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Jean Paul Sartre
parte II: il linguaggio e la coscienza, una nuova filosofia della soggettività
di Carlo Fracasso
Ciò che fa di Sartre un filosofo importante, si son detti due tra i più quotati studiosi francesi del momento, Jacques Bouveresse e Vincent Descombes, in una recente discussione su "Micromega", non è tanto il lato accademico della sua filosofia, ovvero ciò che è entrato nella "storia del pensiero filosofico del Novecento", e potrebbe essere riportato in formulette dagli studenti di liceo durante l'interrogazione, ma il carattere militante ed insieme "popolare" delle sue posizioni. Sartre, aggiungerei io, fu in grado di mobiltare ed appassionare le èlites in attesa di un esercito da guidare, avanguardie senza un'armata retrostante, e anche a digiuno di filosofia. Alcuni testi di Sartre sono chiaramente "superati", altri contengono idee insostenibili. Non si sa bene cosa pescare dalla sua fenomenologia esistenzialista da proporre in lettura agli studenti francesi ed europei. Eppure, alcune sue analisi mantengono ancora un certo fascino e una grande profondità. Descombes dice di avere "l'impressione che all'Università Sartre sia ormai entrato come elemento storico. Ci sono riviste di studi sartriani, una società di amici di Sartre. E ovviamente delle tesi di dottorato." Ciò dispiace a Descombes. Tutto il contrario di quello che Sartre avrebbe effettivamente desiderato. Diventare un'icona laica su cui riflettere con religiosa venerazione. Ma non dobbiamo esagerare il rischio di una scolasticizzazione di Sartre. La cosa sembra francamente impossibile. Bouveresse è molto chiaro: «Non ho un'idea precisa di quale possa essere la posizione di Sartre oggi per esempio nelle università, che uso se ne fa nei corsi di filosofia: probabilmente non molto, anche se non ho informazioni dirette, ma sarei stupito se mi dicessero che è molto letto nei corsi di filosofia. Ma per il pubblico più largo resta un riferimento fondamentale. Bernard Henry-Lévy ha scritto un libro su Sartre pensatore del secolo. Il fatto stesso di intitolare un libro Il secolo di Sartre mi lascia piuttosto perplesso. Bisogna effettivamente avere un'idea singolare della filosofia del Novecento per pensare che Sartre esprima la "forza filosofica del secolo". Mi sembra che ci sia quantomeno qualche pensatore un po' più rappresentativo di Sartre. In un certo senso forse Sartre rappresenta il grande pensatore in un milieu filosofico semiprofessionale. Credo che così pensino anche molti letterati in Francia. Un altro discorso è invece l'eredità di Sartre per chi si occupa di filosofia seriamente, e qui ci troviamo davanti a uno iato che è forse più pronunciato in Francia che altrove, tra i filosofi considerati importanti dai giornali e dalla televisione perché si rivolgono a tutti da un lato, e dall'altro la filosofia che viene definita con un certo disprezzo "universitaria".» (1)

Filosofo della coscienza e non del concetto
Eppure una collocazione a Sartre occorre trovarla. Non si può scrivere una storia della filosofia con capitoli in ordine alfabetico. Ci prova, non senza imbarazzo, Descombes, guardandosi pudicamente dal ricorre alle facili etichette: esistenzialismo e fenomenologia. Lo fa bene, ricorrendo alla distinzione di Cavaillès tra filosofia del soggetto e filosofia del concetto. Quindi tra filosofi dell'io e filosofi di ciò che l'io riesce ad organizzare di fronte a sé, per raggruppamenti logici e connessioni obiettive. Sartre fu filosofo del soggetto. «E nel mio ultimo libro, Le complément du sujet, dice Descombes - ho un tono elogiativo della visione del soggetto di Sartre e soprattutto della sua analisi, direi di tipo logico-grammaticale, che presenta all'inizio di L'essere e il nulla. Il libro comincia con una lunga discussione su un problema inestricabile della filosofia, ossia la questione della coscienza immediata di sé. In termini tradizionali, il problema è quello di garantire il rapporto a se stessi in tutti gli atti mentali, mentre non è sempre dato esplicitamente. Sartre entra nel dibattito con un'analisi sintattica della forma della frase "Io mi annoio": ecco il rapporto della coscienza a sé, perché in questa frase c'è il pronome riflessivo mi, dunque il soggetto ritorna in sé stesso nella noia. Ma come fa il soggetto a ritornare su se stesso nel senso che sarebbe causa della sua noia? La soluzione di Sartre è di dire che il pronome riflessivo "mi" non è semplicemente un pronome che rinvia all'io, soggetto della frase "Io mi lavo". In questa seconda frasel'io è posto senza bisogno della riflessione su di sé. L'essenza della coscienza di sé per Sartre è quel rapporto a sé che non esistere senza riflessione, che è ben rappresentato nel rapporto tra pronome riflessivo "mi"e soggetto "io" nella frase "Io mi annoio". Dunque, Sartre intuisce molto bene qui un problema chiave, anche se non lo sblocca completamente. La soluzione di Sartre è infatti quella di inventare un concetto di coscienza nel quale ci sarebbe una riflessività inerente a "Io mi annoio", ma un tipo di riflessività che non somiglia a quella delle altre frasi dove ci sono problemi riflessivi, come "Io mi lavo" o "Io mi correggo": quella che Sartre chiama una riflessività irriflessa. A questa conclusione Sartre arriva attraverso un'analisi sintattico-grammaticale, ripercorrendo la distinzione latina tra i pronomi eius e sui.» (2)

Tuttavia, questa attenzione al rapporto tra linguaggio e coscienza non porta Sartre ad abbracciare l'empirismo logico del Circolo di Vienna. Considera Wittgenstein un'aberrazione filosofica, e certe sue pagine potrebbero persino venire avvicinate al Popper difensore della metafisica, se non fosse che Popper non è un filosofo della coscienza per partito preso. Sartre sostiene un'analisi della coscienza come luogo di formazione dell'autocoscienza. Un'analisi puramente linguistica della coscienza non porta a nulla di interessante. Sartre concorda così con le posizioni di Merleu-Ponty. Ma al di là delle convergenze visibili nella collaborazione alla rivista "Les Temps Modernes", fu ben presto chiaro che tra Merleu-Ponty e Sartre maturarono due disaccordi decisivi. Uno era di tipo politico. Merleu-Ponty svoltò a destra, abbandonando il marxismo. L'altro era di tipo filosofico più schietto. Merleu-Ponty non condivideva di Sartre la ricerca sistematica dell'opposizione più estrema tra la coscienza pura e tutte le altre espressioni dell'essere. Per dirla con Descombes, ... «Merleu-Ponty cerca di frapporre una serie di intermediari filosofici tra la coscienza pura priva di determinazioni, e le strutture dell'organismo.» (3)

La terza persona
Il rapporto stretto ma conflittuale, di odio e amore, tra linguaggio e coscienza si esprime con grande chiarezza in Sartre in quella riflessione, che muove evidentemente dall'esperienza letteraria, sul modo di raccontare in "terza persona". Quando si scrive usando "egli" o "ella", si descrive qualcuno dall'esterno, e questo sarebbe alienante, perché collocato tutto all'esterno. Dice ancora Descombes: «In un certo modo, le descrizioni di un soggetto alla terza persona lo ingabbiano in classificazioni che il soggetto stesso non può controllare. E' un tipo di posizione che è passata nel pensiero di Foucault, e nel poststrutturalismo, ma senza certificato di origine, eppure viene da Sartre. Invece per Sartre il discorso alla prima persona sarebbe autentico, libero: questo è il suo esistenzialismo che oggi sono ben pochi a difendere. La descrizione alla terza persona è un tema molto vivo oggi, soprattutto nell'idea poststrutturalista secondo la quale appena descriviamo qualcuno lo ricostruiamo secondo dei sistemi di potere e di dominazione. E' il nucleo della questione ebraica secondo Sartre: per Sartre non ci sono ebrei, ma solo persone forzate a riprendere alla prima persona ciò che viene detto di loro e che cedono alla pressione sociale di descriversi a se stessi come ebrei. Ma se si interrogassero nel profondo della loro coscienza si renderebbero conto che non esiste nessuna "ebraicità" intrinseca alla loro persona. Allo stesso modo, il cameriere che volteggia tra i tavolini del caffè in L'essere e il nulla è un tipo sociale. Sartre non si spinge all'epoca di L'essere e il nulla a dire che dietro al tipo sociale c'è un sistema di denominazione, di sfruttamento eccetera. A quell'epoca gli basta dire che il suo rappresentarsi come il tipo "cameriere di caffè" è un modo di esistenza inautentico: il cameriere si conforma al suo tipo sociale e nello stesso tempo sa che non è vero, che c'è una parte di autoinganno.» (4)

Contro il marxismo, che è comunque "marxismo volgare"
La descrizione in terza persona è quindi un atto espropriante dell'identità individuale. Il potere dello scrittore che descrive un carattere, diviene il potere del sociologo che impone il carattere a tutti gli appartenenti ad una classe di individui in base alla funzione, ad un ruolo sociale. Se proviamo ad eliminare l'estremismo radicale della posizione sartriana, questo male infantile della filosofia che sempre ricorre in tutte le analisi più o meno originali, ci accorgiamo che non è tanto nella letteratura quanto nella sociologia, o nell'antropologia, che la descrizione espropriante in terza persona incombe come rischio. Persino in una cattiva interpretazione del marxismo, essa può apparire in forme alienanti, anche se, proprio nel marxismo, trova le ragioni del suo riscatto: per liberarci dalla riduzione dell'uomo ad una funzione, occorre che l'uomo venga in grado di essere socialmente altro che quella funzione. Ma, ciò, per Sartre è gravemente insufficiente.
Seguendo l'ispirazione della natura espropriante della descrizione, Sartre perviene, in uno scritto del 1946, Materialismo e rivoluzione, ad un confronto intenso col marxismo, muovendo una critica serrata all'impianto teorico materialistico che sta alla base del marxismo stesso. In sostanza, Sartre rifiuta tale strutturazione teorica perché legittimerebbe la soppressione della soggettività e quindi della libertà. Il marxismo concepito su basi materialistiche (e su quali sennò?!) è volgare e dogmatico, e risulta dominato dal mito scientista dell'oggettività. Il marxismo, per Sartre, riduce il mondo al meccanismo dei rapporti oggettivi. Gli uomini non sono più considerati come uomini, ma come cose, uomini-cose, "sballottati fra le risacche dell'universo fisico".
Tuttavia, il marxismo, ha avuto una funzione essenziale nel mobilitare le classi oppresse, contribuendo a demistificare la "superiore spiritualità delle classi dominanti per diritto divino". Proponendosi come mito moderno (più tardi Lyotard parlerà di "grande narrazione"), il materialismo marxista diventa così il primo livello di coscienza di sé degli oppressi, guidandoli ad un "primo movimento" verso il proprio riscatto e la propria liberazione. Ma il marxismo come filosofia è falsa filosofia. Non è quindi nemmeno idoneo a fondare e guidare il processo rivoluzionario.
Sartre critica come assurda la pretesa di combinare materialismo e dialettica. Riprendendo la contraddizione tra essere in sé ed essere per sé, Sartre trova che il movimento dialettico appartiene solo al mondo dell'uomo e che è erroneo attribuirla alla natura. Bisogna evitare la confusione tra dialettica e meccanicismo. C'è bisogno da parte del movimento rivoluzionario di una nuova filosofia che superi, insieme, sia l'idealismo borghese che il materialismo marxista.

La soggettività come nuovo fondamento
Tale superamento si deve fondare sulla soggettività e la possibilità assoluta dell'uomo di trascendere nella coscienza il presente che lo circonda, quindi di "cambiare il mondo".
Questo insistere sulla soggettività potrebbe portare ad avvicinare Sartre a Gramsci, e persino a Lenin, ma sarebbe gravemente erroneo, andare al di là di un generico accostamento di parole. La soggettività di Gramsci rimane comunque interamente disciplinata dal suo essere soggettività collettiva che trova nel partito il suo carattere di avanguardia della classe operaia. In Sartre, la soggettività è il fondamento della libertà e della scelta dell'individuo astrattamente inteso. E' l'esistenzialismo a risultare rivoluzionario in quanto tale, cioè in quanto analisi e denuncia di un esistere negato come possibilità. Ciò porta Sartre ad immaginare la rivoluzione come un evento che trascende i limiti della concreta situazione storico-sociale. E' una filosofia dell'uomo in generale, e "deve poter essere la filosofia di qualsiasi uomo, nel senso che anche un borghese oppressore è oppresso dalla sua oppressione". Ciò non porta a smarrire la propria specifica collocazione di classe perché essa si rivela inizialmente agli oppressi, e solo più tardi agli oppressori. Senza gli oppressi, non si manifesterebbe nel mondo.Che è l'opinione di Marx esattamente rovesciata, in quanto per Marx, la coscienza giunge dall'esterno, cioè dagli intellettuali, dagli economisti e dai filosofi, senza per questo diventare una sorta di rivelazione, di mito raccontato alle folle di credenti. In Marx, il carattere razionale della denuncia è documentato ed argomentato, è discutibile anche se non falsificabile altrimenti se non dal processo storico nel suo svolgimento.

Per l'umanismo, contro l'umanismo
Tale posizione sartriana era destinata ad entrare in urto frontale sia nei confronti dell'esistenzialismo heideggeriano che nei confronti dell'interpretazione strutturalista del marxismo fornita da Althusser. Per ora limitiamoci alla critica heideggeriana. Essa fu occasionata da alcune domande poste da Jean Beaufret allo stesso Heidegger e trovò compimento nella Lettera sull'«Umanismo».
Nel 1945, esattamente il 28 ottobre 1945, davanti ad una foltissima platea, Sartre aveva svolto la conferenza l'existenzialisme est un humanisme alla Salle des Centraux. Tesi fondamentale: l'esistenzialismo, accusato da marxisti e cristiani di relativismo e nichilismo, rappresentava al contrario l'autentico umanesimo. Per Sartre era chiaro che l'uomo doveva reinventarsi a partire da se stesso, anzichè inseguire il miraggio delle stelle fisse e della propria essenza immortale. L'esistenza precede l'essenza. Nessuna essenza umana astratta può fungere da guida alla soluzione dei problemi posti dall'esistenza. L'esistenza è nuda, e nuda ci consegna all'ignoto destino, che però diventa meno ignoto nella consapevolezza della possibilità. Queste idee troveranno adeguato sviluppo nella Critica della ragione dialettica, l'importante opera del 1960.
Ciò che andrebbe colto, come suggerito da Nicola Abbagnano, è che in Sartre era ormai chiaro che l'uomo deve assumersi la responsabilità di sé stesso. Infatti, prima l'uomo esiste, e come esistente incontra ciò che è, cioè ciò che si trova nel mondo. Dopo, e solo dopo, l'uomo tenta di definirsi, e più o meno comprende ciò che vorrebbe essere, ovvero come vorrebbe realizzarsi. L'angoscia, allora, non è qualcosa di generico, un confuso sentimento indicibile, ma una reazione negativa e preoccupata di fronte al senso di responsabilità. In tal senso, la "disperazione" non è altro che il sapere di dover far conto solo su noi stessi e le nostre decisioni. Volontà e capacità di azione diventano quindi determinanti. Alla fin dei conti, l'esistenzialismo è "ottimismo" e fiducia nell'azione.
Per Heidegger il discorso sartriano era insostenibile perché il cuore del problema non sta nell'azione.
La sua reazione a Sartre si condensò attorno alla domanda posta da Beaufret: "come ridare un senso alla parola «umanesimo»?"
La risposta di Heidegger fu la seguente: «La domanda nasce dall'intenzione di mantenere la parola "umanismo". Io mi chiedo se ciò sia necessario. O non è ancora abbastanza evidente il male che recano tutte le denominazioni di questo genere? Certo, già da molto tempo si diffida degli "ismi". Ma il mercato dell'opinione pubblica ne pretende sempre di nuovi, e si è sempre pronti di nuovo a soddisfare questo bisogno. Anche nomi come "logica, "etica", "fisica" compaiono non appena il pensiero originario volge alla fine. Nella loro età magna, i Greci hanno pensato senza simili denominazioni. Il pensiero essi non lo chiamavano neppure "filosofia". Il pensiero volge alla fine quando si ritira dal suo elemento. L'elemento è ciò che propriamente può: il potere. Esso si prende a cuore il pensiero e lo porta alla sua essenza. Il pensiero, detto semplicemente, è il pensiero dell'essere. Il genitivo vuol dire due cose. Il pensiero è dell'essere in quanto, fatto avvenire dall'essere, all'essere appartiene. Il pensiero è nello stesso tempo pensiero dell'essere in quanto, appartenendo all'essere, è all'ascolto dell'essere.» (5)
Credo che ciò basti a definire la natura dell'opposizione tra Heidegger e Sartre. Il criterio della soggettività sartriana e la problematica dell'uomo da rifondare non appartengono in realtà all'essere, ma all'umano distaccato dalla sua origine di essere e non di nulla, ed inconsapevole di ciò, immemore dell'essere. L'umanismo non va nè recuperato, né rifondato proprio in quanto incapace di ricondurre all'essere. Questo, anche se Heidegger sembra dichiarare che la sostanza dell'uomo (oùsìa, che Heidegger scrive sempre in caratteri greci col vezzo d'impedire a chi non sa il greco che cazzo sta addì...) è l'esistenza. Tale affermazione, in realtà, «non dice altro che questo: il modo in cui l'uomo, nella sua essenza propria è l'estatico stare dentro nella verità dell'essere. Con questa determinazione essenziale dell'uomo non vengono dichiarate false e rifiutate le interpretazioni umanistiche dell'uomo come animal rationale, come "persona", come essere composto di spirito, anima e corpo. Piuttosto, l'unico pensiero è che le supreme determinazioni umanistiche dell'essenza dell'uomo non esperiscono ancora l'autentica dignità dell'uomo. In questo senso, il pensiero di Sein und Zeit è contro l'umanismo.»(6) Heidegger precisa che non si vuole con ciò porre contro l'uomo. Semmai l'antiumanismo imputa all'umanismo di non aver posto l'humanitas dell'uomo ad un livello abbastanza elevato.
La critica di Heidegger corrisponde perfettamente alle sue posizioni più coerenti. E non c'è dubbio possibile sul fatto che egli crede che nessuna azione volontaristica possa ricondurre all'unità con l'essere.

(continua)


(1) Vincent Descombes e Jacques Bouveresse - Cosa resta della filosofia di Sartre - "Micromega" n° 6 2005 - Bouveresse è professore di filosofia del linguaggio e della conoscenza al Collège de France. Alcuni suoi lavori sono disponibili in italiano, tra questi Filosofia , mitologia e pseudoscienza. Wittgenstein lettore di Freud - Einaudi 1997
(2) ivi
(3) ivi
(4) ivi
(5) M. Heidegger - Lettera sull'«Umanismo» - Adelphi 1995
(6) ivi
CF - 31 marzo 2006