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La rivoluzione industriale

capitolo 10: Paesaggi dell'Europa preindustriale
di Guido Marenco

Siamo arrivati ad una data cruciale: il 1815, l'anno di Waterloo e del Congresso di Vienna. Dal punto di vista della storia economica, la data è altrettanto importante perché segnò la fine del blocco delle merci britanniche imposto da Napoleone, e su buona parte dei mercati europei apparvero nuovamente prodotti inglesi.

A mio avviso, Sidney Pollard ha esagerato la possibilità di una crisi molto grave delle diverse economie europee sotto la pressione britannica. Ed ha sbagliato a presentare l'esigenza di una rapida industrializzazione come un aut aut: rinnovarsi in tempi brevi o perire. I tempi del mutamento furono piuttosto lunghi e se trentanni, o persino quindici, sembrano pochi, in realtà sono tanti.
E' vero che ciò che in Europa veniva prodotto a costi più alti, e spesso con risultati scadenti, con un numero superiore di ore di lavoro e di addetti, poteva venire acquistato dagli industriali inglesi a prezzi più bassi. Ma le obiezioni a Pollard sono due.
La prima è che il putting-out system, cioè il sistema del lavoro a domicilio, resistette per molti anni ancora nella stessa Inghilterra. Nel 1856 erano ancora in attività migliaia di telai di vecchia generazione che producevano merci vendibili e vendute. Perché mai il sistema sarebbe dovuto crollare in Europa?
La seconda è che confrontando il tipo e la quantità di offerta inglese con le reali capacità di assorbimento dei mercati europei non si arriva a simili scenari. I primi decenni dell'Ottocento non sono il Duemila: il commercio del tempo non si basava sul consumismo ma, ancora in grandissima parte sulla necessità. Senza contare che la necessità si scontrava con la penuria, alias mancanza di potere d'acquisto da parte della stragrande maggioranza, e quando mancano i soldi ha poca importanza che una pezza di cotone costi dieci cent oppure 12. Bisogna risparmiare qualche settimana per arrivare a comprarne una, ed è facile che nel frattempo il negoziante si inventi un saldo per realizzare il contante di cui ha bisogno. Non va dimenticato mai quanto detto e ribadito da tutti gli studiosi: i salari europei erano più bassi di quelli inglesi.
Inoltre, va considerato che i paesi più esposti alla pressione britannica, ovvero Francia e Belgio, sebbene in ritardo di una ventina d'anni, erano già sulla strada dell'innovazione tecnologica e dell'industrializzazione, come documentato più avanti, ricorrendo tra l'altro a dati dello stesso Pollard. Il che riduce di molto la portata dell'aut aut.

Landes, che pure precedette, con più moderazione, l'opinione di Pollard, colse meglio il bersaglio descrivendo l'Europa preindustriale come "un agglomerato di piccoli mercati semiautarchici, ciascuno col suo corredo più o meno completo di industrie e commerci". Mondi chiusi e protetti da altissime gabelle, dunque né permeabili né sensibili al canto delle sirene britanniche se non in cambio di contropartite. Prima della rivoluzione francese, ad esempio, si era realizzato il trattato di Eden tra Francia e Gran Bretagna nel 1786, un accordo molto avanzato (a apparentemente favorevole all'Inghilterra) per l'interscambio. Ma la rivoluzione lo spazzò via.
In Germania ai posti di confine era ancora possibile trovare cartelli in cui venivano esposti i prezzi per il transito: "vacche ed ebrei 4 pfenning".
Spesso i mercanti si trovavano nella non allegra situazione di dover scegliere se risparmiare tempo, pagando più dazi, o risparmiare denaro, facendo giri più lunghi anche di giorni o settimane. Il risultato finale non cambiava granché: ai consumatori finali le merci arrivavano gravate di tasse e di esorbitanti costi di trasferimento.

Ciò detto, resta vero che i livelli di occupazione dei paesi importatori avrebbero potuto scendere, soprattutto laddove la struttura produttiva impiegava lavoratori full-time meglio pagati e non contadini part-time peggio retribuiti. E' il caso dell'Olanda e dell'Italia, paesi nei quali le gilde erano ancora forti, ma non quello della Francia dove, durante la rivoluzione, la legge Le Chapelet aveva abolito le corporazioni. Già nel 1776 ci aveva provato Turgot, ma dopo il provvedimento era stato costretto a dimettersi.
Le economie erano già poco fiorenti per via delle guerre. Le campagne napoleoniche erano state solo il culmine di un secolo di eventi bellici. Darne conto richiederebbe una dose aggiuntiva di pagine piuttosto consistente. Fermiamoci al dato: le risorse sono mobilitate non per costruire, ma per distruggere. Dagli eventi bellici si esce con i granai vuoti; a tavola ci sono sgabelli che non verranno più occupate e invalidi senza braccia e senza voglia di vivere bevono la loro zuppa solo se qualcuno li aiuta a portare la ciotola alla bocca; chi ha soldi non fa investimenti per mancanza di fiducia. Quei pochi che non hanno scrupoli, fanno fortuna vendendo armi, divise, medicinali e viveri a prezzi sempre più alti. Ma scavano tra sé ed il resto del mondo un solco di rancori e maledizioni. Gli effetti delle guerre continuano anche in tempo di pace e la pace del Congresso di Vienna era, per giunta, del tutto particolare: si proponeva di fermare il mondo se non, addirittura, di farlo tornare indietro. Impresa né meritoria, né possibile, che procurò tuttavia un alto costo di vite umane immolate sull'altare della libertà di lavoro e di opinione, per il diritto di contare nella gestione della cosa pubblica non solo in base al sangue, ma anche in virtù dei meriti e del lavoro.
E' opinione corrente che la restaurazione viennese abbia comportato un ulteriore ritardo nello sviluppo industriale europeo e non ci sono motivi evidenti per rivedere il giudizio.
E' anche possibile che le lotte intestine abbiano influito in senso negativo, non solo come un ostacolo, ma quali elementi di distorsione dello sviluppo. Il caso italiano è in questo caso emblematico, visto il dramma del Mezzogiorno. Ma, come vedremo, c'è ancora molto da fare nel campo della ricerca, perché non è vero che mancava nel meridione d'Italia una proto-industria simile a quella belga o francese. L'Italia mancava di ferro e di carbone, semmai, ma sapeva far rendere quel poco che aveva, come la seta, la lana, il lino, i prodotti della terra a lunga conservazione come l'olio e il vino. E' vero soltanto che venne a mancare una possibile trasformazione industriale dopo il 1815, dopo il 1848, ed anche dopo il 1860. Vedere se sarà colpa dei governi o della mancanza di un ceto imprenditoriale, o di fattori combinati di insipienza, pigrizia e mancanza di risorse sarà compito dei prossimi capitoli. Qui ci fermiamo al 1815.

La crescita demografica
Nonostante le guerre, il dato saliente che un osservatore di fine secolo avrebbe potuto cogliere sarebbe stato l'incremento demografico: escludendo i territori occupati dai turchi, la popolazione europea era tornata a crescere: nel 1700 contava poco più di 100 milioni di individui; a metà secolo si aggirava dai 120 ai 140 milioni; all'inizio dell'Ottocento alcune stime la davano attorno ai 180-190 milioni.
Si tratta di dati controversi, ma ritengo plausibile non siano distanti dalla verità.
Un colpo d'occhio sulle principali città europee consente una prima verifica: persino la Spagna, paese che cominciava ad essere arretrato rispetto alla media europea, presentava una crescita fortissima di Barcellona e dell'intera Catalagna, ed anche di Madrid si disse che aveva almeno 40.000 abitanti in più. Dati più generali affermano che la popolazione spagnola crebbe del 22%. Napoli, con 410.000 abitanti nel 1800, era diventata la terza città d'Europa. Se Londra appariva enorme, non meno grande era Parigi con circa 600.000 cittadini. Ed anche Lisbona non scherzava: con 350.000 anime batteva Mosca (300.000) e Costantinopoli (altrettanti), San Pietroburgo (270.000), Vienna (230.000), Amsterdam (230.000) e Berlino (170.000). Roma seguiva a poca distanza. L'unica città europea senza crescita era stata Venezia: all'inizio del Settecento contava 138.000 abitanti, tanti quanti ne contava alla fine.
La maggior crescita demografica in termini assoluti si ebbe in Russia. Alla fine del 1766 si parla di 29 milioni di abitanti rispetto ai 19 milioni precedenti.
L'insieme dell'impero asburgico ne contava pressapoco 23 milioni, con l'esclusione dei 3 milioni di galiziani annessi dopo il 1772.
La Francia era passata da 22 milioni a 27. L'Italia contava circa 18 milioni di abitanti ed era cresciuta di circa il 16% rispetto all'inizio del secolo. Ma la popolazione restava strettamente legata alla terra e le città in generale, a parte Napoli, erano cresciute un po' meno.

I problemi di fondo erano due. Uno non era tanto quello di nutrire tutta questa gente con l'agricoltura, l'allevamento e la pesca , quanto quello di fornire sufficienti scorte alimentari alle città con popolazioni così consistenti, visto che le campagne conservavano la relativa autosufficienza dei mondi chiusi abbarbicati sui bricchi o avvolti nelle nebbie delle vallate e della pianura. L'altro si risolveva nella seguente domanda: come procurare un reddito da lavoro alle nuove leve?
Queste non potevano essere completamente assorbite dall'agricoltura. Una soluzione non infrequente fu quella di emigrare. Dall'Irlanda, per esempio, ondate di famiglie si riversarono in Inghilterra e verso il nuovo mondo. Anche dalla Spagna e dal Centroeuropa i flussi verso le Americhe furono considerevoli. Ma una parziale soluzione al problema del pieno impiego venne in un certo senso da sé, attraverso la diffusione del lavoro domestico per la produzione tessile nelle campagne ed una relativa estensione delle manifatture cittadine. In alcune zone d'Europa le vecchie botteghe artigianali si trasformarono in fabbriche con un numero abbastanza alto di occupati. Non erano ancora industrie in senso moderno perché il lavoro era essenzialmente manuale e le poche macchine funzionavano usando energia umana, o al più idraulica, ma non erano nemmeno più le manifatture di un tempo. Non era raro trovare capannoni sotto i quali lavoravano 100-200 individui, molti dei quali non in regola con l'iscrizione alla gilda ed in possesso di una licenza per esercitare il mestiere.
In sostanza: lo scenario europeo era profondamente mutato. Il medioevo era davvero finito. O no?

Facciamo un passo indietro... residui di rapporti feudali
Nella seconda metà del Settecento, prima della rivoluzione francese, in molti paesi era quasi definitivamente caduto il vecchio istituto della servitù della gleba. In Austria, grazie alle riforme dell'imperatore Giuseppe II, rimaneva ancora solo l'obbligo di una giornata di lavoro settimanale completamente gratuita, il robot. In Russia ci fu un momento di involuzione sconcertante: lo zar Pietro il Grande nel 1724 concesse ai mercanti di comprare servi della gleba, privilegio prima riservato ai nobili. Invece che liberare gli schiavi dall'oppressione, si introdussero così nuove forme di sfruttamento. I mercanti impiegarono i servi nelle manifatture, nelle miniere di ferro e carbone e nelle 154 fonderie degli Urali. Queste davano un rendimento elevatissimo. Quando Procopio Demidov, uno dei fratelli della dinastia Demidov, decise di vendere le sue sei fonderie, realizzò 800.000 rubli, che per l'epoca erano una bella sommetta.
Tra i mercanti imprenditori del settore tessile si distinse un certo Garelin, che arrivò ad avere alle sue dipendenze oltre 20.000 lavoranti, di cui almeno 19.000 a domicilio.
Kaluga divenne famosa per la produzione di tela per le vele, ma in generale si può parlare di uno sviluppo lento e disuguale, e la Russia rimase un paese sostanzialmente agricolo ed arretrato fino alla rivoluzione del 1917.
La situazione dei lavoratori era talmente dura che diede luogo a sommosse, tutte regolarmente represse nel sangue, fino a quando Pugacev, nel 1773 non fece davvero tremare i polsi al regime, infilando una vittoria dopo l'altra con un esercito di cosacchi a cavallo e di straccioni a piedi che si aggiungevano via via al sopraggiungere dei liberatori. Anche Pugacev fu sconfitto, ma da allora le cose cominciarono a cambiare.
L'atto di emancipazione sarà emanato soltanto nel 1861. Ma, di fatto il rigido sistema di oppressione dei lavoratori agricoli venne mitigato, dando vita a tre regimi diversi. Il più importante era quello delle "terre nere", che includeva anche l'Ucraina, dove il lavoro servile era reso con un tributo del 70% circa del lavoro manuale. Nelle regioni meno fertili più a nord i signori facevano pagare un affitto in denaro o in natura, l'obrok, che poi divenne sinonimo di acquisto della libertà personale.
Nelle nuove terre conquistate alle steppe, soprattutto nel sud-est, si ebbero anche contadini proprietari che, tuttavia erano tenuti ad un tot di servizio per i signori dei latifondi, i quali elargivano una sorta di protezione coi loro eserciti privati. Durante tutto il corso del Settecento oltre 575.000 russi emigrarono verso oriente ed in Siberia con un movimento paragonabile a quello effettuati dai coloni in America del nord. Il fatto che se ne parli poco nei libri di storia non deve sminuire il fenomeno. Ci fu un Far East russo, probabilmente non meno avventuroso di quello americano, data l'ostilità di alcune popolazioni tartare e siberiane.

Anche in Prussia gli junker, i proprietari terrieri dell'est, avevano cominciato ad introdurre il lavoro salariato, ovviamente in un regime di caserma. Era il segnale del passaggio ad un'economia di tipo monetario. Solo nei paesi baltici (Lituania, Lettonia, Estonia) ed in Polonia, la storia si era fermata, o era persino tornata indietro. Dopo un periodo di sviluppo piuttosto simile a quello registratosi nelle realtà europee come l'Olanda e la Francia, si verificò nei paesi baltici il riemergere di "un secondo feudalesimo" alla base del quale c'erano vantaggiose vendite di cereali all'occidente, in particolare all'Olanda e all'Inghilterra. Per quanto riguarda la Polonia, va detto che insieme al rinascere del rapporto servile, si ebbe però un autentico declino delle attività agricole ed una lunga fase di depressione.
Le cose andarono meglio nelle regioni scandinave a bassa densità di popolazione. Agricoltura, allevamento e pesca erano fiorenti e nelle cittadine l'artigianato evolveva, mentre la produzione svedese di ferro godeva di una grossa quota del consumo internazionale.

A metà del Settecento, il continente nel suo insieme non era più da tempo una società esclusivamente agricola. L'area dei commerci e della produzione manifatturiera era cresciuta, insieme a quella dei liberi professionisti, degli intellettuali e dei religiosi, spesso oltre la soglia del 20% indicata come tipica delle società arretrate. L'insieme di queste attività offriva alla società, ma in particolare ai ceti benestanti, beni e servizi di volume e qualità superiore a quelli dei tempi andati. Le classi medie, quelle mercantili e gli aristocratici potevano così godere di un tenore di vita più alto e confortevole, testimoniato dalle abitazioni, dal mobilio e dalle suppellettili, dagli oggetti d'arte e dal numero di domestici, di cavalli e di cani da caccia, nonché dalla varietà del vestiario e dell'alimentazione. Piccole orchestre con clavicembalo, cantanti d'opera, attori non mancavano ai ricevimenti ed alle feste. Cuochi e saltimbanchi trovavano spesso occupazione e venivano ben pagati. Anche la più antica professione del mondo conobbe momenti di prosperità, mentre tra i maschi fioriva il mestiere del cicisbeo, ed i precettori erano sempre più richiesti. Rousseau, Kant, Hegel, ovvero i massimi filosofi del tempo, camparono esercitando l'insegnamento privato per un bel po'.
La massoneria ed i circoli intellettuali ad essa variamente collegati, esercitavano un ruolo propulsivo, a volte segreto, altre in piena libertà. La solidarietà tra mercanti, finanzieri ed imprenditori fu uno degli elementi trainanti dello sviluppo, insieme allo sviluppo di un sistema bancario che ebbe i suoi punti più caldi soprattutto in Francia e in Olanda.
Anche le classi povere, per quanto sempre sull'orlo della miseria, erano diventate relativamente più "consumistiche". Le statistiche, spesso ottenute con metodi avventurosi, sono contraddittorie. Ma se ci si chiede dove andasse a finire la massa dei prodotti in costante aumento, alla fine diventerebbe necessario riconoscere che anche il mercato dei poveri ne assorbiva una quantità maggiore che in passato, ovviamente se per povero si intende il lavoratore salariato e non il mendicante. Sia in termini di alimentari, che di vestiario, che di energia per il riscaldamento delle abitazioni. Carbone e legna, ovviamente, la facevano da padroni, e se le epidemie non avessero decimato la popolazione in diverse malefiche ondate, oggi non ci sarebbe più un solo bosco in tutta l'Europa continentale. Il carbone era di difficile raccolta e comunque inquinava. Le città che si scaldavano col carbone erano sempre avvolte in una nebbia grigiastra; i muri delle case, come pure i tetti, erano neri di fuliggine e l'aria era impregnata di un odore tipico. A Cipro, per mancanza di legna, si giunse a confezionare mattonelle fatte con la sansa di olive. Altrove si bruciavano rifiuti, sterpaglie e carcasse di animali. I più poveri non potevano che riunirsi attorno ad un solo fuoco acceso per più di una famiglia. Più alta era la densità della popolazione e meno materiale c'era per il riscaldamento.
Anche la più elementare delle misure civili, l'igiene dei luoghi pubblici, era precaria e comunque ottenuta, a volte, in modo curioso. Si racconta che a Siena, in epoca molto antica, la municipalità ordinò la pulizia della città ricorrendo ad alcuni individui proprietari di maiali. Questi, una volta sguinzagliati per le vie, divoravano i rifiuti, e quel che lasciavano dietro era proprio l'immangiabile.

La crisi del Seicento
Alla relativa prosperità del Settecento si era giunti attraverso una lunga crisi, quella del periodo barocco. Graficando una linea continua il prodotto lordo delle economie europee su un arco di trecento anni, si avrebbe una tendenza alla crescita nel Cinquecento, una netta caduta nel Seicento, una diffusa e solida ripresa nel secolo dell'Illuminismo, ma con qualche significativa eccezione. Tra queste, Italia e Spagna, ovvero le economie più ricche nel Cinquecento, entrate in crisi profonda nel Seicento, ed assai poco dinamiche nel Settecento. Landes, nel suo libro più recente (La ricchezza e la povertà delle nazioni - Garzanti) include anche l'Olanda nell'elenco. Ma, a mio avviso, la flessione olandese non è paragonabile a quella spagnola. Un qualche confronto è possibile con le economie delle Repubbliche marinare di Genova e Venezia, sempre ricordando che esse entrarono in crisi ben prima dell'Olanda.
Anche le altre economie faticarono a riprendersi.
Il Seicento era stato un secolo di stenti per diverse ragioni. La Spagna aveva pagato un prezzo durissimo alla sua miseria territoriale ed ambientale, alla politica di potenza e di guerra, al mercantilismo al contrario delle sue classi dirigenti, che spendevano molto e risparmiavano poco. Le sue manifatture non erano in grado nemmeno di rispondere a ordinativi e commesse di stato. Perennemente in ritardo, esse persero terreno nei confronti della concorrenza francese, inglese e persino italiana.
L'afflusso di oro e argento dall'America era ininterrotto ma, risultava appena sufficiente a pagare le spese di un paese ( in particolare la classe nobiliare) che viveva largamente al di sopra delle sue possibilità e che pretendeva di mantenere eserciti in ogni angolo del mondo. A leggere quanto scriveva un opinionista del tempo si capisce al volo: «Lasciamo Londra produrre quei panni così cari al suo cuore - annotava Alfonso Nuñez de Castro nel 1675 - lasciamo l'Olanda produrre le sue stoffe, la Francia i suoi drappi, le Indie le sue pellicce, Milano i suoi broccati, l'Italia e le Fiandre le loro tele di lino... noi siamo in grado di comperare questi prodotti. il che prova che tutte le nazioni lavorano per Madrid e che Madrid è la grande regina perché tutto il mondo serve Madrid mentre Madrid non serve nessuno.» (C.M. Cipolla, cit.)
Erano parole deliranti, che non tenevano in alcun conto la necessità del lavoro e della produzione per avere una ricchezza reale e continuamente rinnovabile, a cominciare da quella agricola.

La crisi italiana aveva motivi diversi e più complessi, buon primo per la mancanza di unità nazionale e non ultimo il fardello di tasse che la Spagna imponeva al Regno di Napoli ed alla Lombardia per finanziare il suo malvivere, e che altre potenze europee imponevano agli staterelli disuniti. Le guerre distruggevano tutto quanto era stato costruito. Le soldataglie non risparmiavano saccheggi ed atti gratuiti di vandalismo. Quando arrivavano in un luogo, dopo aver mangiato e bevuto il possibile, bruciavano il restante e pisciavano nelle botti di vino. Nel 1630, Mantova fu invasa, la dinastia dei Gonzaga ebbe fine ed i soldati imperiali diedero luogo ad un saccheggio che ricordava il sacco di Roma attuato dai lanzichenecchi un secolo avanti.
La natura fece poi la sua parte. La peste del 1630 decimò le popolazioni del Nord, provocando la morte di 1.100.000 individui a fronte di un dato di non più di 4.000.000 di abitanti per le sole regioni settentrionali. Nel 1656 arriverà il colpo di grazia con una nuova epidemia di peste al Sud.
A queste ragioni si possono sommare quelle più schiettamente economiche. In generale si può parlare a buon motivo di un paese che aveva perso la sfida con la competizione europea a causa di un costo del lavoro eccessivo, centrato sulla difesa e l'esasperazione delle corporazioni e dei mestieri ed un'urbanizzazione superiore alla media europea.
Eppure, la qualità dei prodotti italiani all'inizio del Seicento era ancora elevatissima. La Francia importava seta italiana in grandi quantitativi. Il made in Italy soddisfaceva sia i nobili spagnoli che quelli del resto d'Europa, ma non riusciva a penetrare nel nuovo mercato delle classi medie e medio-basse. Di fronte ad un nuovo tipo di domanda, gli italiani continuavano a proporre una vecchia offerta. Oggi, quando si dice made in Italy, si pensa al vino, all'olio extra-vergine, ai pellami, al cuoio, alla gioielleria, alla moda, alla Ferrari ed alla Ducati, al formaggio parmigiano, alla bresaola della Valtellina ed ai prosciutti San Daniele. Come bastasse la qualità di fascia elevata dei prodotti D.O.C. a fare cassa, dare lavoro a tutti e conquistare mercati, mentre la realtà delle produzioni di qualità è, al contrario, sempre destinata a coinvolgere poche unità produttive specializzate. Per dare lavoro a tutti e distribuire ricchezza ci vuole evidentemente di più, dall'high tech alle cianfrusaglie, dall'istruzione alla tecnica per l'eliminazione dei rifiuti. Anche allora il di più sarebbe stata la giusta soluzione, magari con un occhio ai mercati interni che, al contrario, stagnavano perché la popolazione delle zone rurali era povera, ed era stata decimata dalle epidemie. Gli economisti insegnano che quando manca la forza-lavoro, i salari ed i profitti dei piccoli imprenditori tendono a crescere ed anche questo elemento funzionava da freno allo sviluppo e favoriva la concorrenza straniera.

L'Europa dei mercanti imprenditori
Il mercante che realizzava grandi profitti non era più solo quello che andava lontano per accappararsi le merci più preziose, ma anche quello che dal cortile di casa organizzava il lavoro a domicilio di contadini e braccianti, sfruttando la disponibilità di forza-lavoro a costi più bassi.
Questa figura dell'imprenditore mercante è spesso nominata, ma ne sappiamo in fondo assai poco. Bisogna riconoscergli l'abilità di usare il lavoro per produrre merci su vasta scala usando una tecnologia arretrata senza provocare scarsità di manodopera e relativo aumento salariale. Creò un nuovo mercato, calmierando quelli vecchi e così contribuì a combattere l'inflazione. Indubbiamente ebbe in generale un effetto positivo sulle economie rurali, impiegando produttivamente i tempi morti del lavoro agricolo, in periodi nei quali i villaggi europei tradizionali nascondevano la disoccupazione con impieghi domestici quali la cura degli attrezzi o il fai da te dell'abbigliamento.
Questo nuovo sistema, tuttavia, danneggiava le economie dei centri urbani ed i privilegi delle corporazioni. Là dove prima occorrevano anni di apprendistato e di servizio a bottega per diventare provetti artigiani della seta o del lino, ora uno zappatore, un invalido od un ragazzo potevano fare altrettanto lavoro e realizzare un prodotto meno raffinato ma sicuramente indispensabile, e quindi più vendibile, perché destinato a vestire con tute di fustagno la povera gente. In questo modo, il mercato già "ristretto" dei manifatturieri delle corporazioni, alcuni dei quali facevano autentiche e preziose opere d'arte, diventava ancora più angusto.
Le resistenze delle corporazioni furono fortissime, e sotto certi aspetti comprensibili. Per gli artigiani quello era a tutti gli effetti lavoro nero e sommerso. In molti casi violava apertamente leggi già esistenti. Ma l'inganno, per certi aspetti, era già stato procurato da quegli stessi artigiani "disonesti" che accettavano ordini di molto superiori alle loro capacità produttive. Per mantenere gli impegni, furono essi stessi i primi a commissionare lavoretti ai contadini più vicini, aprendo così una breccia nel rigido sistema delle corporazioni. Quando si accorsero dell'errore, era già troppo tardi. Invocarono provvedimenti ancora più severi contro i produttori giudicati abusivi, reclamarono misure restrittive e controlli; molte volte si ritrovarono essi stessi multati per aver fatto lavorare individui non dotati di qualifica.
A risentire maggiormente della concorrenza delle campagne furono tuttavia i salariati delle città e dei borghi. Di colpo si vedero costretti ad un tenore di vita più basso, per evitare la disoccupazione. Non mancarono le tensioni. In Francia, Paesi Bassi e Germania, soprattutto, squadracce armate, spesso aizzate dai loro padroni, si gettarono nelle campagne per distruggere i telai e bastonare chi li difendeva.
Non diversamente, si può dire che andassero le cose per i lavoratori a domicilio delle campagne. Isolati, divisi l'uno dall'altro anche da forme di competitività esasperata, non avendo una coscienza comune, una precisa identità collettiva e nessuna forma di associazionismo, si prestarono ad uno sfruttamento senza precedenti, coinvolgendo tutta la famiglia in orari e ritmi di lavoro massacranti, senza alcuna tutela o assicurazione.

Il putting-out system si era diffuso pressoché contemporaneamente in molte regioni europee, anche le più arretrate, in tutto il corso del Settecento, ma spesso a partire dal Seicento, se non prima. Dalla Scandinavia a Napoli, da Madrid a Praga, da Barcellona a Kiev, senza drastiche soluzioni di continuità, anche nei territori controllati dagli Ottomani, si filava e si tesseva. Mutavano i tessuti (canapa, lino, seta e velluti, lana, misti, persino cotone), mutava l'organizzazione finanziaria dell'impresa, mutava anche la caratteristica del lavoratore, che a volte era un salariato a tempo pieno ed altre un bracciante part-time, ma vi erano forti elementi di somiglianza tra le varie situazioni. Se qui era un imprenditore-mercante a mettere a disposizione i filatoi e la materia prima, là era il singolo capofamiglia ad investire i risparmi nelle attrezzature, non più per farsi gli abiti da sé, ma per vendere il prodotto ai mercanti di passaggio o persino alle fiere.
Un grande ostacolo era costituito dalle vie di comunicazione e dal sistema dei trasporti. Gli scambi non erano agevoli se non via d'acqua, ed il cavallo era ancora sostanzialmente il grande signore ed insieme l'umile strumento del trasporto. Ma tenere cavalli era costoso, persino più che oggidì, e richiedeva molto terreno. In larga parte si faceva ricorso all'uso di altri animali, quali i buoi per i lavori agricoli ed i muli per il trasporto di merci. Nella stragrande maggioranza dei casi l'energia "animale" era l'unica forma di energia disponibile oltre quella umana. Non dappertutto si macinava il grano con il mulino a vento o con quello spinto dall'energia idrica. In molte zone dell'Europa orientale erano gli animali da soma a fare il lavoro, ed a volte perfino gli uomini facevano girare la pesante ruota delle macine..
Tuttavia, non solo in Olanda, si era sviluppata la tecnica dei mulini spinti dal vento (una tecnica che forse veniva dalla Cina, o come ipotizza Braudel, dagli altopiani iranici), e solo dove esistevano corsi d'acqua si era fatto un modesto ricorso all'energia idrica. Ma in nessuna parte d'Europa, esclusa l'Inghilterra, si era arrivati a concepire macchine come la water-frame in grado di utilizzare l'energia idrica per lavorare il cotone. Non va dimenticato però che in Italia, ingegnosi ed ignoti artigiani toscani erano arrivati a concepire macchine ad energia idraulica per lavorare la seta.

Generalmente, i salari europei erano più bassi, dal 25% fino anche al 50% in meno, di quelli inglesi ma, ovviamente, era anche più basso il costo della vita e quindi si rischia di introdurre una distorsione visiva quando si afferma che l'industrializzazione portò automaticamente più benessere. Indubbiamente portò ad un aumento dei consumi, soprattutto da parte delle classi medie.
Il quadro delle società europee del tempo era dominato dalla miseria, dall'analfabetismo, dall'ignoranza e dalla superstizione, dalla durata breve della vita e dagli invecchiamenti precoci. E' semplicemente una favola dei nostri giorni quella della vita sana "all'aria aperta" dei nostri nonni e dei bisnonni. I contadini dell'Europa centrale soffrivano il freddo e quelli delle zone meridionali soffrivano anche il caldo, l'afa e le malattie tipiche delle zone malsane. A volte pativano la fame; sovente erano vittime delle angherie dei "signori" e delle truffe dei mercanti.
Indubbiamente, la diminuzione del tasso di mortalità ebbe un ruolo importante nello sviluppo demografico, ma io sarei propenso a considerare come fattore decisivo l'incremento delle nascite. I poveri fanno figli, si sa, con impressionante determinazione. Una situazione di affitti bassi e possibilità di convivenza incentivava matrimoni precoci e questo incentivava il ben noto meccanismo dell'autoalimentazione della povertà, che non è un ragionamento solo malthusiano.
Pollard scrive: «Una volta innestato, il processo si autoalimentava perché era l'aumento stesso della popolazione che contribuiva a mantenere i salari a livello di sussistenza, se non addirittura al di sotto, e ciò, a sua volta, portava ad aumentare ancora di più il numero dei componenti della famiglia. Inoltre, è necessario considerare l'incremento demografico in relazione alla terra disponibile. Sia nelle regioni originariamente agricole che in quelle marginali, la quantità assoluta di terra per famiglia diminuiva secondo l'aumento in valore assoluto della popolazione. La possibilità di aggiustamento offerte dai propri terreni o dal lavoro per conto di altri diminuiva costantemente. I salari industriali e le rendite, inzialmente calcolati sulla base di una doppia entrata, divennero perciò insufficienti e la reazione all'interno del sistema non poteva che essere quella di produrre ancora più bambini che guadagnassero, con la conseguenza di rendere il mercato del lavoro sempre più sfavorevole al lavoratore.» (Pollard,cit)

Con ciò, attenzione, non si deve finire col negare la crescita civile e sociale avvenuta nel Settecento. Il secolo si concluse con due rivoluzioni politiche, una più importante dell'altra, quella americana e quella francese. Direttamente ed indirettamente esse furono l'espressione di un moto profondo che non riguardava solo gli intellettuali, o gli aristocratici più aperti, e neppure solo la nascente borghesia. Gli uomini nel loro insieme, mediamente, erano soggettivamente più determinati a rendere migliore la loro vita, il loro lavoro, il loro grado di istruzione e conoscenza. Si leggevano libri, si stampavano gazzette, si formavano circoli di cultura umanistica e scientifica ben al di là delle Accademie reali. Un uomo come il filosofo Immanuel Kant, nato in miseria nell'umile e numerosa famiglia di un sellaio, riuscì a raggiungere i più alti livelli di inserimento sociale e culturale. Godette di ampia libertà e potè svolgere le sue battaglie contro l'oscurantismo entro limiti inimmaginabili fino a poco tempo prima, in un paese come la Prussia che certo non brillava per la libertà di pensiero. Non fu un caso isolato; semmai va interpretato come un segno che i tempi stavano cambiando.

Uno sguardo all'Italia
L'Italia, si sa, è è un paese vario e multiforme, diseguale, asimmetrico, con storie e microstorie molto diverse da raccontare. Regioni, città, paesi hanno ognuno avuto vicende particolarissime, dominatori diversi ed anche fiere ed orgogliose autonomie, come quelle delle repubbliche marinare. Miserie e prosperità si sono alternate ed accompagnate.
Banchieri veneziani e genovesi sono stati signori in Europa. Dalla metà del Cinquecento al 1630 i banchieri di Genova furono i grandi finanziatori del tesoro spagnolo. Per le loro mani passarono cambiali e lettere di sconto per valori incommensurabili. Cipolla parla di 40 o 50 milioni di scudi d'oro, ovvero la somma delle entrate fiscali di Spagna, Francia e Inghilterra.
Confrontare questa immane ricchezza con la miseria di altre realtà italiane ed europee consente di comprendere come la definizione classica che si da dell'Italia, quella di paese povero ed arretrato, strida con una realtà sempre ricchissima di potenzialità, in parte espresse ed in gran parte inespresse. Come si fa a dire, ad esempio, che non c'erano capitali, se Genova e Venezia insieme potevano portare alla bancarotta i più forti reami d'Europa? Eppure, i capitali mancavano proprio a causa delle speculazioni finanziarie. Investiti nei titoli di stato delle potenze straniere, essi non potevano finanziare attività produttive in Italia, se non in modo marginale. Probabilmente, la stessa situazione si riproporrà quando sarà la City londinese ad attirarare i cosiddetti investitori verso la fine del Seicento. Il ruolo assunto dai genovesi a cavallo tra Cinquecento e Seicento per conto del tesoro spagnolo, verrà ora recitato dalla Banca d'Inghilterra, dai gioiellieri di Lombard Street e dai finanzieri quaccheri ed ebrei della City.
Un altro punto da considerare, secondo studiosi come Castronovo, è che l'agricoltura italiana non fu mai in grado di produrre l'accumulazione originaria necessaria agli investimenti nelle manifatture, così come il protezionismo doganale non fu mai impiegato per "proteggere" le imprese e le produzioni locali, ma solo per estorcere altro denaro ai contribuenti nella forma della tassazione indiretta. Tutto ciò è indubbiamente vero, ma non dobbiamo credere che l'agricoltura in sé abbia prodotto grandi capitali. Essendo dipendente da cicli meteorologici, poteva anche capitare un'annata di carestia che mandava in fumo tutto quanto accumulato nei periodi di vacche grasse. Semmai, dovremmo guardare a chi commerciava i prodotti agricoli per trovare grandi fortune. Erano i capitali di origine mercantile la chiave di volta di quelli finanziari. Ed erano i capitali finanziari la chiave di volta per l'investimento nelle attività manifatturiere. In alcuni casi essi giunsero ad essere investiti, per esempio nel biellese. Qui sorse una tradizione di attività nel settore della lana che è viva ancor oggi. Anche a Prato e nell'entroterra veneziano, in particolare nel vicentino, avvenne la stessa cosa. Ma in generale, al di sotto delle apparenze più eclatanti, si può dire che proprio nel Settecento si verificò una generale ripresa.

Il meridione d'Italia
Un'idea della reale situazione italiana la si può ricavare muovendo dal Sud anziché dal Nord. L'area storicamente più arretrata del paese presentava luci ed ombre. Come osserva Piero Bevilacqua: «Contrariamente a quanto si è spesso pensato, anche nelle campagne il lavoro agricolo non costituiva l'unica occupazione dei contadini. Soprattutto le donne era quotidianamente impegnate in lavori di filatura della lana o del cotone o nell'attività di tessitura a mano. E in genere una diffusa "pluriattività" dominava e caratterizzava la vita lavorativa di uomini e donne nelle zone rurali.
Il lavoro di manifattura non era, tuttavia, solo e semplicemente l'appendice delle attività agricole. Nel Mezzogiorno esso era presente e diffuso tanto nei piccoli borghi interni che nelle città, e a livello di industria domestica si articolava sostanzialmente in due settori: quello del lavoro casalingo eseguito prevalentemente su materia prima del territorio circostante (lino, seta, canapa, lana, cotone) e destinato al consumo interno o al piccolo commercio, e l'altro, quello della protoindustria più strettamente dipendente dalle figure dei mercanti. Questi ultimi, secondo un modello assai diffuso nell'Europa preindustriale, provvedevano a organizzare la produzione all'interno delle case o in appositi locali per ritirarne il prodotto finito e metterlo poi direttamente in commercio.» (Bevilacqua, cit)
La distribuzione geografica delle attività seguiva una logica. La manifattura della lana era forte in Abruzzo, dove era anche forte la pastorizia di transumanza collegata alla Puglia. L'Aquila è definita "centro industriale di prim'ordine"; ma anche nei territori di Chieti e Teramo la produzione era florida. Per estensione, anche i centri di Arpino e Piedimonte, i casali di Salerno e San Severino, la città di Avellino, alcune località della provincia di Cosenza erano fortemente coinvolte nella produzione. Il porto di Bari serviva da base ad una politica commerciale più "aggressiva" da parte dei mercanti meridionali intenzionati a vendere sui mercati dell'Europa centrale, orientale e balcanica. Quello di Napoli era più "passivo"; riceveva merci in gran quantità, sia dall'interno dell'Italia meridionale che dall'estero, ma non "spingeva" come quello barese alla conquista di mercati per l'esportazione, perché erano soprattutto i mercanti di Genova e Venezia che scendevano a Napoli per comprare, vendere, trasportare.
Tra i prodotti agricoli, ovviamente, il grano era di gran lunga il bene più esportato, ma sia l'olio che il vino, che gli agrumi, che lo zucchero di canna, mandorle e nocciole, venivano facilmente venduti, persino sui mercati inglesi. In particolare, la vendita dell'olio vegetale conobbe un grande incremento quando venne usato non solo per condire l'insalata ma anche per uso industriale.
Nella cintura del napoletano era prospera la conceria e l'industria più nominata era quella dei guanti. Purtroppo non ho trovato cifre attendibili a riguardo, ma è possibile che questo tipo di produzione desse lavoro a tempo pieno e part time ad alcune migliaia di occupati se, nel 1843, si parlerà di un'esportazione di 978.000 paia.
Anche il cotone, coltivato un po' dappertutto nelle regioni meridionali, veniva poi lavorato sul posto, in particolare nella terra d'Otranto, in Sicilia, a Napoli e a Cava.
Meglio ancora stava la produzione della seta, strettamente dipendente dalla bachicoltura, anche se, verso il finire del Settecento essa conobbe un periodo di crisi dovuto al crescere della concorrenza italiana centrale e settentrionale, in particolare quella toscana, piemontese e lombarda. Ma i produttori delle regioni del nord continuavano largamente a servirsi della materia prima prodotta al sud, ed occorre prestare molta attenzione a questo dato: nel 1784 nella sola Catanzaro erano in funzione 272 telai mentre l'intero comparto della seta impiegava circa 6.000 addetti. Si tratta di una cifra da capogiro, specie se la confrontiamo con quelle nominate nei libri di Pollard o di Landes. Per questi autori è rilevante che il lanificio Calw in Germania, nel 1787, impiegasse 168 operai interni allo stabilimento, 933 tessitori a domicilio e oltre 4.000 filatori.
Anche solo da queste scarse informazioni, si può dedurre un mondo di produzioni molto più ricco di quanto siamo soliti fare parlando del Mezzogiorno come una terra agricola, o di poveri pescatori.
Ciò che mancherà al Mezzogiorno, e già lo si può intuire da quanto si è detto sul porto di Napoli, sarà un ceto imprenditoriale capace di attirare i capitali nell'innovazione tecnologica e nell'apertura di vere e proprie industrie. Avrà poca importanza che il primo piroscafo a vapore ad attraversare il Mediterraneo sarà il Ferdinando I e partirà da Napoli per arrivare a Marsiglia nel 1818. Sarà una nave di fabbricazione francese. Analogamente, avrà ancora pochissima importanza che la prima tratta ferroviaria italiana collegherà Napoli a Portici nel 1839. Sarà il frutto di un gesto volto a conquistare prestigio e soddisfare la moda, non già un investimento per lo sviluppo.
Tutto ciò può servire a comprendere che anche nel Mezzogiorno italiano c'era un potenziale produttivo e finanziario, nonostante decenni di dominazione straniera, di malgoverno, di vessazioni. Gli storici, generalmente, spiegano il mancato decollo con la mancanza di un ceto imprenditoriale all'altezza della situazione. E, per ora, non resta che accontentarsi di questa considerazione, salvo ritornare sul problema in un'epoca più matura.

Il settentrione italiano
Il panorama del Nord del paese non era poi così differente, salvo per il fatto che l'agricoltura aveva trovato, forse, una cura maggiore per lo sviluppo di contratti di affitto che, a differenza della mezzadria, favorivano il formarsi di un atteggiamento imprenditoriale. Nel Nord le corporazioni erano più forti che al Sud ed offrivano quindi una maggiore resistenza all'espandersi del lavoro a domicilio nelle zone rurali. In alcuni casi è provato che la lavorazione del cotone, che cominciò a diffondersi nel circondario di Varese e poi nell'altopiano fra Gallarate, Busto Arsizio e Legnano, per proseguire nella Bassa Brianza fino alle valli bergamasche, iniziò ricorrendo a materiali contrabbandati dalla Svizzera e dalla Francia. E sempre dalla Francia veniva la materia grezza impiegata a Chieri, nella Val Pellice, nel Basso Alessandrino fino al confine con la Liguria, altro importante polo della lavorazione del cotone. Nel Novarese, fino al Lago Maggiore, crebbe un'attività legata a doppio filo con i mercanti del Milanese. Castronovo annota che, a differenza del settore serico, nel comparto cotoniero ebbero un ruolo più pronunciato capitali di origine mercantile, attratti dalle possibilità di più forti ed immediati guadagni.
La manifattura laniera era cresciuta soprattutto nel Biellese e nel Vicentino, trainata da famiglie di antichissima tradizione artigianale come i Sella a Biella. La lana, come al solito più tradizionalista, crebbe anche col lavoro a domicilio, ma riuscì a mantenere concentrazioni manifatturiere di un certo spessore nei momenti di crisi più drammatica.

La manifattura della seta conobbe diversi poli di sviluppo in Toscana, in Lombardia, nel Piemonte ma ebbe un vero e proprio epicentro nella città di Bologna, dove furono per un certo periodo al lavoro oltre 20.000 maestranze sparse nella campagna emiliana.
A rovinare il quadro, non eccezionale, ma neppure così misero come spesso si dice, concorreva tuttavia un reale fattore di arretratezza. L'insieme delle produzioni tessili non riusciva che in minima parte a concretizzarsi in prodotti finiti, anche per la resistenza delle corporazioni. Il putting-out system italico si fermava ai semilavorati per l'esportazione. I manufatti grezzi poi, valicavano le Alpi o prendevano la via del mare, e venivano trasformati soprattutto nelle manifatture francesi di Lione, o ancora più a nord, nella regione Sambre Meuse.
In tale situazione sarebbero stati opportuni investimenti per migliorare le vie di comunicazione interne. Ma le difficoltà erano molte e non solo di natura tecnica o finanziaria.

Storia controversa della strada da Modena a Pistoia
Fare strade non era così semplice come dirlo. Occorrevano non solo capitali e uomini da impiegare, ma bisognava anche battere resistenze politiche e culturali. Come racconta Franco Venturi a proposito della strada detta della Garfagnana, da Modena a Pistoia, progettata a metà del Settecento dall'abate Domenico Vandelli: «La strada, secondo l'uso dell'epoca, avrebbe dovuto seguire il crinale dei monti, evitando un numero eccessivo di opere e di passaggi difficili. Il progetto danneggiva commercialmente la Toscana. Attraverso la Garfagnana sarebbe passata almeno una parte del traffico (soprattutto i sali provenienti dalla Sicilia) che prima transitava per Livorno e Firenze per passare poi al di là degli Appennini. Anche per rispondere a questa minaccia il Granducato di Toscana si adoperava allora a rendere sempre meglio praticabile la strada che univa Firenze a Bologna attraverso la Futa... [...] ... Contrari invece alla strada della Garfagnana erano naturalmente, oltre i toscani, anche i governanti della Lombardia austriaca. Cristiani, ancora una volta, temeva che essa potesse costituire una via alle invasioni straniere. Soltanto con gli anni sessanta questo intricato viluppo di progetti e di approvazioni cominciò a sciogliersi: nel 1766 ebbe inizio la costruzione della strada tra Modena e Pistoia per il valico dell'Abetone, la strada cioè che dagli ingegneri che la costruirono fu detta Giardini-Ximenes. » (Franco Venturi, cit.)
Se allora sembrava ragionevole impedire la costruzione di una via di comunicazione per evitare di perdere le entrate sui dazi delle merci, che dovevano attraccare a Livorno e proseguire via terra per Firenze, non c'è da stupirsi che analoghe resistenze si incontrassero in ogni parte d'Europa. Il Granduca di Toscana Leopoldo è giustamente considerato come il più illuminato ed illuminista dei sovrani europei dell'epoca; come ragionavano i meno illuminati?

L'esperimento francese
In Francia i governi fecero molto più di quelli italiani per modernizzare trasporti e comunicazioni, con esiti però molto discussi. Nel capitolo scorso abbiamo parlato di Colbert. C'era una tradizione francese consolidata di intervento statale, di politica economica in senso moderno, che nel corso del Settecento si concentrò nella costruzione di un ampia rete stradale, sicuramente la più avanzata d'Europa. Si cominciò a costruire dal 1730, ma solo verso la fine del secolo il sistema viario raggiunse la lunghezza di 40.000 km di strade larghe dai 12 ai 20 metri, oltre 4000 dei quali erano anche lastricati.
Secondo molti storici contemporanei, la spesa sarebbe stata spropositata in confronto ai benefici prodotti. Si badi che gli stessi storici sono poi quelli che lamentano
i ritardi per le difficoltà di comunicazioni ed il costo dei trasporti!
Comunque sia, il risultato fu tanto memorabile dal punto di vista tecnico quanto poco sincronizzato con le reali esigenze dell'economia francese ed europea di quel periodo. Il progetto era stato eseguito sotto la direzione del Corps des Ingéniers des Ponts et Chaussées, istituito nel 1716 e sicuramente istituzione d'avanguardia. Nel 1747 l'istituzione aprì una scuola tecnica allora unica in Europa. Il commento di Sydney Pollard alla vicenda è un classico dello storico insoddisfatto: «Durante la confusione e la trascuratezza degli anni della guerra, esse [le strade, nda] caddero rapidamente in grave stato di rovina. Si può dubitare del fatto che questo genere di spesa avesse un effetto positivo sull'industrializzazione. Da un lato certamente permise di addestrare un eccellente gruppo di tecnici specializzati che in seguito sarebbero stati attivi in lavori più utili, e ci fu un certo beneficio là dove le necessità economiche e strategiche coincidevano.» (Pollard, cit.)
In realtà, verrebbe da chiedersi fino a che punto fino a che punto la mancanza di vie di comunicazione in altre parti d'Europa incise negativamente nello sviluppo dei traffici. Oppure, fino a che punto l'esigenza di alcuni mercanti fosse una necessità generale. La risposta é forse più complessa di quanto appaia ad un ragioniere abituato a far quadrare bilanci al massimo annuali. Il progetto francese costituiva l'espressione di un'attitudine alla programmazione, ad un'investire nel futuro che andrebbe apprezzata, indipendentemente dal rendimento immediato. Essa costituì occasione di lavoro e di sviluppo e solo l'avverso corso degli avvenimenti portò alle negative considerazioni tanto comuni tra gli storici.
Il commento negativo si basa spesso su un'impressione di viaggio di Arthur Young, il quale aveva osservato che le strade erano vuote. Non esistevano sul percorso, a differenza dell'Inghilterra, punti di ristoro e luoghi dove alloggiare. Mancavano cavalli di ricambio. In sostanza, non c'erano che pochi viaggiatori e pochissimi turisti. Ma questa valutazione non tiene conto del fatto che quelle strade furono comunque utilizzate dai mercanti e che il volume complessivo delle merci trasportate crebbe sensibilmente proprio nel Settecento.

Il putting-out system secondo Pollard
Secondo Pollard, il putting-out system europeo si diffuse in un primo momento nelle zone rurali dove la terra era più avara o dove le tecniche di conduzione più arretrate, e poi si estese anche alle zone più fertili e meglio coltivate. In altre parole: dove l'agricoltura distribuiva più ricchezza, non esistevano particolari incentivi a procurarsi un secondo lavoro, od un altro lavoro.
Ciò porta Pollard a privilegiare uno schema di sviluppo per aree e distretti contigui e non per situazioni nazionali. E questo anche circa le risorse finanziarie, in un primo tempo davvero ristrette all'ambito locale, mentre il tipo di lavorazione, ad eccezione parziale del cotone, si basava anch'esso sulla disponibilità locale di materia prima.
Questo modello di interpretazione pare logico ed è anche sorretto da una tale messe di dati da renderlo particolarmente persuasivo.
«Il grosso delle industrie rurali europee - annota Pollard - si insediò su suolo povero, o in zone non facilmente accessibili.
In parte c'era un semplice motivo naturale: il legname per il carbone usato in vetreria o per la produzione di calce o in metallurgia, per le cortecce usate nelle concerie o come materiale per mobili, giocattoli o strumenti musicali, era un prodotto alternativo al suolo che di solito si trovava su alture inadatte alle colture arative. Anche le pecore, che fornivano la materia prima per una delle principali industrie tessili, si trovavano di solito nei pascoli degli altipiani che non avevano un uso alternativo.» (Pollard, cit.)
Altre condizioni erano la vicinanza ai torrenti per l'energia idrica e la disponibilità di di lavoro a buon mercato.

Ma come ogni modello, anche quello di Pollard ha le sue eccezioni, che risultano anche significative perché spesso la miglior produzione del putting-out system si ebbe in zone agricole ricche, oppure perché in zone arretrate esso non decollò affatto.

L'Olanda
In Olanda, ad esempio, le condizioni favorevoli erano determinate da un modello di proprietà e di affitto dei terreni già organizzato secondo criteri capitalistici sulla maggior parte del territorio. Inoltre, parte del consumo interno dei prodotti agricoli era coperto da cereali importati dal Baltico. Ciò consentiva di tenere basso il numero degli occupati in agricoltura e quindi di rendere disponibile forza-lavoro per la manifattura. Ma consentiva anche all'agricoltura di riassorbire eventuali eccedenze di forza-lavoro determinate da congiunture sfavorevoli. Esisteva un sistema di pesi e contrappesi che rendeva agevole la mobilità del lavoro, sia in termini stagionali che in termini di opportunità generale. E questo perché il sistema offriva diverse possibilità di impiego, compreso l'imbarco o l'emigrazione nelle colonie e nelle stazioni commerciali, od anche l'ingaggio all'estero come tecnico specializzato. Gli olandesi furono per molto tempo maestri di applicazioni tecniche nei campi più svariati, dalla costruzione di mulini e di dighe, alle opere di bonifica, dalla conduzione di società finaziarie alla cantieristica navale. E per questo furono richiesti. Colbert li aveva fatti arrivare in Francia, ad esempio.
L'Olanda, come l'Italia, aveva inoltre un ruolo importante nella produzione e nel commercio di beni di lusso per l'elite europea, ma a differenza dell'Italia, qui le resistenze corporative ebbero un peso minore.
Fu tra i primi paesi ad avere una Borsa. Essa venne inaugurata ad Amesterdam nel 1530, ma era crollata nel 1637, alcuni dicono, senza ironia, per la maniacale passione degli olandesi per i tulipani!
Ciò che rendeva moderno il paese era l'agricoltura. «Nelle terre bonificate i contadini erano frequentemente locatari di società urbane che avevano finanziato i lavori di bonifica. Quasi dappertutto i contratti d'affitto olandesi erano favorevoli alle migliorie apportate dagli affittuari. L'area di Gronigen aveva un particolare tipo di contratto, noto come Beklemrecht, in cui l'affitto veniva fissato in via permanente, così che il locatario godeva di assoluta sicurezza e poteva disporre dell'affittanza nel modo da lui ritenuto più opportuno, salvo il suddividerla o il diminuire il valore del terreno. Per contro, sarebbe stato pienamente ricompensato per ogni miglioria apportata.» (Pollard, cit)
Questa situazione, tenendo conto che l'Olanda era un paese ad alta densità di capitale finanziario, consentì uno sviluppo più vario ed equlibrato. Le vecchie manifatture urbane non furono costrette a chiudere, ma sopravvissero anche all'ondata del lavoro decentrato; e questo, a sua volta, non fu immediatamente reso marginale dalla industrializzazione vera e propria.
Eppure, a ragione, Landes parla di una crisi olandese in parte determinata dalla perdita del confronto con l'Inghilterra nel controllo del traffico con l'estremo oriente, in parte decisa dalla riottosità dei mercanti ad investire in attività manifatturiere. Preferivano i mercati inglese e francese, l'India orientale, l'Indonesia e il Pacifico. Un motivo di questa riottosità era sicuramente da ricercarsi in quello cheAdam Smith aveva valutato come un segno positivo: l'Olanda? Un paese più ricco dell'Inghilterra, dove i salari sono più alti.
Sì; ma dove il costo del lavoro è più alto, conviene investire, posto che non vi siano almeno consistenti vantaggi comparati, metti materie prime, credito a tassi inferiori, infrastrutture? Cosa mancava? In primo luogo le materie prime. Solo pochi kilometri più a sud e ad occidente, ferro e carbone davano una ricchezza incomparabile agli abitanti del Belgio, della Francia, della Germania, ma le Province Unite erano tagliate fuori.
Landes lamenta che: «La produzione di tessuti fini di Leida era precipitata da 25.000 rotoli nel 1700 a 8.000 a fine anni Trenta del Settecento; e quella dei cammellotti da 37.000 pezzi nel 1700 a 12.600 nel 1750 e a 3600 nel 1770. Negli anni Trenta e Quaranta del Settecento l'attività di imbianchimento del lino di Haarlem subì una forte contrazione. Il famoso complesso industriale sullo Zaan, azionato dai mulini a vento (legname, vele, corde, navi) ebbe un crollo verticale a metà Settecento, lasciando molti dei mulini fermi e silenti. La stampa su cotone e la lavorazione del tabacco ad Amsterdam andavano languendo già prima di metà secolo.» (Landes II, cit.)
Le cause di questa flessione, assai meno preoccupante che altrove, tuttavia, erano ovviamente da ricercarsi nella concorrenza, cioè nella produzione domestica cresciuta fortissima nelle aree limitrofe, nelle Fiandre, in Slesia, nella Renania tedesca, in Alsazia, in Sassonia. Era qui che i salari erano più bassi.

La Francia ed il Belgio
La Francia presentava una situazione agricola differenziata, tanto che Goubert, in uno studio del '74, arrivò ad affermare che "il contadino francese non è mai esistito." Esistevano, cioè, contadini guasconi, normanni, bretoni, parigini, della Loira, della Linguadoca, del Delfinato, della Savoia e così via. Ognuno coi suoi modelli ed i suoi fardelli.
Tra questi, colpisce l'estensione che aveva ancora la mezzadria, il sistema più arretrato e sconveniente per quello che potremmo chiamare il locatario ed anche per la produzione agricola in generale. Chiamata in generale métayage, ed al sud anche mégerie, o sistema mediterraneo, la mezzadria era diffusa anche in Italia, specie quella centrale e meridionale, ed in Spagna. Il sistema comportava una divisione dei rischi relativa ed una certezza pessimistica pressoché assoluta: anche in caso di cattivi raccolti, il locatario sarebbe stato costretto a pagare il pattuito, cioè la metà del prodotto, ed insieme avrebbe dovuto tener fede all'obbligo di mantenere un certo numero di salariati adulti.
Pollard condivide il giudizio negativo espresso a suo tempo da Adam Smith: «La mezzadria generò tenute piccole e inefficienti ed una classe contadina miserabile. Nessuna delle aree di mezzadria ha registrato un decollo industriale, ed in Francia la si ritrova nelle zone più povere e più arretrate.» Il motivo è presto detto: il mezzadro non accumula capitali. Il proprietario non ha alcun interesse ad investire i suoi profitti in settori ad alto rischio, quando può tranquillamente condurre un alto tenore di vita da signorotto.
Ma questo vicenda della mezzadria, sconvolge un po' le carte del mazzo di Pollard. Anch'esso costituisce una significativa eccezione alla sua teoria.
Le Fiandre, sia a nord che a sud del confine contenevano piccole fattorie a coltura intensiva. «La tradizione fiamminga non prevedeva la suddivisione della proprietà agricola alla morte del capofamiglia, cosicché in mancanza di centri urbani, la popolazione in aumento si rivolgeva all'industria rurale, costituita per la maggior parte da industrie tessili basate sulla lavorazione del lino - un tipico paesaggio "protoindustriale". Quando tale industria entrò in declino, i contadini fiamminghi divennero tra i più poveri e meno sviluppati dell'Europa occidentale.» (Pollard, cit.)

Nella zona di Parigi si lavorava alacremente in funzione del rifornimento della metropoli. Le proprietà erano in genere più grandi e si erano affermate figure chiamate, nel gergo, il labourieur (il contadino possessore di animali da fatica), il manouvrier, il fermier, o fattore di una grande tenuta, pressapoco l'equivalente di un affittuario capitalista inglese.
«Queste aree, assieme alla parte nord-occidentale e all'Alsazia-Lorena, comprendevano non solo molti dei centri industriali più fiorenti della Francia, ma anche le tenute con il più elevato rendimento per ettaro, punti di partenza di quella rivoluzione agricola che si trasmise ad altre regioni solo gradualmente e spesso tardivamente.» (Pollard, cit.)
Nel rimanente della Francia del nord ed anche in alcune zone centrali e meridionali, il contadino tipico era il censier (dalla parola cens, canoni). Giuridicamente, come affittuario, egli era il proprietario di una concessione, con diritto di vendere, affittare e persino donare la terra, previo autorizzazzione del vero proprietario che generalmente era un aristocratico.
Questo modello di rapporto di proprietà ebbe effetti positivi perché invogliava il censier a sfruttare al meglio i potenziali.
«Fu questo tipo di contadino che maggiormente ebbe a guadagnare dalla Rivoluzione, perché diventò l'effettivo proprietario del suo terreno, partecipando inoltre ai diritti sulle terre comuni che, nonostante l'azione di promozione da parte del governo, vennero distribuite con estrema difficoltà sull'arco di più di cento anni.» (Pollard, cit.)

In questo quadro agricolo estremamente vario, l'ondata del putting-out system fu particolarmente forte nell'area delle Fiandre con il lino e nella zona di Lione con la seta, in Piccardia e Normandia con lino e lana. Un centro importante per la lana era Verviers, ma, in generale, la zona a più alta densità di produzione decentrata a domicilio fu l'area della Sambre-Meuse.
L'arrivo della jenny inventata da Hargraves in Inghilterra rivoluzionò non poco i metodi di produzione, introducendo una concorrenza selettiva all'interno dello stesso mercato francese. Secondo una stima ufficiale, nel 1790 le "giannette" operanti in Francia erano 900 o, come dice Landes, solo 900, per evidenziare la lentezza dello sviluppo francese. Il quale, tuttavia, proprio dal già citato trattato di Eden aveva ricevuto una frustata salutare.
L'arrivo di William Cockerill in Belgio, nel 1798, fu determinante per passare ad una fase superiore. Questi sapeva tutto sulla tecnologia britannica più avanzata nel ramo tessile, e non solo. Cominciò col produrre macchine per i lanifici di Verviers - se n'è parlato nel capitolo precedente - e poi prosperò anche in altri campi.
Nel 1800, il mercante Bauwens contrabbandò un filatoio intermittente per il cotone, completo di caldaia a vapore, ed aprì fabbriche vicino a Parigi e più tardi in Belgio.
Ma lo sviluppo non riguardava solo il settore tessile. Già nel lontano 1740, nella sola area di Liegi, tra campagna e città esistevano 15.000 fabbricanti di chiodi.
A Liegi si ebbe inoltre uno sviluppo delle fabbriche di armi. Nel solo 1730 vennero prodotte oltre 240.000 armi da fuoco: pistole, moschetti, cannoni.

Ferro e carbone francese, ma non acciaio
Si facevano chiodi e fucili, ergo si usava ferro. Il ferro con un'alta percentuale di carbonio è ghisa dura, che si spezza sotto i colpi. Il ferro a bassa percentuale di carbonio è dolce e malleabile: si piega facilmente come un chiodo. Solo l'acciaio, che contiene una percentuale non alta di carbonio, è flessibile ma non al punto da piegarsi, ed è duro, ma non al punto da spezzarsi. Mantiene i fori, la linea della filettatura e la tagliente sottilezza della lama.
Fin dall'antichità i fabbri riuscirono a produrre un tipo di acciaio, alcuni dicono casualmente, ovviamente usando carbone in forni ad altissima temperatura.
Nell'Europa moderna il centro propulsivo della produzione fu per un lungo periodo Norimberga, a partire già dal XVI secolo. Altrove i fabbri non riuscirono ad andare molto oltre fino a quando Benjamin Huntsman, dai e dai, non riuscì ad azzeccare la formula. (vedi capitolo 5)
La situazione franco-belga era potenzialmente propizia data la ricchezza del sottosuolo. Già all'inizio del Settecento i belgi installarano una pompa di tipo Newcomen nella parte orientale del bacino carbonifero, quindi molto prima che nella maggior parte delle miniere inglesi. Ad essa seguirono altre installazioni e va osservato che le macchine Newcomen sopravvissero fin oltre la metà dell'Ottocento perché aveva poca importanza l'alto consumo di carbone.
Tuttavia, già nel 1785 era apparsa a Jemappes la prima fire-engine di Watt, in grado di aumentare considerevolmente la profondità media dei pozzi, liberando le gallerie dall'acqua, ma non, purtroppo, dal rischio di inondazioni.
Però la produzione metallurgica del Belgio e della Francia, risentì per tutto il Settecento del fallimento francese di produrre acciaio di qualità.
Il ritardo poteva essere dovuto alla differente qualità del ferro. Gli inglesi disponevano di ferro svedese e russo, i francesi no. Forse erano convinti che il ferro fosse eguale dappertutto. Provarono a produrre acciaio per tutto il Settecento con esiti fallimentari. Ed il governo intervenne con cospicui finanziamenti, ma non accadde nulla di significativo. Se volevi acciaio per le lame dovevi acquistarlo dall'Inghilterra a prezzi esorbitanti.
Comunque sia, il governo francese si diede da fare per coprire il divario con l'Inghilterra quantomeno nella produzione di ferro a coke, ed invitò William Wilkinson, mastro ferraio di Bersham, come consulente.
La storia comincia praticamente qui. Nel 1785 si trovò un sito adatto alla costruzione di un forno - a Le Creusot - e, seguendo le istruzioni del magnano inglese, Ignace de Wendel produsse il primo ferro a coke del continente. Scrive Landes: «Per il momento tuttavia egli non ebbe imitatori; e nessuno, per un'altra generazione cercò di introdurre i procedimenti di pudellaggio e laminatura di Cort. La metallurgia francese cresceva di dimensioni, ma tecnicamente non cambiava molto. Le Creusot fu anche il primo luogo di Francia in cui si fece uso della macchina a vapore rotativa: una, nel 1784, per azionare i magli della forgia, oltre a quattro macchine di tipo Watt per il pompaggio delle miniere e la ventilazione dei forni.» (Landes, cit.)

Eppure, finalmente, macchine francesi...
Un concreto successo dell'industria francese era però stato raggiunto nei pressi di Parigi, a Chaillot, dove i fratelli Perrier cominciarono a costruire pompes à feu fin dal biennio 1780-81. Era il segnale che anche la tecnologia d'oltralpe si era messa, sbuffando, in movimento. E quando si cominciano a produrre in loco macchine per fare macchine è perché lo sviluppo ha fatto un balzo in avanti. I produttori sono finalmente in possesso del know how.

La Spagna
La Spagna meriterebbe la prosecuzione del discorso avviato in apertura. L'economia interna non si era ripresa dalla crisi attraversata nel Seicento, nonostante dalle colonie continuassero ad arrivare argento ed oro. La classe dominante viveva di rendita e non vi era alcuna attenzione ai problemi concreti dell'agricoltura e delle manifatture. I capitali stagnavano, oppure venivano impiegati per comprare dall'estero tutto quel di più che serviva alla bella vita dei signori.
In sostanza non si facevano investimenti.
Ma la storia non finiva qui. Proseguì oltremare in alcuni dei più importanti paesi del Centro e del Sudamerica: Messico, Argentina, Cile, Uruguay e così via. Ancor oggi questi paesi scontano una brutta eredità e tutti i ritardi maturati nel Settecento dalla madrepatria.
Ciò nonostante, poiché al di sotto della linea della visibilità (quella delle vetrine un cui si espone la merce) esiste sempre una linea della necessità materiale, non dobbiamo pensare a spagnoli oziosi e rassegnati.
Come in ogni altro paese, anche in Spagna la gente lavorava, e per guadagnare, non in funzione della sussistenza pura e semplice. Non si raggiunsero risultati eclatanti, ma alla fine del Settecento i banchieri del San Carlos di Barcellona avevano più di un motivo per fregarsi le mani. I depositi erano in aumento, le linee di credito funzionavano, i debitori rimmborsavano puntualmente le rate in scadenza. Ciò testimoniava di una ripresa della produttività generale, soprattutto nelle aree di Valencia e Barcellona.
La zona a più alta produzione a domicilio pare sia stata la Catalogna, ma sembra strano che a ridosso degli allevamenti di pecore non si sia sviluppata un'analoga tendenza in Castiglia nel settore laniero. Barcellona fu l'epicentro della produzione di cotone, Valencia il polo della seta. Secondo Joseph Townsend, che visitò la Spagna negli anni 1780-90, il numero dei telai per la seta a Valencia passò da 800 nel 1718 a 3.195 nel 1769, per salire ancora a 5.000 nel 1787. Valencia beneficiò della crisi del settore serico a Lione nello stesso periodo e fu in grado di produrre a prezzi più bassi anche rispetto all'Italia.
Il polo cotoniero di Barcellona impiegava almeno 8.000 lavoranti a domicilio e raggiunse livelli di produzione considerevoli. Rispetto all'inizio del secolo un dato, riportato da Rudé (Rudé, cit.) testimonia di questa piccola ripresa: oltre la metà delle merci caricate su navi spagnole e dirette in Sud America era di produzione nazionale. All'inizio del Settecento il dato era stato, ovviamente, del tutto diverso.

La Germania, l'Austria, la Svizzera, la Boemia
Nell'insieme il quadro tedesco è difforme e non sembra corretto parlare di "Germania" in un periodo nel quale essa era niente più che un'espressione geografica. Tra le aree poste al di qua ed al di là dell'Elba le differenze erano marcate. Ad est il feudalesimo era oppressivo. Ad ovest i mercati e le cittadine più vivaci, anche se i centri erano notevoli non già perché abitati da un'artigianato operoso, ma perché vivacizzati dalle burocrazie che ogni capitale degli oltre 360 principati e staterelli ospitava. In un certo senso erano le famiglie di queste burocrazie a trainare i consumi.
Tra l'inizio e la fine del Settecento si verificarono molti cambiamenti. Vennero finanziate opere di bonifica e la superficie coltivata si estese. Dopo la carestia del 1771-1772 venne finalmente introdotta la coltivazione della patata nelle contrade del Brandeburgo, ortaggio simbolo dell'alimentazione teutonica. L'incremento della produzione agricola si concentrò in particolare sulle patate e sulla barbabietole, che ormai venivano comunemente usate per fare lo zucchero.
Una specie di banca di investimenti, la Landschaften, cominciò ad operare fin dal 1760 per finanziare lo sviluppo agricolo mediante l'emissione di obbligazioni ipotecarie pubbliche a basso interesse. Ciò mise a disposizione dei già ricchi proprietari terrieri ulteriori risorse, ma li sottrasse al commercio ed all'industria nascente.
Fu soprattutto in Prussia che nacquero in epoca pre-industriale manifatture di stato in cui si veniva praticamente arruolati a forza, nel quadro di un sistema integrato che spostava i lavoratori a seconda dei bisogni: ora lavori agricoli, ora lavori di produzione, ora in marcia cantando inni guerreschi al rullo dei tamburi.
Molte differenze si spiegano con la diversità di legislazione. In Sassonia, per esempio, la legge proibiva la divisione delle terre tra gli eredi. La proprietà si mantenne costante anche di fronte ad una notevole crescita della popolazione e fu l'incremento demografico a spingere in direzione della diffusione del lavoro a domicilio.
Su questo mutamento è importante un'osservazione di Pollard: «Un cambiamento dei prezzi relativi, per esempio, poteva portare ad un mutamento delle opportunità di produzione agricola. Così, nella prima metà del XVIII secolo, quando la diminuzione del prezzo del grano fu più rapida di quella della carne, le aree prima coltivate furono volte all'allevamento del bestiame e poiché questo richiedeva un minor numero di addetti rispetto a quelli necessari per la coltivazione, si creò una consistente quantità di mandopera "libera" costretta a cercare lavoro altrove.» (Pollard, cit.)
Ma trovare lavoro "altrove" non era facile; la reazione al movimento di inoccupati in cerca di lavoro produsse immediatamente comunità aperte all'immigrazione e comunità chiuse, quelle dominate dalle corporazioni.
I disoccupati si concentrarono pertanto nelle cittadine aperte e nelle campagne adiacenti, dando vita a forme preoccupanti di pauperismo.
Ancora Pollard osserva: «Si ebbero a questo proposito casi come quello del Waldviertel austriaco, che impedì la vendita della terra ai non residenti per evitare un aumento della popolazione; o il caso delle città svizzere che, non accettando nuovi venuti neppure se provenivano dalla periferia cittadina o dalle pianure al di fuori delle mura che erano territorialmente di loro competenza, costringevano queste popolazioni a concentrarsi nelle zone montuose, lasciate libere da vincoli perché considerate sino ad allora senza valore e in grado di sostenere solo una popolazione scarsa.» (Pollard,cit.)
Tutto questo spiega perché fu nelle zone meno propizie dal punto di vista agricolo che si sviluppò più rapidamente il putting-out system.
Ci fu un apice dello sviluppo di questo sistema tra il 1770 ed il finire del secolo.
In Svizzera tra il 1780-90 il numero di operai a domicilio era di circa 150.000; 34.000 concentrati nel solo cantone di Glarone.
Nella Slesia, Heymann di Breslau impiegava 71 lavoranti interni allo stabilimento e 1.400 a domicilio per la produzione di cotone. Sodebeck, imprenditore di Reichenau, dava lavoro a 6.000 filatori, 1.200 tosatori e 2.400 tessitori. Wegely aveva alle sue dipendenze 3.466 operai a Berlino e dintorni. Lange impiegava 3.500 addetti e la Lagerhaus reale circa 5.000. Nel 1768 il setificio di von Leyen a Krefeld impiegava 3.000 persone. Sono solo alcuni dei dati disponibili per i territori riguardanti l'attuale Germania.
Anche in Boemia esistevano simili concentrazioni. J.J. Leitenberg aveva alle sue dipendenza oltre 5.000 persone, e J.M. Schmidt circa 1.700. Si calcola (stima Rudé, cit) che nel 1770 l'esercito di filatori boemi a domicilio ammontasse a 200.000 unità.
L'impresa cotoniera più grande dell'Austria era quella di Schwechat, vicino a Vienna. Nel 1785 impiegava 25.181 lavoratori complessivi. Impressionanti anche i dati del lanificio di Linz, acquistato dallo stato nel 1754: all'apice del suo sviluppo, cioè nel 1786, dava lavoro a 34.935 operai, di cui ben 29.000 a domicilio. Tra questi, buona parte viveva in Boemia.
Una distinzione tra lo sviluppo tedesco-occidentale (ed elvetico) e quello interno all'impero asburgico è certamente necessaria, essendo il primo, ad eccezione della Prussia, più legato all'iniziativa privata e spontanea, mentre il secondo era fortemente incentivato dallo stato ed anche dalle stesse aristocrazie, evidentemente preoccupate dalla crescita demografica e dalla necessità di dare occupazione e reddito alle masse.

Anche in Germania ferro e carbone
I centri protoindustriali della Germania occidentale, da Krefeld a Monschau fino al Wuppertal, per i tessili, così come Solingen e Ramscheid per la metallurgia, crebbero senza aiuto statale. La strozzatura principale dello sviluppo tessile fu per un lungo periodo costituita dall'insufficienza di filati ed i governi locali dovettero però più volte intervenire per vietare l'esportazione.
Nel corso dell'Ottocento la Germania supererà l'Inghilterra nella produzione metallurgica, ma all'inizio dovette faticare, anche se esisteva una tradizione per l'acciaio, ad esempio a Norimberga.
Un ruolo di rilievo venne esercitato da tecnici emigrati, sia inglesi che belgi. Uno di questi, Jean Waissege, fu un pioniere itinerante che addestrava forza-lavoro e progettava macchine. Nel 1751 lo troviamo impegnato a costruire quella che fu la prima macchina a vapore tedesca per una miniera di piombo vicino a Dusseldorf.
E ben 25 anni dopo, le cronache lo nominano come installatore di fire-engine a Eschweiler, presso Aquisgrana.
La maggioranza dei tecnici erano inglesi, formatisi empiricamente alla gavetta, ma verso la fine del Settecento cominciarono a prendere quota quelli francesi, formatisi nelle scuole tecniche e professionali di stato volute da Napoleone. In Germania trovarono diverse occasioni di lavoro se è vero che alla fine del Settecento l'uso di macchine a vapore di tipo Newcomen o Watt aveva cominciato a diffondersi. La prima di queste era stata montata a Tarnowitz nella Slesia nel 1788. Ma già nel 1791 i tecnici tedeschi, con l'assistenza di quelli inglesi, riuscirono a costruire una macchina intera, anche se diverse componenti, in particolare i cilindri, erano di fabbricazione inglese.
«Nella metallurgia - scrive Landes - fu la Slesia a porsi all'avanguardia, grazie alla pertinacia di Ruden (un tecnocrate dello stato prussiano, nda) e dell'appoggio finanziario del governo prussiano; la somiglianza con l'esperienza francese è singolare. Il primo ferro a coke fu colato nel 1791-1792 da un forno a carbone di legna nelle officine reali di Malapane, e nel 1794-96 un vero altoforno a coke fu costruito a Gleiwitz da un ingegnere scozzese di nome John Baildon (che aveva lavorato a Carron), e da due abili tecnici tedeschi, Bogarth e Wedding.» (Landes, cit.)

Ancora più a est, ancora più a sud
Purtroppo i dati e gli studi sui Balcani non sono tanti e non sono sistematici. L'idea di una arretratezza atavica è comunque sensata. Ho visitato questi paesi negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, in particolare Romania, Bulgaria, Serbia, Macedonia ed ho visto con i miei occhi ciò si trova spesso nei reseconti impressionistici dei viaggiatori del Settecento e dell'Ottocento. Il primo dato è quello della corruzione. Non c'era funzionario, poliziotto, portiere d'albergo, cameriere, tassista, vigile urbano che non approfittasse della sua funzione per trarne un utile vendendo servizi particolari, protezioni e così via. Evidentemente avevano modelli precisi, in alto, a cui guardare. Tutto questo era tollerato, se non incoraggiato: faceva parte del sistema.
Credo abbia una fondata solidità l'idea, che non è un volgare pregiudizio, di una situazione di degrado morale, prima ancora che economica, derivante dall'eredità ottomana e da oppressivi e fottuti funzionari di origine greca che esercitavano il potere, e la corruzione, al tempo dell'occupazione turca.
La mancanza di libertà, molto più marcata che in ogni parte d'Europa, unita alla persuasione che non fosse possibile un modo diverso di vivere, di lavorare e di prosperare ha lasciato il segno. L'analfabetismo era a quote vertiginose. Faticheremmo a trovare qualcosa di diverso da forme agricole arretrate e pastorizia, tuttavia è importante notare che proprio nei Balcani ed in Turchia si coltivava cotone in grande quantità e che esso riforniva soprattutto i mercati dell'est e del centro Europa, attraversando l'Ungheria e risalendo il Danubio fino a Vienna. Parte di questa produzione si vendeva strada facendo, perché man mano che si procedeva verso nord si incontravano comunità rurali dove l'industria a domicilio era in attività, specie entro i confini dell'impero asburgico.

(continua)

25 settembre 2004 - Guido Marenco - su questi files esiste il copyright - possono essere riprodotti solo su permesso dell'autore