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IL MITO DI MEDEA IN CHRISTA WOLF
di Concetta Malvasi


Nel 1996 Christa Wolf, scrittrice tedesca della Germania dell’est, dopo aver reinterpretato il mito di Cassandra (dando alla sacerdotessa troiana una voce che finalmente viene ascoltata e che è portatrice di verità) decide di occuparsi di Medea diventando la prima donna ad aver scritto una opera rilevante ed estesa incentrata su questa figura. Un lavoro, quello della scrittrice tedesca, che ha portato sulle scene una Medea “positiva” e suscitatrice di pietà, che improvvisamente non è più fratricida né infanticida ma diventa capro espiatorio delle tensioni sociali, una selvaggia, una profuga, un’immigrata disprezzata e mai accettata dalla sua nuova città. Christa Wolf dissente dalla versione di Euripide in cui Medea è l’incarnazione della vendetta, dell’irrazionalità, dell’istinto ferino della donna tradita.

La sorprendente reinterpretazione del mito di Medea da parte della scrittrice tedesca può stimolare qualche riflessione. Senza esplicitamente nominarlo, e forse senza nemmeno conoscere il suo lavoro, dato che Christa viveva nella DDR, un paese in cui le idee non circolavano liberamente, la Wolf sembrava attuare un’opera di decostruzione alla Jacques Derrida, mettendo così al centro una critica al logocentrismo, inteso soprattutto come paternalismo patriarcale. Il logocentrismo non investiva solo la filosofia, ma anche l’opera d’arte, la tragedia classica. Il logocentrismo – termine che ovviamente non compariva nel corpo del romanzo della Wolf – era quanto di più simile ad un logomaschilismo, la giustificazione di una società patriarcale intrinsecamente violenta.

Wolf propone un ripensamento della storia invitandoci ad ascoltare le singole voci dei personaggi (sei voci undici monologhi che accostati l’uno all’altro ci forniscono la storia) lei stessa, Giasone, il fratello, la rivale Glauce, l’allieva Agameda, Acamante, mettendo in rilievo il conflitto tra due culture diverse che nel romanzo diventa riflessione sulle origini stesse dell’idea di potere. Medea non vuole entrare in competizione con Euripide, lei dà la sua versione del mito ricollegandosi alla versione pre-euripidea proprio perché il primo ad attribuire la morte dei figli a Medea fu Euripide.

In una intervista del 1997, Christa Wolf spiega come nacque l'idea di dedicare un romanzo alla figura della principessa della Colchide, lei incominciò ad interessarsi a Medea lo stesso anno che la DDR stava sparendo dalla storia e si chiedeva come mai nella società in situazioni delicate c’è sempre bisogno di un capro espiatorio. Mentre rifletteva su Medea le venne in aiuto il caso. Una studiosa di Basilea, curatrice del sarcofago di Medea presso il museo locale, le spedì un suo articolo dal quale risultava che Euripide per primo attribuì a Medea l'infanticidio, mentre fonti antecedenti descrivono i tentativi di Medea di salvare i tre figli portandoli al santuario di Era. Christa Wolf vide che anche un’altra studiosa la pensava come lei.

Il sospetto che Euripide avesse manipolato la vicenda per assolvere gli abitanti di Corinto – colpevoli di aver massacrato i figli di Medea – emerge anche dalla storiografia antica, onorario compreso: quindici talenti d’argento, ricorda Robert Graves, sarebbero stati versati al drammaturgo per questa storia di disinvolta cosmesi di Stato, utile per presentare al meglio Corinto sulla scena del teatro greco durante le feste di Dioniso.

Medea proveniva da una cultura matriarcale, legata alla vita, non poteva aver ucciso i suoi figli, una guaritrice, un'esperta di magia, originata da antichisismi strati del mito, dai tempi in cui i figli erano il bene supremo di una tribù, non poteva aver ucciso i propri figli.

Questa intervista sottolinea elementi interessanti con diversi livelli di profondità, di rilettura del mito e porta alla luce verità soggettive, e soprattutto la donna come soggetto autonomo, capace di sfidare l’ordine razzista, sessista e classista della società greca,. Christa Wolf, che continuò ad essere marxista, applicò categorie marxiste all’analisi del logomaschilismo greco. Ovvero, nella sua visione era la posizione sociale a determinare la filosofia e l’arte di Socrate e Euripide. Oltre che non schiavi, avevano il gravissimo difetto, quasi una colpa originaria, di essere non donne, quindi del tutto incapaci di pervenire alla comprensione della condizione femminile servile. Medea diventa rappresentante degli altri, ovvero i diversi, gli schiavi, le donne in nome di un ideale di cittadino e di civiltà. La rilettura del mito diviene una riflessione sulle origini delle forme occidentali del potere: il principio della regalità, il ruolo della ricchezza e la centralità della forza. Al marxismo di fondo, quindi, Christa Wolf aggiunse il “colore” della differenza sessuale come componente aggiuntiva e certamente determinante, l’imperdonabile difetto di una teoria che si era limitata a considerare classi formate da individui produttori, e non di differenze sessuali. A prescindere da tutte le immaginabili influenze di pensatrici democratiche e femministe, Christa Wolf prese una direzione molto più determinata, riportando a dignità una rielaborazione del mito di Medea e puntando decisamente alla tesi che una società matriarcale non possa produrre madri infanticide.

Occorre qui fare due riflessioni che conducono oltre la Wolf
La prima: Euripide fu l’autore di Ifigenia in Aulide, ossia la denuncia più spietata della stupidità e dell’arroganza maschile dell’antichità. Non è sostenibile che Euripide mancasse di sensibilità alla condizione femminile, anche perché nella sua versione di Medea egli non si guadagnò fino in fondo l’onorario (i famosi 15 talenti d’argento) nonostante l’enormità dei crimini ascritti a Medea, il suo mito continua ad affascinare per l’orgoglio, per il suo essere indomita, e a sorprendere per la modernità delle istanze femministe di cui si fa portatrice. Forse Euripide alla fine cedette al suo fascino, tanto da lasciarsi ‘sfuggire’ riflessioni che assomigliano pericolosamente a una denuncia dello stato di soggezione della donna: “Di quanti esseri al mondo hanno anima e mente, noi donne siamo le creature più infelici. Dobbiamo anzitutto, con dispendio di denaro, comperarci il marito e dare un padrone alla nostra persona; e questo è dei due mali il peggiore.......Dicono anche che noi donne vivendo in casa viviamo senza pericoli e l’uomo ha i pericoli della guerra. Ragionamento insensato. Vorrei tre volte trovarmi nella battaglia anziché partorire una sola”
La seconda: l’idea stessa di “società matriarcale”: Come ci si può immaginare una sorta di età dell’oro del matriarcato, senza considerare tutte le possibili degenerazioni di una società dominata dalle donne? Così come una società esclusivamente patriarcale. Resta che senza la Wolf, non si può andare oltre la Wolf.

Christa Wolf aggiunse un ulteriore elemento da ponderare: il valore dell’identità collettiva. Nel 1989, con la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania, scomparve la DDR e i cittadini della Germania dell’Est si trovarono a dover ricomporre la propria identità. (in una intervista Christa Wolf affermò che di fatto ai tedeschi orientali si chiese di rinunciare alla propria identità). I vincitori dell’Ovest pretesero una sorta di lavaggio e nello stesso tempo di oblio di una delle due identità ed ovviamente quella che sparì fu l’identità dei perdenti.

Nella interpretazione di Christa Wolf, Medea diventa una straniera, una barbara, una emarginata, la sua figura è occasione per una riflessione sul mondo che cambia, sulla diversità femminile, Medea è molte donne odierne, donne profughe, sole, abbandonate, è colei che sceglie le passioni al posto del calcolo, la tolleranza al posto della divisione, colei che chiede disperatamente di essere accettata. Non più una maga dai poteri divini e soprannaturali, ma una donna, un essere umano che rimane vittima dei giochi di potere che freneticamente si susseguono in questo mondo. Giasone sposerà la figlia del re, è deciso, ma a differenza di Medea non ha il coraggio di ribellarsi a scelte imposte per lui da altri.

Medea scopre il delitto della figlia del re, Ifnoe, la figlia della regina, colei che avrebbe dovuto regnare, dietro c’è e la logica di dominio che regge l'ordine (patriarcale maschile) fondato dal re di Corinto Creonte; il palazzo del re Creonte è edificato sopra un misfatto (l’omicidio della giovane Ifinoe, figlia di re Creonte, per ordine dello stesso re) perché l’ordine deve regnare,
Allo stesso tempo, la drammatica scoperta riapre la ferita mai rimarginata della vera ragione che l’ha indotta ad abbandonare la Colchide. Non l’innamoramento per Giasone, bensì la rabbia e il dolore per il barbaro assassinio del fratello Aspirto, perpetrato per decisione del re padre, simile negli intenti all’assassinio di Ifinoe: un sacrificio umano, necessario per la conservazione del potere, messo a rischio dalla stessa Medea (che aveva sposato la causa dei giovani, aiutandoli, con la collaborazione della madre-regina). Un dolore reso più amaro dal senso di colpa per non aver capito in tempo, per avere sottovalutato il pericolo.

È evidente che, in una società che si fonda sull’ipocrisia, la sua lucidità e la sua onestà intellettuale non possono che nuocerle. In una tribù in cui tutti vanno fieri della loro arrogante innocenza, riconoscersi una parte di responsabilità equivale a salire spontaneamente sull’altare sacrificale. Medea diventa vistoso monito del grande rimosso collettivo, un marchio da cancellare, un ostacolo da eliminare, per poter continuare a vivere. Lei, la straniera non doveva conoscere il segreto. Lei la straniera doveva uniformarsi all’ordine patriarcale.

A questo punto l'esito della sua vicenda personale è scontato. Privata dei figli (lapidati dai Corinzi) Medea è costretta ad abbandonare la città che vede in lei il portato di una cultura tenebrosa e inquietante.

Medea è una donna sola, alla deriva, tradita, è il capro espiatorio per i delitti commessi da quella società. Il romanzo termina con una frase: “… quando tutto è perduto, una sola cosa resta RESTO IO” , quando tutto è perduto alla donna resta sempre se stessa ed è da lì che deve ripartire per reinventarsi una nuova vita priva di violenze. Centralità della donna che deve essere riconosciuta prima di tutto da sé stessa.

CM - 1 maggio 2013