Il modernismo cattolico - parte prima
Il "modernismo"
fu una corrente
di pensiero sorta all'interno
della comunità
intellettuale della Chiesa
cattolica a cavallo
tra la fine dell'Ottocento
ed i primi anni
del Novecento. Esso si
sviluppò grosso modo
a partire dalla Francia,
ed in forme diverse
toccò anche l'Italia, l'area
tedesca e l'Inghilterra.
Nel 1907 fu ufficialmente
condannato dalla
Chiesa cattolica con l'enciclica
Pascendi
Dominici gregis.
In senso generale è possibile
cogliere in
tutti coloro che parteciparono
al "modernismo"
l'intento di salvare la
Chiesa e la fede
dall'isterilimento delle
idee, dalle pratiche
secolari e mondane, dalla
tentazione di competere
epistemicamente con lo
sviluppo delle scienze
com'era già accaduto disastrosamente
nei
confronti di Copernico
e Galileo. Gli empiristi
ed i materialisti possono
vedere nel modernismo
un tentativo di sottrarre
la fede e la religione
alla verifica scientifica,
e forse anche
a quella storica. I tradizionalisti
cattolici
vi hanno visto un attacco
ai principi basilari
della fede religiosa posta,
secondo loro,
su basi razionali ed una
pericolosa forma
di relativismo storico.
Tanto Lucien Laberthonnière
quanto Edouard
LeRoy, come del resto George
Tyrrell, ovvero
i principali protagonisti
del movimento,
volevano però una rigenerazione
del cattolicesimo
nella tradizione e non
nello stravolgimento.
La ritenevano indispensabile
per fronteggiare
la modernità.
Solo nel "modernismo"
italiano,
tuttavia, apparve una componente
sociale
che pretendeva di mettersi
in concorrenza
col socialismo e partecipare
al movimento
operaio e contadino. Tale
esperienza trovò
poi un compimento nel pensiero
di Romolo
Murri, ed una parziale
correzione in senso
moderato in quello di Luigi
Sturzo, fondatore
del partito popolare. Considerare
Sturzo
un "modernista"
sarebbe però un'eresia.
Nella nostra ricostruzione
del "modernismo"
abbiamo scelto di seguire
per un certo tratto
l'interpretazione che dello
stesso diede
Ernesto Buonaiuti, non
perché se ne condividano
in qualche modo le idee,
quanto perché se
ne condivide l'onestà intellettuale
e se
ne ammira l'erudizione
storica ed il senso
autocritico. Buonaiuti
fu il primate del
modernismo italiano, patì
sotto diversi pontefici,
istigati dai gesuiti, nonchè
il regime fascista,
e fu infine sepolto in
un clima culturale
di generale dimenticanza
del tormentone modernista.
Né de Gasperi, né Togliatti,
né Benedetto
Croce fecero granché perché
la sua figura
fosse riabilitata, quantomeno
come intellettuale
capace di negare il suo
giuramento al fascismo
e quindi perdere il posto
di professore all'università.
Buonaiuti stesso indicò
in Raffaele Lambruschini
il vero modernista ante-litteram
ma , ancora
secondo Buonaiuti, il "padre
spirituale"
del modernismo fu il cardinale
John-Henry
Newman, un uomo dell'Ottocento,
molto vicino
al pontefice Pio IX. Se
Lambruschini e Newman
furono precursori del modernismo,
a nostro
avviso, lo furono in un
senso molto parziale,
allo stesso modo in cui
Kant fu precursore
di Hegel o Socrate lo fu
di Aristotele. Certamente
non avrebbero gradito di
essere considerati
"modernisti"
e, probabilmente,
non avrebbero sottoscritto
molte delle idee
fondamentali diffuse successivamente
dai
vari Le Roy e Alfred Loisy,
nonchè dallo
stesso Buonaiuti.
Lambruschini fu forse il
primo cattolico
ad esplicitare il limite
fondamentale del
cattolicesimo storico e
dottrinale, cioè
l'eteronomia morale fondata
sul dogma che
il buon comportamento sarà
premiato dal Giudice
Supremo, mentre il peccato
verrà punito.
Lambruschini avrebbe desiderato,
insomma,
non diversamente da Kant,
ma in un senso
mistico del tutto estraneo
al filosofo prussiano,
che la moralità cristiana
sgorgasse dal nostro
stesso sentire interiore,
non in vista del
premio costituito dal Paradiso,
e che il
cattolicesimo tornasse
ad essere in grado
di svegliare questa stessa
moralità priva
di "secondo"
fine. «La religione
- scriveva Lambruschini
- è un affetto, è
una conformazione interiore
dell'uomo con
la perfezione del suo Padre
nei cieli; è
un'arcana comunicazione
del nostro misero
spirito con lo Spirito
in cui viviamo, ci
muoviamo e siamo. La credenza
in Dio creatore
dell'universo e così amante
di noi da poter
essere chiamato Padre,
è il premio della
moralità, è fede del tutto
necessaria per
dare al nostro animo sicurezza,
pace e vigore.»
(1) La pedagogia religiosa
del Lambruschini,
in sostanza, non ammette
che il ragazzo studi
e cerchi di essere promosso
né in funzione
del regalo promesso dal
babbo, né in funzione
della promozione stessa,
anticamera dell'ascesa
sociale. Il ragazzo deve
studiare per amore
della verità e per diventare
maturo. Il Lambruschini
non fu un precursore del
comportamentismo,
ma la sua negazione antelitteram.
John-Henry Newman abbandonò
la Chiesa anglicana
e si convertì al cattolicesimo.
Opponendosi
in modo radicale a Locke
ed all'empirismo
in generale, quindi anche
a Berkeley, si
convinse che nulla è più
potente della "verità
interiore" e che non
c'è empirismo,
e quindi esperienza, per
negativa che sia,
che possa scalfire questa
stessa concezione
della verità in senso eminentemente
religioso.
La vera fede, per Newman,
non è il risultato
di premesse intellettuali
o filosofiche:
è essa stessa una premessa.
Essa può essere
presente anche nella religione
naturale che
precede la rivelazione
cristiana, ma è solo
alla luce della Ri-velazione
che diviene
verità. Come ha scritto
Buonaiuti, interpretando
Newman, «La religione naturale
è basata sul
senso drammatico della
colpa. Riconosce l'infezione,
ne fa la diagnosi, ma cerca
invano il rimedio.
Questo rimedio, che è il
rimedio al male
commesso e alla nostra
impotenza morale,
ci è offerta dalla dottrina
centrale del
Cristo mediatore. Qui è
il segreto della
misteriosa potenza della
Chiesa. Essa sola
cura e cicatrizza la profonda
ferita dell'umanità
decaduta.» (2)
E scriveva lo stesso Newman:
«C'è chi parla
della Chiesa come di un
anacronistico ricordo
storico, il quale non ha
con il presente
che relazioni lontane e
fiacche. Io non potrò
mai concedere a nessuno
che il cristianesimo
sia puramente e semplicemente
una religione
storica. Senza dubbio esso
poggia sul passato
e chiude nel proprio grembo
ricordi gloriosi.
Ma la sua vera potenza
è nella preghiera.
Non potrebbe mai costituire
il retaggio della
secca ed arida famiglia
degli eruditi. L'immagine
che noi ci facciamo di
essa non erompe da
documenti morti o da eventi
trapassati, bensì
scaturisce dalla fede sempre
viva, sempre
alimentata da un dono che
si rinnova incessantemente,
eternamente sicura di toccare
una realtà
viva e vibrante. Noi, mercé
la Chiesa, comunichiamo
nell'invisibile, non già
in un passato disseccato.
L'uomo d'oggidì è altrettanto
vivo e attivo
che nel passato. E il Cristo,
nei simboli
offerti alla nostra immaginazione,
è altrettanto
vivo che quando passò sensibilmente
sulla
terra.» (3)
Il Concilio vaticano del
1869-70
La lezione di Newman era,
insomma, che sarebbe
vano cercare il divino
nel sensibile o dedurlo
da premesse. Queste idee,
con molte mediazioni,
trapassarono nel primo
Concilio Vaticano
del 1869-70, anche se,
alla luce degli studi
storici, esso viene ricordato
per ben altri
motivi. La Chiesa cercava
di rispondere alla
sfida della modernità con
importanti precisazioni
dottrinali e correzioni
di linea. Il Concilio
fu gravemente turbato dall'entrata
in Roma
dei bersaglieri italiani.
Quando si concluse,
il Papa non era più il
sovrano di uno Stato,
ma solo il capo di una
comunità spirituale.
Tuttavia, aveva di colpo
maturato delle prerogative
mai avute in precedenza,
quale quella dell'infallibilità.
Un intero documento conciliare,
la Constitutio
dogmatica prima de Ecclesia
Christi, detta
anche Pastor aeternus,
era esplicitamente
dedicato a sacralizzare
l'infallibilità.
«Insegniamo e definiamo
essere dogma divinamente
rivelato, che il romano
pontefice, quando
parla ex cathedra, quando
cioè parla nell'esercizio
del suo ufficio di Pastore
e di Maestro di
tutta la famiglia cristiana
e in tale qualità
definisce in virtù della
sua suprema autorità
apostolica, una dottrina
relativa alla fede
o ai costumi che debba
essere accettata da
tutta la Chiesa, mercé
l'assistenza divina
a lui promessa dal beato
Pietro, gode di
quell'infallibilità di
cui il Divin Salvatore
volle che fosse insignita
la sua Chiesa,
nel definire dottrine concernenti
la fede
e i costumi, insegniamo
e definiamo perciò
che queste definizioni
del romano pontefice
sono irreformabili per
se stesse e non già
in virtù del consenso ecclesiastico.»
(4)
E' singolare il fatto che
mentre gli ambienti
più tradizionalisti e retrivi
del cattolicesimo
tedesco ed austriaco si
levarono quasi unanimente
contro le conclusioni conciliari
sull'infallibilità
papale, un modernista come
Buonaiuti commentò
storicamente questo aspetto
del Concilio
con grande distacco e manifestando
una fredda
adesione: «Tutto bene ponderato
e considerato,
la definizione può essere
anche suscettibile
di una interpretazione
che non lede e non
annulla il carattere, diciamo
coì, corporativo
dell'infallibilità dottrinale
della Chiesa
visibile. Quando il Papa
parli, secondo la
formula ufficiale, ex cathedra,
egli praticamente
ed effettivamente non è
che il portavoce
e l'interprete sensibile
di quella soprannaturale
assistenza dello Spirito,
che è dote inerente
e inalienabile del corpo
mistico di Cristo.
Da questo punto di vista
si potrebbe dire
che il Pontefice, vescovo
di Roma, non è
che la voce e la parola
sensibilizzata dell'anima
collettiva della Chiesa,
che è il Paracelso
stesso.» (5)
Giustamente, si possono
sospettare dietro
la proclamazione dell'infallibiltà
motivi
di lotta politica interna
alla comunità cattolica
che si legano strettamente
alla situazione
storica dell'Europa ed
alla divisione tra
cattolici nazionalisti
di stati diversi:
questo fu l'autentico paradosso
dell'Ottocento.
L'infallibilità era l'ultimo
tentativo di
restaurare una centralità
(quella della curia
romana) in un mondo che
andava dissolvendosi
nelle periferie e nei nazionalismi.
Ed era
anche un sussulto di autoritarismo
di fronte
all'avanzare delle istanze
democratiche.
Ma, al di là delle vicende
politiche ed istituzionali,
andrebbe colto che dal
Concilio vaticano
uscì una piattaforma dottrinale
di apertura
della Chiesa ai fermenti
culturali contemporanei.
Dopo Galileo e dopo Darwin,
in questo mondo
di positivisti raziocinanti
ed iconoclasti,
si può ancora esistere
come credenti cristiani
senza fare la guerra a
Galileo ed a Darwin,
denunciandoli come satanici.
Nel De fide Catholica,
documento fondamentale
del Concilio si può leggere:
«L'ininterrotto
consenso della Chiesa cattolica
ha ritenuto
sempre e ritiene, inoltre
esistere un duplice
ordine di cognizione, distinto
non solamente
per il suo principio, bensì
anche per il
suo oggetto. Per il suo
principio, perché
nell'uno conosciamo in
virtù di naturale
ragione, nell'altro in
virtù di una fede
divina. Per il suo oggetto,
perchè al di
là di tutto ciò che noi
possiamo con la nostra
ragione naturale raggiungere,
ci vengono
proposti, perché noi li
crediamo, misteri
nascosti in Dio, che non
potrebbero essere
noti se non fossero divinamente
rivelati.»
Buonaiuti contesta queste
asserzioni in un
modo piuttosto confuso.
Si chiede in maniera
enfatica come sia possibile
una conoscenza
naturale del sovrannaturale
ed una conoscenza
sovrannaturale del naturale
sovrapponendo
i due piani ed imputando
poi agli autori
del documento di averli
confusi. In realtà,
Buonaiuti avrebbe solo
desiderato una conclusione
diversa, ovvero: «Noi abbiamo
visto come
la funzione del cristianesimo
nella storia
si sia andata progressivamente
affievolendo,
fino a scomparire del tutto,
mano mano che
l'ufficiale tradizione
cristiana veniva a
compromessi e ad adattamento
con tutto quello
che era empirico, terreno,
angusto, circoscritto,
razionale, intorno a lei.
Noi abbiamo visto come
quell'illuminismo
che aveva presieduto nel
secolo XVIII allo
scatenamento di tante forze
rivoluzionarie
e sovvertitrici in Europa,
non era altro
che l'estrema applicazione
e il conseguente
epilogo di presupposti
latentemente e potenzialmente
antievangelici, posti già
da quella filosofia
che, entrata dopo il Mille
nel dominio della
speculazione teologale,
aveva creduto di
poter fare dell'atto di
fede la conclusione
di un sillogismo, e della
vita carismatica
il risultato indeclinabile
di un procedimento
dialettico.» (6)
La condanna del modernismo
Il primo documento della
Chiesa rivolto a
colpire il pensiero modernista
è datato 3
luglio 1907 e reca la firma
del Sant'Uffizio.
Si intitola Lamentabili
sane exitu. In esso
vengono condannate esplicitamente
65 proposizioni
che, nella loro generalità,
erano state estratte
dall'opera di Alfred Loisy,
sacerdote ed
esegeta francese, che si
era distinto per
una polemica contro Alfred
von Harnack, professore
a Berlino. Harnack era
luterano. Agli occhi
di Loisy, egli aveva ridotto
i principi fondamentali
dell'insegnamento neotestamentario
allo svelamento
del concetto di Dio-Padre,
del conseguente
concetto della dignità
dell'anima umana e
del valore universale dell'amore.
Alla luce
di questa "semplificazione",
Harnack
aveva interpretato la storia
della Chiesa
cattolica come progressiva
degenerazione
del primitivo dettato evangelico.
Se ben
si guarda, questa posizione
di von Harnack
assomiglia molto alla critica
di Buonaiuti,
e non ha nemmeno la profondità
della critica
del Lambruschini. Ma da
"protestante",
von Harnack aveva ragione
a criticare il
tradimento della Chiesa
cattolica, a partire,
ovviamente, dalla pietra
dello scandalo,
cioè l'acquisto delle indulgenze,
il commercio
del perdono.
Da cattolico, Loisy reagisce
contestando
l'arbitrarietà e l'antistoricità
della rappresentazione
proposta da von Harnack.
Loisy difende la
"cattolicità".
Perché, dunque,
la condanna del Sant'Uffizio?
Evidentemente, nelle sue
argomentazioni,
Loisy aveva toccato qualche
nervo scoperto,
e questo nonostante non
fosse andato molto
oltre una difesa del concetto
cattolico di
tradizione. Eppure, secondo
gli autori di
Lamentabili sane exitu,
questo stesso concetto
era stato travisato gravemente
da Loisy.
Al punto che, si legge:
«Dai giudizi e dalle
censure ecclesiastiche,
emanate contro l'esegesi
libera e scientificamente
agguerrita, si
può arguire che la fede
proprosta dalla Chiesa
è oggi in contraddizione
con la storia e
che i dogmi cattolici non
sono suscettibili
di conciliazione con le
genuine origini cristiane...[
... ] I dogmi che la Chiesa
dichiara rivelati
non sono verità discese
dal Cielo, ma rappresentano
una determinata interpretazione
dei fatti
religiosi, venutasi formando
mercè un laborioso
sforzo nell'orizzonte dello
spirito umano.
L'adesione dell'atto di
fede poggia in linea
definitiva su un cumulo
di probabilità. I
dogmi della fede debbono
pertanto essere
creduti a norma di una
loro pratica significazione,
vale a dire quali regole
normative di condotta
più che come regole di
credenza. La dottrina
cristologica di Paolo,
di Giovanni, dei concili
di Nicea, di Efeso, di
Calcedonia, non è
quella che Gesù ha insegnato,
bensì quella
che la coscienza cristiana
ha concepito e
proposto della figura del
Cristo.»
Infine, e qui sta davvero
una stoccata al
cuore delle tesi di Loisy:
«Il Cristo non
ha sempre avuto la medesima
consapevolezza
della sua dignità messianica.
La resurrezione
del Signore non è, propriamente
parlando,
un fatto di piuro ordine
storico, bensì un
fatto di ordine puramente
sovrannaturale,
non dimostrato e non dimostrabile,
che la
coscienza cristiana ha
adagio adagio dedotto
da altri fatti.»
Che cosa aveva scritto
veramente il Loisy?
Anche una lettura sommaria
della sua opera
avrebbe forse consigliato
una maggiore prudenza
di giudizi. La sua difesa
della "tradizione"
non era probabilmente "eversiva"
(leggi eretica) al punto
da far traballare
i pilastri della fede.
«Tutto lo sviluppo
della dottrina cristiana
- scriveva - non
è al di fuori della fede,
ma nella fede,
che lo domina per intiero.
Il principio tradizionale
e il senso religioso hanno
sempre avuto il
sopravvento sul bisogno
di adattamento scientifico,
ed hanno salvato l'originalità
del cristianesimo.
I vecchi dogmi hanno la
loro radice nella
predicazione e nel ministero
del Cristo,
come nelle esperienze della
Chiesa, e spiegano
il loro sviluppo nella
storia del cristianesimo
e nel pensiero teologico.
[...] La capacità
di adattamento che si riconosce
nella Chiesa
romana costituisce il più
insigne titolo
alla ammirazione dell'osservatore
imparziale.
Non mi risulta affatto
che la Chiesa alteri
il Vangelo o la tradizione.
Ne risulta soltanto
che essa sa comprendere
i bisogni dei tempi.
Noi non ci stancheremo
di ripetere che il
Vangelo non era una dottrina
assoluta ed
astratta, direttamente
applicabile a tutti
i tempi e a tutti gli uomini
per virtù propria.
Era invece una fede vivente,
impegnata, da
tutti i punti di vista,
nel tempo e nello
spazio dove nacque. Un
lavoro di adattamento
è stato nel passato, lo
sarà sempre in perpetuo,
necessario, perché tale
fede si conservi
e sopravviva nel mondo.
Che la Chiesa cattolica
abbia adattato questa fede,
e tuttora la
adatti, che essa stessa
si adatti continuamente
alle esigenze dei nuovi
tempi, non è affatto
un argomento per ritenere
che essa dimentichi
il Vangelo o tenga in non
cale la propria
tradizione. Se ne può ricavare
soltanto la
conclusione che la Chiesa
vuol far valere
il Vangelo, come vuol far
valere la propria
tradizione, sentendo d'istinto
quel che l'uno
e l'altra racchiudono di
flessibile e progressivamente
perfettibile.» (7)
Evidentemente, gran parte
del problema stava
nel significato sempre
ambiguo del termine
"adattamento".
Loisy aveva troppo
insistito sulla formula
"adattare senza
snaturare", finendo
con l'alludere ad
una sorta di "evoluzione
nella continuità"
e persino a caratteri "embrionalmente
preformati" fin dalla
notte dei tempi.
Tuttavia, dal punto di
vista della dogmatica
risultava inaccettabile
quel modo di intendere
il pensiero cattolico come
adattamento progressivo
alle condizioni politiche,
sociali e culturali.
Come se, è questo il punto
che fa la differenza,
la gigantesca opera degli
Apostoli nella
diffusione del kerigma
cristiano al di fuori
del mondo giudaico non
fosse stata, di per
se, un adattamento, segnando
una rottura,
non irreversibile, ma nemmeno
facilmente
ricomponibile, con la tradizione
ebraica
più evoluta, ovvero il
fariseismo. Ne fa
fede l'Epistola agli Ebrei,
di difficile
attribuzione ed anche di
indigesta lettura
ai non Ebrei, anche se
essa continua ad essere
ufficialmente considerata
come opera di Paolo.
Un certo grado di discontinuità
storica è
quindi sempre presente
nella vicenda religiosa.
Ma i teologi più avveduti
potrebbero obiettare
che stiamo citando la Ri-velazione
stessa,
la Parola di Dio, e non
un qualsiasi interpretazione
umana, condotta con mezzi
umani e fallibili.
Di fronte a simili argomenti,
non possiamo
che abbassare la cresta!
E poi tornare a
riflettere, con mezzi umani
e fallibili,
sulla realtà storica e
documentata.
Lucien Laberthonnière
Sulla complessità intellettuale
del rapporto
tra verità eterna, evoluzione
del pensiero
e "adattamento"
aveva cominciato
a riflettere l'abate Lucien
Laberthonnière
(1860-1932), da considerarsi
come il vero
iniziatore del modernismo,
anche se il Buonaiuti
non lo cita nel suo studio.
Nei suoi scritti
è palese, come nota Nicola
Abbagnano, «che
una qualsiasi verità non
diviene nostra se
non nella misura in cui
noi stessi lavoriamo
a crearla in noi. Questo
presupposto è la
base della dottrina che
dal punto di vista
filosofico egli chiama
dogmatismo morale
e dal punto di vista religioso
metodo dell'immanenza.
Da questo punto di vista
la filosofia non
è una scienza ma piuttosto
lo sforzo cosciente
e riflesso dello spirito
umano per conoscere
le ragioni ultime e il
senso vero delle cose.»
(8)
Laberthonnière, in sostanza,
diceva che la
verità della rivelazione
non ha significato
e valore se ogni credente,
per suo conto,
non la ricerca in sé stesso.
Solo questo
procedimento porta a reincontrare
Dio nella
nebbia del mondo ed a riconoscere
che l'uomo
non è veramente uomo se
non nell'unione con
Dio. Dio rimane come principio
dell'uomo,
anche se l'uomo non lo
riconosce come suo
fine. Ma solo quando l'uomo,
vincendo questa
limitazione, riconosce
Dio come suo fine,
risponde con l'amore per
Dio all'amore che
Dio prova per l'uomo. Laberthonnière
affermava
che tale esigenza profonda
non appartiene
alla natura dell'uomo sic
et esimpliciter,
ma ad una natura illuminata
e penetrata dalla
grazia. Con ciò salvava
una sorta di esclusivismo
cristiano e fors'anche
il monopolio cattolico
della grazia. Ma quale
funzione poteva ancora
svolgere la Chiesa, quale
ruolo poteva ancora
adempiere la gerarchia
ecclesiatica in un
cristianesimo molto vicino
all'autodidattica
protestante?
Laberthonnière rispondeva
con il saggio sulla
Teoria dell'educazione.
In esso veniva evidenziato
il ruolo della Chiesa quale
organizzazione
sociale in grado di liberare
l'umanità e
di salvarla dal disorientamento
morale e
dalla negazione di Dio.
Su posizioni prossime alla
tensione interiore
del modernismo, tanto da
collaborare alla
rivista di Laberthonnière,
"Annali di
filosofia cristiana",
troviamo Maurice
Blondel. Questi, tuttavia,
prese le distanze
dal movimento dopo la condanna
esplicita
dell'enciclica Pascendi
Dominici gregis dell'8
settembre 1907 e si chiuse
in un silenzioso
riserbo.
Di Blondel e degli altri
protagonisti del
"modernismo"
parleremo nel prossimo
file.
(continua)
(all'indice di modernismo cattolico)
(1) citato in Ernesto Buonaiuti
- Storia
del cristianesimo - Newton
& Compton
2002
(2) Ernesto Buonaiuti -
Storia del cristianesimo
- Newton & Compton
2002
(3) citato in Ernesto Buonaiuti
- Storia
del cristianesimo - Newton
& Compton
2002
(4) citato in Ernesto Buonaiuti
- Storia
del cristianesimo - Newton
& Compton
2002
(5) Ernesto Buonaiuti -
Storia del cristianesimo
- Newton & Compton
2002
(6) idem
(7) Alfred Loisy - Il Vangelo
e la Chiesa
-
(8) Nicola Abbagnano -
Storia della filosofia
- vol. VI, TEA 1995
moses - 19 luglio 2005
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