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Ai confini della realtà percepita e immaginata
Roger Penrose: la realtà fisica, il cervello umano e la quantistica
di Guido Marenco
Roger Penrose è soprattutto uno scienziato ma, fa discutere nel mondo della filosofia per le singolari teorizzazioni su come funziona la mente umana in rapporto all'elettrodinamica quantistica, per la sua fiera opposizione alla versione forte dell'IA e a quella più sfumata alla versione debole sostenuta ad esempio da John Searle, il quale, a sua volta, sembra piuttosto vicino alle posizioni di Winograd e Flores, che di informatica si intendono davvero. Per Penrose il cervello non lavora solo su basi computazionali, nemmeno quando affronta questioni matematiche, mentre i computer, compresi i modelli paralleli, non possono fare altrimenti, e questo è argomento sufficiente per smontare aspettative suscitate da affermazioni del tipo "vedrete se non riusciremo a costruire macchine coscienti!"
Penrose distingue tra intelligenza e coscienza, e non vuole affatto negare che un computer disponga di una qualità simile all'intelligenza umana.; dice solo che una macchina non può avere consapevolezza di sé, anche se può eseguire compiti meglio e molto più rapidamente di un individuo molto intelligente. In questi giorni stavo ripensando all'articolo di Bill Gates pubblicato da "Le scienze" n° 461, gennaio 2007. Presto, in ogni casa dei cittadini del primo mondo ci sarà un robot, o persino più d'uno. L'evoluzione tecnologica marcia sempre più in fretta delle idee su di essa, comprese le idee di Penrose, ma ciò non vuol dire che il buon Roger abbia perso la sua battaglia se crediamo, ad esempio, che non c'è progresso tecnologico che tenga di fronte all'impossibilità del teletrasporto di individui viventi come nei film di Star Trek, o a quella di costruire un golem simile all'essere umano ma percorso da cavi elettrici invece che da vasi sanguigni e neuroni. Le due faccende stanno in rapporto e Penrose crede di averlo dimostrato descrivendo il teletrasporto come una distruzione dell'originale e il salvataggio di una copia da un'altra parte. Quindi, il teletrasporto non è un modo di viaggiare, ma un modo per duplicare, una sorta di clonazione proiettata a distanza che però non riesce a salvare l'originale. Sarebbe illusorio pensare che chi esce da un teletrasporto è lo stesso individuo demolito dalla macchina all'ingresso. Si possono aver dubbi in proposito? Io, qualcuno ce l'ho ma, se devo dire la verità, non solo non mi sottoporrei ad un esperimento, ma sconsiglierei vivamente chiunque dal cedere alla seduzione di sottoporvisi. L'idea che da qualche parte esista una mia copia, ma non io, non mi piace affatto!

L'idea del'IA non naviga a grande distanza da quella del teletrasporto: si possono costruire macchine capaci di clonare non la forma, ma il contenuto e le qualità intellettive dell'essere umano. Anzi, molto di più. Esse non sono una copia di un individuo particolare, ma il meglio di tutti gli individui e del loro logos, una sintesi perfetta, insuperabile da parte della natura. Penrose contesta queste affermazioni, ma poi si arresta di fronte ai prodigi di computer quantistici. E non sfugge alla tentazione di scrutare nelle più recondite profondità del sistema nervoso per trovare il livello quantistico della fisica nei microtubuli. Quello che succede "là dentro"è determinante, presenta strabilianti somiglianze con ciò che succede in un computer quantistico. Ed è deterministico. Non so se Penrose abbia cambiato idea, ma il suo determinismo ne La mente nuova dell'imperatore raggiunge livelli inaccettabili per chiunque abbia un pur minimo concetto di libero arbitrio. Rimane da capire come nel pensiero di uno stesso individuo possano convivere un'alta considerazione della coscienza e una bassissima credenza nella reale libertà di decisione.
Un simile determinismo, infine, si scontra e non può non farlo, con i concetti della selezione naturale. Per il determinista ideologico non ci può essere alcunché di casuale nella comparsa e nella scomparsa dei caratteri delle popolazioni. Penrose è talmente convinto di questo da rimanere tiepido nei confronti del principio antropico sia nella variante forte che in quella debole. «Questo principio ha molte forme... - scrive - Quella più chiaramente accettabile concerne semplicemente la localizzazione spazio-temporale della vita cosciente (o "intelligente") nell'universo. E' questo il principio antropico debole. Questo argomento può essere spiegato perché le condizioni fisiche si trovino ad essere esattamente quelle appropriate per l'esistenza della vita (intelligente) sulla Terra oggi.» (1) Quanto alla versione forte, Penrose pensa che esso consenta di considerare la nostra posizione spazio-temporale non solo nell'universo reale, ma rispetto a tutti i possibili. «In quest'ottica possiamo tentare di rispondere a domande come perché le costanti fisiche, o le leggi della fisica in generale, siano specificamente progettate in vista dell'esistenza della vita intelligente. Il ragionamento è che, se le costanti o le leggi fisiche fossero diverse, noi non saremmo in questo particolare universo bensì in qualche altro!» Dopo queste considerazioni, Penrose consiglia di usare il principio antropico debole con estrema cautela e confessa di non credere che «il principio antropico sia la vera ragione (o l'unica ragione) per l'evoluzione della coscienza.» Sostiene che ci sono molte altre prove per credere che la coscienza procuri un forte vantaggio selettivo. La più evidente, a questo punto, è che se essa è determinata a priori, non può che essere necessariamente quella che è attualmente. Un simile determinismo attacca frontalmente tutti i darwinismi, ma Penrose mette la questione in modo da rendere l'attacco invisibile e continua a parlare di selezione come se niente fosse. Ma non si tratta, forse, di una selezione predeterminata?

Prima di mettersi a formulare ipotesi su come funziona il cervello, Penrose si è occupato brillantemente di fisica e di matematica in modo che dire 'profondo' è dir poco. Il suo giovanile articolo sull'inversione delle matrici ha fatto il giro del mondo piazzandosi sulle scrivanie dei matematici puri più scafati. La teoria dei twistor, oggetti geometrici astratti che operano in uno spazio complesso con un numero superiore di dimensioni, costituisce un tentativo per esplorare un livello di realtà "più profondo" dei campi e delle particelle della meccanica quantistica. Ha anche lavorato sulle tassellature non periodiche dei quasi-cristalli. Di ciò si trova traccia nel suo libro più conosciuto, La mente nuova dell'imperatore. Tassellare vuol dire coprire sistematicamente uno spazio euclideo con figure geometriche che aderiscono l'una all'altra come in un puzzle. Significa pavimentare e piastrellare. L'importanza di questa faccenda, se devo dire la verità, mi era sfuggita fino a quando non cominciai a riflettere su frattali, simmetrie e asimmetrie nella natura, il rapporto tra destra e sinistra (in senso non politico!) e altre questioni di tal genere, non ultima la teoria autopoietica degli organismi di Varela e Maturana. Esercitare l'arte del vedere su stelle eptagonali e figure bislacche e fantasiose, che pure esistono in natura, e sono molte più frequenti di quelle regolari come quadrati o triangoli, sembra avere il potere di aprire la mente alla flessibilità e persino di liberarla da rigidità in ordine al problema delle forme, anche in una dimensione ontologica e quindi filosofica. Può diventare psichedelia senza LSD. Funziona con la musica californiana degli anni '70 e con certi dischi di Chet Baker.
Ciò porta inoltre a considerare insiemi aperiodici di vario tipo, non solo figurativo. E, soprattutto, introduce, anche se da una entrata secondaria, ad una delle questioni fondamentali del nostro tempo: la teoria della complessità. Posto che molti dei problemi che derivano dall'esistenza di insiemi aperiodici si possano inquadrare con un algoritmo, la teoria della complessità ci viene incontro non tanto per risolvere algoritmicamente singoli problemi, quanto dimostrandosi in grado di affrontare infinite famiglie di problemi, postulando che per ognuna di esse esistano soluzioni riconducibili ad un solo algoritmo generale.

Dopo questi passaggi, Penrose è passato armi e bagagli alla fisica ed in particolare alla relatività generale, convincendosi, in modo decisamente controtendenziale, che sarà la relatività generale a modificare la quantistica e non viceversa. «Ritengo infatti che, per riuscire a collegare con successo la meccanica quantistica alla teoria gravitazionale, occorra in primo luogo modificare le regole della teoria dei quanti.» (1)
Nei capitoli centrali de La mente nuova dell'imperatore, Penrose svolge alcune considerazioni in modo piacevolmente divulgativo. Muovendo dall'idea che nella fisica classica, compresi Maxwell e Einstein, in accordo col senso comune, esiste un mondo obiettivo esterno, afferma che tale «mondo si evolve in modo chiaro e deterministico, ed è governato da equazioni matematiche ben precise... Si ritiene che la realtà fisica esista indipendentemente da noi, e come sia esattamente il mondo fisico non dipende dal nostro criterio di osservazione. Inoltre, il nostro corpo e il nostro cervello fanno parte anch'essi di tale mondo. Anch'essi si evolverebbero secondo le stesse equazioni classiche precise e deterministiche. Tutte le nostre azioni devono essere fissate da queste equazioni, per quanto noi possiamo pensare che il nostro comportamento sia influenzato dalla nostra volontà cosciente.»

La quantistica ci pone di fronte ad un'altra realtà fisica. Molti credono semplicemente nella "vaga idea" che il principio di indeterminazione al livello di particelle inibisca la "precisione" delle descrizioni ed offra solo la chiave di un atteggiamento probabilistico. «In realtà - osserva Penrose - le descrizioni quantistiche sono molto precise, anche se radicalmente diverse da quelle familiari della fisica classica. Troveremo inoltre che, nonostante la diffusione di un'opinione contraria, le probabilità non hanno origine al livello delle particelle, degli atomi o delle molecole - che si evolvono in modo deterministico - bensì, a quanto pare, attraverso una qualche misteriosa azione su scala maggiore connessa con l'emergere di un mondo classico che noi possiamo percepire in modo cosciente. Noi dobbiamo tentare di capire questo fatto, e come la teoria quantistica ci costringa a modificare la nostra concezione della realtà fisica.»
In realtà, senza quantistica non andremmo oggi molto lontano nel trovare spiegazioni ai fenomeni. La stessa coscienza potrebbe rivelarsi incomprensibile alla sola mentalità classica. «La nostra mente - continua Penrose - potrebbe essere in effetti una qualità radicata in qualche carattere strano e mirabile di quelle leggi fisiche che governano effettivamente il mondo in cui viviamo, anziché essere solo un carattere di un qualche algoritmo tradotto in pratica dai cosiddetti "oggetti" di una struttura fisica classica.» Ovviamente Penrose entra dettagliamente in tema, cosa che non ci possiamo permettere qui. Basterà ricordare che prende le distanze da Niels Bohr e da quella tendenza fisico-filosofica tendente ad estendere l'indeterminabile ad ogni livello di realtà, fino a farne una filosofia di scetticismo estremo. Penrose crede nell'esistenza di una realtà esterna. Ma una certa versione della quantistica, piuttosto diffusa, nega sia possibile costruire un'immagine che corrisponda al reale. E, al livello quantistico, non esiste una realtà esterna. «In qualche modo, la realtà emerge solo in relazione ai risultati di "misurazioni". La teoria quantistica, secondo quest'opinione, fornirebbe solo un procedimento di calcolo, e non tenterebbe di descrivere il mondo com'è realmente. Questo atteggiamento verso la teoria mi sembra troppo disfattista e io seguirò la linea più positiva che attribuisce alla descrizione quantistica una realtà fisica obiettiva: lo stato quantico

Chiarito l'atteggiamento fondamentale di Penrose nei confronti della fisica, siamo ora in grado di vedere come egli abbia messo in rapporto fisica e mente, senza peraltro "saltare" del tutto il momento biologico e fisiologico, come insinuato da Francisco Varela, il quale ha comunque buone ragioni per essere incazzato con Penrose. Il capitolo 10 di La mente nuova dell'imperatore, intitolato Dov'è la fisica della mente, viene dopo un'esposizione dettagliata del sistema nervoso e dopo un confronto tra i sistemi biologici e quelli dell'IA. Se consideriamo che la trasmissione nervosa si svolge secondo lo schema "tutto o nulla", esiste un forte punto di somiglianza tra natura e artificio: «L'intensità del segnale non varia: un segnale c'è o non c'è. Questo fatto dà all'azione del sistema nervoso un aspetto simile a quello di un computer. In effetti fra l'azione di un gran numero neuroni interconnessi e il funzionamento interno di un computer digitale, con i suoi fili che trasportano corrente e le sue porte logiche... ci sono molte somiglianze. Non sarebbe difficile, in linea di principio, istituire una simulazione al computer dell'azione di un sistema dato di neuroni.» Ma la realtà del cervello umano è più complessa. Il "tutto o nulla" è una semplificazione eccessiva. Un neurite, quando scarica l'impulso, in realtà ne emette molti in successione. E anche quando non è attivo, un neurone emette impulsi a ritmo lento. Quando "scarica", è la frequenza degli impulsi ad aumentare. Poi, bisogna tener conto che lo stesso stimolo non produce sempre e necessariamente lo stesso risultato. Il cervello non ha i tempi esatti della corrente elettrica di un circuito informatico artificiale. «Inoltre, diversamente dal precisissimo cablaggio di un computer, nel modo dettagliato in cui i neuroni sono connessi pare ci sia una grande misura di casualità e di ridondanza, anche se oggi sappiamo che nel modo in cui il cervello è "cablato" alla nascita c'è molta più precisione di quanto si pensasse una cinquantina d'anni fa.»
Le porte logiche di un computer hanno pochissimi cavi in ingresso, i neuroni possono collegarsi a un numero grandissimo di sinapsi e, per fare un solo esempio, i neuroni del cervelletto, le cellule di Purkyne, hanno circa 80000 terminazioni sinaptiche eccitatorie.
Il cervello umano è plastico. Non è legittimo considerare il cervello come una collezione fissa di neuroni collegati in uno schema complesso. «Le connessioni non sono fisse, come sarebbero nella simulazione al computer... ma cambiano di continuo. Non intendo dire che cambino le posizioni dei neuriti o dei dendriti. Gran parte della loro "cablatura" è stabilita a grandi linee dalla nascita. Mi riferisco alle giunzioni sinaptiche, dove ha luogo effettivamente la comunicazione fra i diversi neuroni. Spesso queste giunzioni sinaptiche si hanno in corrispondenza di spine dendritiche, le quali sono minuscole protuberanze su dendriti nelle quali si può stabilire il contatto con bottoni sinaptici. Qui non si ha un vero "contatto" fisico, ma fra spina e bottone rimane un piccolo spazio (la fessura sinaptica) della grandezza giusta: circa un quarantamillesimo di millimetro. Ora, in certe condizioni, queste spine dendritiche possono contrarsi e interrompere il contatto oppure ne possono crescere di nuove e ristabilire un nuovo contatto.» Insomma, per continuare l'analogia con l'IA, dovremmo essere in grado di costruire un computer in grado di cambiare continuamente per avere qualcosa di simile ad un modello umano di intelligenza e percezione.
Ora abbiamo a che fare con computer quantistici, cioè con macchine capaci di valutare vari e diversi eventi alternativi ed affrontare situazioni nelle quali se x è possibile e y è possibile, è certamente possibile qualsiasi combinazione di x e y. Ciò avvicina l'IA al modello umano di mente, ma non possiamo ancora dire il cervello funziona come un computer quantistico.
«Io non arrivo a questo estremo: secondo me le azioni quantistiche sono importanti per comprendere i processi cerebrali, ma le azioni non computazionali del cervello avvengono nel passaggio fra il livello quantistico e quello classico, che va oltre la comprensione della macchina odierna.» (2)
Penrose crede così di aver fatto la scoperta più promettente ed il passo più importante per localizzare la linea di confine tra fisica classica e quantistica volgendosi alle ricerche di Stuart Hameroff sui microtubuli. In ogni cellula eucariotica esiste una struttura detta citoscheletro, costituita in alcune parti da microtubuli, presenti anche nei neuroni cerebrali. Ma i microtubuli si trovano anche nei parameci e nelle amebe, organismi privi di neuroni, e che pure sono in grado di muoversi e svolgere funzioni complesse. Il che potrebbe confermare che il microtubulo è un'unità nervosa in grado di compiere qualcosa di simile ad un elementare atto di governo. Se ciò avviene in organismi unicellulari, perché non dovrebbe accadere anche all'interno di neuroni in organismi più complessi?

Il ruolo dei microtubuli, secondo Hameroff, sarebbe duplice: da un lato essi determinerebbero la lunghezza degli assoni e dei dendriti, dall'altro sarebbero i responsabili del controllo della forza di connessione fra neuroni. «Anche se l'attività dei neuroni del cervello sembra assomigliare a quella di un computer, si tratterebbe allora di un computer in cui i collegamenti tra i fili sono costantemente modificati da una struttura di controllo di livello più profondo: questa dovrebbe essere simile ai microtubuli...» L'azione consiste nel trasportare neurotrasmettitori. Le molecole trasportate sono d'importanza decisiva per le sinapsi. La qualità e la forza di una sinapsi può essere cambiata dall'azione dei microtubuli.
Penrose sostiene che ogni microtubulo è un computer quantistico, che agisce ad un livello molto più profondo di quello dei neuroni. Finora, tuttavia, non mi è capitato di leggere con esattezza a quali livelli disciplinari sia riportabile e commensurabile l'attività quantistica nei microtubuli, e se ad esempio, vi sia ancora uno spazio per un contesto biochimico, che costituisce comunque una chiave di volta per avvicinare in modo diretto e non tortuoso il mistero del vivente.

Ne riparleremo.

Quasi tutte le citazioni sono tratte da R. Penrose - La mente nuova dell'imperatore - ora in Superbur Scienze - settembre 2000
Le altre? Andate a cercarle su La strada che porta alla realtà - BUR scienza 2006 oppure su J. Brockman - La terza cultura - Garzanti 1995

gm - 12 marzo 2007