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La rivoluzione industriale

capitolo 6: le trasformazioni della chimica
di Guido Marenco

Landes dedica un lungo paragrafo allo sviluppo della produzione chimica, sottolineando l'impatto felicemente sincronico che essa ebbe sull'insieme delle attività economiche. Ci fu una sorta di tempestivo opportunismo: la chimica non era ancora un settore primario. Poteva solo aspirare a diventare indotto indispensabile sia al settore tessile che a quello metallurgico, senza dimenticare la produzione del sapone e quella del vetro, mentre fuori dell'Inghilterra, in particolare a Meissen in Germania ed a Sevres in Francia, prendeva piede la produzione di porcellana in grado di imitare quella cinese.
Dalla seguente citazione si capisce perché occorre ricalcolare il peso della chimica nella rivoluzione industriale: « Non c'erano in tutte le isole britanniche abbastanza prati a buon mercato o latte acido per candeggiare i tessuti del Lancashire una volta che filatoio idraulico e "mula" ebbero sostituito la ruota da filare, e ci sarebbero volute quantità inimmaginabili di orina umana umana per sgrassare la lana greggia greggia del West Riding.
La soluzione fu trovata con un'avanzata simultanea lungo varie linee: 1) sostituendo dove possibile fonti di materia prima vegetali alle animali; 2) sostituendo materie prime inorganiche alle organiche; 3) utilizzando i sottoprodotti di ogni reazione per produrre altre reazioni che fornivano composti utili; 4) migliorando gli strumenti e le attrezzature dell'industria: forni, vasche, miscelatori, tubazioni e simili, in modo da consentire una lavorazione più rapida e sicura di quantità maggiori di materiale.» (Landes, cit)
Più facile raccontarlo che farlo. Queste cose accaddero procedendo per tentativi a volte persino ciechi. La chimica in Inghilterra era arrivata fino alle complesse visioni del pastore-filosofo Joseph Priestley, il quale era più interessato ad una metafisica dei poteri attivi o agenti che ai problemi pratici di un laboratorio di produzione. Questi aveva sì dato un certo contributo allo studio dell'aria fissa ed a quella infiammabile, ma il suo posto nella storia è principalmente quella di un filosofo della natura che negava l'esistenza di una separazione tra materia e spirito e parlava di un'unica sostanza universale.
La chimica inglese aveva dunque una dimensione teorica ancora inadeguata all'impresa di sottomettere natura e materiali per produrre beni di consumo. Il francese Lavoisier e lo svedese Scheele dovevano ancora pubblicare i loro rivoluzionari trattati, quando l'economia inglese cominciava a reclamare nuove tecniche di manipolazione delle sostanze. E mentre i lanieri continuavano ad orinare nelle vasche di sgrassaggio dopo generose bevute di birra, nei manuali si continuava a scrivere che esisteva un qualcosa chiamato flogisto, che invece non esisteva affatto.

In genere, la chimica è stata trascurata dagli storici dell'industrializzazione per due motivi: 1) l'organizzazione del lavoro rimase inalterata per un lunghissimo periodo; non ci fu quindi uno sviluppo tecnologico rivoluzionario, ma una lenta e graduale evoluzione. 2) La chimica continuò a recitare un ruolo secondario. E tanto per capirci, basti pensare che, ad eccezione della Francia, il farmacista era ancora essenzialmente un erborista, non un chimico. Chimico fu Scheele, che era appunto un farmacista, ma viveva in Svezia.

Landes sostiene che l'impatto della ricerca scientifica fu forte, forse più che in ogni altro settore, ma aggiunge:« Ciò non significa che la ricerca stessa fosse sempre condotta secondo principi teorici corretti - nei laboratori di di questo periodo si procedeva molto per tentativi empirici - né che l'industria si servisse quanto avrebbe potuto delle conoscenze scientifiche e degli scienziati.»
Molti progressi furono dovuti a chimici autodidatti, se non improvvisati. Tuttavia, va notato che senza un laboratorio, di fatto un piccolo centro di ricerca annesso al luogo di produzione, non si sarebbero trovati nuovi procedimenti e nuovi prodotti. Ciò potrebbe aprire un capitolo del tutto nuovo sul rapporto tra scienza e tecnica. In parte, possiamo abbozzare qualcosina anche noi. Tra Seicento e Settecento la produzione di sostanze di interesse primario (sale comune, zolfo, calce viva, gesso) era proceduta ricorrendo a metodi estrattivi e mediante riscaldamento. Tuttavia, «Una produzione programmata e su larga scala del vetriolo, dell'allume, del salnitro, del borace richiese lavori preliminari, di notevole complessità anche sul piano tecnico.» (F. Abbri, cit)
Paesi all'avanguardia, più che l'Inghilterra, erano la Germania e la Francia, per non dimenticare il ruolo fondamentale svolto dalla Svezia e dai suoi chimici teorici.
Per secoli la produzione chimica era stata soprattutto saline. «Gli sviluppi tecnologici nella produzione del sale comune furono fino all''800 esclusivamente "meccanici", frutto di pratiche empiriche ripetute e non derivanti dalla consapevole applicazione di conoscenze chimiche.» (F. Abbri, cit)

Merita menzione una figura professionale a mezzo tra l'avventuriero vagabondo ed il moderno consulente scientifico: conosciuti in Germania come Feuerkünstler (artisti del fuoco) o Archanisten, essi erano in realtà diffusi in tutta Europa. Si parla di alchimisti italiani, "virtuosi itineranti" delle saline, con i quali collaborarono anche scienziati e filosofi dei piani alti, come Leibniz e Lehmann.
Il fiorentino Antonio Neri (1576-1614), autore di un'Arte Vetraria che ebbe enorme fortuna e diffusione, svolse certamente un ruolo propulsivo nell'esportazione della tecnologia italiana. E qui si deve solo notare come, allora come ora, i cervelli italiani erano quasi costretti ad emigrare per trovare una soddisfacente valorizzazione. Il libro del Neri era un trattato di tecnica vetraria, ma il retroterra su cui era nato era ermetico e paracelsiano. Puzzava, insomma, di magia, alchimia applicata alla ricerca della diabolica formula per la trasmutazione del vile metallo in oro zecchino.
Tuttavia, alla fine del Seicento ed all'inizio del Settecento le cose cambiarono radicalmente quando proprio i risultati ottenuti dai chimici teorici e sperimentali fecero intendere alle corti, anche grazie all'instancabile lavoro di personaggi come Leibniz, le grandi potenzialità economiche e militari (si pensi alla polvere da sparo) della chimica. «Quest'ultima ricevette la sanzione ufficiale di scienza allorché venne riformata (1699) l'Académies des sciences di Parigi [...] La Francia fornisce un chiaro esempio dei legami che si stabilirono, nel Settecento, tra chimica ed attività produttiva. Alla metà del secolo la produzione manifatturiera conobbe un incremento notevole.» (F. Abbri, cit)

Tuttavia, non tutto procedeva secondo questa logica di inesorabile progresso. Si deve osservare che l'Encyclopédie di Diderot e D'Alambert, ovvero il massimo compendio delle conoscenze scientifiche del Settecento, affidò la scrittura della voce Chymie (chimica) a Gabriel-Françoise Venel (1723-1775), il quale aveva cominciato a farsi notare per aver limitato la validità della legge dell'attrazione newtoniana al solo caso fisico dell'unione di due masse identiche, asserendo poi che tra le sostanze chimiche agiscono solo le qualità proprie dei corpuscoli, ovvero omogeneità ed eterogeneità.
Nell' Encyclopédie Venel espose una sua teoria chimica piuttosto distante dal modello meccanicistico ormai imperante in fisica. «Venel accettava naturalmente i quattro elementi aristotelici ed il flogisto...[...], ma a suo avviso l'oggetto fondamentale della chimica era costituito da principi. Questo termine non indicava sostanze sperimentalmente isolabili, ma le qualità che ineriscono ai corpi: il termine principio era sinonimo di di attività, i principi erano portatori delle qualità. Su queste basi Venel condusse una polemica serrata contro la fisica, o meglio, contro la pretesa di estendere i metodi della fisica all'indagine chimica. La meccanica (la fisica matematica) non poteva mai giungere, dal suo punto di vista, alla natura profonda delle cose: era superficiale, perché non coglieva le qualità interne della materia.» (F.Abbri, cit)
Venel spingeva così per un'opposizione anziché per una sintesi delle due scienze che si occupavano in particolare della materia.
Tuttavia, l'osservazione che viene spontanea guardando all'insieme del movimento chimico, sia teorico che pratico, del Settecento, è quella di un numero rilevante di studiosi e praticoni indipendenti che portavano avanti autonomi programmi di ricerca ed avanzavano ipotesi del tutto diverse. Era insomma la situazione che avrebbe fatto felice un Karl Popper, se solo avesse prestato più attenzione alla storia delle scienze minori. La chimica del Settecento fu una competizione tra teorie e pratiche rivali, che probabilmente lasciò sul campo qualche cadavere e qualche corpo divorato dalle ustioni per l'esplosione degli alambicchi.
Chi vinse? Ovviamente chi sopravvisse alle esplosioni ed alla corrosione degli acidi, o meglio, chi riuscì a delineare con maggiore efficacia nuove prospettive e nuovi campi di applicazione.

Si è già accennato alla ceramica; un altro vasto campo di ricerca fu quello della metallurgia, a partire dal precocissimo studio (1722) di René-Antoine Fechault de Réamur intitolato Art de convertir le fer forgé en acier. Un altro francese, Gabriel Jars di Lione, fu incaricato dal governo di visitare le miniere di ferro e le officine per la produzione di acciaio in Inghilterra, Olanda, Svezia e principati tedeschi. Dai viaggi trasse profonde impressioni e riuscì a strappare segreti professionali gelosamente custoditi. Tornato in Francia compose un libro, Voyages métallurgiques ou recherches et observations sur les mines et forges de fer che stimolò la nascente editoria ad una vera e propria attività sistematica di traduzioni di manuali tecnici e teorici. Nonostante il discutibile approccio di Venel, l' Encyclopédie aveva certamente contribuito a sviluppare un clima culturale nuovo, spingendo gli studiosi di chimica soprattutto verso ricerche "empiriche" ed immediatamente utili.
Da cosa nasce cosa e la fervida attività di ricerca e divulgazione francese passò in breve dall'altra parte della Manica, dove trovò un clima persino più favorevole per immediati obiettivi pratici. Gli inglesi pensavano a far soldi e gli scozzesi a risparmiarli.

Un esempio per tutti fu quello di Nicolas Leblanc che, poco dopo il 1780, aveva trovato una tecnica per la conversione del sale comune in solfato di sodio per mezzo dell'acido solforico, nonché la produzione di carbonato di sodio attraverso la combustione di solfato di sodio mescolato a carbone ed a carbonato di calcio.
I produttori inglesi furono lenti nell'adottare la tecnica perché la tassa sul sale era piuttosto alta e perché essi continuavano a preferire prodotti vegetali (come la cenere del riscolo, che veniva dalla Spagna e dalle Canarie) e un genere di alghe disseccate a quelli ottenuti sinteticamente. Ma, dopo il 1823 ci fu un vero e proprio boom della soda per produrre sapone sia ad uso industriale che all'impiego domestico. Ad esso si sommò l'impiego di olio di palma invece di grasso animale e ciò favorì l'abbassamento dei costi e l'incremento della produzione, spingendo nel contempo l'uso di grassi ed oli vegetali per gli alimenti, le candele ed i lubrificanti.

Ha ragione, dunque, Landes nel dire che l'avanzata più significativa fu quella dell'acido solforico, una sostanza versatile, già conosciuto a metà del Settecento per le sue proprietà ossidanti, come agente disidratante, come elettrolita ed, ovviamente, come acido. Anche un manuale di chimica dei giorni nostri recita che H2SO4 è l'acido più importante sotto il profilo industriale. L'Italia ne produce due milioni di tonnellate all'anno, impiegate nella raffinazione del petrolio, per preparare detersivi, fertilizzanti, coloranti, liquidi per le batterie, esplosivi, lubrificanti, seta artificiale.
Nella prima metà del Settecento l'acido solforico era utilizzato come medicinale e più raramente come decolorante. «Il metodo di preparazione era lento, difficoltoso e inefficiente; il prezzo, da uno scellino e sei pence a 2 scellini e sei pence a oncia, proibitivo per la maggior parte degli usi industriali. Nello spazio di un ventennio, l'introduzione dal continente del procedimento a campana (primaapplicazione riuscita di Joshua Ward e John White a Twickenham, 1736), e quindi la sostituzione di grandi tini rivestititi di piombo alle molto più piccole campane di vetro, (John Roebuck e Samuel Gilbert a Brimingham, 1746), moltiplicarono per mille la scala delle operazioni e fecero precipitare il prezzo... Alla fine del secolo l'Inghilterra, che una volta integrava la produzione interna con acquisti dall'Olanda, esportava fino a duemila tonnellate all'anno.»
Dall'acido solforico all'acido cloridrico il passo fu breve. Da quest'ultimo si poteva ricavare il cloro, un gas tremendamente irritante di colore verdastro, per impiegarlo come decolorante. Ma il cloro era pericoloso e talmente corrosivo da bruciare irrimediabilmente i tessuti. Occorreva miscelarlo e diluirlo. La formula arrivò ancora una volta dalla Francia, con l'ipoclorito di potassio, detto anche acqua di Javel, inventato nel 1796, quindi durante un periodo di guerra. Da allora se ne fa ancora largo uso come smacchiatore. Poi giunse il cloruro di calce, brevettato come polvere sbiancante da Charles Tennant nel 1797 e nel 1799. Veniva ottenuto con l'assorbimento del cloro nella calce spenta e fece boom raggiungendo in un cinquantennio, tra il 1799 e il 1850 un incremento di produzione pazzesco: dalle 57 tonnellate prodotte nel primo anno si passò alle 13100 del 1852, mentre il prezzo era sceso da 140 sterline a 14 sterline a tonnellata. Non bisogna dimenticare che venne presto impiegato per la potabilizzazione delle acque e la disinfezione delle piscine. Nel nostro stomaco l'acido clorodrico costituisce lo 0,5% del succo gastrico, fornendo il pH acido necessario alla digestione.
Due alcali, in particolare carbonato di potassio e carbonato di sodio giocarono un ruolo quasi altrettanto importante. Il primo per lo più in negativo. Era ottenibile solo con la cenere di legna preparata nella misura folle ed inconcepibile di 1 parte di composto puro e 600 parti di legno. Il che voleva dire bruciare l'Inghilterra per produrre sapone molle e per fare vetro mescolandolo con la sabbia. Senza contare che il carbonato di potassio entrava nella formula chimica della polvere da sparo e dell'allume. Per un po' si ricorse all'importazione di legno, anche con metodi di rapina. Poi si ripiegò sull'uso della soda nella preparazione di candeggianti e decoloranti. Ed io non ho dubbi sul fatto che fu l'interesse egoistico degli aristocratici alla caccia alla volpe a fermare la desertificazione dell'Inghilterra. C'erano altri modi per fare il vetro?
E' una domanda che mi sono posto ed a cui cercherò di rispondere in una delle prossime puntate, quella dedicata alle più siginificative innovazioni tecnologiche.
Ora, chiudo sulla caccia alla volpe e sulla caccia in generale, per dire che essa era la spia di un malessere diffuso anche ai nostri giorni. Non solo aristocratici, anche fior di intellettuali non tutti romantici e non tutti schierati con la destra reazionaria, cominciavano a manifestare irritazione, disagio e repulsione verso il satanico progresso della rivoluzione industriale. In questo fronte del rifiuto entravano in gioco anche fattori umanitari ed umanistici. Non piaceva la riduzione dell'uomo ad una macchina per produrre, ad una protesi dell'utensile. La critica della sinistra sociale e quella della destra intellettuale aveva qualcosa in comune: la riflessione e la reazione alla sempre più scarsa considerazione della natura e dell'essere umano. Nel prossimo capitolo indagheremo soprattutto questo punto: il lavoro umano nelle condizioni extreme della rivoluzione industriale.
(continua)


bibliografia utilizzata:
Cristopher Hill - La formazione della potenza inglese Dal 1530 al 1780 - Einaudi - Torino 1977
Pierre Mantoux - La rivoluzione industriale - Editori Riuniti
David Landes - Prometeo liberato - Einaudi -Torino, 1973 (or. The unbound Prometeus, 1969)
T.S. Ashton - La rivoluzione industriale 1760-1830 - Laterza - Bari, 1953
Rodolfo Morandi - Storia della grande industria in Italia - Einaudi, 1959
Stefano Jacini - I risultati dell'inchiesta agraria (1884) - Einaudi, 1976
Valerio Castronovo - La rivoluzione industriale - Sansoni - Firenze, 1988
Valerio Castronovo - L'industria italiana dall'Ottocento ad oggi - Mondadori, 1980
Phyllis Deane - La prima rivoluzione industriale - Il Mulino - Bologna, 1977
Sydney Pollard - La conquista pacifica / L'industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970 - Il Mulino - Bologna, 1984
Karl Polanyi - La grande trasformazione - Einaudi - Torino, 1974 (ed or. New York, 1944)
Eric R. Wolf - L'Europa e i popoli senza storia - Il Mulino -Bologna, 1990
George Rudé - L'Europa del Settecento / Storia e cultura - Laterza, 1974
Alexander Koirè - Dal mondo del pressapoco all'universo della precisione - Einaudi, Torino 1967
Adriano Prosperi e Paolo Viola - Storia moderna e contemporanea - vol. II - Dalla Rivoluzione inglese alla Rivoluzione francese - Einaudi - Torino, 2000
Paolo Rossi/AA VV - Storia della scienza moderna e contemporanea - UTET 1988 ( i capitoli che qui interessano sono Le teorie chimiche, di Ferdinando Abbri e La rivoluzione chimica, dello stesso autore)
Anonimo - Considerations upon East-India Trade, 1701- ristampato nel 1856 nell'antologia A select Collection of Early English Tracts on Commerce, pubblicata a cura di J.R. Mac Culloch)

gm - 14 maggio 2004 - su questo file esiste il copyright - può essere riprodotto solo su permesso dell'autore