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Peirce: la revisione delle categorie kantiane e gli scritti anticartesiani
di Daniele Lo Giudice

Secondo chi ha avuto l'opportunità di studiare approfonditamente il pensiero di Peirce, gli scritti del filosofo del Massachusets cominciano ad acquistare rilevanza ed originalità dopo il 1865. Del 1868 è On a New List of Categories, centrato sulla revisione delle categorie kantiane. Per Peirce le categorie hanno la funzione di ricostruire in unità ciò che il molteplice della sensazione consegna al cervello. Ma questo è pacifico. Peirce trova però inaccettabile riconoscere le categorie come forme a priori della coscienza. Le deve quindi porre come risultato di un procedimento logico, di una riflessione sul come pensiamo e perché pensiamo così. Dopo ciò, Peirce riduce ad una triade il blocco delle categorie, limitandole a Qualità, Relazione e Rappresentazione. Il processo logico che porta alla loro individuazione non fa capo a dati sensibili già strutturati secondo le forme a priori di spazio e tempo, ma ad "un sentimento" di complicazione e confusione che ci spinge a differenziare le varie impressioni sensibili. Nel diversificarsi da Kant, Peirce muove comunque da un'esigenza soggettiva di ordinare la materia confusa. Il primo passo è orientato dall'esigenza di definire la Qualità. Essa non si da nell'impressione, anche se così parrebbe, ma è una pura astrazione e la sua applicazione ad un oggetto è schiettamente ipotetica. L'astrazione, infatti, richiede che l'oggetto sia considerato come rispetto a qualcosa, pertanto la definizione di Qualità non è mai esattamente rispecchiamento dell'oggetto, ma solo un suo connotato generale. Il che potrebbe voler dire che l'oggetto ci appare come fenomeno e non come essenza o cosa in sé. La qualità, secondo Peirce, deriva da una comparazione per contrasto o similarità con la Qualità di altri oggetti. Quindi da una Relazione, la quale, a sua volta, implica l'esistenza di un interpretante, ovvero, come in genere si dice, di una relazione mediatrice. Cos'è esattamente l'interpretante? Peirce lo chiarirà definitivamente molto più tardi, ma già qui possiamo comprendere che quando noi utilizziamo la Rappresentazione, di fatto interpretiamo ciò che si presenta ai nostri occhi sia in termini di Qualità che in quelli di relazione.
In altre parole, la Qualità è data dalla Relazione e può essere realmente compresa nella sua realtà da una Rappresentazione. Se escludiamo la possibilità di conoscere direttamente le impressioni sensoriali come sono in sé stesse, avviene che tanto la Qualità quanto la Relazione trascendono la forma originaria del dato sensibile. Diventano perciò simboli, segni. Per questo Peirce dice che la logica è scienza dei segni.
In numerosi scritti successivi pubblicati sul Journal of Speculative Philosophy edito a St. Louis prima degli anni '70, quindi prima delle discussioni al Metaphysical Club, Peirceritorna su questa sua teoria della conoscenza in saggi classificati come "anticartesiani" per l'ovvio motivo che in essi veniva negata una qualche validità al dubbio metodico cartesiano. Peirce non contesta che si possano verificare intuizioni. Però rifiuta decisamente di credere che esista in noi un'autonoma facoltà intuitiva che potrebbe consentire di ignorare tutto ciò che noi già sappiamo in base a ciò che abbiamo appreso, o studiato, o visto ed esperito nelle nostre indagini. In ogni caso ed in tutti i casi noi partiamo da una conoscenza precedente, frutto di inferenze precedenti. In tali saggi, Peirce si sforza di spiegare che l'autocoscienza è consapevolezza del proprio "io" e che essa comincia a formarsi come qualcosa di rilevante, un vero e proprio patrimonio personale da usare in ogni circostanza, in quel momento particolare dello sviluppo individuale caratterizzato dallo sviluppo del linguaggio. Imparando a sentire (cioè a capire ciò che viene detto), a parlare, a leggere ed a scrivere, Peirce ritiene che noi impariamo anche a distinguere fatti ed apparenze, e soprattutto impariamo a distinguere ciò che si è appreso autonomamente e ciò che altri hanno testimoniato nelle medesime circostanze; impariamo quindi a distinguere le nostre interpretazioni da quelle degli altri, ci rendiamo conto, soprattutto dei nostri possibili errori di comprensione e di valutazione. Cominciamo a riflettere sul fatto se abbiamo visto bene, oppure ci siamo sbagliati od illusi. In ogni caso, sperimentare l'errore ci porterà a pensare che l'io è fallibile, sia questo il nostro "io" o quello di qualche altro. In tale situazione acquista importanza il tema dell'intersoggettività, cioè del confronto del nostro sapere con quello altrui. Senza linguaggio e quindi scambio di informazioni, non ci può essere intersoggettività. Peirce contesta nuovamente la pretesa di fondare la verità delle nostre sensazioni su basi puramente soggettivistiche. Gran parte di ciò che sappiamo e di ciò in cui crediamo ha natura predicativo-inferenziale e non ha quindi carattere di immediatezza. Deve quindi cadere la pretesa di avere un momento primo ed assoluto della conoscenza. Essa nasce e si svolge attraverso un processo inferenziale infinito. Non c'è un punto di partenza, non c'è una stazione terminale. Ma questo non vuol dire che ogni storia particolare della nostra conoscenza, ad esempio il giorno in cui abbiamo cominciato a studiare la chimica, non abbia un inizio o che questo sia posto arbitrariamente. Vuol solo dire che prima di cominciare a studiare la chimica sapevamo qualcosa di vago attorno ad essa e potevamo anche nutrire pensieri sbagliati nei suoi confronti, o persino "intuizioni" corrette. Però, Peirce vuol anche sostenere che non c'è un inizio vero in senso assoluto, e questo potrebbe essere un errore da matita blu se riferito all'individuo, mentre non lo è se riferito alla conoscenza socializzata. Infatti, se riferiamo l'osservazione peirceana alla storia individuale di ciascuno di noi, non possiamo dimenticare che cominciamo a conoscere ciò che ci circonda ed anche noi stessi nel momento stesso in cui nasciamo. Nascere è il punto di inizio, posto che non ci sia una semicoscienza ancor prima, e l'esserci non è altro che il susseguirsi di prese d'atto nei confronti delle cose e delle persone che ci circondano, seguito da riflessioni sull'esperienza compiuta. Ma Peirce, collocandosi in una prospettiva meno "genetica" e più "logica", si rivela testardamente aggrappato a questa sua idea. Ricercare un fondamento per lui equivarrebbe ad ammettere l'esitenza di un pensiero senza segni. Tutto ciò che possiamo venire a sapere attorno al nostro stesso pensare è legato e condizionato al suo muoversi tra segni, riferendosi a segni.

DLG - 31 ottobre 2005