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John Stuart Mill

Il rapporto "critico" con Bentham ed altri contemporanei

Se Comte giocò un ruolo decisivo nella maturazione di una nuova prospettiva filosofica, Jeremy Bentham non scomparve mai del tutto dall'orizzonte di riflessione di Stuart Mill.
Nel descrivere le differenze tra questi e suo padre, pur riconoscendo che "James Mill era stato uno dei pensatori più originali del suo tempo", Stuart Mill affermò che Bentham era stato nettamente più importante.
Ed espresse la sua ammirazione intellettuale per Bentham, anche quando gli rivolse le critiche più dure, come nell'articolo apparso sulla London and Westminster Review, nell'agosto del 1838. Prima di mostrare i punti salienti di questo lavoro, mi pare utile introdurre qualche considerazione in ordine al rapporto tra Mill e i filosofi del suo tempo.

Potrebbe fornire qualche spunto alla riflessione la constatazione che Mill abbia costantemente evitato di parlare di filosofi a lui contemporanei, o di poco precedenti, ben più importanti di Bentham. Nei suoi scritti non vi sono riferimenti diretti a Fichte, Schelling, Hegel, Schopenhauer. Lo stesso Kant è citato qualche volta, è contestato, ma non è mai affrontato direttamente, in modo analitico.
In una lettera a Comte datata 13 marzo 1843 Mill confessò di non aver mai letto, fino ad allora, Kant, né Hegel, " né alcun altro capo di questa scuola, che non ho in primo luogo (d'abord) conosciuto che attraverso i suoi interpreti inglesi e francesi."
In questo quadro si hanno subito almeno tre sensazioni: la prima è che, in quegli anni, Mill abbia ignorato l'intero campo dell'idealismo tedesco in quanto, sebbene presente tra una ristretta cerchia di adepti, del tutto ininfluente nei processi di formazione della cultura e della mentalità inglese.
Non va dimenticato, tuttavia, che le traduzioni in inglese, o in francese, degli scritti dei filosofi tedeschi non erano tempestive.
Inoltre, non sarebbe del tutto fuori luogo pensare che le posizioni dell'idealismo tedesco apparvero in un primo tempo a Mill come qualcosa di eccentrico, nel senso di ultrafilosofico, e quindi astratto, per di più già superato dalla nuova filosofia positivista di Comte.
Per questo Mill non sentì alcuna particolare stimolazione a confrontarsi con esso, e tutta la sua attenzione, mai risolta in un lavoro scritto, fu attirata dal francese V.Cousin, chiaro espositore di teorie altrimenti "tenebrose" (da una lettera a Comte del 1841)
Il discorso nei confronti del criticismo kantiano andrebbe tuttavia inquadrato in modo diverso. Come empirista e realista Mill si trovò probabilmente a disagio di fronte all'apriorismo della ragione, e quindi non fu in grado di cogliere immediatamente che Kant aveva scritto contro gli abusi della ragion pura e non per sostenere la tesi opposta, ovvero che l'esperienza è niente.

Il dissenso di Mill nei confronti di Kant è rilevabile soprattutto sul piano della dottrina morale e sul suo metodo di derivazione. Kant, secondo Mill, fu un deduttivista totale; fondò cioè la sua etica muovendo da un principio e derivando tutto il resto da quello.
Mill cercò di mostrare, già negli anni precedenti al System of Logic, che anche il primo principio è il risultato di una serie di induzioni, ovvero osservazioni di particolari da cui estrarre leggi, e che, se occorreva trovare un primo principio, bisognava anche mostrare come ad esso si fosse arrivati, ragionando.
Va da sè, allora, che in Mill si ritrova una problematicità, che Kant aveva evitato con decisione, finendo per sembrare un dottrinario agli occhi di Mill, quando invece, mi sembra che la realtà dei suoi scritti dimostri tuttaltro.

Un'altra sensazione è che a Mill sia mancata la percezione di quanto egli stesso fosse venuta a rappresentare una forte alternativa a Schopenhauer nel campo della morale individuale e nella concezione del senso della vita.
A posteriori, mi pare che Mill abbia indirettamente fatto i conti con Schopenhauer attraverso Carlyle; certo non si rese del tutto conto che con gli scritti sulla libertà e sull'utilitarismo, egli aveva costruito una delle più efficaci e potenti risposte alla negatività, alla predicazione dell'ascetismo e della rinuncia (l'entsagen di Carlyle, mutuato da Novalis, e l'Entsagung dello stesso Schopenhauer).
Tutto questo potrebbe apparire perfino paradossale, perchè, com'è evidente, abbiamo infine due predicatori che vissero in modo quasi del tutto opposto alle loro rispettive filosofie. Schopenhauer condusse una vita da gaudente, e non praticò altro tipo di ascesi se non quella dettata dalle ristrettezze economiche; e Mill visse in modo piuttosto riservato, anche se non del tutto ascetico, ed il suo tipo di godimento della vita, fu del tutto intellettuale e spirituale.
La volgarità di Bentham, quella schietta volgarità popolare da lui stessa detestata, fu tuttavia, per Mill, una forma di ancoraggio alla realtà della vita di tutti gli esseri umani e non solo di quegli esseri privilegiati che avevano avuto accesso alla dimensione artistica e filosofica. Ciò concorse a muovere il quadro nel senso che i momenti, gli scatti snobistici di Mill nei confronti dei piaceri "volgari" e popolari non furono mai invasivi e sprezzanti. La filosofia etica di Mill fu dunque comprensiva, fu la filosofia di un uomo che conosceva gli uomini e le loro debolezze, e che comunque apprezzava la vita in sè. Questo elemento lo avvicinò a Kant e lo allontanò decisamente da Schopenhauer.

Fino al 1825, il giovane John Stuart era stato il curatore dell'immane lavoro di Bentham sulle prove giudiziarie. In molte riprese di temi benthamiani, è evidente che Mill lavorò spesso sul versante etico (e psicologico) dei temi che Bentham aveva affrontato in termini legali e giudiziari.
Nei Remarks on Bentham's Philosophy, pubblicati anonimi in un volume del 1833 intitolato England an the English, Stuart Mill mostrò di apprezzare la proposta di riordinamento del sistema legale inglese di Bentham. Ma criticò l'utilitarismo benthamita, asserendo in particolare che in esso sarebbe mancata la dimostrazione del criterio della massima felicità in senso positivo, e chi vi erano solo dimostrazioni negative di fallimento da parte di dottrine rivolte a stabilire altri criteri.
Il problema se il principio della massima felicità per il maggior numero sia dimostrabile su di un piano solo teorico mi pare si presti ad una trattazione molto superficiale quando viene isolata dalle condizioni sociali ed ambientali.
Se ne può parlare in senso solo soggettivo, se ne può dedurre che alcuni sono psicologicamente più disposti di altri ad essere felici, ma rimane che essere felici quando si è in miseria, e parimenti si può godere lo spettacolo dello sfarzo altrui, reso per giunta possibile dalle ingiustizie, pare piuttosto difficile.
L'errore di Mill, se di errore si può parlare, è di avere spesso isolato la questione felicità, ed in definitiva, la questione etica, da tutte le altre, non considerando a sufficienza che essa può essere minata da fattori al di là di ogni possibile calcolo preventivo, quale una carestia, un'epidemia, una guerra, un incidente, la perdita della persona più cara, il sorgere dello sdegno per il trionfo sociale e politico di demagoghi e ciarlatani.
Per il resto è chiaro che la felicità va vissuta: si può parlare di felicità e infelicità solo dopo esperienze significative, le quali, tuttavia, non forniscono prova logica, ma solo una testimonianza empirica del fatto che, a volte, come nelle fiabe, qualcuno visse felice e contento, ma sempre dopo avventurose lotte con draghi, maghi, streghe e cattivissimi esseri reali ed immaginari.
Mill tornerà su questi temi con uno scritto intitolato Utilitarianism e pubblicato nel 1868. Nell'introdurlo Enrico Musacchio propone una serie di considerazioni tra le quali la più importante sembra essere questa: Mill criticò Bentham in gioventù, ma in sostanza ripropose pari pari le idee di Bentham nel 1868, arricchendo la stessa dottrina utilitarista di contenuti morali e pieceri superiori, senza fare, tuttavia, autocritica sul problema della dimostrazione. (Utilitarismo - Cappelli - Bologna,1981)
Certamente, è vero che in Utilitarismo non ci sarà prova logica e, come vedremo (Utilitarismo), mancherà il primo principio da cui dedurre il sistema etico. Tuttavia la mole di argomenti messi in campo, non tutti retorici, in modo problematico e non certo propagandistico, rende la riflessione milliana ancora appetibile e stimolante.
Nonostante tutto, alla faccia di chi ci vuole male, possiamo avere la nostra razione di felicità. E questo è l'argomento finale e decisivo: la felicità è possibile, non solo dopo il trionfo sulle avversità, ma già nella lotta.

Negli scritti sull'Utilitarismo pubblicati nel '68, Mill adotterà una prospettiva molto vicina allo spirito di Bentham, ma non può passare inosservato che in quegli scritti, Mill considerò in primo luogo desiderabile la virtù, e che, in definitiva, la vera felicità coincida con un modo virtuoso di essere.
Un comportamento solo esteriormente virtuoso, non avrebbe mai dato la felicità, ma solo prodotto dei cittadini obbedienti alle leggi, consentendo tuttavia la felicità ( o meglio: la sicurezza) degli altri, cioè dei virtuosi.
La mia è un'opinione del tutto personale, ma sono molto convinto che era di questa possibile felicità dei virtuosi che Mill voleva occuparsi, proponendo loro di uscire da una visione della vita scura e pessimistica, che è tipica di molte di queste persone.
Virtuosi infelici e "peccatori" felici, dunque io interpreto così il cruccio milliano, e può essere che mi sbagli, o che la faccia troppo semplice, ma è certo che egli si propose di capovolgere la situazione, non tanto togliendo la felicità ai "peccatori", perchè finiranno col togliersela da soli, quanto prospettando felicità terrena ai virtuosi.
Questo sarà il taglio di Utilitarismo, e quanto allo schema argomentativo, non c'è un argomento logico-razionale, ma vi sono molti argomenti empirici a supporto del discorso. O lo si vede, o nessuno saprebbe come fare a spiegarlo senza ricorrere ad argomenti terra-terra del tipo: ho tempo per andare a pescare, mi piacciono le biondine con gli occhi azzurri e qui ce ne sono tante, ed infine mi occupo di sistemi idraulici e guadagno mica male. Non è questione di mistica, anche se, ovviamente, occorre in un certo sentire, all'inglese, cioè feeling, che dietro a queste evidenze fenomeniche c'è una disposizione interiore alla semplicità ed alla ricchezza della vita.
Certo, il male del mondo ci insegue in ogni luogo, e non è che mettiamo a posto la coscienza con un minuto di silenzio ogni qualvolta ci scappa il morto o la strage. Rimane un'inquietudine di fondo, un sottile senso di disagio, Ma che colpa abbiamo noi? (Cantavano The Rokes) se esistono integralisti, totalitari e fondamentalisti, e si danno poi reazioni spropositate e prive di saggezza alle provocazioni di costoro? Non si può eliminare il male dal mondo, ma circoscriverlo, evitando anche reazioni sproporzionate sì.

Per Mill l'etica doveva occuparsi dei motivi dell'agire umano e non, solo, della prevenzione dei crimini. Il sistema benthamiano della prevenzione aveva sia direttamente che indirettamente come controindicazione una sorta di teoria del "Grande Fratello", dunque una dottrina per la quale chi sente osservato non commette crimini o atti giudicati riprovevoli per timore di una punizione, ovvero, per dirla con Bentham: una sanzione negativa. Per Mill era invece non solo importante, ma decisivo, che l'uomo pervenisse ad una forte motivazione soggettiva al comportamento virtuoso. Forse, non sempre Mill sarà coerente con questa impostazione, ma ciò sarà dovuto a motivi oggettivi, ovvero a fatti ed eventi che sistematicamente smentivano una generale tendenza del genere umano a farsi più virtuoso per intima convinzione; del resto, come si fa a dire che l'uomo inclina al bene quando c'è tutto questo male, e come si fa a dire che l'uomo inclina alla malvagità, quando c'è tutto questo bene? Una affermazione assoluta in un senso o nell'altro era ed è è una vera e propria sciocchezza. Se occorre giudicare, si fa partendo dal caso specifico; se occorre una valutazione generale, non si può che considerare che alcuni uomini sono particolarmente malvagi ed altri particolarmente virtuosi, e che la media dell'umanità, in fondo, non è che l'uno e l'altro insieme, a seconda delle circostanze.
Queste considerazioni portano ad evidenziare che le cosiddette esitazioni ed oscillazioni, a volte vere e proprie incoerenze, in Stuart Mill, non sono affatto dovute a semplici cambiamenti d'opinione, o a stati d'animo, ma il frutto di cambiamenti nei comportamenti sociali e il prodotto di impressioni derivate da determinati fatti.
Non è che il problema sollevato da Bentham in questo modo, cioè unicamente come problema di prevenzione, sia sbagliato, nemmeno per Mill. Sotto il profilo strettamente politico sarebbe persino giusto. Cosa di meglio che evitare le ingiustizie e gli abusi per prevenire il risentimento, l'odio, il sorgere dei peggiori istinti di vendetta? Cosa di meglio che spezzare la logica dei Capuleti e dei Montecchi con un gesto di buona volontà teso a pacificare? Cosa di meglio che una severa autocritica, un serio esame dei nostri errori, l'ammissione che anche se siamo stati trattati ingiustamente, abbiamo forse esagerato nel reagire, colpendo innocenti che avevano solo il torto di chiamarsi Capuleti?

Lo stesso Mill elogerà (nel saggio del '38) Bentham per il suo metodo, method of detail, cioè una capacità di scomposizione analitica dei singoli aspetti di una questione. E sotto questo profilo è evidente che se l'approccio al tema del crimine non è quello tradizionale della punizione del colpevole dopo il disastro, ma un modus vivendi che, nei limiti del possibile, renda più difficili i disastri, Bentham aveva dunque avuto non solo ragione, ma più di una ragione. Anche questa è etica, cioè un sapere che non tutti gli individui umani sono contemporaneamente consapevoli del perchè occorre astenersi da azioni e comportamenti illegali, e che dunque occorrono misure preventive, perchè, sarebbe sbagliato ed imprevidente un atteggiamento meno prudente.
Mill fu, dunque, esplicito nel riconoscere a Bentham il merito di aver posto con una certa esattezza e profondità il problema in modo del tutto originale ed inusuale, al punto da collocarlo, insieme a Coleridge, tra i massimi pensatori inglesi della sua epoca. Definirà il primo come progressista ed il secondo come conservatore, ma ammettendo che queste etichette andavano strette alla specifica grandezza di ognuno dei due. (Scrisse: «For although they were far too great men to be correctly designated by either appellation exclusively, yet in the main, Bentham was a Progressive philosopher, Coleridge a Conservative one. » (da Bentham, 1838)

Questo saggio rende un giusto tributo a Bentham, pur essendo orientato ad una critica impietosa, che non risparmia altri filosofi.
Bentham è inquadrato come prosecutore di Hume e del negativo Voltaire. Di Hume si adombrano anche i limiti del suo scetticismo, che non è solo dovuto alle ristrettezze di un puro empirismo, ma ad una "peculiarità di pensiero" capace di evidenziare "l'insuccesso della prova". Ma se Bentham - continua Mill - avesse continuato il pensiero di Hume, di lui non si sarebbe mai sentito parlare in filosofia. In Bentham non dobbiamo cercare la finezza, o la forza dell'analisi recondita, ma altre qualità, in particolare una predisposizione alla lotta contro ogni forma di abuso.
Quindi "Bentham non fu un grande filosofo" ma, fu quello che "portò in filosofia qualcosa di cui essa aveva grande bisogno".
Ci dovrebbe interessare più il modo con cui arrivò a formulare la sua dottrina, che il contenuto della stessa. Bentham - ancora secondo Mill - "aveva introdotto abiti di pensiero e metodi di investigazione che erano essenziali all'idea di scienza."
Nessuno, prima di Bentham, "aveva osato parlare in modo così sfacciato, in termini espliciti, della Costituzione Britannica e delle Leggi Inglesi". "I suoi argomenti ed il suo esempio incoraggiarono altri. "
Se alcune importanti leggi vennero introdotte, comunque, non fu grazie al pensiero di Bentham o dei filosofi, ma fu perchè il pensiero di Bentham non faceva altro che dar voce ad una sorta di inconscio collettivo (Mill parla di interessi ed istinti presenti nella società). Bentham "ruppe l'incantesimo" (broke the spell). Non fu per i suoi scritti che si produssero importanti cambiamenti come il Reform Bill, o l'Appropriation Clause, ma perchè il suo pensiero si trasmise agli uomini "in più stretto contatto con il mondo", risvegliando un pensiero latente che in loro era sopito.
"Se la superstizione intorno all'antica saggezza andò in rovina, se la pubblica opinione è cresciuta in familiarità con la convinzione che le loro leggi e le loro istituzioni non erano in gran parte il prodotto di intelligenza e virtù, ma di moderne convinzioni innestate su antiche barbarie", tutto ciò va addebitato a Bentham.
Ma la lotta agli abusi pratici, "campo lasciato vacante da Hume", dimostra in quale misura Bentham fu una mente essenzialmente pratica. I primi abusi che incontrò furono quelli inerenti la sua professione di avvocato. "Egli stesso aveva provato in primo luogo uno shock, che lo fece retrocedere inorridito di fronte all'intera montagna degli abusi; quando scoprì il costume di far pagare il cliente per tre udienze nell'ufficio del Master in Chancery, sebbene ne venisse svolta una sola. La legge, scoprì Bentham, era piena di queste cose. Ma erano sue scoperte? No esse erano conosciute da ogni legislatore e da ogni uomo di legge."