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La filosofia di Platone: l'inizio (parte II)
di Guido Marenco


Siccome mi occupo dell'inizio, non corro al Protagora, dialogo composto molto più tardi, a cose quasi fatte. Nel Protagora avremo la soluzione: sì la virtù è insegnabile, perchè coincide con la scienza.
La scienza delle idee ci dirà cosa è davvero la virtù.
Platone non aveva ancora trovato questa soluzione. Era sulla via di trovarla, ma non sapeva quanta strada c'era ancora da percorrere.

Ora, dovremmo distinguere i dialoghi composti prima della morte di Socrate e quelli composti dopo.
Non è solo perchè lo testimonia Diogene Laerzio.
Leggendo il Liside, si comprende che la tragedia è di là da venire, e Platone è ancora più letterato che filosofo, per quanto la filosofia non manchi.
Si tratta infatti d'un dialogo persino un po' vanesio, quantomeno nella colorita introduzione. Il ritratto di Socrate puzza di omosessualità. La bellezza corporea dei giovanetti viene esagerata; il tema di come coltivare un'amicizia intima con l'amato occupa uno spazio rilevante. Socrate sembra persino un po' ruffiano. A richiesta, mostra nei fatti come si fa a catturare l'attenzione del giovane amato, non con canti di elogio e vuoti versi, ma dimostrando attenzione ai problemi veri e sentiti. Poi, via via, il dialogo si fa più profondo. Il mistero dell'amicizia e dell'attrazione reciproca degli uomini viene esplorato a 360°.
Non è il simile che attrae il simile, perchè anche il dissimile ha un fortissimo potere magnetico. Semplicemente ragionando di amicizia, si può andare molto lontano anche sul tema dell'inimicizia e dell'antipatia.
E Socrate arriva a considerazioni di grande profondità: ove il male venisse a cessare, non ameremmo più il bene. Sarà poi vero? E non sopravviverebbero in noi i desideri, che non sono né buoni, né cattivi?
Viene alla luce, ma non del tutto, il desiderio dell'altro come il sentimento di una mancanza propria.
Suona come una vera provocazione e mira a far discutere, senonchè, con l'arrivo dei pedagoghi, il piacevole dialogo tra Socrate ed i giovani si interrompe e non c'è conclusione.

In sostanza, posto che questo dialogo sia stato composto un po' prima del processo e della morte di Socrate, e che dunque egli lo abbia letto, non vi può esser dubbio sulla sua reazione: quante balle! Troppo effemminato e sapiente il ritratto di Socrate, certamente più grezzo e schietto, nella realtà. Platone riuscì ad idealizzare anche Socrate.

Ma tra questo primo, o secondo dialogo (anche il Carmide, che ha per oggetto l'indagine sulla temperanza, potrebbe essere il primo), e le opere successive, c'è di mezzo la tragedia del processo e della morte.
Non si può più scherzare intorno a Socrate: le cose si sono fatte terribilmente serie: non solo è difficile, se non impossibile fare politica; è diventato impossibile fare filosofia nelle piazze, in mezzo ai giovani, senza cadere nella rete dei sospetti. Il clima si è fatto pesante anche per gli amici di Socrate.
Inoltre, Platone non è ancora pronto. Di fronte al tragico, egli reagisce nell'unico modo possibile a chi non ha ancora maturato la scienza del bene: ricorse all'esempio.
La virtù è insegnabile con l'esempio.

Nell'Apologia, Socrate si difende, ma è maldestro. Manca di rispetto ai giudici, ironizza pesantemente. Non si limita alla difesa, ma attacca. Contribuisce alla condanna, che forse non era inevitabile, per arroganza intellettuale e spregio degli accusatori.
Nel Critone, consapevole della sconfitta, evidenzia che accettando di morire, e solo così, otterrà infine vittoria, mediante la sconfitta più radicale. Se accettasse di fuggire, perchè, come suggerisce Critone, tiene famiglia, allora sì che sarebbe veramente sconfitto. Egli ha fiducia nelle leggi e nello stato, egli ha voluto essere d'esempio. Quale esempio potrebbe mai dare, se scegliesse la via della fuga, dell'oltraggio alle leggi? Morendo, diviene un martire, ed il martirio è la via del successo imperituro. Sono queste le ragioni, dette e non dette, del rifiuto alla fuga proposta dal buon Critone.
Ma, tra queste, quelle esplicite sono le più importanti. Dopo una primo esame che conduce alla considerazione che non tutte le opinioni sono degne di ascolto, Socrate chiede a Critone se valga la pena di vivere in un corpo vecchio e malandato. Ricevuto il no, riprende: e se c'è qualcosa che vale più del corpo, l'anima (la coscienza), potremmo convivere con una coscienza che ospita il rimorso e che non consente di vivere bene, che è molto diverso dal vivere ad ogni costo?
Ricevuto un altro diniego, Socrate prosegue nella sua lucida disamina. "Se io prendessi la via della fuga, che accadrebbe qualora mi venissero incontro le Leggi e la Città e mi chiedessero: «Dicci, Socrate, che cosa hai in animo di fare? Non credi forse che, così comportandoti, tu uccidi, per quanto è in te, le Leggi e lo Stato tutto intero?
Oppure ti sembra possibile che resti in piedi e non vada in rovina quella città in cui i giudicati non hanno alcun valore, ma son resi vani e nulli dalla prepotenza dei privati cittadini?»
Che potrei rispondere?"
E ancora: le Leggi chiedono conto a Socrate. « Era questo il patto intercorso tra noi e te, o non piuttosto che tu dovessi obbedire ai giudizi resi dalla città? ... E non meravigliarti delle nostre parole, ma rispondi, visto che sei così pronto sempre nel domandare e nel rispondere, cosa rimproveri a noi ed alla città, per tentare di ucciderci?
Non fummo noi a darti la vita? Non fu grazie a noi che tuo padre e tua madre ti misero al mondo? ... E allora, Socrate, poichè tu nascesti, fosti allevato ed educato, puoi tu dire di non essere nostra creatura e servo?...Noi Socrate, abbiamo la prova che a te piacevamo, noi e la città. ...Non te sei andato, ... se non per adempiere al tuo dovere di soldato...ci preferivi al punto di scegliere di vivere sotto il nostro governo. Infine, anche durante il processo, ti fu consentito di scegliere l'esilio...Ma tu allora ti pavoneggiavi, quasi non ti dolesse di dover morire, e dichiaravi d'anteporre la morte all'esilio; mentre ora, senza vergognarti di quei discorsi, senza darti pensiero di noi Leggi, t'ingegni di distruggerci e fai ciò che farebbe il più vile dei servi, tentando di fuggire contro i patti e l'impegno assunto di vivere sotto la nostra disciplina.»
L'impietoso atto d'accusa prosegue toccando ancora altri delicatissimi argomenti del tipo: che sarà dei tuoi amici?
Essi saranno costretti ad andare in esilio a causa tua, saranno privati dei diritti civili, le loro sostanze saranno sequestrate.
Anche il destino di Socrate non potrebbe essere più incerto: quale città lo accoglierebbe a braccia aperte? Quale cittadinanza potrebbe avere fiducia in un corruttore delle Leggi? Non è un corruttore delle stesse un potenziale corruttore di giovani?
O cielo! Socrate aveva sempre detto che nulla è più prezioso della legalità e della giusta legislazione. Come potrà rimanere credibile chi scappa dalle conseguenze delle sue affermazioni. Continuerà ad essere creduto un uomo, o solo una mammoletta incoerente, forte con i deboli di mente, ma vigliacco con i forti?

Platone si mostra superlativo non solo nel mostrare quante ragioni aveva Socrate per scegliere di morire, ma anche nel descrivere la sua psicologia, tutta basata su un onesto ed impietoso esame di coscienza.
Ciò evidenzia una straordinaria capacità letteraria di immedisimazione nel personaggio, che viene, da un lato sdrammatizzato, per la tranquillità e la dolce rassegnazione con cui affronta la fine, ma dall'altro lato, con il massimo rispetto, viene anche reso tragico per l'evidente contrasto tra un discorso di principio, di massimi principi formalmente inoppugnabili, ed un rimpianto per la vita che è reale, intimo e doloroso.

Sbaglia gravemente chi crede che nella dimensione della razionalità etica il tragico della vita sparisca.
Cosa c'è di più tragico per un individuo ragionevole che trovarsi in una situazione di tipo kafkiano: essere processati dopo una vita onesta, volta a far bene, ad educare, a combattere la malvagità, gli imbrogli, le prepotenze?
Certo, si potrebbe obiettare che nella inesorabile logica delle cose, il razionale, quando portato a questi estremi, non ha scampo, deve pagare il fio della sua arroganza. Ci sono troppi aspetti della vita che non sono spiegabili in termini così secchi, tagliate con l'accetta: il bene di qui, il male di là; la scienza del bene di qui, l'ignoranza del bene di là.
L'uomo di senno, che non è detto sia sempre un razionalista, sa bene che questo taglio rischia di perdere troppe sfumature e situazioni reali per strada, semplicemente ignorandole, o facenda finta di niente.

Nell'Eutifrone, ad esempio, non so se volutamente o meno, Platone da un saggio di come anche Socrate abbia fatto finta di niente. Quel povero diavolo di Eutifrone aveva un problema gravissimo: il padre aveva ucciso uno schiavo. E lui aveva deciso di andare a denunciarlo. Coerenza col Critone vorrebbe che Platone facesse dire Socrate, di fronte a tanto fervore per la Legge, parole ammirate. Tutt'altro. Egli non si pone nemmeno il problema se sia giusta od ingiusta un'azione del genere. Non scende a domandarsi se sia giusta per alcuni, ed ingiusta per altri. Non dice che un figlio ha dei doveri specifici verso un padre perchè lo ha allevato e nutrito, cresciuto e messo in condizione di vivere autonomamente. Non si chiede se la Legge venga dopo del dovere filiale,e se in taluni casi, debba venire prima, ad esempio quando un padre è dedito sistematicamente ad attività criminose che recano un gravissimo danno agli altri.
Quello che preoccupa Socrate è il problema della santità, di cosa sia davvero il santo come idea.
E' solo da qui, secondo Socrate, che poi troveremmo la luce per decidere il giusto.
Discorso che non ha seguito, perchè il dialogo si interrompe senza una soluzione. E meno male.

Cosa ha cercato Socrate? Una premessa universale, l'esatta definizione di cosa si dovrebbe intendere per virtù, quando si parla di virtù. Non la virtù secondo l'opinione corrente, ma la virtù secondo Dio.
Molto prima di scrivere il Protagora, Platone rifiuta di credere che l'uomo, e le tante opinioni correnti, siano la giusta misura di tutte le cose. Però, non dispone di un decalogo. Non dispone di massime e comandamenti nitidi e sintetici rispetto ai quali orientarsi. Per trovare il pensiero di Dio su questi argomenti, deve interrogare oracoli, leggere Esiodo e Solone, i proverbi dei savi, chiedersi persino se gli dei vogliano davvero la giustizia. Cosa è la giustizia secondo Dio?

Rifletti. A molti potrebbe apparire blasfema una simile sciocchezza. Come può un uomo vedere il mondo con gli occhi di Dio? E valutare secondo il metro di Dio? Risposta di molti religiosi: Dio tocca l'uomo, lo illumina, sempre che l'uomo lo cerchi. E' impossibile in un senso, possibilissimo in un altro. Mosè fu la prova di questa illuminazione, rispetto alla quale è però possibile una reazione onestamente umana: tornato tra i suoi, dopo aver ricevuto la Legge, Mosè manda affanculo uomini e Dio di fronte allo spettacolo dell'adorazione del vitello d'oro. Poi si pente, ha mancato di fiducia e di fedeltà all'ordine ricevuto.

Risposta di Platone: l'uomo non può vedere il mondo con sguardo divino se non abbandona il relativo, qualsiasi premessa relativa, cioè storicamente determinata dai costumi, dalle credenze, dalle opinioni, anche le più sagge. Vedere il mondo ed ogni questione con gli occhi di Dio significa avere un metro di misura veramente scientifico, cioè inoppugnabile.

Non ci ero arrivato, infatti scrissi ancora a proposito del dialogo che si propone una ricerca comune: a prescindere dal fatto che per un'operazione di questo tipo occorrebbe già sapere in partenza quale sia il concetto giusto, e qui, non si può non scorgere nel metodo maieutico stesso uno stratagemma (anche se viene innocentemente presentato come 'sapere di non sapere': il ritornello socratico è sempre quello, 'io so di non sapere', ed invece ne sa, in quanto a distruggere le tesi opposte, una più del diavolo!), c'è anche da dire che  per trovare la soluzione occorrerebbe che questa stessa fosse possibile, mentre in taluni casi non lo è.
E non lo è perchè la scienza del bene non è mai stata rivelata. Grazie a Dio, si passi il gioco di parole, noi abbiamo una scienza del male, ma non quella del bene. Abbiamo divieti, ma non permessi. Perchè, forse, i permessi non servono. Ognuno ha una testa, dunque la usi.

Inoltre, occorrerebbe che ognuno dei partecipanti al dibattito fosse unicamente interessato alla ricerca della verità superiore, di un punto di vista realmente disinteressato.

Il che, nella vita reale non succede quasi mai, come nell'Eutifrone. Siamo tutti in competizione, in corsa per far vedere quanto siamo bravi, o quanto è santo e puro il partito che sosteniamo. Alle ragioni altrui, si presta davvero pochissimo tempo.

Ed alla ricerca della verità, quanto tempo prestiamo?

Fai un'osservazione del genere ed ecco che i sofisti risorgono dalle loro tombe, unici veri immortali. La verità non esiste! La verità è un'opinione! E' impossibile dire il falso perchè ogni parola corrisponde a quello che è.

Ma che diavolo dici? La verità, amico bello, è la corrispondenza esatta tra un fatto accaduto ed il discorso che lo descrive. Ecco, cosa non ho mai trovato chiarissimo in Platone, anche se ho trovato qualcosa che gli somiglia.

Però, mi ero fermato qui, alla mia trionfale definizione della verità, che non coincide nemmeno con quella di San Tommaso d'Aquino. Invece, Platone era già andato oltre, sfondando ogni limite, porte chiuse da sacri sigilli e colonne d'Ercole poste a monito dei naviganti. Anche la verità è un'idea, esiste lassù.

La ricerca del vero sapere come problema: dall'idea come forma intellegibile delle cose all'idea esistente di per sè.

La contrapposizione di Platone alla cultura sofistica e retorica, che pure muoveva da preoccupazioni politiche, deve per forza di cose misurarsi con il problema della ricerca di un vero sapere, contrapposto al gioco delle opinioni. Questo consisteva nella dialettica filosofica come strumento regio.
Il tema è affrontato, dialogo per dialogo, nei modi di una storia del pensiero greco precedente a Socrate e da un confronto logico-dialettico con Parmenide, Eraclito ed i sofisti, calati, tuttavia, nel vivo quadro del dibattito contemporaneo a Platone.
In questa chiave sembra che per Socrate e Platone la vera filosofia non cominci con gli ionici ed i fisici
(Talete, Anassimandro, Anassimene), ma proprio con Pitagora, Parmenide ed Eraclìto.

Platone dice: se tutto ciò che proviamo ci viene dal sentire (cioè dall'esperienza dei sensi), che è fluido e molteplice, nonchè ingannevole e disordinato, è possibile coordinare, ordinare secondo principi razionali, quello che veniamo a sapere?
E' evidente che per dominare il flusso molteplice dei pensieri occorre mettere un po' d'ordine, non solo in sè stessi, ma proprio nella storia del pensiero precedente a Socrate.
Per un'approfondita valutazione di questo aspetto occorre visitare tutti questi dialoghi e considerarne le proposte e le sfide.
Quella che intraprende Platone non è infatti una semplice ricerca ma, una vera e propria battaglia per la verità. Nella partita ne va, cioè, della verità stessa. Dunque della possibilità di individuarla e dirla, quindi insegnarla.

Scrive Francesco Adorno: «In precise situazioni storiche, culturali, politiche, Socrate rappresenta per Platone la problematica del giusto, quale, appunto, si poteva ricavare attraverso lo stesso atteggiamento di Socrate, colto, volta per volta, nel rapporto con i suoi interlocutori: il Socrate protrettico, 'torpedine marina', demonico, ironico, inquieto e mai contento di sè, che fa arrossire che tutti richiama a saper pensare; e il Socrate dialettico, che attraverso il corretto uso della ragione tende a determinare le corrette premesse del discorso, le 'definizioni' di ciò di cui si parla e senza di cui, né sappiamo quel che diciamo né sappiamo come è che dobbiamo agire, volta a volta, ciascuno per ciò che gli compete, giustamente. In tale senso tutte le virtù si risolvono in una sola virtù, che rende virtuose anche le altre, cioè nel sapere di sapere, che è in effetti, la forma (l'eidos) della virtù, e che anche la forma, la condizione perchè siano possibili le singole scienze, i singoli saperi, ciascuno dei quali (ognuno una 'virtù'), come ciascuna virtù (ognuna un 'sapere') ha le proprie premesse, ciò per cui ciascuno (sapere o virtù) è quello che è.» (cit.)
Si tratta pertanto, attraverso il ragionamento, di cogliere le condizioni, le forme e le regole del pensiero, senza le quali non vi sarebbe nè sapere nè virtù.
Tali forme sono visibili all'occhio del pensiero come èide, idee. Solo il pieno possesso delle idee, cioè di queste forme, ci consente di avere l'essenza della virtù e del sapere stesso.

Adorno insiste sul fatto che l'idea per Platone, in questa fase, non è affatto cristallizzata. E cita esempi abbastanza persuasivi, tratti dal primo e dal secondo pugno di dialoghi, ovvero Eutifrone, Menone, Ippia.
Ma proprio questi sono appunto i dialoghi "socratici", dialoghi nei quali il fondamento del sapere è posto
come capacità dell'intelletto stesso di porre avanti a sè la forma intellegibile dell'oggetto su cui ragionare.

Infatti, riportando la domanda posta da Socrate ad Eutifrone sul che cosa è la santità, Platone afferma che con tale domanda non si vuole conoscere una sorta di elenco di singole azioni sante ma proprio quell'idea del santo per cui tutte le azioni sono sante, onde servirsene come modello, al fine di poter fare confronti e stabilire così cosa è santo e cosa no.
Siamo, come si vede, in questa fase, ad una sorta di ontologizzazione(1) dell'idea, al riconoscimento che l'idea ha una sua propria eterna realtà ed esiste come modello, esemplare perfetto, in greco paràdeigma, ovvero paradigma.
Idea non è quindi una parola che esprime un significato, ma un significato che si vorrebbe significare. Non è una differenza da poco.
In sostanza, rispetto ad un modo ordinario di pensare, siamo alla sostantivazione di un aggettivo, di una qualità, di un attributo. Ma, rispetto ad un pensare filosofico siamo al punto per il quale cerchiamo una parola in grado di rappresentare fedelmente ciò che abbiamo intuito in un lampo. Secondo Platone, l'idea non nasce dalla parola, ma è la parola che nasce dall'idea.

L'idea come epistème

Tuttavia, affinchè questo venga compreso, incalza Platone, occorre salire ad una realtà superiore, quella appunto, in cui sola vi è una stabilità.
L'epistème (che potremmo tradurre con scienza) è possibile solo in condizioni di stabilità del pensiero.
Questa ulteriore definizione dell'idea è evidenziata da Platone nel Cratilo, dialogo dedicato all'incontro scontro tra Socrate ed un discepolo di Eraclito, appunto il Cratilo in questione.
Qui Platone è alle prese con la teoria eraclitea del divenire che rende impermanente ogni cosa.
Se "panta rei", tutto scorre come si può sapere com'è o qual'è una certa cosa? Chiedersi come stanno le cose è praticamente impossibile, giacchè le cose non stanno affatto: scorrono, fluiscono.
Per Eraclito non è possibile immergersi nemmeno una volta nello stesso fiume.
Platone raccoglie la sfida, ma di fatto accetta che il divenire eracliteo sia in un certo senso assolutizzato, velocizzato. Nessuna cosa è la stessa di un attimo prima e qui siamo quasi ai limiti dell'assurdo in quanto, se è pur vero che l'acqua del fiume non è la stessa, sarà pur vero che quel fiume è sempre lì, ieri, oggi, domani, e fino a chissà quando; e che quell'acqua, poniamo fangosa, caratteristica di quel fiume particolare, sarà fangosa domani proprio com'era fangosa ieri, a meno che non cambino le caratteristiche del letto e delle sponde in maniera irreversibile.
Invece di rispondere a questo modo, che è poi il modo della scienza moderna, ma è anche il modo proposto da Aristotele, Platone sposta il problema su un piano diverso, cioè quello della dichiarazione che esiste un'altra realtà, la realtà delle idee. In questa realtà, ad esempio, la geometria, si da la stabilità immutabile delle idee. Solo esse sono universali ed immodificabili, solo esse non ci tradiscono e non ci ingannano.
E solo attraverso il pieno possesso di esse noi possiamo quindi avere una scienza.
 

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Note: (1) la parola ontologizzazione è un parolone che potrebbe creare qualche difficoltà a chi si accosta per la prima volta alla filosofia. Ontologia vuol dire scienza dell'ente, scienza dell'esistente, anche quello che non vediamo. Ontologizzare significa quindi affermare che un'idea, od anche un fantasma, uno spirito, un angelo, esistano in modo oggettivo, cioè indipentemente dal fatto che qualcuno di quaggiù la stia pensando, o le abbia pensate.


Libri consigliati:
almeno i seguenti dialoghi nell'edizione che vi capita: Eutidemo, Fedro, Menone, Eutifrone.
D. Ross - Platone e la scrittura filosofica - Il Mulino, Bologna 1989
W. Jaeger - La formazione dell'uomo greco - vol. II/ Alla ricerca del divino - vol. III/ Il conflitto degli ideali di cultura nell'età di Platone - La Nuova Italia - Firenze, 1959
F. Adorno - Platone - Laterza - l'anno cercatelo voi.
Pierre Hadot - Che cos'è la filosofia antica - Einaudi, Torino 1998


guido marenco - prima stesura 20 ottobre 1999 - seconda stesura 2 dicembre 2002