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Lo stoicismo
di Daniele Lo Giudice


Difficile, ancor oggi, trovare qualche filosofo di orientamento morale che non possa dirsi in qualche misura influenzato dallo stoicismo. Impossibile ignorare che Kant fu certamente attratto dai principi fondamentali dell'etica stoica. Ed anche Stuart Mill, che pure polemizzò con Kant in nome dell'utilitarismo etico, non mancò di sottolineare il suo interesse per lo stoicismo.
Tutto ciò depone a favore della straordinaria importanza che ebbe questa corrente filosofica che fiorì ad Atene a partire dal 300 a.C. circa, per merito di un caposcuola, Zenone di Cizio, e di un suo successore indiretto, Crisippo di Soli, che sembra aver composto oltre 700 libri.

Durante l'impero romano, lo stoicismo fu largamente diffuso tra le classi colte, ma già prima era stata la filosofia di un personaggio quale Catone l'Uticense. Per molti aspetti esso costituì un'alternativa razionale sia alle religioni tradizionali che ai nuovi culti orientali di moda a Roma.
Rispondeva ad una domanda di filosofia paragonabile solo alla domanda di psicoanalisi che si ebbe all'inizio del '900, o alla domanda di psicofarmaci contro l'angoscia che si ha oggidì. Non fu mai un movimento di rivolgimento sociale, ma scosse nel profondo alcune convinzioni quali quella della superiorità della patria e di Roma, e prima ancora del primato greco sulle rimanenti popolazioni.
A differenza dell'epicureismo, non predicò mai l'astensione dalle attività politiche, e quindi fu bene accolta soprattutto tra le classi dirigenti, tra le persone più ansiose alla ricerca di un fondamento e di un senso della vita nel nuovo orizzonte che si andava disegnando.
Purtroppo, non sono rimasti che frammenti sparsi delle originarie scritture stoiche e buona parte della nostra conoscenza si basa quindi su reportages di seconda e terza mano.
Per quanto ciò risulti scoraggiante, non possiamo tuttavia dimenticare che gli scritti di Cicerone e di Seneca, insieme ai Ricordi di Marco Aurelio, possono risultare una base più che sufficiente per un approccio diretto ai testi.

Altri personaggi notevoli della prima scuola stoica furono alcuni allievi di Zenone, tra i quali Aristone di Chio, Perseo di Cizio, Erillo di Cartagine e Cleante di Asso, che successe a Zenone nella direzione della scuola.
Crisippo fu scolaro di Cleante, e la sua opera venne proseguita da Zenone di Tarso, Diogene di Seleucia, detto il Babilonese, e Antipatro di Tarso.
La scuola stoica, pur mantenendo una considerevole unità e compattezza riguardo agli orientamenti fondamentali, si scisse molto presto in correnti diverse e persino contrapposte. Dal primo secolo a.C. in poi le notizie certe sono scarse. Possiamo solo dire che ancora nel I° e nel II° secolo dell'era cristiana, come dimostrano Seneca, Musonio, Epitteto e l'imperatore Marco Aurelio, la scuola aveva una vitalità ed esercitava una relativa influenza.
Il Pohlenz, d'altro canto, mostra in modo persuasivo come lo stoicismo influenzò alcuni tra i primi scrittori cristiani, al punto che perfino le epistole paoline fecero ricorso ad argomenti stoici, e Tertulliano, che pure fu un fiero avversario della filosofia greca, finì con l'accettare la dottrina della corporeità dell'anima.
Ma, se ben si guarda all'ultimo periodo della filosofia greca, non può sfuggire un altro dato importante. Quasi tutte le scuole filosofiche, ad eccezione dell'epicureismo che nacque prima dello stoicismo e del primo scetticismo pirroniano, trassero alimento e persino ragion d'essere, da una polemica con le posizioni stoiche. Carneade, lo scettico fondatore della terza Accademia, finì con l'ammettere che senza lo stoicismo di Crisippo, lui non sarebbe mai esistito (come filosofo, s'intende!).
In altre parole: lo storico della filosofia ed ancor di più l'appassionato di storia fanno bene ad approfondire in ogni modo l'argomento.
Da parte mia, più un appassionato che uno storico, ho fatto del mio meglio per ricostruire la genesi del pensiero stoico.

In questo primo approccio, limiterò tuttavia la trattazione alla prima fase dello stoicismo, quello caratterizzato dall'esistenza di una scuola ad Atene.

Il caposcuola Zenone era nato a Cizio, nell'isola di Cipro. Probabilmente era di origine fenicia.
Suo padre era mercante; notando che il figlio nutriva un grande amore per il sapere, lo incoraggiò a studiare filosofia e gli procurò alcuni dialoghi di Platone.
A trentanni Zenone giunse ad Atene, dove incontrò il cinico Cratete. Ne divenne allievo, ma questo non gli impedì di dedicarsi allo studio di altri filosofi.
Il giovane aveva indubbiamente del talento ed in breve cominciò a maturare una propria filosofia, distanziandosi da Cratete. Qualcuno ha anche detto che il cinismo altro non sarebbe stato che uno stoicismo più rozzo e grossolano. In parte è vero.
Comunque sia, Zenone decise di insegnare la propria visione delle cose..
Il luogo dove stabilì la sua scuola era chiamato Stoa Poikile, ovvero Portico dipinto.
Per questo i seguaci di Zenone furono poi detti stoici.

Su Zenone esiste già una scheda, la quale ha il merito di evidenziare il suo particolare contributo alla nascita della filosofia stoica, considerando la palese difficoltà a ricostruire con esattezza i contributi apportati dai singoli protagonisti.
Ma qui vorrei evidenziare in particolare un aspetto: l'approccio filosofico di Zenone non mosse da una semplice opzione intellettuale, ma da una visione globale della vita e del suo stesso senso.
In qualche modo, Zenone ritornò a Socrate, liberandosi in primo luogo della "deviazione cinica", che ai suoi occhi doveva sembrare una sorta di eresia, avendo fatto, in particolare con Diogene di Sinope, di un precetto profondo quale il vivere secondo natura e secondo il logos, una sorta di caricatura grottesca e di un invito alla mendicità che contraddiceva gli stessi insegnamenti di Antistene sull'autosufficienza.

La fondazione razionale della scelta etica, non dovuta ad una imposizione religiosa (la paura del castigo divino) od ad una rivelazione misterica, ma ad un ragionamento sulla condizione umana, parve a Zenone la soluzione migliore e più appropriata.
Come in Socrate, la felicità coincide con il bene, non con il piacere o nella vana rincorsa dell'interesse individuale.
E, in un certo senso, questa scelta razionale si contrappose anche ad una possibile "deviazione platonica" in quanto non riservava l'insegnamento di un percorso di liberazione dalle catene della vita solo agli iniziati alla geometria, come nell'Accademia, ma voleva che felicità e bene morale (un tutt'uno) fossero accessibili a tutti sulla terra.
Alla base della filosofia di Zenone vi era dunque un approccio universalistico, dettato da quella che potremmo definire la globalizzazione del mondo antico. Non ci sono più ateniesi e spartani, corinzi o greci, romani o fenici. Ci sono uomini accomunati da un'economia interdipendente, apparentemente liberi o schiavi, ma in realtà schiavi delle passioni, dei desideri e delle ambizioni, quando non dei bisogni e della necessità di sopravvivenza.
Zenone, in altre parole, realizzò un'intensa presa di coscienza della condizione umana vedendola dominata da forze esterne e necessità inesorabili. Vide con acutezza che nella vita vera tutto ci sfugge, specie quello che inseguiamo più caparbiamente. Gli uomini sono infelici perchè inseguono dei beni che o non potranno mai ottenere, o che comunque non saranno mai pari alle aspettative, o cercano di fuggire dei mali che comunque non potranno evitare.
La sola cosa che dipende interamente da noi stessi, e che nessuno potrà mai sottrarci, è la volontà di comportarsi rettamente, di agire e scegliere secondo ragione.
Solo così realizziamo una cittadella inespugnabile, capace di reggere a tutte le catastrofi.

La fisica
Il ragionamento filosofico di Zenone e degli stoici si articolava su tre punti fondamentali che si intrecciavano sempre in modo stretto: la fisica, la logica e l'etica. Molti hanno colto che sia la fisica che la logica erano comunque interamente al servizio dell'etica e quindi della vera felicità.
Arnim, ad esempio, scrisse che " La fisica viene insegnata soltanto per poter impegnare la distinzione che è necessario operare riguardo ai beni ed ai mali." (1)
La fisica stoica, comunque, è quanto di più deludente possa oggi incontrare non dico uno scienziato contemporaneo, ma un qualunque individuo curioso del nostro tempo. Essa non porta ad alcun momento di analisi della natura reale, ma si limita a proporre una visione globale del cosmo e del mondo che aveva poco o nulla di originale, derivando integralmente da cosmogonie di tipo orientale. Da essa si ricava un discorso sostanzialmente pessimistico sul destino di ciascuno, anche se rimane evidente che lo scopo stesso della filosofia stoica è quello di voler liberare i suoi seguaci dalle catene di una vita vissuta superficialmente, seguendo il gregge.

La fisica di Zenone porta ad individuare una legge fondamentale secondo cui fin dal primo istante della sua esistenza ogni vivente è istintivamente in accordo con sé stesso; tende a conservarsi ed a preferire tutto ciò che può conservare e sviluppare. Tutto il mondo, a sua volta, non è che un solo essere vivente dentro al quale tutto è unito in modo organico e sistematico. Tutto questo è razionale.
Il riconoscimento di un logos, di una razionalità che governa il mondo è dunque alla base della fisica stoica, un vero e proprio postulato che non può essere dimostrato, ma solo accettato nella sua evidenza.
Pertanto anche la ragione umana, se vuole venire a capo del mistero in cui siamo immersi, deve muovere dal riconoscimento di quest'ordine cosmico. Vivere secondo ragione, significa dunque vivere secondo natura, secondo la legge universale e non contro natura. Semmai, vive contro natura chi crede di seguire l'istinto ed in realtà segue il suo lato negativo.
Il primo nome che viene in mente è quello di Eraclìto. Il logos di cui parla Zenone è identico al fuoco eracliteo, e vivere secondo il logos non ha un significato molto diverso. La differenza sta nel fatto che mentre Eraclìto non si spese mai per insegnare la "via", cioè il giusto modo di vivere, se non, probabilmente, a qualche coraggioso che aveva preso l'iniziativa di avvicinarlo, Zenone si spese in una predicazione pubblica, organizzando una scuola.
Secondo Zenone, il mondo reale è il risultato di due principi: il principio attivo ( poioùn) e il principio passivo (paschòn), che sono entrambi materiali ed inseparabili. Il primo è il logos vero e proprio, che agendo sulla materia passiva produce i singoli esseri. La passività dell materia è tale che se il principio attivo non la muovesse non vi sarebbe alcun mutamento nella struttura delle cose.
Il logos da vita e forma alla materia passiva. L'essenza delle cose è sempre determinata dall'incontro di questi due principi primordiali che sono corporei. Non vi è quindi nella fisica zenoniana alcuna distinzione tra spirituale e materiale, ma solo tra attivo e passivo.
Ciò porta ad un materialismo del tutto diverso, tuttavia, dal materialismo moderno, giacchè viene evidente la sua origine astratta e speculativa, essendo il frutto di una intuizione intellettuale.
Quindi anche l'anima, secondo Zenone, e tutti gli stoici, ha un'esistenza corporea e reale. Persino gli dei, se realmente esistenti devono avere un corpo. E il dio supremo, ragione cosmica e causa prima di tutte le cose, è fuoco, non il fuoco ordinario di cui si serve l'uomo, ma un soffio caldo e vitale che tutto pervade ed accresce.
Il mondo è così visto da Zenone come un progressivo processo di differenziazione della materia originaria. Condensandosi è diventata terra; assottigliandosi è diventata aria, e poi acqua, infine fuoco.
Da questi quattro elementi risultano tutte le cose. Aria e fuoco sono attivi. Acqua e terra sono passivi. La sfera del fuoco si trova al di sopra del cielo, la sfera delle stelle fisse. L'intero mondo è finito sferico. Intorno vi è solo il vuoto, ma all'interno del mondo non vi è alcun vuoto, tutto è unito e compatto.

Il mondo si sviluppa secondo un sistema ciclico. Dopo un periodo di tempo chiamato il grande anno, gli astri tornano alla loro posizione originaria, si ha una conflagrazione (ekypirosis) con la conseguente distruzione di tutti gli esseri. Ma al termine della distruzione, il mondo torna a formarsi, come nuovo, e tutte le cose ritornano, assolutamente uguali.
Tutto questo è il destino, cioè l'eimarméne, la regola universale che regge le cose.
Tutti i fatti sono concatenati l'uno all'altro, in una ferrea sequenza di cause ed effetti. E la catena non si può spezzare, pena la fine della stessa razionalità che presiede allo sviluppo del mondo. Dal punto di vista dell'uomo ignaro ciò può apparire come destino e persino maledizione, ma dal punto di vista divino esso è provvidenza, il disegno razionale che regge l'ordine.
Il mondo è quindi dominato da un ordine necessario. E non può che essere perfetto.
Pur non negando l'esistenza dei mali, gli stoici videro che essi erano indispensabile alla stessa esistenza del bene. Crisippo di Soli riprenderà questa analisi affermando che ciò che rende visibile e riconoscibile la giustizia è l'ingiustizia, e che ciò rende desiderabile la temperanza è la smodatezza. Analogamente non vi sarebbe una nozione della verità se non esistesse la menzogna.

Come si vede da questo schematico riassunto, la fisica stoica si differenzia notevolmente sia da quella democritea che da quella aristotelica o anassagorea. Non mira ad alcun studio naturalistico, non mostra alcun vero interesse per le cose, ma si limita a riprendere antiche visioni cosmogoniche di origine orientale, ad esempio l'idea dei cicli ricorrenti e le periodiche distruzioni del mondo: idee che paiono davvero ultrametafisiche.
Il fato ha un potere ineluttabile e l'uomo può solo accettarlo, diremmo oggi, sportivamente. Non vi è grande margine per la possibilità e la speranza, giacchè quel che accade è comunque già stato deciso e non può essere cambiato pena il crollo dell'intero edificio. Non sembra nemmeno che vi sia stato un grande sforzo per distinguere tra un punto di vista umano, che comunque può arrivare a sapere ben poco sui singoli destini, ed un sapere divino, il quale, per sua stessa definizione, abbraccia passato, presente e futuro.
Ciò nonostante non sembra che gli stoici fossero del tutto contrari alla mantica ed ai vaticini. Ed in alcuni casi è provato che incoraggiarono sia l'astrologia che altre forme di avventurosa predizione del futuro.

Come vedremo meglio nella parte sull'etica, ciò non voleva essere una totale negazione della libertà umana, visto che la filosofia stoica nasce proprio in vista della riacquisizione della libertà. Non a caso, Crisippo parlerà a proposito del destino, di cause assolute e cause prossime. Le prime, come ad esempio la condizione generale dell'universo, le condizioni della vita e così via, non possono certamente essere cambiate. Sulle seconde è invece possibile agire in piccola misura. E l'uomo può quindi arrivare ad autodeterminarsi, a condizione che trovi la saggezza.
Nessun uomo sarà mai padrone del proprio destino esteriore: il saggio saprà però costruirsi un futuro di assoluta libertà interiore.


L'anima corporea
Una volta ammesso che tutto ciò che ha esistenza deve avere anche un corpo, per quanto sottile, ci si trova nella davvero singolare posizione di riconoscere che anche l'anima di ogni singolo così come Dio, siano "corpi". A quanto pare, fu Crisippo ad insistere ancora su questo punto: "L'incorporeo non potrebbe né separarsi dal corpo né unirsi con esso: ma l'anima s'unisce al corpo e se ne separa, dunque l'anima è corpo." (2)
Secondo i primi insegnamenti stoici, l'anima umana è anzi parte dell'anima di Dio, definita altresì come anima del mondo.
Ciò portò ad una sorta di panteismo, cioè alla convinzione di vivere in un universo animato dal divino in ogni cosa ed in ogni manifestazione.
Le parti dell'anima, per gli stoici, erano quattro: a) il principio direttivo che è la ragione, b) i cinque sensi, c) il principio spermatico, d) il linguaggio.
Ovviamente il principio direttivo (detto anche egemonico) è non solo il governatore delle altre parti dell'anima, ma il loro stesso generatore. Secondo alcuni esso aveva sede nella testa, e secondo altri nel cuore.
La dottrina che veniva insegnata prevedeva una sorta di immortalità dell'anima nel suo ritorno al fuoco, cioè a Dio.

La logica
Anche la logica veniva insegnata in funzione del'etica. Comprendeva una dottrina del criterio della verità (o canonica) ed una logica propriamente detta, chiamata anche dialettica.
Criterio decisivo per la verità è l'evidenza. E questo lo aveva già detto Epicuro. Dunque le sensazioni vengono riconosciute come il fondamento stesso della conoscenza. Esse sono sempre vere perchè sono le impronte che le cose lasciano sull'anima. E' dalle sensazioni che derivano le rappresentazioni, le quali sono vere quando sono in accordo con le sensazioni ricevute.
La rappresentazione vera è chiamata phantasia kataleptikè in quanto realizza la vera comprensione delle cose, da cui il termine catalettico.
Dalle sensazioni derivano quindi anche le nozioni comuni, ovvero le conoscenze generali che stanno alla base di tutti i saperi.
La dialettica si occupa di ciò che può essere significato dal linguaggio.
Gli stoici diedero importanza ai concetti, cioè alle idee derivanti dall'insieme delle rappresentazioni, e li divisero in quattro grandi famiglie: il sostrato o sostanza, la qualità essenziale, la qualità accidentale o modo, e la qualità esprimente relazione.
Tutte queste categorie vengono comunque riportate al concetto generale di qualcosa.
Gli stoici, inoltre, definirono anche le proposizioni, ovvero le frasi con le quali utilizziamo i concetti, suddividendole in categoriche ed ipotetiche.
E come già in Aristotele, la logica si occupava anche di ragionamenti dimostrativi, ovvero di sillogismi.

La logica della proposizione e del ragionamento ebbe grande influenza sullo sviluppo della logica medioevale e perfino moderna.
La teoria del significato rimane alla base di qualsiasi teoria del linguaggio.
In una proposizione si collegano tre elementi: il significato, ciò che significa, e ciò che è. Oggi diremmo: il significato, il significante e la cosa stessa di cui si parla.
Il significato è una qualsiasi informazione o rappresentazione o concetto che ci viene in mente quando sentiamo una parola che si riferisce a qualcosa di determinato.
Secondo gli stoici, un significato è compiuto se può essere espresso in una frase, ad esempio "Socrate parla". Se dicessimo solo "parla" il significato non sarebbe compiuto perchè privo di soggetto. "Chi" "parla"?
Ovviamente, un significato compiuto può essere sia vero che falso, a seconda che corrisponda o meno alle nostre vere sensazioni.

Il ragionamento vero e proprio consisteva per gli stoici in una sequenza di proposizioni semplici aventi significato compiuto. Un esempio: "se è notte, ci sono le tenebre, ma è notte, dunque ci sono le tenebre."
Questo tipo di ragionamento sembrerebbe non aver nulla a che fare col sillogismo aristotelico. Manca del termine medio, e non è necessario. Si limita a constatare che esistono le condizioni poste, ovvero che è notte, dunque ci sono le tenebre.
Tuttavia, si deve anche notare che alla base del nesso notte-tenebre vi è proprio un sillogismo aristotelico poichè la frase è logicamente fondata sul sillogismo tutte le notti sono buie, questa è una notte, dunque è buio. E' il sapere questo, cioè, volenti o nolenti, l'avere una conoscenza preesistente (come scrisse Aristotele), che consente di dare un significato certo alla proposizione.
E' vero dunque, che questa impostazione permette di concludere sulla verità di un ragionamento, ovvero sulla constatazione della realtà (giorno o notte), ma essa prescinde dal fatto che comunque è implicito che il binomio notte-tenebre, come pure il suo opposto giorno-luce, sono premesse maggiori a tutti gli effetti.

I tipi fondamentali di ragionamento concludenti, cioè in grado di verificare la verità dell'asserto, sono detti dagli stoici anapodittici, ovvero non dimostrativi.
Essi, cioè, devono essere evidenti non per sé stessi, ma perchè corrispondono ad una realtà.
Un esempio classico è la manfrina: 1 Se è giorno, c'è luce: Ma è giorno, dunque c'è luce. 2 Se è giorno c'è luce. Ma non c'è luce. Dunque non è giorno. 3 Se non è giorno, è notte. Ma è giorno, dunque non è notte. 4 O è giorno, o è notte. Ma è giorno, dunque non è notte. 5 O è giorno o è notte. Ma non è notte, dunque è giorno.

Quando gli stoici pretesero di affrontare anche il ragionamento dimostrativo di tipo sillogistico, stranamente incorsero in un errore più grave.
Essi infatti, asserendo che un ragionamento dimostrativo ha la capacità di manifestare qualcosa che prima era oscuro, espressero una vera e propria bufala.
L'esempio che viene spesso addotto è il seguente: "Se questa donna ha latte nelle mammelle, ha partorito; ma questa donna ha latte nelle mammelle, dunque ha partorito."
Evidentemente, un ragionamento di questo tipo ha valore di verità se, e solo se, si riconosce come valida una premessa maggiore del tipo: "tutte le donne che hanno latte nelle mammelle, hanno partorito". Senza contare che, come dimostrano le balie, esistono anche donne con latte nelle mammelle che non hanno partorito.
Il valore scientifico del ragionamento dimostrativo degli stoici è dunque assai inferiore a quello aristotelico e rappresenta un clamoroso passo indietro della logica, la quale ricaccia nell'inconscio ciò che con Aristotele era diventato conscio, ovvero che tutto dipende da quanta verità universale stia in una qualsiasi premessa maggiore.

Ci si è chiesti, giustamente, donde questa importanza al ragionamento dimostrativo. Molti, ad esempio l'Abbagnano, hanno risposto asserendo che a questo tipo di ragionamento essi affidavano la riuscita ed il fondamento della loro dottrina. Essi, risalendo dalla comprensione catalettica di determinati fatti, utilizzavano questo processo logico per dimostrare l'esistenza di un'anima corporea e dell'anima del mondo, cioè Dio.

L'etica
Come si è già accennato, l'etica stoica discende direttamente dalla concezione fisica dell'universo. La condizione indispensabile per raggiungere la vera felicità, e non le illusorie soddisfazioni mondane, è l'adeguarsi alla razionalità del tutto, il logos. Ciò significa vivere secondo natura e non secondo convenzione, verità in qualche modo proclamata già dei cinici, anche se in forma più rozza e provocatoria.
Vivere seconda natura era dunque sinonimo di vivere secondo ragione: la ragione corrispondeva alla natura, da intendersi nel senso che la vera natura dell'uomo è la ragione.
In questa determinanzione che è tipica del vero saggio sta l'unica autentica virtù. E l'unico vero male è il vizio.
Per la verità sembra che Zenone abbia particolarmente insistito sul vivere in accordo con sé stessi, dando forse per scontato che il logos è qualcosa di interiore che rispecchia la razionalità dell'universo intero. Furono Cleante e poi Crisippo ad esplicitare con più chiarezza il principio di un accordo con la natura esteriore.
Rispetto alle etiche precedenti, in particolare quella di Platone e di Aristotele, emergono delle differenze che potrebbero essere sostanziali. Mentre Platone aveva insistito sulla giustizia, ed Aristotele su una sorta di diritto alla felicità consistente in una scelta libera per l'eccellenza, cioè sul meglio che la vita può offrire (la conoscenza teoretica), gli stoici insistono per primi sul dovere, e lo legano strettamente alla virtù. Noi abbiamo il dovere di essere virtuosi, cioè conformi al logos.

Per il resto, affermavano i maestri stoici, e per primo Zenone, ciò che tutti considerano un bene, ovvero salute, piacere, ricchezza, onore, gloria, son cose rispetto alle quali sarebbe meglio restare indifferenti.
Ma in un impeto di buon senso, che era mancato ai cinici, Zenone ed i suoi successori aggiunsero che certamente la vita è da preferirsi alla morte, la salute alla malattia, la ricchezza alla povertà, la libertà alla prigionia. Concessioni al peripatismo aristotelico?

Conseguentemente, gli stoici distinsero vari tipi di azione umana. L'azione perfetta, katòrthoma, consisteva nel praticare solo la virtù, disinteressandosi di tutto il resto.
All'opposto del comportamento perfetto vi era l'azione malvagia, consistente nel praticare la disonestà sistematica ed il vizio.
Come da copione, tra i due estremi, vi erano azioni indifferenti, ma preferibili, una sorta di imperativo ipotetico (che Kant reintrodurrà) secondo il quale se vuoi, devi...
A tal proposito gli stoici parlarono di azioni convenienti, kathèkonta, ovvero azioni mirate al conseguimento di ciò che è preferibile, oppure al dovere contratto.
Cicerone parlerà in proposito di officia, appunto i doveri del buon cittadino.
Doveri perfetti saranno tutti quelli soddisfatti per la virtù. Doveri relativi saranno quelli che rispondono alla necessità di ottenere qualcosa di preferibile.
Qualcuno ha creduto di scorgere nel richiamo al dovere un qualcosa di simile ai comandamenti divini della Bibbia e la qual cosa si potrebbe spiegare con le origini semitiche di Zenone.
Ma io ci andrei cauto, giacchè quando si ha a che fare con la filosofia ed il tempo antico, qualora non esistano riferimenti e citazioni dirette, abbiamo sempre il diritto di sospettare più un'ignoranza che una conoscenza. Cosa avevano di comune le credenze ebraiche con quelle delle altre popolazioni semitiche? Molto e poco insieme. Molto se si guarda ai miti come quali del diluvio. Poco o pochissimo se si scava nello specifico della storia di Israele, dove tutto assume un connotato particolarissimo ed esclusivo: il rapporto tra il Dio supremo ed il suo popolo, il continuo tradimento che il suo popolo esercita nei confronti del suo Dio, calpestando le norme della giustizia.
Piuttosto, si potrà osservare che, analogamente ad Eraclìto, emerse in Zenone la consapevolezza di una corruzione umana dovuta al vivere "troppo" civile che aveva allontanato la gran massa degli uomini dal logos naturale. E come gli ebrei avevano tradito la parola di Dio, cioè i suoi comandamenti, così l'intera umanità civile aveva perso la via. Per ritrovarla non c'era altra strada che l'educazione filosofica.

Nell'etica stoica non manca una nota di estremismo che certamente non corrispondeva e non corrisponde alla verità della condizione umana. Per essi tra la vita virtuosa ed il vizio non c'era via di mezzo. Solo il saggio stoico è virtuoso; gli altri sono irrimediabilmente viziati e qualunque cosa facciano, essi la fanno male e si rivelano ingiusti. O si è giusti o si è ingiusti, e quando si è ingiusti, lo si è sempre. Poichè il contrario della ragione e dell'agire retto, è la pazzia, chi agisce da vizioso, è anche pazzo.
Il che, tratte le debite conseguenze, significherebbe che la stragrande maggioranza dell'umanità sarebbe in preda alla follia.
Ma, a ben guardare, una nota di follia è al contrario presente negli insegnamenti stoici laddove si scopre che il dovere stesso porta a concepire il suicidio come atto virtuoso. Lo stesso Cicerone spiegherà questo concetto asserendo che quando il sapiente non trova più le condizioni favorevoli all'adempimento del dovere stesso, deve abbandonare la vita anche se al colmo della felicità.


Zenone ed i suoi successori non fanno che elencare i vantaggi di una vita virtuosa e ragionevole. In primo luogo un'assoluta tranquillità procurata dall'indifferenza per i cosidetti beni mondani. Inseguirli non porta che sventure, ansie e preoccupazioni, delusioni e frustrazioni a non finire. Rinunciando a vivere, perdendo la propria vita (come dirà il Cristo), se ne acquista una nuova, certamente preferibile.
Rispetto ai beni mondani vi è invece un universo di valori, gli axia (termine che compare per la prima volta nel linguaggio filosofico) che è strettamente connesso alla virtù.
Come ha osservato l'Abbagnano: «Fa parte integrante dell'etica stoica la negazione totale del valore dell'emozione (pathos). Essa infatti non ha alcuna funzione nell'economia generale del cosmo che ha provveduto in modo perfetto alla conservazione ed al bene degli esseri viventi, dando agli animali l'istinto, e all'uomo la ragione.» (3)
Le emozioni portano a giudicare con leggerezza ed a reagire in modo stolto.
Gli stoici distinguevano quattro emozioni fondamentali: il desiderio dei beni futuri, la gioia per i beni presenti, la preoccupazione per i mali futuri e l'afflizione per i mali presenti.
Nel vero saggio, non vi è, al contrario alcuna emozione. Egli è contraddistinto da uno stato di apatia, ed al posto delle emozioni egli prova degli atteggiamenti razionali. Ad esempio, contrappone alla cieca angoscia la precauzione e la prudenza nell'agire, mentre non può conoscere afflizione per i mali presenti, giacchè sa che si tratta di avvenimenti necessari all'esplicazione dell'ordine del cosmo.

Tutto ciò può apparire piuttosto astratto e libresco, eppure, alla prova dei fatti, non possiamo non constatare che proprio lo stoicismo non fu mai una semplice dottrina filosofica ma una stile di vita coerente e diffuso.
E qui sembra cadere a fagiuolo una citazione dello studioso francese Pierre Hadot, che con grande lucidità colse quanto di più essenziale vi fosse davvero stato in tutta la filosofia greca: «Tutte le scuole filosofiche hanno denunciato, in effetti il pericolo che corre il filosofo, se immagina che il suo discorso filosofico possa bastare a se stesso senza essere in accordo con la vita filosofica. Le scuole hanno costantemente attaccato , per riportare i termini del platonico Polemone, coloro che cercano di farsi ammirare per l'abilità nell'argomentazione sillogistica, ma che si contraddicono con il loro comportamento di vita; come recita una sentenza epicurea, coloro che sviluppano discorsi vuoti, coloro che, come dice lo stoico Epitteto, dissertano sull'arte di vivere da uomini invece di vivere essi stessi da uomini, che fanno, per usare l'espressione di Seneca, dell'amore e della saggezza (philosophia) un amore della parola (philologia). Tradizionalmente, coloro che sviluppano un discorso apparentemente filosofico senza cercare di mettere la loro vita in rapporto con il discorso, e senza che il loro discorso derivi dalla loro esperienza e dalla loro vita, vengono chiamati sofisti dai filosofi, da Platone ed Aristotele fino a Plutarco, che dichiara che una volta che i sofisti si siano levati dalle loro cattedre e abbiano posato i libri ed i manuali, non saranno migliori degli altri uomini "negli atti reali della vita".» (4)
Ecco, tale degenerazione, salvo le eccezioni che potremmo anche trovare, non fu certo tipico della scuola stoica.
Si potrà ad esempio osservare che l'imperatore Marco Aurelio, dando vita ad una persecuzione contro i cristiani, non diversamente dai suoi predecessori che stoici non erano, non sembrò mostrare poi una grandissima coerenza tra vita e pensiero.
Ecco un bel mistero cui non è stata data finora una soluzione soddisfacente. Perchè, nonostante l'educazione filosofica e l'alto profilo morale, lo stoico Marco Aurelio, una volta assiso sul trono di Roma, sentì il dovere politico di combattere il cristianesimo?
La sete di verità che dovrebbe caratterizzare ogni storico ed ogni storico della filosofia mi ha portato a svolgere ricerche, e devo dire che leggendo un agile libretto di Marta Sordi (5) alcune provvisorie risposte sono cominciate ad arrivare.
Innanzitutto, posta la condizione di clandestinità in cui era costretta la chiesa, le informazioni sulle idee e sui comportamenti dei cristiani erano solo relativamente di pubblico dominio. Come spesso è accaduto, le deformazioni e le calunnie che circolavano erano di gran lunga più diffuse dei resoconti corretti. Nonostante il rescritto di Traiano imponesse di agire contro i cristiani non d'ufficio ma solo su denuncia circostanziata, quello che non mancò mai fu l'odio della popolazione contro i cristiani, del tutto identico al razzismo ed alla xenofobia dei nostri giorni. Le gente imputava ai cristiani tutti i mali del mondo e li considerava responsabili di calamità naturali, epidemie e carestie, oltre che di atti immondi quali l'incesto ed il sacrificio di bambini, o persino il cannibalismo rituale.
La cortina di mistero che circondava la setta poteva essere facilmente superata da un buon servizio di intelligence e non possiamo aver dubbi sul fatto che quello imperiale fosse molto efficiente.
Ciò che viene evidente, tuttavia, è che nemmeno questo servizio riuscì ad operare una netta distinzione tra la chiesa ufficiale e la corrente eretico-estatica di Montano, la quale esprimeva un fanatismo apocalittico ed integralista che qualunque persona di buon senso giudicherebbe, se non pericolosa, certo dissennata anche oggi.
I montaniani nutrivano una sorta di culto per il martirio ed in un certo senso non è del tutto sbagliato credere che alcuni di essi lo cercassero volontariamente per rendere un miglior servizio a Dio. Purtroppo, come sempre del resto, si finì con lo sparare nel mucchio, cioè addosso a tutti i cristiani, come dimostrano le cronache del processo di Lione del 177 d.C e l'autentico massacro che ne seguì. (6)
Le confessioni furono estorte sotto tortura. Molti furono condannati al supplizio (perchè la morte non bastava a soddisfare la sete di sangue del popolo) persino dopo la ritrattazione della propria fede.
Ma proprio da quegli eventi sorse l'impulso ad un nuovo rapporto tra chiesa ufficiale ed autorità imperiali. Il paradosso fu che il processo di dialogo avviato sotto Marco Aurelio fu poi portato a termine dal suo deprecatissimo figlio Commodo, uno dei peggiori imperatori che Roma abbia conosciuto, eppure stranamente tollerante proprio nei confronti dei cristiani.
Un altro mistero da chiarire?



note:
(1) Arnim - Stoicorum veterum fragmenta
(2) Nemesio - De nat. hom
(3) Nicola Abbagnano - Storia della Filosofia - volume I.
(4) Pierre Hadot - Che cos'è la filosofia antica? -
(5) Marta Sordi - I cristiani e l'impero romano
(6) Ernesto Buonaiuti - Storia del cristianesimo


Daniele Lo Giudice - 20 novembre 2003