agli animali ed alle cose. Noi scopriamo le leggi scientifiche che governano la natura e la vita, noi scegliamo tra la giustizia e l'ingiustizia.

Date queste premesse, temevo anche peggio, ma in effetti Mill ebbe uno scatto ed abbiamo una serie di riflessioni più ragionevoli ed oltre modo interessanti.
Si pose essenzialmente due domande: che cosa fa la religione per la società? Che cosa fa la religione per l'individuo?
Risposte:
Mill ammise che la religione insegna precetti di giustizia e carità, ma contestò che questi stessi precetti non fossero altrimenti insegnabili da una morale che oggi potremmo definire laica: "alla religione viene accreditata tutta l'influenza nelle faccende umane che appartiene invece a qualsiasi codice generalmente accettato per la guida ed il governo della vita umana."
« La religione sembra così potente perchè questo immenso potere è al suo servizio.»
Ciò che appare inoppugnabile a Mill, è che l'autorità svolga un ruolo decisivo nella formazione culturale degli uomini. Gli esseri umani sono più propensi a credere a chi è unanimente stimato che a chi è negletto. Per questo la religione è autorevole; tuttavia gli effetti positivi dell'educazione religiosa impartita nei primi anni, non devono la loro efficacia alla religione, ma al fatto di essere impartiti nei primi anni. La preziosa indicazione agostiniana per la quale essa incontrerebbe un qualcosa di innato in noi stessi non è presa in considerazione.
Anzi, proseguì Mill, la forza della religione sta proprio nel fatto che essa incontra il consenso esterno e si avvale del senso comune e dell'opinione pubblica per dare forza alle sue capacità persuasive o dissuasive. L'approvazione o la disapprovazione pubblica sono determinanti per le nostre scelte ed i nostri comportamenti. "Il timore della vergogna, il terrore di avere una cattiva reputazione, o di essere antipatico ed odiato, sono le forme semplici e dirette della sua forza di dissuasione."
Le conseguenze negative derivanti dal biasimo sociale comporterebbero, inoltre, l'esclusione dalla società e dagli "innumerevoli buoni uffici che gli esseri umani si rendono l'un l'altro", culminando nella impossibilità di avere successo nella vita.
Per questo ogni ambizione degna di questo nome "è subordinata alla pubblica opinione, salvo che in tempi di sfrenata violenza militare."
Ed è per questo che gli scopi dell'ambizione sociale o personale si possono ottenere soltanto grazie alla buona opinione su noi stessi che sappiamo suscitare negli altri. Ma questa, in fondo, non sarebbe altro che il regno della menzogna e dell'ipocrisia, cosa che Mill non dice espressamente, ma fa intendere.
Infatti - concluse Mill - « L'involontaria influenza dell'autorità sulle menti comuni è tale, che le persone debbono essere di uno stampo fuori dell'ordinario per essere all'altezza di sentirsi nel giusto quando il mondo, vale a dire il loro mondo, le ritiene in in torto; nè esiste, per la maggiore prte degli uomini, una dimostrazione più efficace della loro virtù o del loro talento, del fatto che la generalità delle persone mostri di credere in esso.»
La conclusione di Mill sulla religione è dunque inappellabile: « La religione è stata potente non per sua intrinseca forza ( e potremmo noi dire verità), ma perchè essa ha avuto nelle sue mani questo ulteriore e più efficace potere. »

Interrogandosi sul ruolo avuto dalla religione nella formazione morale dei singoli, annotò con acutezza:« Senza dubbio, la convinzione, impostasi a poco a poco a tutti fuorchè ai molto ignoranti, che le punizioni divine non erano da attendersi con certezza in forma temporale, ha molto contribuito alla caduta delle vecchie religioni, e alla generale adozione di una religione la quale, pur senza escludere in modo assoluto interferenze della Divina Provvidenza nella vita terrena per punire i cattivi e premiare i buoni, trasferiva il momento principale della retribuzione divina in un mondo ultraterreno. Ma i compensi ed i castighi rinviati a tanta distanza di tempo, e non visti mai dall'occhio umano, erano mal calcolati, anche se infiniti ed eterni, per avere sulle menti ordinarie un effetto molto potente contro le forti tentazioni. La loro lontananza da sola diminuisce prodigiosamente la loro efficacia, proprio su quegli spiriti che più abbisognano del freno della punizione. Una causa di indebolimento ancora maggiore è costituita dall'incertezza che è loro propria: infatti i premi ed i castighi assegnati dopo la morte, vengono conferiti non in base a particolari azioni, bensì in base all'esame dell'intera vita della persona, e questa sarà facilmente indotta a persuadersi di avere commesso solo dei peccatucci, e che alla fine la bilancia potrà ancora pendere a suo favore. Tutte le religioni positive contribuiscono a questo autoinganno. Le religioni deteriori insegnano che la vendetta divina può essere placata mediante offerte ed umiliazioni; quelle migliori, per non condurre i peccatori alla disperazione, insistono talmente sulla misericordia divina, che quasi nessuno è costretto a considerarsi irrevocabilmente condannato. L'unico pregio di questi castighi, la loro schiacciante potenza, che potrebbe sembrare appositamente studiata per renderli efficaci, risulta invece un motivo per cui nessuno (salvo qualche ipocondriaco) può effettivamente credere di essere seriamente in pericolo di venire colpito. Anche il peggior delinquente, qualunque sia il delitto che ha avuto la facoltà di commettere, qualunque sia il male che ha inflitto in questa esistenza, stenta a credere di poter meritare un'eterna tortura. Di conseguenza gli scrittori religiosi e i predicatori non si stancano di lamentare che i motivi religiosi hanno scarsissimo effetto sulla vita e condotta degli uomini, malgrado i terribili castighi che preannunciano. »

Ma questo spauracchio dell'inferno non fu per Mill che il lato "più volgare" dell'utilità religiosa. Secondo l'opinione dei teologi più aperti, " la parte migliore dell'umanità ha assolutamente bisogno della religione per il perfezionamento del proprio carattere, anche se la correzione dei peggiori potrebbe probabilmente compiersi senza il suo aiuto."
La religione - proseguì Mill - ancora secondo questi teologi, serve ad insegnare, se non a imporre la morale sociale; "tutti i maggiori filosofi, che non si sono ispirati ad essa, si arrestarono nei loro voli più sublimi, al di sotto della morale cristiana, e quella stessa morale inferiore che essi possono avere raggiunto ...non riuscirono mai a farla accettare dalla massa comune dei loro concittadini."

Qui Mill riconobbe che " vi è molto di vero" nell'idea che afferma che gli uomini accettarono le regole e le leggi solo in quanto presentate come un volere della divinità. " I popoli antichi hanno spesso, se non sempre, ricevettero la loro morale, le loro leggi, le loro credenze razionali, e perfino le arti pratiche...come una rivelazione avuta dalle potenze superiori, e nessuna altra via li avrebbe facilmente indotti ad accettarle."

Aggiunse: « Anche indipendentemente dalle speranze e timori personali, l'involontaria deferenza provata da quelle menti rozze verso un potere superiore al loro e la tendenza a supporre che gli esseri dotati di potere soprannaturale fossero pure dotati di conoscenza e saggezza sovrumana facevano sì che essi desiderassero disinteressatamente conformare la propria condotta secondo le supposte preferenze di questi esseri potenti, e non adottassero alcuna nuova pratica senza la loro autorizzazione che poteva essere data spontaneamente, o sollecitata ed ottenuta.
Ma proprio perchè gli uomini, quando erano ancora selvaggi, non avrebbero accettato delle verità morali o scientifiche se non le avessero credute rivelazione sovrannaturale, si deve forse dedurre che essi rinuncerebbero ora piuttosto alle verità morali che alle scientifiche solo perchè non credono che esse abbiano un'origine più alta dei cuori di uomini nobili e saggi? Non sono forse le verità morali abbastanza forti nella loro specifica evidenza, per lo meno tanto da continuare a meritare che gli uomini abbiano sempre fede in esse? Ammetto che alcuni dei precetti di Cristo come vengono esposti nel Vangelo - ben più elevati delle dottrine di Paolo che costituiscono la base del Cristianesimo ordinario - portino alcune specie di bontà morali ad un livello ben più alto di quello mai prima raggiunto, sebbene una parte dei precetti ritenuti peculiari del Cristianesimo si trovino nelle Meditazioni di Marco Aurelio, che non abbiamo motivo di credere siano state in alcun modo influenzate dal Cristianesimo.»

Ma, ancora secondo Mill, attribuendo al sovrannaturale le massime della moralità, " si causa un male effettivo." L'origine divina della legge " le consacra nel loro complesso" ed "impedisce" che le regole "vengano discusse o criticate."
« Cosicchè, se fra le dottrine morali accettate come facenti parte della religione, ve ne sono di imperfette, o perchè erronee fin da principio, o perchè non esattamente limitate o controllate nella loro espressione, oppure ancora perchè, pur essendo un tempo ineccepibili, non si rivelano più adatte ai mutamenti verificatesi nelle relazioni umane (ed è mia ferma convinzione che nella cosiddetta morale cristiana si trovino esempi di tutti questi casi) tali dottrine imperfette sono considerate altrettanto impegnative per la coscienza quanto i precetti più nobili, più duraturi e più universali di Cristo. Ogniqualvolta la moralità è supposta essere di origine sovrannaturale, essa diviene stereotipata, proprio come la legge del Corano lo è per i suoi seguaci.»

Un argomento tra i più interessanti è quello che espone i motivi per i quali l'uomo cerca il sovrannaturale: « E' inutile spingere più oltre la storia naturale della religione, non proponendoci qui di spiegare come essa nasca negli spiriti più rozzi, bensì come persista fra gli spiriti colti. Si troverà - io ritengo - una spiegazione sufficiente di quanto ora detto nella ristrettezza dei limiti delle conoscenze certe dell'uomo, cui si oppone la sua sete illimitata di conoscenza. L'esistenza umana è circondata di misteri, la regione assai limitata della nostra esperienza non è che una piccola isola circondata da un mare immenso, e questo spaventa i nostri sentimenti e stimola la nostra immaginazione a causa della della sua vastità ed oscurità. Per rendere ancora più profondo il mistero, il campo della esistenza terrena non risulta soltanto un'isola sperduta in uno spazio infinito, ma anche in un tempo infinito. Il passato ed il futuro sono parimenti oscuri per noi: non sappiamo nè l'origine di tutto ciò che è, nè il suo destino finale. Se proviamo un profondo interesse nel sapere che esistono nello spazio miriadi di mondi ad una distanza incommensurabile, e per le nostre facoltà addirittura inconcepibile; se siamo ansiosi di scoprire quel poco che possiamo intorno a questi mondi, e se non potendo mai sapere ciò che essi sono, siamo insaziabili nello speculare su ciò che possono essere; non costituisce forse per noi una questione del più profondo interesse l'apprendere, od anche il congetturare, donde provenga questo mondo più vicino che noi abitiamo, quali cause od agenti lo abbiano fatto come è, e da quali poteri dipenda il suo futuro? Chi non desidererebbe conoscere questa più ardentemente di qualsiasi altra possibile conoscenza, finchè esiste la minima speranza di raggiungerla? Che cosa non si sarebbe pronti a dare, per una qualsiasi notizia attendibile proveniente da quella misteriosa regione, per un qualsiasi sguardo anche furtivo, che ci ponga di scorgere una minima luce attraverso le sue tenebre, e specialmente, infine, per una qualsiasi teoria credibile, che ci rappresenti il mondo governato da un influsso benigno e non già da uno ostile? Non essendo però in grado di penetrare in tale regione fuorchè con l'immaginanzione, assistita da analogie plausibili ma inconcludenti derivate dall'azione e dall'intenzione dell'uomo, l'immaginazione è libera di riempire il vuoto con le chimere che più le convengono: elevate e sublimi se l'immaginazione è nobile, basse e meschine se invece è abbietta.»

Le ultime pagine di Mill conducono a considerazioni piuttosto negative sulla vita eterna e la salvezza dell'anima. Innanzi tutto egli considerò che sono gli infelici e gli insoddisfatti della vita ad aver bisogno della speranza in un'esistenza ultraterrena. I "felici" ne avrebbero molto meno bisogno.
Le religioni che incoraggiano questa speranza non fanno altro che alimentare l'egoismo di molti, i quali si comportano bene, secondo Mill, solo perchè convinti del premio, di evitare l'inferno ed andare in paradiso. Ciò, secondo Mill, è di ostacolo ad una vera presa di coscienza e quindi ad una maturazione negli individui di un vero significato della vita, la quale è un bene di per sè e non una sorta di viaggio verso il paradiso o l'inferno. L'individuo maturo dovrebbe dunque trovare nella vita stessa ragioni a sufficienza per saziarsi di ogni esperienza degna, ed, in altre parole, raggiungere la felicità terrena. Questa è la premessa indispensabile per acconciarsi alla morte in una prospettiva del tutto vetero-testamentaria: coricarsi coi propri avi sazi di vita e di anni e riposare per l'eternità, allo stesso modo dei patriarchi, i quali non avevano alcuna fede nell'esistenza dell'al di là. A queste considerazioni si agganciano valutazioni sulla superiorità della dottrina buddhista la quale non considera affatto come premio una possibile reincarnazione, cioè una resurrezione della carne, ma semmai solo un passo ulteriore per arrivare alla definitiva ed agognata estinzione nel nulla. In pratica Mill accusò così di infantilismo la religione occidentale nel suo insieme, islamismo compreso, ed, in conclusione, salvò solo l'antica concezione greco-omerica dell'Ade come regno delle ombre nel quale Achille, per esempio, aveva confessato di preferire d'essere vivo sulla terra, anche come l'ultimo degli uomini, piuttosto che il primo nel regno dei morti.
Data questa prospettiva è evidente che converrebbe davvero tornare ad essere come bambini per entrare nel regno dei cieli, piuttosto che finire maturi ma decrepiti in un desiderio di totale annilichimento. Non so se si tratti solo di gusti e preferenze dettate dalla nostra condizione individuale, ma uccidere la speranza di una vita migliore, senza nulla togliere alla vita che stiamo vivendo, mi pare francamente una sciocca pretesa filosofica, tant'è vero che il buddhismo fu in origine una filosofia e non una religione.
Il problema è che nè la filosofia, nè la religione, nè la scienza, nè qualsivoglia guru superilluminato, possono darci uno straccio di prova dell'esistenza dell'al di là. Ed anche quei libriccini che riportano le sconvolgenti e fantasiose esperienze di individui entrati in coma e poi risvegliati, non hanno altro valore che quello di un sogno. La sopravvivenza dell'anima, o se si vuole, dell'io, un io senza memoria, senza sensi, senz'altra risorsa che il proprio partecipare all'essenza divina dell'intelletto attivo, è però una possibilità che non possiamo escludere. Ed io credo, infine, sia tanto sciocco l'affermarla quanto il negarla in assoluto.

Natura
Nel primo saggio Mill aveva introdotto alcune considerazioni sull'uso improprio dei termini natura e naturale ricorrenti in alcune correnti filosofiche, a partire dallo stoicismo e dall'epicureismo dell'antichità, cioè in dottrine sorte "in un'epoca di debolezza del pensiero e dell'intelletto."
Mill si rammaricò del fatto che Platone non avesse dedicato un dialogo al vero significato di Natura, ricordando "che le epoche successive devono tanta parte di quella qualunque chiarezza intellettuale raggiunta" proprio ai dialoghi platonici.
« Se l'idea denotata da questa parole - scrisse Mill - fosse stata assoggettata alla sua analisi rigorosa, e se i soliti luoghi comuni nei quali essa compare fossero stati sottoposti al controllo della sua potente dialettica, i successori non si sarebbero precipitati, come subito fecero, in un modo di pensare e di ragionare la cui pietra angolare era formata proprio dall'uso sbagliato di essa; errore dal quale egli fu singolarmente immune.»
Il metodo platonico - secondo Mill - era consistito nel cercare l'universale nel particolare; di qui la prima domanda "ovvia" che ci si potrebbe fare: che cosa significa natura di un determinato oggetto?
« Si intende ovviamente l'insieme o l'aggregato dei suoi poteri o proprietà, le maniere in cui agisce sulle altree cose (contando tra queste i sensi dell'osservatore) e le maniere nelle quali le altre cose agiscono su di esso, cui bisogna aggiungere, nel caso di un essere senziente, la sua propria capacità di sentire o di essere cosciente. La Natura di una cosa significa tutto ciò, significa la sua intera capacità di produrre i fenomeni...»

Sicchè - per Mill - "come la natura di una cosa qualsiasi è l'aggregato dei suoi poteri o proprietà, così la Natura in astratto è l'aggregato dei poteri e delle proprietà di tutte le cose..."
« La parola Natura, in questa sua più semplice accezione, è dunque un nome collettivo per indicare tutti i fatti, effettivi o possibili, oppure per esprimerci in forma più precisa, è un nome per il modo, in parte a noi conosciuto ed in parte no, con cui hanno luogo tutte le cose.»

Si da però un altro significato, che viene compreso quando Natura si contrappone ad Arte, o tecnica. Per Mill l'arte sarebbe altrettanto naturale quanto qualsiasi altro fenomeno perchè essa non dispone di poteri suoi propri. E' solo un uso dei poteri e delle proprietà della Natura svolto dall'uomo. "Una nave sta a galla per la stessa legge del peso specifico e dell'equilibrio che fanno galleggiare un albero sradicato dal vento..." In sostanza - concluse Mill - l'arte e la tecnica non sono che imitazioni intelligenti della natura e delle sue leggi.
Su questo piano, pertanto, il detto naturam sequi, avrebbe più senso espresso come conosci la natura.

Ma - osservò Mill - il naturam sequi divenne anche principio della filosofia morale, "per molte delle più ammirate scuole di filosofia".
« Presso gli antichi, specialmente nel periodo di decadenza del pensiero e dell'intelletto, questo fu il banco di prova a cui si riportavano tutte le dottrine etiche. Gli Stoici e gli Epicurei, pur inconciliabili nel resto dei rispettivi sistemi, erano concordi nel considerarsi obbligati a dimostrare che le rispettive massime di condotta rappresentavano i dettami della natura.
Sotto la loro influenza i giuristi romani, quando tentarono di elevare la giurisprudenza a sistema, diedero inizio alla propria esposizione con un certo Jus naturale, "quod natura omnia animalia docuit", come Giustiniano dichiara nelle Istituzioni, e poichè i moderni scrittori di sistematica hanno generalmente preso a modello, non soltanto il diritto, ma per la filosofia morale, i giuristi romani, sono stati numerosissimi i trattati sul cosiddetto Diritto naturale, e i riferimento ad esso considerati come regole supreme e modello hanno pervaso la letteratura.»

Nei primi secoli del cristianesimo, tuttavia, ( e già con San Paolo, aggiungo io) Mill notò che i filosofi cristiani considerarono spesso l'uomo come malvagio di natura.
Solo in seguito "Le dottrine del Cristianesimo si sono in tutte le epoche adattate largamente alla filosofia in quel momento predominante, e il Cristianesimo dei nostri giorni ha preso una parte rilevante del proprio colore e sapore dal deismo sentimentale."

Qui Mill cominciò a speculare su due modi di dire peculiari come la natura ingiunge ed agire contro natura, cominciando con l'osservare che è pressochè ineludibile l'associazione che viene fatta tra la parola legge in senso etico e morale e la parola natura.
« Nulla è associato più comunemente alla parola Natura che la parola Legge; e quest'ultima ha due distinti significati; nell'uno essa denota qualche porzione definitiva di ciò che è, nell'altro di ciò che dovrebbe essere. Quando parliamo della legge di gravità, delle tre leggi del moto ecc... ecco le porzioni del ciò che è. Quando parliamo invece della legge penale, delle leggi civiche, della legge dell'onore, della legge della verità, della legge della giustizia; tutte queste sono porzioni di ciò che dovrebbe essere, o supposizioni, sentimenti, comandi di qualcuno intorno a ciò che dovrebbe essere. »

Ancora: « Il richiedere alle persone di conformarsi alle leggi della Natura, quando è per loro fisicamente impossibile il fare la minima cosa se non attraverso qualche legge della Natura, risultà un'assurdità. Ciò che occorre dir loro, invece, è quale particolare legge della Natura essi dovranno seguire in un determinato caso. Per esempio, quando una persona sta attraversando un fiume su di una passerella stretta senza parapetto, farà bene a regolare i suoi movimenti secondo le leggi dell'equilibrio e dei corpi in moto, anzichè conformarsi soltanto alla legge di gravità, e cadere nel fiume.
Eppure, per quanto sia ozioso esortare la gente a fare ciò che non possono evitare, e per quanto sia assurdo il prescrivere come uomo di buona condotta ciò che che si accorda altrettanto bene con la condotta cattiva: si può nondimeno costruire una norma razionale di condotta partendo dalla relazione che la condotta dovrebbe avere con le leggi della Natura nella più ampia accezione del termine. L'uomo necessariamente obbedisce alle leggi della Natura, o in altre parole, alla proprietà delle cose, ma egli non si fa necessariamente guidare da esse. »
Qui Mill trae una prima conclusione importante: se gli uomini fossero capaci di prestare attenzione alle proprietà degli enti fisici, in quanto in grado, esse, di ostacolare o favorire un certo scopo, "noi saremmo giunti al primo principio di ogni azione intelligente, o meglio, alla definizione dell'azione intelligente stessa."
Ma la massima dell'obbedienza alla Natura viene considerata non come indicazione "prudenziale", ma come un comandamento etico, ed anzi "da coloro che paralno di jus naturae, come legge adatta a venir amministrata da tribunali ed a venir resa esecutiva da sanzioni." Commentò Mill: « Un'azione giusta deve significare qualcosa di più e diverso che non un'azione semplicemente intelligente: oppure nessun precetto oltre quest'ultimo può venire connesso con la parola Natura nel suo significato più ampio e filosofico.»

A questo punto Mill cominciò ad esaminare il significato di natura sotto l'aspetto di quello che avviene senza intervento umano.
Si chiese: "E' forse, nella Natura così intesa, lo svolgimento spontaneo delle cose lasciate a sé stesse, la regola da seguire per tentare di adattare le cose al nostro uso?"
In questo senso la massima di seguire la natura " è manifestatamente assurda e autocontraddittoria."
« Infatti, mentre l'azione umana non può fare a meno di conformarsi alla Natura (nel pieno significato del termine), il vero scopo e l'oggetto dell'azione, è proprio di alterare e di migliorare la Natura (nel secondo significato).
Se lo svolgimento naturale delle cose fosse perfettamente giusto e soddisfacente, l'agire in modo qualunque sarebbe un'intromissione gratuita, che, non potendo rendere le cose migliori, le dovrebbe rendere peggiori. Oppure, una qualunque azione potrebbe essere giustificata solo quando fosse in diretta obbedienza agli istinti, poichè questi potrebbero forse venir considerati parte dell'ordine spontaneo della Natura; ma il fare una qualsiasi cosa con uno scopo e una premeditazione sarebbe una violazione di tale ordine perfetto. Se l'artificiale non è migliore del naturale, quale scopo hanno tutte le arti della vita? Lo scavare, l'arare, il costruire, il vestirsi, sono dirette trasgressioni dell'ingiunzione di seguire la Natura.»
E' da notare che con questa affermazione Mill, sembrò venire a contraddire quanto aveva affermato, sia pure in altro senso, nei Principi di Economia politica, ovvero che il modo di produzione era "naturale", oltre che necessario, mentre era la distribuzione della ricchezza ad essere soggetta ad istituzioni umane.
Sia quel che sia, appare chiaro che il piglio di questo scritto era di carattere schiettamente positivista ed aveva anche come bersaglio l'imprecisione e la vaghezza delle filosofie etiche e morali facilone e deboli di intelletto, proprio quelle filosofie, come l'epicureismo e lo stoicismo, che Mill aveva assunto come modello per il suo Utilitarianism.
Se su questo piano delle analogie linguistiche la contraddizione milliana è evidente, tuttavia, forse non lo è sul piano semantico, perchè una volta assunti nei loro possibili significati tutte le possibilità che potrebbe indicare la parola Natura, è evidente che essa è qualcosa di così generale e generico, che in realtà potremmo ben dire che anche la ragione e l'intelletto umano sono qualcosa che esiste in natura e non al di fuori di essa. Non c'è un solo animale vivente, una sola specie di patata o di verme, o di cardo o di virus, che sia fuori della natura o contro natura. E neanche gli esseri umani, con le loro caratteristiche spirituali più evolute possono dirsi fuori, o al di sopra della natura. Ciò che possono fare è appunto pensarla, ragionare su di essa, studiarla, possibilmente con la precisione e la passione che caratterizza il naturalista, come Darwin, ad esempio, o come Lamarck e Spallanzani.
In quest'ottica è evidente che Mill fece bene a presentare il conto a tutti quei filosofi e pensatori all'ingrosso che o basavano tutto il loro presunto insegnamento sul naturam sequi, o al contrario, lo fondavano sulla spiritualità superiore opposta alla natura e negante il carattere naturale dell'uomo, il suo essere comunque un essere naturale e non un robocop facitore di bene.

L'amica natura, la fedele compagna, la preziosa consigliera, svela con Mill tutto il suo vero carattere di perfida matrigna, di latente pericolo, di insidia continua. "La natura è assassina" - scrisse Mill - " col più altezzoso disprezzo così della pietà come della giustizia, colpendo con i suoi strali tanto gli esseri migliori e più nobili quanto i più meschini e peggiori; vengono colpiti coloro che sono impegnati nelle imprese più nobili e meritorie, spesso proprio come diretta conseguenza delle azioni più nobili, e si potrebbe quasi ritenere che fosse una punizione."
E qui scattò un ragionamento davvero interessante: « Supponiamo che, contrariamente alle apparenze, questi orrori, quando sono perpetrati dalla Natura, promuovono dei fini buoni, tuttavia poichè nessuno crede che noi perseguiremmo dei fini buoni se seguissimo dei tali esempi, il corso della Natura non può essere per noi un buon esempio da imitare. O è giusto dire che dovremmo uccidere perchè la Natura uccide, torturare perchè la Natura tortura, rovinare o devastare perchè la Natura fa altrettanto; oppure non dovremmo considerare per nulla ciò che la Natura fa, ma ciò che è bene fare. Se esiste una reductio ad absurdum, questa è certamente una. »
La legge di natura per Mill è molto simile alla celebre minaccia lanciata da Cristo: " A chi ha sarà dato, a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha". Facendo ruotare, tuttavia, l'interpretazione della stessa in una chiave del tutto nuova, Mill ne ricavò un significato del tutto diverso, e davvero vicino alla corretta interpretazione cristiana: "il bene produce il bene, il male il male". Chi non comprende il bene, chi non ha in sé la cultura ed i mezzi per comprendere il bene, perderà anche quel poco giudizio e valore che ha.
In tale linea di ragionamento è notevole questo attacco ai difensori dei cosiddetti mali necessari, oltre ai quali potremmo anche leggere i nomi di Leibniz e di Kant.
« Questa categoria molto lodata di autori, che è costituita dagli scrittori di teologia naturale, ha smarrito, oserei dire, completamente la strada, e non ha colto l'unica linea di argomenti che avrebbe reso accettabili le sue speculazioni e chiunque sia in grado di accorgersi se due proposizioni si contraddicano lun l'altra. Essi hanno consumato le risorse della sofistica al fine di provare che tutte le sofferenze esistono nel mondo per impedirne di maggiori - esiste per esempio la miseria per il timore che debba esservi miseria -la quale tesi, se mai fosse stata ben sostenuta, potrebbe soltanto riuscire a spiegare e giustificare le opere di esseri limitati, costretti a faticare in condizioni indipendenti dalla propria volontà; ma non può applicarsi ad un Creatore presunto onnipotente, il quale se si sottomette ad una supposta necessità, è però egli stesso che crea la necessità cui si sottomette. Se il costruttore del mondo può tutto ciò che vuole, egli vuole la miseria e non c'è modo di sfuggire a questa conclusione.
I più coerenti tra coloro che si sono ritenuti qualificati a "difendere i modi di agire di Dio verso gli uomini" si sforzarono di evitare l'alternativa anzidetta indurendo i loro cuori, e negando che la miseria sia un male. La bontà di Dio, essi dicono, non consiste nel volere la felicità delle proprie creature, bensì la loro virtù; e l'universo, se non è felice, è però giusto.»
E ancora: « L'unica teoria moralmente ammissibile della Creazione è quella per cui il Principio del Bene non può sottomettere d'un tratto ed in modo completo i poteri del male, sia fisici che morali, non può collocare gli uomini in un mondo esente dalla necessità di una lotta incessante contro le potenze malefiche, o renderli vittoriosi in tale battaglia, ma può e lo fa in realtà, renderli capaci di condurre la lotta con vigore e con successo progressivamente crescente. Di tutte le spiegazioni religiose dell'ordine della Natura, questa sola non è contraddittoria né con sè stessa, né con i fatti di cui essa sente di render conto.»
Qui pare evidente che il positivista ha smarrito a sua volta la strada in quanto non vide che la miseria è una conseguenza dell'ingiustizia sociale e non ha nulla a che fare, con la carestia, che è una calamità naturale dovuta a fattori che comunque l'uomo ha imparato ad individuare ed a controllare nel tempo. La solfa è sempre la stessa: perchè imputare a Dio tutte le disgrazie del mondo quando esse hanno sempre un'origine molto più precisa ed immediata? Perchè si risente troppo, sempre e comunque della nefasta dottrina che non si muove foglia che Dio non voglia.

Esiste una Provvidenza divina? La teologia migliore, quella dei ragionatori e non dei fideisti, senza concedere granchè alla mitologia ed alle fantasie, ha evidenziato che essa si nutre di speranza, di preghiera e di comportamenti onesti. Anche nelle situazioni peggiori l'individuo potrebbe cavarsela grazie ad una linea di eventi fortunati ed alla simpatia che riesce ad istillare non perchè ipocrita ed affettato, ma perchè schietto. La Provvidenza è la conseguenza più diretta del nostro essere ed agire nella selva delle relazioni umane. La passione che riusciamo a suscitare per la nostra causa è una diretta conseguenza di ciò abbiamo seminato in precedenza.
Ma dopo i lager nazisti affermare che chiunque invoca il nome di Dio sarà salvato è certamente una bestemmia contro l'umanità, prima ancora che contro Dio, e credo lo fosse anche prima. E' impensabile che non vi sia stato un solo ebreo che non abbia invocato il nome di Dio prima di entrare nei forni. Eppure è morto ugualmente tra le più atroci torture. E' impensabile che un solo bambino afghano o palestinese non invochi il nome di Dio sotto un bombardamento, eppure muore ugualmente.
La prima salvezza che vogliamo è questa vita qui. E se ci viene tolta questa vita qui e noi non gridiamo la nostra disperazione e la nostra rabbia, è evidente che siamo rimbambiti.
Lo scopo della vita non è la morte, e nemmeno la morte eroica. Si è martiri non per vocazione o per imperscrutabile decreto di Dio, ma perchè esistono dei torturatori, dei crudeli che godono ad infliggere sofferenze, dei persecutori convinti che noi siamo male in quanto razza, in quanto portatori di idee, di comportamenti saggi, in quanto ci rifiutiamo di portare bandiere e pennacchi o di prostrarci davanti alla maestà di qualsiasi idolo. Esistono martiri in quanto esistono dei teologi convinti che la ragione sia nemica di Dio e della fede , e semini malvagità.
Credo ci sia una bella differenza tra uno spettacolo di pugilato, che a me fa abbastanza schifo, peraltro, e lo spettacolo di un uomo legato al palo, trafitto da frecce o destinato al pasto dei leoni. L'elemento della sportività salva, per così dire il pugilato, e chi lo contempla per gustare l'abilità e la forza. Il martirio, come la tortura sono tutt'altro, sono godere della morte altrui, che è l'esatto contrario del godere del piacere fisico e mentale altrui. In ciò starebbe forse il segreto non solo dell'altruismo generico, ma dello stesso altruismo sociale e politico.
Nella tortura e nello spettacolo violento l'essere umano vittima è ridotto a mezzo, cessa di essere un fine.
L'uomo morale non può avere alcuna complicità con questo genere di individui che gode del male , nel quale rientra per certi aspetti il pedofilo, oppure il tifoso ultra che incita al fallo che spacca le ginocchia. Ma anche l'illuso che si avvale di prostitute o l'illusa che si avvale di gigolò non può sottrarsi a questo autogiudizio, sebbene cerchi pervicacemente di trovare rapporti umani laddove è assai difficile trovarli, anche se, come dimostra Cristo, è proprio tra le anime perse ed i peccatori, che i giusti trovano udienza più calorosa ed entusiasta. Ma l'essere giusto e l'andare a puttane pare essere proprio una contraddizione di termini: chi considera l'altro solo come un mezzo per il proprio piacere, cade in una ignobile condizione.

Mill condusse un severo esame della Provvidenza. Egli affermò innanzitutto come "vi sia un'assurdità radicale in tutti i tentativi di scoprire, nei dettagli, quali siano i disegni della Provvidenza e realizzarli. Coloro che sulla base di indicazioni particolari argomentano che la Provvidenza intende questo o quello, o credono che il Creatore possa fare tutto ciò che vuole, oppure credono che non lo possa. Se si accetta la prima ipotesi - e cioè che la Provvidenza ha per suo intendimento tutto ciò che accade, e il fatto che una cosa accada dimostra che la Provvidenza l'aveva già tra i suoi fini. Se è così, tutto ciò che un essere umano può fare, è predestinato dalla Provvidenza e costituisce l'adempimento dei suoi disegni. Se ammettiamo invece, secondo la teoria più religiosa, che la provvidenza non abbia per intendimento tutto ciò che accade, ma soltanto ciò che è bene, allora l'uomo ha davvero in suo potere potere di aiutare, con azioni volontarie, gli intendimenti della Provvidenza; in tal caso però egli può apprendere questi intendimenti solo considerando ciò che mira a promuovere il bene generale, e non ciò per cui l'uomo sente un'inclinazione naturale. Dovendo infatti il potere divino, in base a quanto detto, risultare limitato da ostacoli imperscrutabili ma insormontabili, chi ci assicura che l'uomo potrebbe esser stato creato senza desideri che non saranno mai soddisfatti, nè mai potranno esserlo? Può darsi che le inclinazioni di cui l'uomo è stato dotato, come qualunque altra delle disposizioni che osserviamo nella Natura, siano l'espressione non già del potere divino, ma solo delle pastoie che impediscono la sua libera azione, e che il trarre suggerimenti da queste inclinazioni per la guida della nostra condotta significhi credere nella trappola tesa dal nemico.»
Qui Mill fu molto abile nel suggerire che la teologia più religiosa è, in fondo quella più vicina, all'idea di Dio come Sommo Bene, e questo per il suo intrinseco manicheismo; ma è certamente vero il contrario, non perchè sia sempre vero che la coscienza viene dall'esterno, ma perchè, in fondo, è vero che storicamente i contributi che aiutarono i religiosi ad emanciparsi dalla pochezza delle loro idee su Dio, vennero soprattutto da eminenti filosofi laici, od ai limiti dell'eresia come Tommaso d'Aquino, o persino da filosofi islamici come Avicenna od Averroè.

Un punto rilevante del saggio è l'esame degli istinti naturali dell'uomo, che Mill svolge con acribia scrivendo:« Per quanto riguarda la particolare ipotesi, che tutti gli impulsi naturali, tutte le inclinazioni abbastanza universali e abbastanza spontanee da poter essere ritenuti istinti, debbono esistere per un fine buono, e debbono soltanto venir regolate ma non represse, essa è ovviamente un'ipotesi vera per la maggioranza degli impulsi, giacchè la specie umana non avrebbe potuto continuare ad esistere se la maggior parte delle sue inclinazioni non fosse stata diretta verso un oggetto od utile per la sua conservazione. Tuttavia a meno che gli istinti possano essere ridotti ad un numero effettivamente piccolo, si deve concedere che noi abbiamo anche degli istinti cattivi, rispetto ai quali dovrebbe costituire uno scopo dell'educazione non semplicemente il regolarli, bensì di estirparli, o meglio (il che può esser fatto anche per istinto) di farli morire di inedia. Coloro che sono inclini a moltiplicare il numero degli istinti, includono di solito fra essi quello che chiamano istinto della distruzione: un istinto che fa distruggere per amore della distruzione. Non riesco a concepire alcuna ragione valida per conservare quell'istinto, come neppure quell'altra inclinazione che, se non è proprio un istinto, gli è però molto simile: quello che viene l'istinto del dominio: il piacere cioè di esercitare il dispotismo, di mantenere altri esseri in stato di soggezione rispetto alla nostra volontà. L'uomo che ricava piacere dal mero esercizio dell'autorità, prescindendo dallo scopo per il quale essa va impiegata, è l'ultima persona al mondo nelle cui mani si affiderebbe volentieri tale autorità. E ancora, esistono persone crudeli di carattere, o come si dice, naturalmente crudeli: esse provano un reale piacere nell'infliggere o nel vedere inflitto un dolore. Questo genere di crudeltà non significa semplice mancanza di cuore, mancanza di pietà o rimorsi; essa è una cosa positiva, una specie particolare di eccitamento della voluttà.»
Su queste premesse, Mill, ancora una volta attaccò i difensori del naturam sequi. « Se si vogliono scorgere dei caratteri di uno speciale disegno della creazione, una delle cose che più balzano evidenti come parti di siffatto disegno, è che una larga percentuale di tutti gli animali dovrebbero trascorrere la propria esistenza nel tormentare e divorare gli altri animali. Essi infatti sono stati generosamente equipaggiati di strumenti adatti a tale scopo; i loro istinti più forti ve li conducono, e molti di essi sembrano costruiti in modo da non essere in grado di di sostentarsi con alcun altro cibo. Se la decima parte degli sforzi spesi per trovare degli adattamenti benevoli in tutta la natura, fossero stati impiegati nel raccogliere le prove per diffamare il carattere del Creatore, quale vasta messe di argomentazioni si sarebbe trovata nell'esistenza di animali inferiori, divisi, salvo rarissime eccezioni, in divoratori e divorati, preda di migliaia di mali di fronte a cui vennero negate loro le facoltà per proteggersi! Se non siamo obbligati a credere che la creazione sia opera di un demonio, è perchè non dobbiamo di necessità supporre che essa sia l'opera di un Essere di potenza infinita. »


gm - novembre 2001