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La filosofia di Emanuele Severino
Dario Smizer

«L'antico popolo greco chiama hýbris la prevaricazione. Essa è già presente prima ancora che l'uomo voglia volare. Nell'antica cultura greca la hýbris originaria è il furto del fuoco che Prometeo sottrae agli dei per darlo ai mortali. Egli dice di aver dato agli uomini tutte le téchnai - tutte le forme di tecnica - per spingere la morte il più lontano possibile da essi. Nel racconto veterotestamentario Adamo e la sua compagna danno ascolto al serpente: se mangeranno il frutto proibito, diventeranno "come dèi" (eritis sicut dii), si lasceranno indietro nel modo più radicale la loro natura umana, i limiti a cui essa li costringe e soprattutto il pericolo della morte. Riusciranno a compiere il grande volo alla conquista di Dio.» (1)

Hýbris è uscire da un sentiero, uscire dal sentiero della "natura". «Lungo la storia dell'uomo la determinazione più circostanziata di ciò che non è "natura" umana è data dai codici religiosi. In essi viene indicato l'Ordinamento all'interno del quale l'uomo deve vivere. Essi scendono, pur non fermandovisi, fino ai dettagli minimi delle regole che presiedono l'alimentazione l'igiene, il vestire, l'abitare.
L'Ordinamento inviolabile è la natura.»
Non si può violare l'Ordinamento senza autodistruggersi. Chi discute l'Ordinamento va contro natura. La libertà di pensiero è sacrilega. Aggiungo che Socrate va a morte proprio perché la sua fu hýbris, anche se egli dichiarò di volersi attenere alle leggi della città.
Perché passare le soglie del proibito dall'Ordinamento porta a violare la natura? Religione e fede non possono rispondere. «Possono solo dire che le cose stanno così e che non si deve indagare oltre. Ma, in questo modo, prevaricazione - hýbris- non è soltanto la violazione del codice mitico-religioso: hýbris è innanzitutto questo codice stesso. Il nostro è il tempo in cui l'uomo va avvertendo sempre più nettamente la violenza e la prepotenza dei codici (senza che con questo si intenda dire che la violenza sia estranea all'essenza del nostro tempo). Inoltre i codici religiosi sono molti e tra loro in contrasto. Molte cose che per il cristianesimo sono naturali non lo sono per l'islamismo; e viceversa. In questa prospettiva, perché accendere il fuoco o volare non potrebbe essere contro natura almeno tanto quanto mangiare carne di maiale o essere poligami?
Soltanto se esiste una "natura" delle cose e dell'uomo - comunque la si voglia concepire, ma in ogni caso concepita come l'inviolabile - può esistere una hýbris, una prevaricazione che sia la violazione dell'inviolabile. In tal modo l'innocenza è l'adeguazione alla natura, la colpa ne è la violazione.»

Ma la filosofia moderna nega l'esistenza di una "natura". Non ci sono "leggi naturali". Ci sono solo "leggi positive" costruite dall'uomo e che quindi l'uomo stesso può revocare o modificare. Pertanto violare queste leggi non è violare l'inviolabile, ma solo un dettato positivo, una convenzione. «Anche se non ce ne rendiamo conto, questo rovesciamento della tradizione cambia fino alle radici il modo di vivere e di pensare dell'uomo: va imponendosi l'atteggiamento per il quale ogni legge, prima o poi, dopo essere stata costruita, destinata a franare; ogni cosa è un che di costruito e di franante; nulla è fermo, fisso, stabile.»

Ancora una volta, Emanuele Severino denuncia il paradosso in cui viviamo. «I vecchi codici religiosi annientano ogni comportamento umano che non si adegui ad essi. D'altra parte, la negazione di ogni codice, a cui è giunta la cultura del nostro tempo, porta a dire che l'unica "natura di cui si può parlare è la costruzione-distruzione dell'uomo, sì che ogni fabbricazione e ogni devastazione e annientamento dell'uomo diventano qualcosa di innocente. Il nostro tempo vola sempre più in alto e sempre più lontano dall'antica "natura" dell'uomo. Senza colpa, la trasforma e la distrugge. Ci si lascia alle spalle lo stesso esser uomo.»
Abbiamo così delineato, a larghi tratti lo scenario in cui si collocano, e da cui emergono, alcuni problemi fondamentali del nostro tempo. Non sono strettamente problemi "filosofici", cioè da specialisti ma, sono la "filosofia" nel senso più ampio. Attraversano le preoccupazioni di ognuno di noi, anche se solo Emanuele Severino è giunto a presentarli con lucidità estrema nella loro radicalità. Ciò non è casuale, a mio avviso, ma è frutto di un itinerario coerente, tenuto ben fermo, in oltre cinquant'anni di impegno filosofico.

La questione del ciò che è che si annulla nel non essere
Emanuele Severino, infatti, comincia a presentarsi sulla scena filosofica poco oltre la metà del secolo scorso, annunciandosi come interlocutore critico di Gustavo Bontadini. Questi, sulla scia del neoscolastico Amato Masnovo, aveva intrapreso un interessante tentativo di riattualizzare il discorso metafisico contro le obiezioni empiristiche e neopositivistiche.
La parola "essere", che la cultura positivistica aveva ridotto ai singoli enti pensati "scientificamente", rischiava di perdere il suo significato originario. La filosofia neotomistica aveva fino ad allora spiegato il divenire, cioè l'appaarire dell'ente dal nulla e il suo sparire nel nulla, ricorrendo al principio di causa, cioè ad una classica spiegazione aristotelica. Ma, dopo Hume, appariva sempre più problematico considerare, anzi, presupporre, la causa come un principio valido in sé, autonomo, non fondato sul principio di non-contraddizione. A tali interrogativi, Bontadini provava a rispondere interprentando il divenire come l'annullarsi dell'essere che è, cioè con l'identificarsi dell'essere con il non essere. La questione era molto seria, non riducibile ad un giochetto di parole. Affermare che ciò che è si annulla nel non essere, dice Bontadini, significa contraddire il principio di non contraddizione. Ma come si fa a stare nella contraddizione?
Abbiamo, dice Bontadini, tra logos ed esperienza, la quale testimonia senz'ombra di dubbio la realtà del divenire. Per superare tale schizofrenica situazione c'è per Bontadini il trascendimento dell'esperienza stessa, la quale guida al principio creatore. Non c'è più bisogno di passare attraverso un principio di causa. Noi deduciamo, semmai, la causa dal causatore, non il causatore da un principio di causa. In ogni caso, è evidente che l'essere non può venire dal non essere. Ecco Parmenide, l'antico pensatore che per primo formulò la non contraddizione in modo ben più radicale che Aristotele. In una parola, per Bontadini, la contraddizione scompare quando non si guardi al divenire in sé stante, ma lo si consideri alla luce dell'Originario e dell'Assoluto. Per Bontadini, la limitazione dell'essere non può essere originaria, deve essere posta, ordinata, da un essere che a sua volta non sia sottoposto a limitazione. (2)

L'immutabilità dell'essere: tornare a Parmenide
Severino prese esplicitamente posizione nel 1964 con un articolo intitolato Ritornare a Parmenide e pubblicato su "Rivista di filosofia neoscolastica". Ma nel 1950 aveva pubblicato, a soli ventun anni, il lavoro Heidegger e la metafisica, con un introduzione scritta dallo stesso Bontadini. E con esso si era laureato. Ora, però, Severino aveva maturato una sua posizione. Bontadini non poteva credere di avere dissolto, ricorrendo a Dio, la contraddizione del divenire. Occorreva tornare a Parmenide senza che ciò comportasse la negazione della molteplicità degli enti - questa sì, ingiustamente negata da Parmenide - e giustamente criticata da Platone per affermare l'immutabilità dell'essere.
Era una tesi estrema, una tesi che andava contro la testimonianza dei sensi, le teorie scientifiche, sia quelle fisiche che quelle biologiche, le convinzioni più profonde della metafisica millenaria.
Con questa mossa radicale, Severino apriva un nuovo capitolo della storia della filosofia, riattualizzando l'antico pensiero degli eleati e mostrandone la inaudita potenza speculativa. In primo luogo Severino evidenziava che al fondo della metafisica, sorta con Platone ed Aristotele, si era imposta una tradizione di pensiero per la quale l'essere può cessare di essere. Una tesi per la quale gli enti escono dal nulla e possono essere distrutti, tornando nel nulla. Ancor di più: la metafisica inaugurata da Platone e Aristotele, rende possibile la convinzione che tutti gli enti siano plasmabili, modificabili, esposti ad ogni tipo di addomesticamento e nullificazione.
Con lucidissima chiarezza egli riprese questa tesi in lavori successivi, spesso rivolti alla massa e non ai filosofi di mestiere, esposti in linguaggio accessibile, tanto che, per alcuni aspetti, si può intendere il pensiero di Severino senza ricorrere all'impegnativa lettura di Essenza del nichilismo, Gli abitatori del tempo: cristianesimo, marxismo, tecnica, e Destino della necessità, cioè dei lavori teoreticamente più impegnativi. Essenza del nichilismo fu certamente il lavoro che sbalordì diversi giovani che si avvicinavano allora, alla metà degli anni '70, alla filosofia. E non smise di "parlare" anche a quelli della generazione successiva, alla ricerca di un senso del filosofia stessa.

Il nichilismo, secondo Severino
Ora, questo senso ultimo, a mio parere, sta proprio nel trovare la chiave del nichilismo, il quale non sta solo, come afferma Heidegger, nel constatare che nella tradizione metafisica l'ente è niente, e che la verità dell'essere starebbe nella separazione tra l'ente ed il suo "è", bensì nel fatto che Occidente e nichilismo sono tutt'uno, che non c'è pensiero occidentale, ebraico, greco, cristiano e persino islamico, che non sia espressione della persuasione dell'instabilità estrema dell'ente. «Nichilismo - scrive Severino - significa affermare che le cose sono niente, ossia che il non-niente è niente. Sin da Platone, la metafisica ha identificato le cose al niente: affermando che escono e ritornano al niente, afferma che sono state e tornano a essere niente. Il "mondo" è la dimensione in cui il non-niente è niente, e ove Dio o l'Uomo hanno la capacità di operare l'identificazione del non-niente e del niente.» (Essenza del nichilismo). Queste stesse argomentazioni ritornano nelle opere di storia della filosofia, in forma ancora più chiara. Una delle motivazioni che stanno alla radice del nichilismo è il terrore del divenire, cioè della "morte", quale ultimo approdo del divenire stesso e quale tragico orizzonte oltre il quale non si può scorgere altro che la fine. Non credo sia avventuroso far risalire questo pensiero a Franz Rosenzweig, le cui folgoranti parole avevano aperto La stella della redenzione: «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò che è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all'Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia.»

Il terrore del divenire
«Affermando che la filosofia nasce dalla meraviglia, Aristotele intende dire (anche se evita di sottolinearlo) che la filosofia nasce dal terrore provocato dall'imprevedibilità del divenire della vita. Conoscendo le "cause" del divenire, la filosofia rende prevedibile l'imprevedebile, lo inserisce nella spiegazione stabile del senso del mondo, e quindi appronta il rimedio contro il terrore della vita. La filosofia greca ha inteso essere contemplazione disinteressata, non aventedi mira alcun vantaggio pratico; ma nella storia della civiltà occidentale la filosofia, proprio in quanto contemplazione pura e disinteressata delle "cause" del divenire, è stata il primo formidabile strumento con il quale l'uomo dell'Occidente ha proceduto a soddisfare il proprio fondamentale interesse: la liberazione dal terrore della vita. Al culmine della storia dell'Occidente, l'altro grande strumento - l'altro grande rimedio contro il terrore - è l'organizzazione scientifico- tecnologica dell'esperienza.» (3)
Naturalmente, anche il mito ha fatto la sua parte, "raccogliendo gli eventi in una spiegazione unitaria". Anche il mito ha cercato un'interpretazione stabile degli eventi. Tuttavia si è rivelato un rimedio insicuro, "perché il senso mitico del mondo non è 'verità' - nel senso radicale che la filosofia ha sin dall'inizio assegnato a questa parola -: non scoperto dal sapere incontrovertibile e assolutamente stabile che la filosofia, in quanto epistéme, si propone di essere".
Per il vero filosofo la conoscenza mitica "è soltanto la volontà che il mondo abbia un certo senso piuttosto che un altro, e contro questa volontà si scontrano altre volontà che propongono altri e contrastanti sensi del mondo."
«Quando i primi pensatori greci scoprono l'idea della verità - l'idea dell'epistéme-, il rimedio approntato dal mito contro il terrore non può non apparire loro inaffidabile, insicuro, inefficace. Solo la verità può salvare dal dolore del divenire; solo l'epistéme è il rimedio contro il terrore. Un legame essenziale unisce questa tematica all'affermazione aristotelica che solo il filosofo può essere felice.
Ma la filosofia scopre il supremo rimedio contro il terrore proprio nell'atto in cui porta alla luce la forma estrema del terrore e del dolore: il divenire, inteso come l'uscire dal niente e il ritornarvi, da parte delle cose del mondo.» (4)

Anche chi, come Parmenide afferma il carattere illusorio del divenire, è costretto a ricorrere al termine illusorio, proprio perché anch'egli vede che la vita va e viene, appare e sparisce. La morte, concepita come annientamento, assume il senso di un distacco estremo. Ma l'uomo si trova esposto "all'assoluta sorpresa del niente" soprattutto se guarda all'origine. Le cose, uscendo dal niente, sono radicalmente imprevedibili. «La filosofia, dunque, nascendo è resa in due direzioni contrastanti. Come epistéme, come verità incontrovertibile che intende svelare il Senso e l'Origine del divenire, è estremamente capacità di previsione e di anticipazione del divenire: tutto ciò che nel divenire della vita e del mondo si produce deve adeguarsi alla Legge immutabile del Tutto svelata immutabilmente dall'epistéme. Ma, come evocazione del senso ianudito (ontologico) del divenire, la filosofia evoca l'imprevedibilità estrema, l'estrema impossibilità di anticipare in una Legge immutabile il divenire del mondo.» (5)
Siamo così, come filosofanti attori della storia della filosofia, tirati in due direzioni opposte. Come tensione all'epistéme, tesi alla ricerca della verità incontrovertibile, a quel sapere del necessario presentato da Aristotele, cerchiamo l'anticipazione, siamo deterministi. Ma, come evocazione del senso ontologico del divenire, questo nostro stesso atteggiamento provoca "l'estrema impossibilità di anticipare in una Legge immutabile il divenire del mondo".
Noi stessi filosofanti siamo il luogo dello scontro. «Nel suo carattere specifico la filosofia contemporanea sta al culmine di questa distruzione e pertanto rappresenta la fedeltà estrema al senso greco del divenire. Ma è poi l'intera civiltà occidentale a crescere all'interno di questo senso, sì che la distruzione dell'epistéme e quindi della metafisica non è qualcosa che si produca semplicemente all'interno del pensiero filosofico, ma investe le opere e le istituzioni della civiltà occidentale: investe la concreta storia dei popoli dell'Occidente, ogni aspetto dello sviluppo storico della nostra civiltà.» (6)

Il cristianesimo come ritorno al mito
Anche il cristianesimo non è stato capace di sottrarsi alla tendenza fondamentale della metafisica inaugurata da Platone ed Aristotele. Esso si è presentato come fede, ma fede che pretende di porsi al di sopra della filosofia. Non poteva possedere il principio di incontrovertbilità tipico dell'epistéme. Proprio per questo si può definire un ritorno al mito. Un mito, tuttavia, che «presenta una potenza concettuale così sviluppata da consentirgli di analizzare e discutere i propri rapporti con la filosofia; ma dal punto di vista dell'epistéme, il rimedio che il cristianesimo presenta contro il terrore del divenire non può che essere inadeguato (rispetto al rimedio epistemico) - anche se è il rimedio cristiano e non il rimedio filosofico del terrore a consentire alle masse tradizionali dell'Occidente di sopportare la vita.» (7) Ma proprio in questa forma religiosa, il messaggio cristiano è esposto al rischio del dubbio. Per questo la filosofia rinasce, nonostante il cristianesimo, fuori del cristianesimo e persino dentro il cristianesimo. Il filosofante non può rinunciare all'epistéme a cuor leggero. Cioè, non può rinunciare a scoprire con le proprie sole forze della ragione, ciò che la religione afferma come sapere extraumano ricevuto dalla rivelazione. Ma, la filosofia come epistéme «viene progressivamente distrutta lungo la storia della cultura e della civiltà occidentale.»

Nietzsche
Nietzsche è stato tra i primi a cogliere che il rimedio è stato peggiore del male. E' quanto basta a intendere l'aspetto più caratteristico della filosofia contemporanea. «L'Origine, il Senso, la Causa, il Fondamento, l'Ordine, la Legge, la Realtà immutabile e divina evocati dall'epistéme sono sì il rimedio contro il terrore provocato dall'imprevedibilità del divenire, ma un poco alla volta presentano essi stessi un volto terrificante. Prevedendo e anticipando il divenire, essi finiscono col cancellarlo e col cancellare, insieme a esso, la vita stessa dell'uomo. L'uomo appare a sé stesso come la più inquietante e imprevedibile delle cose; ma il rimedio che egli appronta finisce coll'apparirigli un suicidio. Il rimedio distrugge la vita. [...] Se Dio esiste l'uomo non può vivere.» (8) Con Nietzsche si entra nella consapevolezza che l'epistéme escogitata dalla cura soffoca la libertà; il rimedio al "rimedio" sta nel distruggere ogni verità e ogni realtà immutabile. Tale consapevolezza non è una semplicistica espressione della volontà di sopravvivenza, ma la più profonda convinzione tipica dell'uomo occidentale che il divenire, cioè l'uscire dal nulla e tornare nel nulla, sia l'evidenza fondamentale. Che nulla la possa smentire.

L'importanza di Leopardi
Giacomo Leopardi è figura cui Severino attribuisce un'importanza straordinaria. «Nonostante il ricorrente interesse per il pensiero di Leopardi (la cui importanza era già stata colta da Schopenhauer e da Nietzsche) non si comprende ancora il suo carattere radicalmente decisivo, cioè la sua capacità di indicare - con una esplicitezza che soli in pochi altri casi (Nietzsche, Gentile) la filosofia saprà raggiungere - il fondamento in base al quale ogni verità immutabile ed eterna e ogni epsitéme devono essere negate.» (9)
Severino imputa a Eschilo, il tragico greco, l'aver pensato per la prima volta che la verità dell'epistéme è il rimedio contro il dolore del divenire. Leopardi è la negazione di Eschilo, e insieme, di tutto il pesante giogo della tradizione metafisica. «Poiché le cose che si manifestano provengono dal nulla, l'uomo non possiede e non può possedere "il menomo dato per giudicare delle cose avanti le cose e conoscerle al di là del puro fatto reale"; poiché le cose provengono dal nulla, non si possono conoscere le cose "avanti le cose", cioè nel loro essere contraddittoriamente preesistenti preesistenti a sé stesse e "al di là" del loro semplice essere un "puro fatto reale" - il fatto che si presenta nell'esperienza del divenire. Se questa conoscenza fosse possibile, le cose non sarebbero il "fatto" costituito appunto dal loro uscire e ritornare nel nulla, si dovrebbe negare l'evidenza del divenire. Ma, "distrutte le forme platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio..» E' ciò che Nietzsche chiamerà "morte di Dio". Per Leopardi, dunque, secondo Severino, il divenire è l'unica verità possibile. E è quanto attesta la ragione.
Eschilo aveva detto che la felicità sorge dalla "salute della mente". Leopardi, all'opposto, denuncia che la "salute della mente", cioè la ragione, rende l'uomo infelice. Essa conduce alla verità, e la verità, che consiste nella nullità di tutte le cose. Dunque, non solo non è in grado "di farci non dico felici ma meno infelici" bensì è "fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia". "Chi si fissa nella considerazione e nel sentimento continuo del nulla verissimo e certissimo delle cose, in maniera che la successione e la varietà degli oggetti e dei casi non avesse non avesse la forza di distorlo da questo pensiero, sarebbe pazzo assolutamente".
«Per rendere sopportabile il dolore e l'angoscia del divenire, e quindi per sopravvivere, è dunque necessario distogliere il più possibile lo sguardo dalla verità della ragione: è necessaria una "distrazione", una "dimenticanza", "la quale è contraria direttamente alla ragione", e che è dunque "illusione". L'unico rimedio possibile alla nullità delle cose è l'illusione, l'errore che sottrae allo sguardo la loro nullità e le fa apparire illusoriamente consistenti, eterne, infinite. Leopardi mostra che, nella sua forma più alta e radicale, l'illusione è poesia e che la filosofia moderna è il processo in cui la ragione va costituendosi in modo sempre più rigoroso come "ragione pura e senza mescolanza" con le illusioni, dunque con l'illusione poetica. In tale processo la ragione spinge verso un tipo di società che - nonostante la sua pretesa di essere la migliore delle società possibili, fondata com'è sulla ragione, la scienza, la tecnica rende in effetti insopportabile e invivibile l'esistenza umana.» (10)

Poesia e filosofia
Finché Leopardi tiene separate poesia e filosofia, l'infinito e l'eterno sono il contenuto della poesia. Quando le riunisce, come ad esempio ne La ginestra, l'infinito e l'eterno non riescono più ad essere il contenuto della poesia, proprio perché la filosofia ne svela il carattere illusorio. Tuttavia tali idee non svaniscono nel nulla. Leopardi le ripresenta come forme della poesia. Diventano il modo con cui il contenuto è cantato. «L'infinito e l'eterno diventano cioè la "forza" con cui la poesia del "genio" canta la nullità delle cose.» (11) Il genio, che tiene unite poesia e filosofia, pur rappresentando la nuda realtà del dolore dell'esistenza consapevole, riesce a conservare la "grandezza della sua anima" e quindi serve sempre di consolazione, riesce a riaccendere l'entusiasmo, e "lo stesso spettacolo della nullità è una cosa in queste opere che par ingrandisca l'anima". In tal modo "l'anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria".
Nobil natura è quella
che a sollevar s'ardisce gli occhi mortali incontra
al comun fato , e che con franca lingua,
nulla al ver traendo
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale
(La ginestra)
La ginestra è, per Severino, "l'ultimo quasi rifugio della natura", dove la natura va intesa non "come il gioco senza perché del divenire", ma come "il sistema della natura" che costituisce la struttura dell'esistenza. Leopardi fu in grado di levare contro lo scettico che pretende che l'unica verità è che non esiste la verità, l'obiezione decisiva: anche questa è una verità tra le tante. Solo la negazione dell'illusione, "quando giunge alla sua forma più potente e più alta nella forma poetico-filosofica consente lo smascheramento più radicale.

Leopardi e Nietzsche
Nel pensiero di Giacomo Leopardi, per la prima volta in modo esplicito, si evidenzia che la ragione e la conoscenza dell'essere immutabile ed eterno non sono il rimedio contro l'angoscia dell'annientamento. «Per Leopardi la "noia" - intesa come assoluto disinteresse per tutto ciò che esiste, provocato dalla coscienza dell'assoluta nullità dell'esistente - è appunto la forma più radicale di tale angoscia. L'unico rimedio è l'illusione, che allontana dalla verità, e che quando è vanificata dallo sviluppo della ragione moderna, può sopravvivere solo nella "forza", "magnanimità" e "aura di prosperità" con cui l'opera del genio, tenendo unite filosofia e poesia, esprime la nullità del tutto.» (12) Nietzsche non dirà qualcosa di molto diverso. Il "vero mondo" è "falso, crudele, contraddittorio!"; "noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa verità, cioè per vivere. L'uomo dev'essere prima di ogni altra cosa un artista". Tuttavia, Nietzsche dirà anche, differenziandosi in questo dal più disperato Leopardi, che può nascere il "superuomo", il quale, oltrepassando il proprio meschino esser uomo, sarà in grado di godere di ogni aspetto della vita. Compresi quelli più dolorosi e terribili, dove "l'eterno piacere del divenire" comprende e gode del piacere dell'annientamento. «Ma il piacere per il proprio annientamento presuppone che la volontà di vivere ("amor proprio" dice Leopardi) sia e si senta eterna, al di là dell'annientamento delle sue forme particolari e individuali. Nietzsche afferma l'eternità del divenire, perché per lui la negazione degli immutabili e degli eterni esige anche che la vita non abbia alcuno scopo, nemmeno quello di andare nel niente. Ma nel pensiero di Leopardi la negazione di ogni eterno e di ogni immutabile esclude anche, e coerentemente, che la volontà di vivere sia qualcosa di eterno, capace di sollevarsi al di sopra dell'esistenza individuale; e quindi esclude che possa esserci un "piacere dell'annientamento" in chi conosce la propria finitezza e la propria destinazione al nulla.» (13) Per Leopardi, dunque il piacere non sta nell'annientamento, ma nel renderlo poetico, nel dirlo e denunciarlo.

Ho insistito sull'interpretazione severiniana di Leopardi e sulla luce che essa getta sul nesso Leopardi-Nietzsche, perché mi pare un tratto essenziale di Severino quello di saper rischiarare la storia della filosofia, dell'arte e dell'uomo non già attraverso la classica cantilena delle opinioni, o il continuo rinvio ai sempre precari rapporti del filosofo con l'ambiente, i problemi sociali e la storia, bensì per la impareggiabile capacità di riportare le radici e i movimenti del pensiero alle questioni davvero eterne, che fanno problema da quando mondo è mondo.
Su questo piano, è altrettanto utile e persuasiva l'analisi del rapporto Leopardi-Schopenhauer.

Leopardi e Schopenhauer
La filosofia di Schopenhauer è "ancora una teologia negativa". Il Nulla a cui ci si rivolge per liberarsi dalla volontà di vivere, e quindi dal dolore, non è il nihil negativum che per Leopardi sta al principio del mondo, «ma è la dimensione che lascia trasparire, sia pure in forma problematica, la suprema pienezza e e ricchezza del Dio nascosto.» (14) In sostanza, per Schopenhauer la colpa dell'uomo sta nella volontà di vivere, e la forza e la positività dell'arte sta proprio nella sua capacità di allontanare l'uomo dalla sua volontà di vivere. Creare è morire. «Per Leopardi, invece, tutto è nulla, nihil negativum; e la vita è il tentativo (fallito) di non esserlo, evitando quella conoscenza della propria nullità che è essa stessa annientante; si che la colpa di Adamo è di aver tradito la vita e di aver voluto conoscere la verità, dissipando le illusioni che gli consentono di vivere. Pertanto, l'arte e la poesia non sono, a differenza di Schopenhauer, negazione della volontà di vivere, ma la sua forma più alta e potente. Se per Eschilo la téchne è troppo più debole della necessità, che viene svelata dalla verità dell'epistéme, il pensiero di Leopardi mostra per primo che la necessità dell'epistéme è un'illusione troppo più debole della téchne: non solo e non tanto della téchne che per opera della concettualità scientifica conduce al paradiso razionale della tecnica (destinato a portare al massimo l'angoscia dell'uomo), ma anche e soprattutto della téchne in cui consiste l'operare - la poìesis - della poesia che si unisce alla filosofia e che oltre il paradiso della tecnica, consente che nella vita dell'uomo fiorisca l'ultima illusione.» (15)

(continua)

(1) E. Severino - Nascere / E altri problemi della coscienza religiosa - Rizzoli 2005
(2) G. Bontadini - Dal problematicismo alla metafisica - Milano 1952
(3) E. Severino - La filosofia dai Greci al nostro tempo / La filosofia contemporanea - RCS 1996
(4) idem
(5) idem
(6) idem
(7) idem
(8) idem
(9) idem
(10) idem
(11) idem
(12) idem
(13) idem
(14) idem
(15) idem
DS - 31 agosto 2006