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Introduzione a Marx /11 - La caduta tendenziale del saggio di profitto e le crisi economiche
di Carlo Fracasso
Saggio tendenziale di profitto: cos'è e perché tende a cadere
A misura che il capitale feconda e dischiude la forza produttiva del lavoro, l'offerta di beni si accresce e cala il valore del singolo prodotto. Cala anche l'entità del plusvalore in rapporto al capitale complessivo. In tal modo viene vanificata la finalità dell'iniziativa privata che punta all'incremento del profitto.
Il saggio di profitto non è altro che una media tra la generalità dei profitti. La sua corrispondenza al plusvalore non è sostenibile, trattandosi di due entità numeriche (o algebriche) ottenute con calcoli e formule diverse, destinate ad evidenziare due aspetti diversi: l'uno, più astratto ha come riferimento la quantità di ore di lavoro socialmente necessarie a realizzare la massa delle retribuzioni salariali. Il saggio di profitto si determina con una semplice formula ragionieristica che dice: r-s = g.
Ovvero: ricavi meno spese uguale guadagni, o perdite, o anche pareggio.
Ad aumentare la capacità produttiva del lavoro concorre innanzitutto la disponibilità la disponibilità di strumentazioni tecniche superiori. Nel calcolo dei capitalisti questo orientamento verso la produzione a "investimento intensivo" si verifica in quello che Marx chiama la tendenza alla composizione organica del capitale, ovvero nella crescente incidenza del capitale costante rispetto al variabile. Anche se presupponiamo, con Marx, che il plusvalore realizzato con la parte variabile rimanga elevato, appare chiaro che, crescendo paritempo il capitale complessivo, diminuisce in proporzione il saggio del profitto.
In altre parole: la concorrenza stessa tra capitalisti produce effetti contrari allo scopo fondamentale: anziché incrementare il guadagno si ha un profitto decrescente. Il limite contro cui cozza l'avidità egoistica «attesta il carattere ristretto, semplicemente storico, passeggero, del modo capitalistico di produzione; prova che esso non rappresenta affatto l'unico modo di produzione che possa produrre la ricchezza, ma al contrario, giunto ad una certa fase, entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo. » (III/15/ I)
Se è vero che molti analisti economici hanno, più o meno consapevolmente, condiviso la tesi marxiana, trovandone conferma nella keynesiana caduta a lungo termine della "produttività marginale dei capitali", è anche vero che questa caduta non si è verificata del tutto nel corso del Novecento. Le ragioni vanno cercate nell'affermazione del monopolismo e quindi nella negazione stessa del principio della libera concorrenza.
Rispetto a ciò, potremmo dire che la falsificazione riuscita della teoria marxiana non sta all'interno della stessa, per incoerenza, contraddizione o persino ascientificità, ma al di fuori di essa, coincidendo con la fine di fatto, del sistema della concorrenza e la conquista, da parte di ristretti potentati finanziari delle posizioni strategiche e del controllo di mercati fondamentali quali quello dell'energia o, si pensi all'Italia, della pubblicità; senza contare che approfittando di leggi che impongono l'assicurazione obbligataria (d'altra parte indispensabile) si sono venute a determinare patti corporativi segreti tra le assicurazioni che di fatto riproducono una situazione di monopolio.
Non è un caso che laddove le authority riescono ad imporre (sempre con meno efficacia, peraltro) regole di concorrenza, i profitti, come del resto i salari, tendano a ridursi, quantomeno come valore relativo (dato dal rapporto con l'inflazione) e non come valore monetario nominale (spesso chiamato valore assoluto).
Tornando al particolare ambito di validità, un ambito storico contrassegnato dalla concorrenza sfrenata, è comunque evidente che non si può riconoscere una validità ancora assoluta a tutto quello che Marx ha scoperto. In linea generale è possibile che i profitti decrescano relativamente (rispetto al tasso d'inflazione e rispetto alla estensione quantitativa della produzione) nei settori in cui vi è più concorrenza, ma poiché il mercato stesso è sempre più "turbato" da altri fattori di tipo finanziario e distributivo, nonchè continuamente trasformato da innovazioni tecnologiche, non possiamo escludere che il saggio medio di profitto si arresti, o torni persino a salire anche in situazioni non monopolistiche.

Le crisi economiche
Ciò che produce crisi economiche è per Marx il crollo periodico del saggio di profitto. Tuttavia il nostro non si è fissato su questo punto come unica causa delle crisi. La ragione ultima è la povertà, quindi la limitazione al consumo delle grandi masse, del tutto in contrasto con l'esigenza di avere sempre più consumatori. (III,30)
Per Marx, l'eventualità di crisi è connaturata all'anarchia della produzione del sistema. Nessun imprenditore è sufficientemente informato di ciò che riguarda tutti gli altri. Ognuno vuole incrementare ad oltranza il proprio saggio di profitto. Tutti quanti finiscono con l'ostacolarsi a vicenda. Da un movimento ascensionale della congiuntura ognuno vuole trarre per sé il massimo utile, ma non avverte il sovraccarico dei mercati, e la debolezza del potere d'acquisto dei consumatori. Una volta però che i prezzi si sono assestati troppo in alto, si verifica un ristagno nelle vendite. Da qui in poi, ogni imprenditore tenta di offrire le sue merci a prezzi più bassi. Ma il ribasso, che presto diviene generale, comporta la caduta del saggio di profitto perché, al tempo stesso, continuano ad incidere i precedenti costi di produzione.
La brusca caduta del saggio di profitto determina la scomparsa delle imprese più deboli. Si crea una situazione di panico; il saggio di profitto scende al di sotto della sua media ciclica. La caduta dei prezzi si estende anche al capitale costante. Quindi varia anche la composizione organica del capitale.
Toccato il fondo, i prezzi possono risalire, perché la loro stessa caduta ha rivalutato la domanda. A poco a poco la produzione torna a tirare ed i prezzi risalgono.
L'elemento principale nell'analisi marxiana della crisi sta nel fatto che Marx non considera queste come malattie temporanee e fisiologiche, ma come crisi del sistema.
«Il vero limite della produzione capitalistica e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione: che la produzione è solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione sono dei semplici mezz per una continua estensione del processo vitale per la società dei produttori. [...] Il mezzo - lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali - viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente.
Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti sociali che gli corrispondono.» (III/15/II)
CF - 10 settembre 2004