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Franca D'Agostini - Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza
Dieci lezioni sulla filosofia contemporanea - Carocci editore maggio 2005
di Daniele Lo Giudice
La scelta del titolo è stravagante ed è riferita ai versi del poeta Sandro Penna, con quel tanto di provocatorio che implica il trovarsi nel chiuso di una stanza a divagare, pensare, "pensare filosoficamente"... che cosa significa pensare? Una risposta si trova in fondo, occupa tutto il corpo della X lezione e stringe dappresso la questione del diritto, dovere, piacere e dolore di pensare filosoficamente, mostrandone il senso. In chiara polemica con l'ultimo Rorty che ha negato la necessità di guardiani della razionalità, Franca D'Agostini accetta fino in fondo la sfida: servono o meno questi pasdaran della razionalità? Certo che sì! L'immagine è forte e può persino turbare. Personalmente avrei preferito un'espressione più soft, magari il rifiorire dell'husserliano funzionario dell'umanità. Però, non posso negare, che la sostanza ed il significato non cambino di molto. C'è in giro molta bad philosophy, ed il buon filosofo deve impegnarsi a criticarla.

Credo che questo sia un libro importante, soprattutto per chi si trova, come me, nella situazione di dover rintracciare e seguire un orientamento nel lavoro filosofico che allo stesso tempo offra un senso rinnovato al filosofare. E questo, al di là del fatto che ci si possa sorprendere più o meno d'accordo, e anche più o meno perplessi, rispetto ad alcune prese di posizione di Franca D'Agostini. Personalmente, mi trovo istintivamente ed immediatamente d'accordo. Ma, il lettore di queste note tenga conto che istintivo ed immediato non sono parametri di giudizio sufficientemente validi. Tale accordo deriva evidentemente da un mio passato particolare, nel quale mi sono misurato con questi problemi, ed altri simili, senza venirne a capo con altrettanta lucidità. Non è escluso, però, che una meditazione ulteriore porti a qualcosa di diverso.
Va subito detto che questo è soprattutto un saggio di metafilosofia, ossia "un esame dei problemi che riguardano oggi la pratica filosofica", che inizia da un punto: la differenza tra filosofo e studioso di filosofia. Meditandolo, ho scoperto di non essere del tutto in sintonia con D'Agostini. quando spiega tale differenza.

Differenza tra filosofo e studioso di filosofia
Riporto pari pari cosa dice D'Agostini: «Ora gli studiosi di filosofia non sempre possono definirsi filosofi. Platone riteneva che si diventasse filosofi solo dopo lungo tempo, molte discussioni e lunghe ricerche. Non necessariamente è così; però possiamo assumere che il filosofo sia un'evoluzione particolarmente riuscita dello studioso di filosofia: entrambi si misurano con problemi fondamentali, ma lo studioso per lo più interpreta e riporta soluzioni altrui, il filosofo cerca e offre soluzioni in qualche misura originali.» E' vero? Sì, ma in un senso del tutto relativo. Ci sono giorni in cui siamo filosofi ed altri nei quali siamo solo studiosi di filosofia. Personalmente mi ritengo più efficiente come studioso di filosofia, ma vorrei osservare che anche D'Agostini è eminentemente studioso di filosofia che filosofa. E ciò non è il sintomo di una minore genialità, ma il segno di un'apertura al pensiero degli altri che arrichisce senza penalizzare.
L'ultimo professore, studioso di filosofia, con cui ho parlato, mi ha detto chiaro e tondo: caro Daniele! Hai mai visto un professore di lettere insegnare a qualcuno a diventare un grande romanziere? Per diventare un romanziere originale e non una fabbrica di pagine insulse, devi dimenticare tutto quello che hai imparato a scuola sulle metodologie e gli stili di scrittura, sulla critica letteraria, su come si dovrebbe leggere un testo, sui modi di costruire una storia, e cominciare ad andare avanti alla tua maniera, evitando le scuole di scrittura creativa come la peste. Un professore di storia della filosofia può giustappunto insegnarti la storia del pensiero, persino offrirti la sua filosofia e la sua saggezza, darti delle ricerche da fare, ma non può insegnarti a diventare un filosofo. Gli ho risposto che forse questa del grande filosofo è un'idea vecchia, che oggi prevale una pratica d'equipe. Mi ha guardato scuotendo la testa. Il problema - ha detto - è sempre quello di arrivare ad occupare una cattedra, e quella non la occupa l'equipe, la prende sempre e soltanto uno. O è uno studioso superiore agli altri, oppure è solo un raccomandato. Vero anche questo. Aggiungiamo solo che potrebbe darsi l'ulteriore alternativa del filosofo genuino. Però, realisticamente, si tratta di liberarsi di una visione rosea ed ingenua del beato mondo della cultura, oltre che della visone romantica dell'eroe che risolve da solo tutti i problemi filosofici. Ebbene, il lavoro di D'Agostini è utile anche in questo senso: evidenzia "conflitti d'interesse" non solo teorici, dicendo anche, e qui sono d'accordo, che Bertrand Russell ha definitivamente sepolto l'idea romantica dell'"eroe filosofo" che costruisce sistemi con pretese di validità universale.

Uno stipendio a fine mese... per rilanciare l'autonomia del lavoro filosofico
«I conflitti metafilosofici che hanno accompagnato il Novecento - scrive D'Agostini - erano anche l'esito di una difficile situazione della filosofia. La disciplina non godeva di molta fortuna, era costretta a muoversi in modo parassitario, legandosi alla scienza, o alla religione, o all'arte, o alla politica. Era dunque comprensibile che si enfatizzassero le differenze e le incommensurabilità. Per esempio, con una certa perspicacia Richard Rorty notava nel 1981 che i conflitti più aspri tra filosofi analitici e filosofi continentali riguardavano la decisione di stipendiare i professori di logica. Una sottile questione metodologica, metateorica, metafisica (quanta logica usare in filosofia?) si collegava direttamente a un problema di fondi dipartimentali. E' probabile inoltre che la stessa teoria della "crisi della ragione", che ha fatto molto parlare di sé nella seconda metà del secolo scorso (recuperando uno stile di discorso tardo-ottocentesco), in realtà esprimesse lo sforzo di onestà di professori di filosofia costretti a inseguire una materia che si sospettava irrilevante, e che poneva rimedio a ciò insegnandone il declino, o l'autocritica.
Ora - prosegue D'Agostini - non voglio dire che la situazione attuale sia tanto diversa, e che la filosofia possa godere di finanziamenti straordinari, e di un territorio della ragione facilmente ricomponibile. A quanto mi risulta non è così. Certo è però che almeno sulla carta l'epoca di ciò che chiamerei il parassitismo culturale della filosofia sembra conclusa, e forse ci si può muovere ( e di fatto ci si muove già) diversamente.»

E' una considerazione incoraggiante. Ma non risolve la questione fondamentale che dobbiamo affrontare noi giovani studiosi di filosofia. Come trovare un impiego da filosofi? Dobbiamo semplicemente prendere atto che siamo in sovrannumero e che ciò che sarebbe un bene sociale si muta subito un male individuale? Oppure dobbiamo capire, credo una volta per tutte, che la filosofia può essere una professione riservata a pochi, che ci sono professioni intellettuali e scientifiche altrettanto degne, e che seguendo una scienza particolare, tutto sommato, non ci è affatto precluso il filosofare in generale?

Professionalità filosofica e consumatori di filosofia
Ciò sollecita una riflessione di interesse più vasto. Esiste ormai un pubblico per la filosofia, un ceto di consumatori di filosofia che non si identifica con i laureati nella disciplina, e nemmeno con i laureati in generale. Fatico a capire, per esperienza diretta, se ciò corrisponda ad un esigenza profonda di interrogare temi vitali, o sia semplice curiosità per lo stravagante mondo di Alice oltre lo specchio, l'unico luogo in cui i gatti ridono, ma anche l'unico luogo in cui si possono trovare "sorrisi senza i gatti". Se la filosofia è indagine e costruzione di concetti, infatti, forse ci interessano più i sorrisi (non sostanziali) che i gatti sostanziali, e la "gattosità" più che la distinzione tra razze concrete.
Ciò chiarito, almeno un po', veniamo al tema che solleva D'Agostini, citando (e poi in parte garbatamente polemizzando con l'autore) un saggio di Diego Marconi, apparso su "Iride" (Torino 2002). Marconi sosteneva l'esistenza di un dualismo tra filosofia pubblica e filosofia professionale. Solo la prima risponderebbe al "bisogno sociale di filosofia". La seconda, essendo appunto una pizza (espressione mia, cioè no, di Guido Marenco che ne potrebbe rivendicare il ©) è destinata "al silenzio dei corsi universitari" ed al confronto tra specialisti. «Naturalmente - scrive D'Agostini - si tratta di un dualismo preliminare e generico, fondato sulla distinzione giornalistica tra i filosofi che "scrivono bene" e quelli che "non sanno scrivere", o su una versione semplificata della secolare questione analitici-continentali, o su antiche e illustri contrapposizioni , come quella discussa da Giulio Preti, di retorica e logica. Il problema di fondo però esiste, e Marconi fa bene a indicarlo, anche se forse nella sua disanima della questione, pur volendo mantenersi a questo livello preliminare di indagine, avrebbe dovuto tener conto di una figura ormai resa canonica da una grande quantità di studi recenti sulla scientific governance: quella del cosiddetto "scienziato visibile", il ricercatore con alto profilo mediatico, il cui lavoro professionale è spesso se non sistematicamente accompagnato dal riscontro dei media. Evidentemente, l'esistenza di una figura di questo tipo costituisce un controesempio alla tesi di Marconi (non tutti gli specialisti sono da consolare per il loro scarso successo pubblico), ma questa merita a mio avviso una discussione dettagliata: anzitutto perché può avvalersi di riscontri di fatto molto emblematici (i fatidici 70.000 visitatori del festival di filosofia di Modena, nel settembre 2003), in cui si esibivani filosofi non propriamente "professionali" secondo l'accezione prevista da Marconi, o comunque non in veste "professionale"); in secondo luogo perché si sviluppa in una serie di implicazioni illuminanti, che mostrano quanto sia urgente oggi ripensare il problema della Popularphilosophie, e se mai delimitare meglio il senso di una vera professionalità in filosofia.»
A ciò segue un'osservazione altrettanto interessante: «In verità ho il sospetto che i concetti di professionalità e specializzazione servano soprattutto a regolare conti di tipo accademico, ma non abbiano alcun legame con l'effettività delle contingenze storiche. All'epoca in cui Weber scriveva le sue considerazioni sul lavoro intellettuale, o in cui Russell si lamentava dell'olismo di Bradley, era effettivamente sensazionale e nuovo il fatto dello specialismo scientifico e filosofico, e meritava difenderlo e capirlo, o eventualmente criticarlo, ma oggi non mi sembra che sia così: io non vedo in giro così tanti filosofi sistematici, che pretendano di risolvere "ogni problema da sé", ma non vedo neppure così tanti specialisti assoluti, che non abbiano la minima idea delle generalità relative alla disciplina di cui si occupano. Può darsi che io non abbia una esatta visone dei processi in atto, e che esistano ancora in filosofia posizioni "eroiche" o pretese tali, da cui è necessario prendere le distanze, come faceva Russell nel 1911, ma ho anche un'altra ipotesi, e la presenterò più avanti.»
In sostanza, per D'Agostini la domanda sociale di filosofia è più complicata di quel che pensa Marconi: "non si tratta solo di sentire chiacchiere sull'anima, ... la morte... neppure del bisogno di guardare alle cose come a un tutto,...in gioco non sono le filosofie divulgate, ... sapienziali o sciamaniche ... ma reali richieste pubbliche, che concernono lo scrivere leggi o stilare protocolli, il rivedere le basi ideologiche di un partito, ripensare i sistemi di insegnamento ... definire l'identità di comunità cosmopolite..." C'è, insomma, gente in cerca di uno speciale tipo di esattezza, e la verità è che risponde a questo tipo di domanda il buon professionista della filosofia più che il retore muscolare.

Come vorrei che fosse vero!
D'Agostini ha in mente, credo, i lettori dei quotidiani, quelli che frequentano il web alla ricerca di siti ragionanti; purtroppo il mondo, pardon, l'Italia, non è fatta di lettori di quotidiani, ma di cellularisti incalliti che si scambiano smsciocchezze ed appassionati di subcultura.
Sì, è questo il punto di maggior dissenso nei confronti del libro, che comunque mi ha entusiasmato per diversi altri motivi.
Tale riserva non mi vieta di tacere su ulteriori osservazioni ben temperate. Se i filosofi professionisti intervenissero più direttamente nell'arena mediatica, eviterebbero di lasciare il campo "ai ragionieri che si improvvisano filosofi per nostalgia dell'assoluto". Bella.
Questi mestieranti della partita doppia danno un'immagine "antiquata e dannosa" della filosofia. Pensano ed insegnano che dopo Kant e i classici non ci sia altra filosofia. Quando passano queste idee può persino succedere che un celebre fisico si permetta di gettare immondizia sulla filosofia di Kant muovendo dall'antistorico rimprovero dell'ignoranza dei buchi neri da parte del filosofo di Königsberg!
Dunque, un po' di relativismo storico non guasta.
Ma guai ad esagerare.

Dr. Jekyll e Mr. Rorty
Quasi a fine libro arriva la botta che in fondo aspettavo. I disastri combinati da Rorty sono inenarrabili, anzi sì. Quasi assumendo le vesti di un pm della ragione, D'Agostini svolge un'appassionata e appassionante requisitoria che non lascia alla giuria popolare alcun margine di dubbio. Rorty è colpevole di lesa maestà. Il caso Rorty va inquadrato nel giusto contesto. Si tratta di capire come gli americani recepirono il postmodernismo: "idee già vecchie per un buon frequentatore della filosofia francese nel decennio 1968-1978" furono accolte con un certo favore. Questo comportò alcuni paradossi con effetto ritardato, come la scoperta da parte degli yankees dell'esistenza di Nietzsche e Adorno, oppure che una teoria filosofica si possa tradurre in una scelta politica, "che era ... cosa arcana se forse non stupenda per un filosofo inglese od americano." Per farla breve, a questo punto comparve in scena Richard Rorty, o meglio, il Dr. Richard e Mr. Rorty, come ha scritto Pascal Engel parafrasando Stevenson. Così D'Agostini: « l'acuto e sensibile interprete delle evoluzioni e involuzioni della filosofia analitica (Dr. Richard), e lo sbrigativo e rozzo liquidatore della verità e dell'oggettività (Mr. Rorty). Quel che ci interessa soprattutto è Mr. Rorty, nel cui lavoro si può riscontrare una interessante e influentissima variante di cattiva filosofia.»
Bad philosophy, dunque, nel "senso di vago e impropriamente generalizzante", "interessata alla seduzione retorica dell'interlocutore più che a fornire buoni argomenti, segretamente convinta dell'irrilevanza sostanziale della filosofia, persuasa del primato del pratico sul cognitivo, e delle strategie intersoggettive sulle evidenze oggettive". Rorty, facendo ampio ricorso a tale bad philosophy avrebbe così avanzato una tesi molto forte contro la filosofia forte, che sarebbe quella filosofia che si ritiene in possesso della verità. «In ciò naturalmente Rorty si trovava in compagnia della tradizione del pensiero critico, che in Adorno come in Popper usa la negatività a favore della ragione, e diffida della teoria quando diventa istituzione, perché ne vede la tendenza a tiranneggiare la libertà. Ma facendo uso dello stile tranchant tipico della filosofia analitica (specie di quella definita dall'asse Carnap-Quine), ignorando la natura metodologica (o se si preferisce tracendentale) e non metafisica di queste posizioni, Mr. Rorty sprofondava in un abisso di inutili contraddizioni, che hanno fatto spendere molto inutile inchiostro ai suoi critici.»
Si può condividere questo giudizio liquidatorio? Un'ulteriore considerazione può aiutare nella digestione. C'è bad philosophy secondo D'Agostini quando il sismografo rileva l'uso generico, polemico o politico di strutture concettuali summa genera o trascendentali come essere, realtà, verità. Si deve allora diffidare di un filosofo che parla genericamente contro la realtà o la verità (o a favore, fa lo stesso): «o è un tipo confuso, o sta usando l'uno o l'altro concetto per indicare come metafore qualche suo nemico personale... Difficile non rimanere perplessi di fronte all'insistenza di Mr. Rorty nel promuovere l'uscita dal sistema verità-rappresentazione ignorando o mostrando di ignorare che tale promozione deve pur basarsi su qualche verità, adeguatamente rappresentata... Ma allo stesso modo, è difficile dare credito a un filosofo che parli di realismo (anche in contesti non "scientifici") fingendo di ignorare che praticamente ogni autore contemporaneo ha sostenuto forme diverse di realismo o quasi-realismo o realismo minimale (si vedano per l'appunto le posizioni di Blackburn), e che dunque l'uso contrastivo o polemico del concetto di realtà, al di fuori di queste sottili distinzioni, non ha alcun rilievo filosofico.»

Logica, filosofia analitica, fenomenologia ed ermeneutica
Elementi centrali di questo lavoro sono a mio parere le magistrali lezioni sulla logica, la filosofia analitica, la fenomenologia e l'ermeneutica. Indicano che rispetto quantomeno a questi quattro orientamenti fondamentali, cresciuti autonomamente nel secolo scorso, c'è molto da fare per uno studioso di filosofia. Mi limiterò alla logica perché mi pare importante, come ha fatto D'Agostini, riconnetterla al problema della verità, indicando, allo stesso tempo, quale sia oggi il metaconcetto possibile di verità.
Può destare più di una perplessità l'idea che questi diversissimi orientamenti si possano legare l'uno all'altro in una trama intitolabile né pensiero forte, nè pensiero debole, semplicemente pensiero. Sincretismo? Relativismo?
Lascio la parola a D'Agostini: «Ci si può chiedere quanto e se l'idea della plurimetodicità della filosofia non implichi qualche forma di relativismo. Va precisato a scanso di equivoci che esistono differenze tra relativismo ontologico o epistemologico e pluralismo metodologico. Si può ammettere l'esistenza di una pluralità di metodi diversi di approccio alla realtà senza per questo dover ammettere che non esiste una realtà, o che non esiste possibilità di accordo circa la conoscenza della realtà. Inoltre, non è detto che uno stesso obiettivo - nel caso specifico della filosofia: la soluzione o l'elaborazione di problemi fondamentali - non possa essere perseguito in modi diversi e servendosi di tecniche strumenti diversi. Infine, e soprattutto, non è detto che tra queste diverse tecniche si debbano sempre determinare reciproche resistenze, o incompatibilità, e che conseguentemente i risultati che ciascuna porta a conseguire debbano essere incommensurabili.
Invece - prosegue -, è probabile che a certe condizioni la confrontabilità delle "filosofie" sia salvata, proprio grazie alla pluralità delle tecniche di cui "la filosofia" può avvalersi.»

Logica
Contro gli avversari prevenuti della logica, mi è molto piaciuto questo argomento: «... l'idea che "entrare" in un'ottica logica significhi in qualche modo perdere di vista la concretezza delle situazioni in cui il linguaggio e il pensiero vengono usati, o avventurarsi nelle lande ghiacciate (o in paradisi, a scelta) dell'astrazione matematica, o imprigionarsi in una struttura normativa inutile oltre che ideologica» non ha fondamento profondo. Recentemente, abbiamo visto lo sviluppo di programmi di integrazione tra logica e teoria dell'argomentazione che di fatto muovono verso la "creazione" di una continuità tra normatività logica e ragionamento filosofico e comune. Ma ciò non impedisce di riaprire il discorso su un rapporto non sempre lineare tra metodi filosofici e logica. «L'ipotesi di una tensione sostanziale tra filosofia, intesa nel senso che Nietzsche considerava "giusto", ossia come libera pratica del "pericoloso forse", e verità, come conformità del linguaggio e fatti oggettivi, ha almeno due aspetti interessanti. Il primo considte nel ritenere che gli enunciati filosofici non siano veri nello stesso modo in cui sono veri altri tipi di enunciati: questo naturalmente ridurrebbe molto il ruolo della logica in filosofia, e per la filosofia, o porterebbe all'idea di una filosofia dotata di una propria logica specifica... Il secondo, consiste nel supporre che in filosofia si debba e si possa prescindere dalla verità, a causa precisamente della fragilità di quest'ultima, e dell'eventuale uso dogmatico che invece se ne potrebbe fare (dal momento che la verità è opinabile, io posso sempre spacciare la mia verità come assoluta). Entrambi sono discutibili.»

La verità in filosofia
C'è una resistenza della filosofia a farsi trattare logicamente. Potremmo rifarci a ciò che scrisse Carnap sul "nulla che nientifica" di Heidegger, ma D'Agostini segue un'altra pista, quella kantiana per la quale "i concetti senza intuizione sono vuoti". Forse la resistenza alla logica sta proprio nella vacuità del concetto senza intuizione, di cui un buon esempio potrebbe essere appunto il "nientificante nulla" di Heidegger, che è solo un gioco di parole, un tentativo di accostamento creativo per vedere l'effetto che fa, ma non intuisce un bel ... niente. Comunque sia, se riconosciamo che alcuni enunciati scientifici, come 2+3= 5, "i felini hanno i baffi e unghie retrattili (ma non sorridono nel mondo di Alice, perché non c'è mai stato "un mondo di Alice), o storici come "Cesare fu ucciso da pugnalate di congiurati alle idi di marzo del 44 a.C.", siamo sulla buona strada per definire, quantomeno per approssimazione, un significato minimo di verità. Con ciò siamo anche a capire che la logica della filosofia non si forma al di fuori della logica in generale. Perché ci sia un sorriso occorre un soggetto, una sostanza capace di sorridere, una scimmia od un essere umano, forse un cane... si mi è sembrato vedere dei cani sorridere, gatti mai.
Per D'Agostini, la distinzione rilevante non è tra verità e non-verità, «ma tra la presunta difficoltà dell'accertamento della verità e la necessità, invece, della pretesa di verità, ossia il fatto che la verità deve pur sempre esser presupposta, anche se non necessariamente conseguita.»

Nietzsche
Analizzando lo scritto giovanile di Nietzsche Su verità e menzogna in senso extramorale, D'agostini identifica un argomento così articolato: 1) perchè vi sia verità, come conformità parole-cose, occorre il linguaggio. 2) il linguaggio è basato sulla menzogna, dunque la verità si fonda sulla menzogna. Ciò getta Nietzsche in una situazione contraddittoria, una via senza uscita. Ci si chiede: perché usa il linguaggio se per sua natura è menzognero? Perché usa la logica se essa stessa è menzogna? Non è la stessa cosa che chiedersi perché un pacifista gioca alla battaglia navale e gode nell'affondare le navi americane. Questo, infatti, è un gioco catartico. E' molto più grave, gravissimo, usare uno strumento, metti la calcolatrice, di cui dubiti. Se dubiti, perché la usi? Tuttavia, riconosce D'Agostini: «La valutazione filosofica di queste pagine nietzscheane potrà ben ammettere che la perplessità indicate da Nietzsche contengano qualcosa di vero e interessante; per esempio, illustrano il fatto che nella sfasatura naturale tra la realtà e il linguaggio che la descrive può accomodarsi il falso, spacciandosi per vero, che dunque la distinzione del falso dal vero, nell'ottica di un'idea di verità come adeaquatio o corrispondenza realtà-linguaggio, può diventare così difficile, da far pensare che il linguaggio sia veicolo di falsità prima che di verità. Quel che conta però è che il testo si contraddice, proprio sul punto essenziale, ossia circa la necessità di fare a meno del linguaggio e della verità. Dunque anche nel caso di un autore il cui stile non avrebbe affatto pretese di rigore logico, e le cui intenzioni sono fortemente contrarie all'uso filosofico del concetto di verità, la verità sembra ostinata a sopravvivere, e sopravvivere anche quel particolare rapporto di verità e validità che la logica ha il compito di esaminare e su cui può indicare principi di orientamento.»

Con la testa in vacanza sopra un azzurro mare ...
Nel più giovanile dei miei saggi pubblicati su Moses (1) asserivo che la buona novella narrata dalla filosofia consisteva nella cessazione della fede nel mito. Basta con gli dei e le cosmogonie allegoriche; l'origine, anzi, il principio del mondo è materiale, fisico, ossia naturale. C'è un principio che permea tutto e questo è l'acqua, disse Talete. E proprio a Talete è spesso rivolta l'ironia più aspra dell'atteggiamento anticoncettuale. Mentre il nostro si abbandonava alle più complicate astrazioni, cercando di mettere a fuoco concetti nuovi, cadde nella buca, cioè in un pozzo a cielo aperto, e la servetta tracia rise di lui. Anche Nietzsche fece del sarcasmo sul "pensare puro", pur non facendo altro tutta la vita. Poi divenne pazzo, si sa, mentre Talete fece i soldi (si racconta, e può esser vero) speculando sulla grande stagione dell'ulivo...
Nel confronto del "pensare puro" gravano non solo il sarcasmo tracio (da servetta) di Nietzsche, "ma anche perplessità di una grande tradizione di kantiani, dialettici, pragmatisti, neopragmatisti, marxisti, ermeneutici". «La contemporaneità filosofica -aggiunge D'Agostini - è stata fortemente caratterizzata - in particolare per la tradizione europea - da una grande difesa del pensare concreto e politico, dalla teoria che è alleata alla prassi, del pensiero che trasforma il mondo invece di interpretarlo.» Ci sono molte posizioni solidali con la servetta tracia, e non appartengono alla sola filosofia. Tuttavia, per quanto ne capisco, il pensiero puro è molto stimato nella scienza, forse più che tra gli stessi filosofi. «Il tentativo di correggere la filosofia dalla sua naturale astrattezza, e se si vuole dal suo naturale e relativo platonismo, è un dato complesso, che ha complicate e a volte buone ragioni culturali e metafisiche. In molti casi, la critica del pensiero astratto e la difesa di un'idea pratica ed antiteorica della filosofia sono state concepite e presentate nel quadro di un programma di salvataggio della filosofia stessa dal rischio dell'irrilevanza culturale: si trattava di prendere le distanze dalla matematica e in generale dal matematismo delle scienze, e occorreva dunque sottolineare il legame del lavoro filosofico con la concretezza delle evidenze storiche, culturali, politiche. In anni recenti, il movimento di "riabilitazione della filosofia pratica" ha fornito una variante raffinata di questa tendenza.»

La pragmaticizzazione del linguaggio teorico si trova nella correzione kantiana della metafisica attraverso la prassi. I concetti non hanno correlati reali, nascono, quindi con scopi pratico-tecnici. E' la linea Hume-Kant, passa per Wittgenstein e pervade la filosofia contemporanea. Ma queste posizioni non scoraggiano la pratica teorica sebbene "un'accentuazione dei loro presupposti" possa "portare a conseguenze problematiche". Teniamo conto che il primato della teoria è deciso per ragioni pratiche, mentre quello della pratica è originato da ragioni teoriche; essendo la teoria del primato della pratica comunque una teoria (benchè autolimitativa), fino a quando non deriva dalla scoperta dei limiti del teorizzare una sconfitta della ragione, non sfugge in alcun modo all'idea della filosofia come attività teorica, "prassi della teoria". «Questa prassi, allora, dovrà avanzare le sue ragioni, e potrà farlo precisamente difendendo l'importanza (se non il primato) della teoria.»

Il nemico più serio: l'inconcettuale
Il filosofo in poltrona si tiene prudentemente lontano dalle zone a rischio. Evita i pozzi taletiani, le discoteche assordanti dove pazzi fanatici potrebbero farsi esplodere senza preavviso. Scopre di avere tre avversari: i sostenitori del primato della pratica, naturalisti e fisicalisti, i difensori dell'inconcettuale. Tra questi, dopo un attento esame, individua l'unico vero nemico nell'inconcettuale. Con gli altri si può accordare. Ebbene: anche «... costui però, io credo, può rientrare nella famiglia dei pensatori " in poltrona" per tre ragioni.
Anzitutto, quel che normalmente i teorici dell'inconcettuale disprezzano è il suo derivare in quanto Begriff da greifen, che indica uno spiacevole "afferrare", mentre si vorrebbe sempre essere metafisicamente gentili, passare accanto alle cose, e non impadronirsene ma semmai prendersene cura. L'idea che i concetti siano trattati alla stregua di enti da dominare, su cui chiudere mani avide e perciò poco filosofiche è una delle prime fonti ispiratrici della teoria dell'inconcettuale.»
Ma c'è anche una priorità genetica dell'inconcettuale. Ciò accade quando il pensiero è ancora animistico e "religioso". Per Blumenberg e Lyotard, ad esempio, il mythos non viene solo prima del logos, ma origina un altro regime che segue una via del tutto diversa ed autonoma. Così si genera "un antagonismo tra i due regimi" che costringe la filosofia a mantenersi "trasversale", dandosi anche il caso di una filosofia mitics contrapposta alla filosofia logica ed empirica, un "figurale" contrapposto al "discorsivo". Eppure, questa ipotesi non sembra tenere di fronte al rilievo che ogni pensiero è comunque un concepito, anche quando rappresenta scenari e raffigurazioni. «Le unità oggettive con cui si ha a che fare nel pensiero non sono necessariamente oggetto di elaborazione discorsiva, non sono solo e necessariamente concetti-parole.»
Vi è poi una posizione olistica, che predica l'indistinguibilità di una parte dal tutto. Per essa isolare un concetto dal continuo del pensare sarebbe arbitrario. «Infatti, nella prospettiva olistica, la determinazione del concetto è infinita, per definire ciascun oggetto devo usare un certo numero di altri concetti, ciascuno dei quali richiama per definirsi altri concetti.
Questa obiezione ha anzitutto una implicazione semantica e si tratta dell'indeterminatezza delle definizioni in un regime olistico: se davvero i concetti erano legati gli uni agli altri, il tentativo di definirne o anche solo trattarne uno separatamente dovrà mettere in questione tutti gli altri. In questo senso l'obiezione è facilmente aggirabile, se si adotta l'idea ragionevole dei sottosistemi semantici o "molecolari" che permettono una relativa esaustività: per definire il concetto C non è necessario riferirsi all'intero sistema linguistico, basta riferirsi all'area semantica di C, che è relativamente autosufficiente.»

Il pensiero è dunque il componente discreto del concepire, e lavora sia in funzione del dialogo intersoggettivo, sia in funzione del dialogo con se stessi. In tale situazione è facile comprendere che la condivisibilità si fonda sul discreto. Come potrebbe essere condivisbile un pensiero continuo? Solo se almeno due menti funzionassero allo stesso modo, sincronizzate come computer in una rete.
«Frege, in Der Gedanke, spiega che il "pensiero" va distinto dal "processo del pensiero": il primo in quanto ha a che fare con la verità è oggetto specifico della logica, mentre il secondo è oggetto della psicologia. Quel che sto sostenendo invece è che si può mirare a una caratterizzazione oggettiva anche del pensiero come processo, senza dover per forza cadere nella psicologia: ed è quanto hanno tentato ripetutamente di fare i filosofi che hanno mirato al pensiero come pratica o azione, piuttosto che come insieme di eventi mentali o dati oggettuali (più o meno propriamente linguistici).»

Il pensiero non è l'unico oggetto della filosofia
Occorre precisare che è a partire da Frege, e successivamente da Ayer, che alcuni filosofi hanno ristretto il lavoro filosofico al solo pensiero, alle sole "parole". D'Agostini cita Timothy Williamson ( Past the Linguistic Turn, 2004) come un buon tentativo di superare la limitazione linguistica attraverso un'analisi della confusione avvenuta tra i compiti della filosofia ed i suoi strumenti, tra i suoi oggetti e i suoi metodi. Perseverando nella limitazione, etica, estetica, filosofia politica diventerrebbero filosofie gregarie. In realtà non è così. Anche privilegiando il lavoro teorico, il filosofo esegue sempre un certo numero di operazioni non esclusivamente relative al pensiero stesso. Ad esempio, disloca la propria riflessione, spostandosi dal presunto all'ineffettuale, dal concepibile al possibile, dal contingente al necessario, dal particolare contestuale al generale extracontestuale; cerca connessioni e crea sconnessioni tra concetti; si riferisce direttamente al "mondo là fuori".
Inoltre, è tipico del filosofo il "trascendere" per astrarsi dal concreto e contingente, oppure per cercare, in senso hegeliano, il concreto reale oltre le separazioni create dal pensiero astratto che isola e divide. Si tratta in ambo i casi di un altro modo di raccontare il mito della caverna di Platone.

Trascendere
«La filosofia contemporanea in realtà ha elaborato precise controindicazioni all'idea socratico-platonica dell'"uscita" dalla caverna. Si dice spesso che quel che la contemporaneità eredita dalle epoche precedenti, dal razionalismo e dall'empirismo del Sei e Settecento, è l'idea di un certo primato dell' immanenza. Pensare in filosofia e in qualsiasi altro senso significa per noi partire dal qui ed ora dell'esperienza, sia essa esperienza scettica del dubbio, che fonda l'autoevidenza dell'io, sia essa esperienza dei limiti della conoscenza umana, incapace di cogliere le cose in sé stesse, sia essa ancora la fiduciosa esperienza fenomenologica delle essenze in carne ed ossa, o l'"innanzitutto e per lo più" del quotidiano secondo gli esistenzialisti, o la realtà naturale ineccepibilmente descritta dalla scienza, per i neopositivisti.
Come si giustifica allora, in questo quadro, l'idea di filosofia come trascendimento? D'altra parte, mantenendo questa idea, come l'uomo contemporaneo potrà ancora dirsi filosofo? Le oscillazioni circa l'astratto, il concettuale e l'universale che ho descritto in apertura naturalmente si giustificano anche in base a questi problemi, e molto spesso il principale sforzo metafilosofico contemporaneo consiste nel dire che si tratta sì di trascendimento, ma relativo all'immanenza (si tratta cioè di trascendentale e non di trascendente); oppure è un trascendimento nell'interno, per usare un'espressione di Habermas. In ogni caso, l'operazione in questione è complessa, e non facile da legittimare.»

Esperimenti mentali
Una forma particolare di trascendimento è l'esperimento mentale, cioè un empirismo simulato nella mente e mai realmente effettuato e verificato. Einstein, si sa, ne fece a bizzeffe. Seguendo Roy A. Sorensen, D'Agostini li ammette come forme della trascendenza immanente. «La teoria filosofica è una teoria più libera di principio dal vincolo dei parametri scientifici e dai riscontri fattuali. Questo non significa che debba viaggiare lontano dalla fattualità e dai parametri razionali, ma anzi, tutto al contrario: che il suo lavoro è preparato sia a più precisi riscontri effettuali, e alla messa a punto di parametri più adeguati. In un certo senso, si direbbe, la filosofia compie lo speciale e paradossale esercizio di un'analisi funzionale alla legge, e in particolare funzionale alla trasformazione delle leggi allo scopo ed alla salvaguardia della verità
Su questo piano incontriamo la visione dell'a priori neokantiana, la quale afferma che se impieghiamo "5" per contare cinque oggetti, questo "5" non viene dall'iperuranio, né da strutture innate, ma è il risultato di un'esperienza scientifica dell'umanità. Non esiste quindi un a priori assoluto, ma come evidenziato da Marburgo e da Cassirer, esiste una struttura-funzione "di un incontro primordiale tra gli organi umani di conoscenza e la realtà."

Concepire l'impossibile
Se per Hume concepibile e possibile coincidono vuol dire che che sia "se p è possibile allora p è concepibile", sia "se p è concepibile, allora p è possibile". Ovviamente potremmo fare diverse considerazioni pro o contro questa asserzione visto che a tutti sarà sicuramente capitato di concepire qualcosa di impossibile, ma non è questo il punto. Recentemente Tamas Szàbo Gendler e John Hawthorne hanno provato a chiarire come stanno effettivamente in rapporto possibile e concepibile. Essi hanno distinto tra possibilità epistemica, possibilità metafisica e possibilità nomologica, mostrando che possibilità metafisica è il poter essere di una cosa rispetto alle cose che sono, possibilità logica è l'essere compatibile con le leggi logiche, possibilità nomologica è risultare compatibile con le leggi fisiche, mentre la possibilità epistemica avrebbe due varianti: stretta e permissiva (ovvero "p è compatibile con quanto si sa", e "p non è incompatibile con quanto si sa"). La concepibilità epistemica sarebbe autonoma dalla possibilità. «Infatti, posso concepire qualcosa di epistemicamente impossibile: per esempio posso concepire che il mio gatto stia sul divano, anche se so che non è possibile, perché so che è da un'altra parte; so che non sono possibili i cavalli alati, ma posso concepirli.» L'esame dettagliato del lavoro di Szàbo Gendler e Hawthorne porta D'Agostini a concludere che la difficoltà di raffigurare l'impossibilità logica non dimostrano automaticamente l'impossibilità di concepire l'impossibile logico, "piuttosto segnalano il punto esatto della differenza tra concepire e raffigurare". Possiamo concepire una contraddizione o una non esistenza e poi, trasmettere il mio concepimento con il linguaggio. Questo anche tale esistenza non è raffigurabile. Lo stesso dicasi per la contraddizione. «Tutto ciò mi sembra possa confermare quel che ho suggerito, ossia il fatto che il concepibile può essere caratterizzato come l'insieme costituito dal raffigurabile mentalmente e dal configurabile concettualmente. Lo spazio del pensabile (oggettivamente) si colloca dunque tra il noto e l'impossibile, ma in un modo tale cheinclude quest'ultimo come tale. Il concepibile oggettivo (trasmissibile) spazia tra quel che già so (sappiamo), e l'insiemedi cose che a partire da quel che so (sappiamo) risultano impossibili, e purtuttavia comunicabili come impossibili

Sfortune del nominalismo contemporaneo
In tale contesto, il nominalismo non gode oggi di grande fortuna. Una critica molto convicente al nominalismo è stata proposta da P. van Inwagen . Secondo questi, non possiamo fare a meno di credere negli oggetti astratti, ma ciò si scontra con le credenze dei nominalisti per i quali le proprietà sono apparenze, ed il "mammifero" non esiste. «Van Inwagen esamina una serie di possibilità per concludere che si può evitare di quantificare sulle proprietà (ossia di considerare le proprietà esistenti) "solo quantificando su altri oggetti astratti", per esempio (come riteneva Quine) su insiemi. Ciò significa che il nominalista non disposto a riconoscere l'esistenza delle proprietà è destinato ad assumere comunque rilevanti eccezioni al suo nominalismo.» In effetti, un nominalista estremo andrebbe incontro a diversi paradossi, e dovendo spiegare la presenza del "blu" su una parete si troverebbe nella curiosa situazione di dover affermare che è il cielo "blu" che esibisce la sua presenza secondaria sulla parete. Perché allora non ammettere le gravissime difficoltà cui si andrebbe incontro se si rinunciasse al pensiero concettuale?

Il trilemma scettico
Procedendo, incontriamo un'ulteriore difficoltà, quella della fondazione di un pensiero valido. Essa si articola grosso modo nelle note figure del trilemma scettico: a) circolo; b) regresso; c) dogmatismo.
«Una prospettiva fondamentale si trova a dover fondare sé stessa, cioè si presuppone già fondata, quindi cade in un circolo (a), oppure si divide infinitamente e regressivamente in una parte fondante e una parte fondata (b), o infine si dà dogmaticamente per fondata (c).»
Il circolo: per dimostrare che p è vero si deve chiarire che cosa è dimostrazione e il chiarimento dovrà essere vero, dunque dovrà presupporre la verità.
Il regresso: per dire che p è vero, devo dire che cosa è il vero, e se è vero quel che dico del vero.
Il dogma: quel che è vero, è "vero" per me, non per gli altri. Di fronte alla pluralità di opinioni, o mi adatto al circolo ed al regresso, quindi assumo la sfida scettica come un metodo necessario alla filosofia del dialogo, oppure dogmatizzo affermando verità che agli altri paiono infondate.
Ragionevolmente, ricorda D'Agostini, non incontro le difficoltà scettiche se descrivo balene o i sintomi del morbillo. Altra cosa è chiarire i rapporti tra verità, realtà, esistenza, bene, storia, natura, scienza. Erano le parole che "stregano" secondo Wittgenstein. Sono le parole che "dividono", secondo me, quelle che danno molto lavoro al filosofo.

L'iterabilità
«... enunciati sulla verità possono essere veri o falsi, si può conoscere la conoscenza, dimostrare la dimostrazione, credere di credere, definire il definibile, comprendere la comprensione, interpretare l'interpretazione e così via. Di qui evidentemente la figura del regresso. La seconda loro caratteristica è la tendenza a legarsi in rapporti di determinazione reciproca, che danno luogo spesso alla forma del chiasmo (la parola senso e il senso della parola, dimostrare il conoscibile e conoscere il dimostrabile ecc.). Per esempio: si può guardare alla verità nell'ottica della conoscenza (p è vero seso che lo è), o si può guardare alla conoscenza nell'ottica della verità (so che p se p è vero), e le due prospettive si richiamano vicendevolmente. Di qui la facilità di trovarsi in situazioni di diallele, situazioni in cui si è obbligati a definire un termine per definirne un altro, e a definire quest'ultimo per definire il primo.»

Il lavoro sui concetti
Il lavoro sui concetti, del rapporto tra concetti, è in ultima istanza l'impegno più grande del filosofo, il quale criticando la relazione tra verità e storia, tra verità e linguaggio, esemplifica il lavoro stesso sui fondamenti. Il più fondamentale di tutti è certamente il rspporto tra esistenza e conoscenza.
«Questi legami e movimenti del concettuale costituiscono l'ambito oggettivo di esercizio della filosofia. Il lavoro filosofico produce tesi, per lo più facendo riferimento a tale ambito, ossia all'esperienza dei peculiari legami che si stabiliscono tra concetti più o meno fondamentali. Non esiste una gerarchia concettuale definita, o meglio le gerarchie tradizionali vengono contestualmente riviste e riconsiderate, e l'impresa collettiva dei filosofi, almeno per una sua parte consistente, è impegnata nella precisazione dei nessi concettuali o delle priorità caratteristiche del logos di una certa epoca.»


1) Daniele Lo Giudice - La filosofia prima della filosofia - moses

Alcuni testi utili ad approfondire
R.A. Sorensen - Thought Experiments - Oxford University Press 1992
R. A. Sorensen - Vagueness and Contradiction - Clarendon 2001
P. Van Inwagen - A Theory of Properties - in Zimmerman 2004 (Oxford Studies in Metaphysics - Clarendon, Oxford)
M. Cohen - Wittgenstein's Beetle and Other Classic Thought Experiments - Blackwell, Oxford 2005
A. Coliva - I concetti - Carocci 2004
S.Forti (a cura di) - La filosofia di fronte all'estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica - Einaudi 2004
F. Rigotti - Il filo del pensiero - Il Mulino 2004
T. Szabò Gendler e J. Hawthorne - Conceivability and Possibility - Clarendon, Oxford 2004
D. Marconi - Dopo la svolta linguistica - introduzione a R. Rorty - La svolta linguisitica - Garzanti 1994
M.Ferraris - Ermeneutica - Laterza 1998
S.Natoli - Parole della filosofia o dell'arte del meditare - Feltrinelli 2004
D. Palladino - Corso di logica - Carocci 2002
C. Penco - Introduzione alla filosofia del linguaggio - Laterza 2004
S. Zabala - Filosofare con Ernst Tugendhat. Il carattere ermeneutico della filosofia analitica - F. Angeli 2004
DLG - 12 agosto 2005

DLG - 12 agosto 2005