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Il momento denso della coscienza
Nicholas Humphrey - Rosso - Codice edizioni - aprile 2007
di Guido Marenco
Questa è solo una segnalazione, non una recensione. Uscirà il mese prossimo Rosso, uno studio sulla coscienza, di Nicholas Humphrey. Ed io lo leggerò perché sono molto curioso di sapere come finirà, se finirà, il duello tra Humphrey e Dennett. Humphrey è uno psicologo molto interessante che si è intestardito nello studiare la coscienza soprattutto dal punto di vista delle sensazioni. In polemica con i sostenitori più accaniti dell'IA, l'intelligenza artificiale, ha avuto il merito di evidenziare che un computer non può provare sensazioni e quindi non si può dire che l'IA sia una forma di coscienza. Rispetto a John R. Searle, altro fiero avversario dell'ipervalutazione dell'IA, Humphrey è ovviamente meno teoretico e più sperimentale, più scienziato e meno filosofo. Spero quindi che i suoi argomenti risultino utili per inquadrare meglio tutta la faccenda. Senza dimenticare Penrose, che rispetto a Searle e a Humphrey gode della qualità di essere sia scienziato geniale che filosofo di complemento. Ovviamente, la posta in gioco non riguarda solo l'IA. In fondo, i sostenitori dell'intelligenza artificiale non devono far altro che dimostrare le loro tesi costruendo macchine intelligenti e coscienti. La sfida sarà risolta popperianamente da una falsificazione. Il vero problema del tormentone continua ad essere quello di come funziona la mente e da quali processi emerga la coscienza.
Devo dire che mi piaceva molto il punto di partenza di Humphrey, centrato sulla ripresa dell'introspezione, una pratica che si affida al racconto delle esperienze psicologiche soggettive, tramontata con l'emergere del comportamentismo. Il comportamentismo non piace nemmeno a me, anche se riconosco che non è tutto da buttare. E' importante distinguere tra la pretesa comportamentista di "condizionare" la mente altrui, che è come negare la possibilità del formarsi di una coscienza "critica" e quindi realmente consapevole, e lo studio del comportamento vero e proprio. Lo si può fare senza sentirsi obbligati rad abbracciare l'ideologia watsoniana del condizionamento. Humphrey, in un certo senso, lo ha fatto, superando i limiti di un approccio puramente introspettivo.
«Anch'io ero convinto di aver fatto un buon lavoro», confessa Humphrey parlando dell'introspezione. «Ma abbracciando questa particolare interpretazione, si finisce per escludere dal novero degli esseri coscienti la maggior parte degli animali, i bambini piccoli, e tutti gli organismi primitivi.» E così? Variando una parte del proprio credo di partenza, Humphrey arriva a riconoscere che esiste un "livello molto più basso" della consapevolezza di sé, o quantomeno dell'autopercezione dell'io, che non è raggiungibile in quanto non può essere protocollato attraverso un racconto introspettivo. Il coniglio che soffre non ci può dire perché soffre, il neonato che piange nemmeno. Diciamo che il coniglio soffre perché ha la zampina intrappolata in una tagliola. Diciamo che il neonato piange perché ha fame e forse non vediamo che piange perché vuole semplicemente succhiare qualcosa. Non possiamo 'estrospettare' se non speculando su ipotesi sempre piuttosto problematiche e non sempre verificabili, ovvero 'estrosospettando'.
Esiste quindi un hic et nunc dell'esperienza sensoriale e non c'è bisogno di capacità analitica - sostiene Humphrey - per vivere questo stadio dell'esistenza. E' il momento denso della coscienza. «Ecco perchè la sensazione è diventata il mio pallino e perché oggi considero superate tutte le recenti scoperte della psicologia cognitiva e dell'intelligenza artificiale sui processi del pensiero astratto, sulle credenze di secondo livello e sul discorso proposizionale. Non nego che siano risultati importanti, ma li giudico poco significativi per una teoria generale della coscienza.»
Humphrey decide così di "sporcarsi le mani" e condurre esperimenti sui livelli più bassi. Tranquilli, non ha seviziato neonati, ha solo infierito sulle scimmie, in particolare la povera Helen. Trovandosi in compagnia di due scimmie private della corteccia visiva, Humphrey si accorge che non sono cieche del tutto. Seguivano con lo sguardo i movimenti, imparavano a individuare e raggiungere la mano di Humphrey ed agguantare la mela che porgeva. Per sette anni il nostro studiò Helen e anche l'addestrò. «Alla fine dell'addestramento non ci si accorgeva più della cecità di Helen, che sembrava assolutamente normale: poteva girare correndo intorno ad una stanza, evitare ostacoli, trovare noci o frutti deposti sul pavimento. Aveva persino una visione tridimensionale, perché riusciva a catturare le mosche. Eppure le mancava completamente la corteccia visiva, cioè l'apparato cerebrale considerato necessario per la vista.»
Un collaboratore di Humphrey, Larry Weiskrantz, riuscì poi a trovare le stesse capacità in individui umani resi ciechi da danni neurologici alla corteccia visiva, cioè persone convinte della propria cecità, assolutamente certe di non vedere. In realtà esse avevano una visione priva di coscienza. Sapevano, cioè, sia indicare la fonte di una sorgente luminosa, sia indovinare, cioè percepire senza essere coscienti della percezione, la forma degli oggetti. Nonostante l'importanza e l'interesse di questi studi, Humphrey decide però di abbandonarli. Provava disagio ad infliggere mutilazioni agli animali ed altrettanto a vivere quasi in simbiosi con la loro condizione. Si dedicò allo studio delle preferenze estetiche delle scimmie. Scoprì che erano indifferenti alle arti figurative, non apprezzavano particolarmente la musica, anzi, preferivano il silenzio, e che il verde ed il blu le calmavano, mentre il il giallo e il rosso le mettevano di malumore. Partendo dall'estetica delle scimmie, Humphrey si ritrovò a scrivere appunti sull'estetica umana. Scrisse un articolo intitolato The illusion of beauty sull'evoluzione del senso della bellezza. Poi decise di lasciare Cambridge e raggiungere Daniel C. Dennett negli Stati Uniti. Nacque una strana amicizia tra individui che la pensavano molto diversamente sui problemi della psicologia e della vita cosciente. «All'inizio io e Dan la pensavamo allo stesso modo su molte cose: come l'intenzionalità e la riflessività dell'io, che credevamo determinanti per il problema centrale della coscienza. Ma dopo qualche tempo cominciai a rendermi conto delle sue lacune ed anche delle mie.» Alla teoria della coscienza mancava l'ingrediente della sensibilità.
II problema stava sicuramente nel fatto che Dennett era un acceso sostenitore dell'IA, l'intelligenza artificiale, e lo era in quanto tendeva a restringere il problema della coscienza ad una questione di processi mentali evoluti. A Dennett interessava come si elaborano i pensieri, si prendono le decisioni, si ritrovano le memorie e le si formulano verbalmente. Per Dennett, la sensazione non lascia grandi tracce nella memoria e "il gusto del formaggio" o il sapore del vino non sono cose che influenzano durevolmente il formarsi di una coscienza. «Per me - spiega Humphrey - sono le sensazioni più elementari che costituiscono la coscienza. Il mio tentativo è di spiegare come vengano vissute e percepite dalle persone: come quest'attività sensoriale possa dare risultati presenti e immediati, dotati di precise qualità e identificati come propri. Nella mia interpretrazione la mente diventa come il pianista di un cinema muto, che cerca di suonare una melodia adatta alle immagini e agli stimoli di un film che viene proiettato sulla superficie del corpo. Non importa che tale attività produca un risultato, e tantomeno un testo; ciò che conta è che l'esperienza della coscienza consiste proprio in quella colonna sonora.»

In sintesi, sono queste, più o meno, le premesse al nuovo lavoro di Humphrey. Personalmente, so che potrei trovarmi d'accordo con chi considera esagerato il ruolo dell'estetica e della sensazione. Ma dovrei prima chiarire cosa è per me la coscienza sia in senso filosofico sia in senso psicologico e non è il caso. Consiglierei di leggere Rosso in modo dialettico, cioè confrontandolo immediamente con Sweet Dreams di Dennett, con libri di Searle, di Penrose e di Edelman, e persino di tornare al classico di Hofstadter Gödel, Escher, Bach / un'Eterna Ghirlanda Brillante. Dimenticare che l'IA manca della percezione sensoriale e che non solo è priva di corteccia visiva, ma è priva anche di tatto, gusto, piacere sessuale, e non è capace di provare l'ebbrezza del vino o l'effetto di una canna, cioè di avere quelle visioni "conviviali" che hanno contribuito a fondare la filosofia e la coscienza superiore, è stato certamente un errore, anche se Dennett nega di aver mai fatto una cosa del genere. Agli umani piace la musica, la maggioranza di essi trova il giallo rilassante e non deprimente, il mistero della coscienza non si può risolvere in modo parziale, puntando tutto o sul riduzionismo materialista o sull'immaterialità della psiche. Ci deve essere un modo, maledizione, per tenere insieme l'uno e l'altro, fino a comprendere che l'uno non esclude, ma implica l'altro. Tutto da dimostrare, o provare, ovvio. Ma queste sono le tematiche che tengono viva la ricerca oltre che la disputa speculativa.
Offro una lista di libri per approfondire. Potrebbe essere molto più lunga, ma la limito a ciò che ho effettivamente letto o sto leggendo.
Daniel C. Dennett : Coscienza. Che cosa è - Rizzoli 1992
Daniel C. Dennett: Sweet Dreams - Cortina 2006
Roger Penrose: La mente nuova dell'imperatore - Superbur 2000
John Searle: Il mistero della coscienza - Cortina 1998
G. Edelman - Darwinismo neurale - Einaudi 1996
G. Edelman: Il presente ricordato - Rizzoli 1991
D. R. Hofstadter: Gödel, Escher, Bach / un'Eterna Ghirlanda Brillante - Adelphi 1984
F. Crick - La scienza e l'anima, Un'ipotesi sulla coscienza - Rizzoli 1994
S. Pinker v/s S.Rose - Mente, cervello e libero arbitrio - confronto pubblicato su "Micromega" n° 1 / 2006
gm - 28 febbraio 2007