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Oswald Spengler (1880 - 1936)
Il tramonto dell'Occidente

«Noi non abbiamo la libertà di realizzare questo o quello ma la libertà di fare ciò che è necessario o nulla; ed un compito che la necessità della storia ha posto verrà risolto con il singolo o contro di esso.» (1)
Con Spengler si prova la sensazione di essere "inchiodati" ad un destino, ad un momento, ad una necessità imperiosa. Noi apparteniamo al nostro tempo, che è radicalmente diverso da ogni epoca precedente, irriducibile ad ogni altra fase, e ciò non ci lascia alcuna libertà del volere. In realtà, tuttavia, c'è qualcosa che ci accomuna al passato: il tempo del "tramonto". Ogni civiltà, per Spengler, è un organismo vivente: nasce, cresce, si sviluppa, conosce un'età matura, e poi termina in una sorta di senilità. Questo perché Spengler concepisce la storia come il mondo del divenire, della vita che continua a creare nuove forme. Studiare la storia è diverso che studiare la natura. In questo ambito domina un metodo che porta a studiare la necessità causale, un mondo in cui prevale la logica meccanica. Studiando la storia, al contrario, si deve cercare la necessità organica, il principio che lega insieme le civiltà e le porta a sviluppare nuove forme. Se ben si guarda, questo è un approccio biologista di tipo particolare. Viene dalla Lebenphilosophie, quella strana mistura di scienza e filosofia originata al tempo di Goethe e poi proseguita da Schelling, oltre che da non pochi scienziati tedeschi del primo Ottocento. Un celebre passo dello stesso Goethe può rendere l'idea della fondamentale ispirazione di Spengler: «La divinità agisce in ciò che è vivente e non ciò che è divenuto e che è fisso. Per cui anche la ragione nel suo tendere al divino deve solo interessarsi del diveniente e del vivente, mentre l'intelletto si interessa del divenuto del fisso, per fini di utilità.»
Spengler accoglie, questa distinzione, hegeliana, tra ragione ed intelletto, applicandola alla storia. Ne viene una storia, si passi la battuta, in cui si rinuncia all'intelligenza.
Solo che in Spengler, la tradizione della Lebenphilosophie si declina in modo del tutto diverso. Diviene una morfologia della storia universale. Dalla storia universale emerge la Kultur, la quale non è altro che un organismo vivente che realizza progressivamente ciò che le è possibile, nel senso di immanente, non diversamente da come un seme diventa un albero, od un embrione diventa un animale od un essere umano.
Il culmine di una Kultur è la Zivilisation, lo stadio estremo e più raffinato dello sviluppo storico organico, in cui sono protagonisti solo gli uomini superiori.
Ma, essendo tutto determinato, essendo il potenziale sviluppo, pre-formato, è evidente che un organismo concepito come una totalità vivente, in cui tutte le parti hanno rapporti reciproci necessari di tipo fisiologico, anche la Kultur è una manifestazione necessaria, ed ogni suo aspetto dipende dalla sua genetica. «Ogni civiltà - scrive Spengler - attraversa le stesse fasi dell'individuo umano, perché ognuna ha la sua fanciullezza, la sua gioventù, la sua età virile e la sua senilità.» (2)
Pertanto, ogni Kultur ha avuto la sua scienza, la sua morale, la sua religione e la sua filosofia, legate fra loro da legami inscindibili.
Se è vero che tutto lo sviluppo è predeterminato, è allora vero che la storia non lascia alcuna possibilità di scelta. Ognuno vive in un mondo di necessità inesorabili che nel loro insieme formano il destino. Certo, gli uomini possono opporsi al destino, tanto al loro proprio particolare, quanto a quello generale. Tuttavia le loro azioni saranno condannate al totale insuccesso, ad una condanna prima ancora morale che storica.
In questo quadro, si tratta di prendere atto che la cultura occidentale è pervenuta al suo acme. La crisi della morale e della religione, il prevalere della democrazia e del socialismo, che sovvertono i rapporti naturali di potere, sono il segno di questa degenerazione organica, cui non è estranea l'equiparazione tra possesso del potere economico (il denaro) e la potenza politica. Siamo al rovesciamento di tutti i valori, anche se in un senso assai diverso da quello indicato da Nietzsche. Secondo Spengler, infatti, il trionfo della democrazia e del socialismo porterà al cesarismo, inevitabile preludio ad un ritorno alle barbarie. E' evidente che Spengler, non diversamente dal suo lontanissmo predecessore Menenio Agrippa, interpreta la crisi di una classe, l'aristocrazia terriera e feudale, come la crisi generale della società.
Molti intellettuali e filosofi, non necessariamente democratici o socialisti, reagirono molto negativamente alle tesi di Spengler. Tra questi Benedetto Croce. Ernst Cassirer giunse a definirlo "il profeta del male". Il giudizio conclusivo di Nicola Abbagnano è eloquente. Spengler elude «l'esigenza più radicale dello storicismo tedesco che era appunto quello di sottrarre il dominio della storia alla necessità e di restituire agli uomini la possibilità di scelte storiche decisive e responsabili.» (3)

In base a quanto si è cercato di riassumere, non dovrebbe sorprendere la collocazione antidemocratica di Spengler e la sua cauta adesione al nazismo. Di fatto egli lo precorse, proponendo come rimedio al crollo della Germania (e dell'Occidente) uno stato autoritario forte, fondato sul potere militare e garantito da api operose, una classe lavoratrice infaticabile e disciplinata, non guastata dalla politica. In Anni decisivi, un testo posteriore, egli scriverà: «Nessuno più di me poteva ardentemente desiderare il rivolgimento nazionale... Ho detestato fin dal primo giorno la suicida rivoluzione del '18 come il tradimento della parte meno stimabile del popolo contro quella forte, non logora, che nel 1914 era sorta in piedi perché poteva e voleva ancora un avvenire.» (4)
Se fosse rimasta seduta, sarebbe stato meglio per tutti.

note:
(1) O. Spengler - Il tramonto dell'Occidente - Milano 1983
(2) idem
(3) Nicola Abbagnano - Storia della filosofia - vol. VI - TEA 1995
(4) O. Spengler - Anni decisivi (cit. in E. Severino - La filosofia contemporanea - Rizzoli 1996)
moses - 2 luglio 2005