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Prodico di Ceo

di Daniele Lo Giudice


Prodico nacque a Ceo, forse in un anno da cercarsi tra il 470 el 460 a.C.
Fu probabilmente un aristocratico e venne inviato più volte ad Atene come ambasciatore. Secondo l'Untersteiner, ottenne un vivo successo nelle assemblee popolari ed ampio prestigio come retore ed insegnante. Guadagnò, inoltre, molto denaro con l'insegnamento.
"Era, dunque, un vero sofista, ma libero da ogni interesse retorico - scrive l'Untersteiner - tant'è vero che definiva il sofista intermedio tra il filosofo ed il politico. "
Questa definizione sembra implicitamente ammettere che già nel V secolo era palese la la distinzione tra vita contemplativa e vita attiva, cioè la partecipazione alla politica, e tra vita intellettuale e dimensione pratica.
Amante dei piaceri e cagionevole di salute, Prodico ebbe discepoli importanti come Socrate, Tucidide (al quale trasmise la sua passione per la storia), Euripide, Teramene, Isocrate e Damone.
Basterebbe questo a rivalutarne la figura, ma nascono difficoltà spesso insormontabili per ricostruirne fedelmente il pensiero, data la scarsità dei testi disponibili e la carenza di testimonianze, alcune delle quali, come quella di Platone, decisamente riduttive.

Prodico crisse un trattato intitolato Horai, Le Ore, dee della fecondità venerate a Ceo e significative dell'intero processo naturale.
L'Untersteiner sostiene che gli scritti Intorno alla natura e Intorno alla natura dell'uomo erano parte integrante delle Ore e non testi autonomi.

Origine delle cose, umanesimo, forse un "senso della storia"
Prodico guardò alla realtà del mondo con lo sguardo dell'uomo comune, ma per primo, ebbe consapevolezza della necessità di scrivere una storia in chiave antropologica. Fu uno dei primi pensatori a delineare il concetto di progresso, se non di "evoluzione", ed a tentare di chiarire i processi secondo i quali l'uomo, creatura originariamente fatta con il fango, fosse diventato in un certo senso signore della natura.
Scrisse l'Untersteiner: "Nella sua massima opera, le Ore, ove il ciclo delle cose e la legge etica, che tutto regola, trovavano una loro visione unitaria, noi possiamo immaginare che il primo argomento fosse proprio quello dell'origine degli enti, fuggevolmente accennato in Protagora, ma di certo perseguito, in più precisi sviluppi, da Prodico."
Secondo Prodico la condizione originaria dell'umanità era di "estrema fralezza" (Untesteiner), ma esso seppe progredire per opera di "scopritori" che, "con il loro errare, dopo che da essi erano state scoperte da poco le messi, giovarono all'utile degli uomini."
Il talento degli scopritori, secondo Prodico, era consistito nel conoscere la natura, e nel trovare in essa le più segrete risorse. Ne nacque l'arte dell'agricoltura, che fu preludio alla scoperta di tutte le arti.
Secondo l'Untersteiner, Prodico si collegava alla religiosità misterica di Eleusi, che appunto predicava Demetra come la dea datrice dell'agricoltura e la poneva a fondamento di tutto ciò che di buono esiste al mondo.
Non è chiaro, tuttavia, se Prodico debba essere considerato come un evemerista ante-litteram, ovvero se egli in qualche modo anticipò l'idea di Evemero di Messina, filosofo del III secolo a.C., secondo il quale gli dei erano stati solo uomini di grandi meriti, che gli uomini divinizzarono in seguito alla loro scomparsa.
Certo è che alla base delle convinzioni del nostro vi era un curioso impasto di filosofia di Empedocle e di tradizioni misteriche. Egli pose alla radice di una probabile cosmogonia la preesistenza dei quattro elementi e la comparsa del sole e della luna quali determinanti alla vita. Gli dei sono gli elementi stessi, ma nel significato più proprio di "radici" e non di entità sovrannaturali antropomorfe.
Secondo l'Untersteiner, la debolezza umana postulata da Prodico come condizione originaria conduce ad un pessimismo cosmico, in singolare contrasto con "l'ottimismo" di altri sofisti come Protagora e Gorgia. L'osservazione non mi sembra molto pertinente, se non altro perchè fatico a comprendere dove stia l'ottimismo di Gorgia.
Evidenzierei piuttosto, al contrario, che se, lentamente ed a fatica, si fa strada l'idea di progresso, proprio in Prodico, c'è una nota ottimistica che spezza la circolarità ciclica nella concezione del tempo storico nella mentalità greca, avvicinandolo ad una concezione, in questo caso davvero ante-litteram, ebraico-cristiana.
In Prodico la cronologia, visto che è ancora improprio parlare di storia (se historia significava allora primariamente ricerca, e non narrazione e ricostruzione degli eventi), assume già un senso ed una direzione.
E questa direzione è caratterizzata dal venire da un tempo di tenebre e di debolezza dell'uomo, ad un tempo di luce e di forza. La civilizzazione non è perdita, ma conquista. La cultura acquisita non è segno di una degenerazione della presunta natura umana, ma il frutto della particolare natura umana, che non è la stessa natura degli altri animali.
Sono pensieri moderni, antropologici.

Dunque, di fronte all'antitesi, presente in molti sofisti, tra legge (regole umane) e natura (impulsi ed istinti), Prodico mirò alla sintesi. La legge, il nomos, non è altro dalla prosecuzione della natura, come pure l'arte è la sua comprensione più efficace e raffinata.
La riflessione consente all'uomo di superare e trascendere la condizione naturale, senza tuttavia abbandonarla del tutto.
Ovviamente, non si tratta di interpretare Prodico come fosse Hegel. La sua filosofia della storia è ancora rudimentale, quasi istintiva. In essa la categoria dello spirito umano, della tempra e della mentalità che sono immanenti all'uomo stesso, e non trascendenti, sono semplicemente in nuce.
Prodico era ancora convinto della conciliazione reale, e non solo apparente e formale, tra filosofia e religione popolare. Mentre esaltava la divinità naturale come "insieme" e non come particolarità di nomi e di santi patroni (Hermes, Athena, Efesto ed Afrodite), non voleva muovere alcun attacco a tali sacre figure venerate dal popolo e dalla religione ufficiale delle città.
Se la filosofia si presentava comunque come superiore alla religione, per Prodico, essa non aveva comunque un oggetto diverso: portava comunque al riconoscimento del divino, alla sua definizione concettuale di benefattore dell'umanità.

Il grande merito di Prodico fu certamente quello di inaugurare la riflessione sul linguaggio e la sua origine in maniera feconda, anche se unilaterale.
Convinto della continuità tra natura e cultura, egli sostenne con convinzione che le parole ed i nomi non hanno origine nell'arbitrio, ma vengono dalla natura stessa.
Molti hanno visto in questa impostazione una indiretta polemica con Gorgia, il quale, asserendo che la conoscenza era incomunicabile, aveva scavato un fossato tra nome e parola, tra significante e significato.
Forse, nel tentativo di ricucire lo strappo, Prodico non trovò di meglio che cercare di rifondare la certezza del significante e del nome nella storia e nella genealogia della parola, evidenziando che gli equivoci e le imprecisioni non sono dovute alla debolezza della lingua, ma all'uso impreciso e sommario che se ne fa.
Questa ricerca sul significato delle parole e sui sinonimi, se ci si riflette bene, potrebbe aver influito grandemente su Socrate, inducendolo a portare avanti la ricerca sul concetto, la definizione del cosa è questo di cui stiamo parlando.
Non diversamente, secondo l'Untersteiner, Prodico, approfondendo la sinonimica, cercò di rispondere anche a Democrito, che aveva postulato l'origine convenzionale dei nomi, e quindi aperto a Gorgia la via della critica al rapporto tra pensiero, linguaggio e realtà.
C'è da dire che Platone fu molto critico con Prodico, asserendo che egli, aveva spaccato il capello, "esercitato violenza sulla lingua, senza pervenire all'essenza della cosa, al suo essere, e senza, allo stesso tempo, aver saputo destare autentico interesse filosofico per la vera sapienza e la virtù.

Non saprei pronunciarmi sulla fondatezza di tale rimprovero se non fosse che l'intero approccio di Prodico all'insegnamento della filosofia, o meglio, della sua sophia, era certamente compromesso dal fatto che era a pagamento.
Ma proprio da una polemica su tale questione, e sul connesso problema della ricchezza, venne dall'uomo di Ceo un insegnamento, a mio giudizio, di carattere fondamentale.
A chi, come lo stesso Socrate, asseriva che la ricchezza era un male in sé, Prodico rispose che: " per la persona di perfetta onestà e che sa in quale occasione si deve far uso della ricchezza, essa è un bene, mentre per i malvagi che non lo sanno, essa è un male.
E' una tesi che riecheggia la risposta che Gorgia diede allo stesso Socrate sul valore della retorica. Un semplice strumento: c'è chi la usa bene e chi la usa male; non si può dare la colpa a Gorgia se chi impara a fare discorsi, si volge alla calunnia, alla menzogna, alle malefatte.
Si tratta, com'è ovvio, di due approcci del tutto diversi e quello di Prodico, in apparenza solo più spregiudicato, era in realtà meno ideologico e più aperto, più aderente alla realtà nella quale è vero che non tutti i ricchi sono disonesti, anche se la ricchezza sembra portare in sé una qualche maledizione che se non colpisce i ricchi, colpisce comunque i loro discendenti, facendone dei "viziati".

Questo inciso ci ha consentito di introdurci agli insegnamenti etici di Prodico che, nella concezione di Aristotele, sarebbe risultato forse più un saggio che un filosofo, un maestro di vita e non un maestro di scienza.
L'etica di Prodico, in realtà, è facilmente riassumibile nella storia che egli stessò raccontò, anche se non la inventò, quella di Eracle al bivio.
A circa ventanni Eracle si trovò ad un bivio dove incontrò due donne, l'una alta e bella, dai lineamenti armoniosi simboleggiava la virtù; la seconda, bella altrettanto, ma dalle forme prorompenti e lascive, impersonava vizio e corruzione.
Entrambe cercarono di attrarre Eracle, incitandolo a seguire una sola strada, vista l'impossibilità di percorrerle entrambe. Ed Eracle scelse la virtù.
A prescindere dal fatto che virtù non significava per i greci del tempo, e nemmeno per Prodico, solo il bene, la castità, la perfezione e l'altruismo, ma qualcosa di analogo al valore, al coraggio, all'onestà, cioè a doti più virili che monacali, è evidente che in Prodico era maturata la convinzione che bene e male fossero qualcosa di distinguibile in modo molto più certo e meno relativistico che in Gorgia.
L'antitesi, tuttavia, come già s'è detto, non era tra natura e cultura, o tra carne e spirito, ma tra due opposti richiami di carattere assai più primitivo, interni all'uomo stesso, alla sua umanità simboleggiata dalle due donne.
Ciò che colpisce è che Arete, la donna virtuosa, il valore, non fece appello alla ragione, all'anima razionale, ma alla natura di Eracle, al suo carattere, alla sua capacità di decidere, in quanto uomo, su quale strada immettersi.

Letture consigliate:
Mario Untersteiner - I sofisti - Bruno Mondadori - Milano 1996



DLG - 25 agosto 2002