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Lie(zi)bestraum
di Guido Marenco

 


Il primo senso del ritorno
Se perdiamo la strada di casa, ci siamo smarriti. Non si dovrebbe dire che chi segue intenzionalmente una direzione, o chi semplicemente va a zonzo, ha perso la strada di casa. Liezi usa l'immagine del ritorno in due sensi. Il primo è quello della morte. Morire è solo la fine del viaggio, il ritorno a ciò che si era prima di nascere. L'individuo con la coscienza a posto non teme di morire. Non sente alcun bisogno di dichiarare il "suo amore per la vita", la vive prendendola come viene. Certo è da stolti dichiarare odio per la vita e pretendere di farne la verità universale. La preoccupazione per la morte non è cosa da prendere troppo sul serio, Nel Classico dei Mutamenti si legge che al termine della frantumazione fisica del corpo che ci è stato "prestato" dalla natura: "all'ignobile va in frantumi la casa, il nobile viene festeggiato dal popolo". Il popolo potrebbe essere sia quello di quaggiù che quello di lassù. E' radicalmente sbagliato pretendere dal Libro dei mutamenti la soluzione finale al dilemma metafisico della sopravvivenza dell'anima. Esso arriva solo fino a dove può arrivare un individuo in vita, ovvero un individuo sottoposto al divenire. Non ci sono espedienti per sottrarsi al destino della morte, a quello che si potrebbe definire "ritorno forzato". Ancora nel Libro dei Mutamenti è scritto che si può mancare completamente la via del ritorno. Ciò sta ad indicare una concezione abissalmente erronea della vita. Un errore di proporzioni colossali. Liezi ricorda che anche Confucio insegnava che nella vita non c'è mai un vero ritorno ed un vero riposo. Solo nella morte si dorme il sonno dei giusti. Un teologo occidentale ed un rabbi ebraico potrebbero tradurlo e sottoscriverlo come "entrare nel riposo di Dio". Cercando un accordo su quale sia il giorno della settimana da dedicare al riposo, si potrebbe arrivare a due: Yes, week-end!

Preoccupazioni
Bando alle celie, Confucio esagerava nell'insegnare all'allievo Zidong che nella vita non si ha diritto al riposo. E' vero in un senso, e falso in un altro. Chi sa condursi capisce al volo quando è il caso di concedersi un momento di svago, di ristoro, e almeno otto ore di sonno, possibilmente senza sogni. Un antichissimo insegnamento postulava che solo le donne possono sognare senza timore, perché entrano in contatto con gli spiriti sottili dei defunti: il padre e la madre, il marito, i figli scomparsi prematuramente. Superstizioni? Chi può dirlo? Probabilmente, è molto più vera la spiegazione scientifica del sogno. La memoria, lasciata libera dalla presa degli affanni quotidiani, elabora autonomamente liberissime associazioni necessarie! Sta di fatto che una grandissima parte degli antichi maestri cinesi affermò concordemente che l'uomo non dovrebbe sognare. Suppongo per il motivo che un vero uomo non può avere "inconscio". Deve saper cogliere i germi del divenire a mente lucida ed in stato di veglia. Od, al limite, in stato di trance, come gli sciamani dei popoli a nord della Cina. Essi si vantavano di poter leggere il futuro ed il destino. Non ho mai fatto lo sciamano e non sono mai entrato in stato di trance, anzi, tutto sommato, non la considero una situazione desiderabile e qualificante. Preferisco perseguire la lucidità in stato di veglia. Ma quando, raramente, mi capita di sognare, devo ammettere in primo luogo di avere ancora un inconscio, ed in secondo luogo di avere in me una componente femminile, linee yin, insomma, che sono sia un carattere fisso che il risultato di una situazione psicologica, la quale, a sua volta, non sorge per incomprensibili motivi ma, per reali preoccupazioni per le proprie sorti, quelle di individui cari, e per il futuro della società e del mondo intero. In Liezi c'è una pagina magistrale in cui si raccontano le preoccupazioni di Confucio in un particolare momento. Stupito nel vedere che il maestro non apprezzava la musica che stava suonando e rimaneva triste, Yan Hui, l'allievo prediletto, lo interrogò. "Mi hai insegnato a non avere preoccupazioni, a vivere gioiosamente conoscendo il destino, perché ora mi chiedi conto della mia allegria e sei così triste?"
Rispose Confucio: «Furono quelle le mie parole? Sta di fatto che non ne hai colto il senso completo. Pronunciai quella frase in un'occasione specifica, cerca di completarne completamente il senso grazie a quello che ti dirò adesso. Al momento tu hai compreso soltanto l'assenza di preoccupazione insita nel gioire del Cielo e nel conoscere il destino, quello che non hai ancora compreso è quanto sia grande la preoccupazione di chi gioisce del Cielo e conosce il destino. Lascia ora che ti spieghi la vera essenza della questione. Coltivare la propria persona, adattarsi al successo e al fallimento, sapere che passato e presente non dipendono da noi senza esserne turbati: ecco che cosa intendi con assenza di preoccupazione nel gioire del Cielo e nel conoscere il destino. Tempo fa sottoposi a revisione il Libro delle Odi e il Libro dei Documenti, apportai correzioni ai Riti e alla Musica. Lo scopo era quello di governare il mondo e di tramandare l'insegnamento alle generazioni future; non si trattava di coltivare la mia persona e di governare lo stato di Lu. Eppure, se guardavo a Lu, vedevo che i ministri avevano sempre meno rispetto dell'ordine gerarchico, che il senso dell'umanità e della giustizia andavano sempre più deteriorandosi, che le tendenze dell'uomo verso il bene si facevano sempre più deboli. Se gli insegnamenti non erano seguiti in un singolo paese e restavano inappliccati nel presente, come avrebbero potuto gli stessi insegnamenti essere seguiti dal mondo intero ed essere applicati dalle generazioni future? Pensai per la prima volta che il Libro delle Odi e il Libro dei Documenti, i Riti e la Musica non fossero in grado di aiutarci a governare il disordine del mondo, tuttavia non sapevo ancora con quale metodo sostituire i loro insegnamenti. E' proprio questa la preoccupazione che assale anche colui che gioisce del Cielo e conosce il destino. Ma alla fine ho capito quello che c'era da capire. Il "gioire" e il "conoscere" come li intendevano i saggi dell'antichità non corrispondono al "gioire" e al "conoscere" come li intendiamo noi. Essere al di là del gioire e del conoscere, questi sono il vero gioire e il vero conoscere: in questo modo non vi è nulla di cui non si gioisca, nulla che non si conosca, nulla di cui non ci si preoccupi, nulla che non si riesca a realizzare.»

Il secondo senso del ritorno
Nessuno è insostituibile. Questa potrebbe essere la spiegazione. Si hanno grandi preoccupazioni quando si crede di svolgere un ruolo fondamentale, mentre è chiaro, da quando mondo è mondo, che "chi raccoglie è diverso da chi semina". Un chicco cade qua e uno là. Questo potrebbe essere il vero principio della "modestia" di chi pretende di insegnare. Tanto più, che le presunte "perle" fatte cadere dall'alto, potrebbero cadere in mano a cani e porci. Ciò in Liezi è particolarmente evidente. La modestia è una di quelle qualità umane che non si può imporre dal di fuori, né con la dolcezza, né con la violenza; probabilmente nemmeno dialogando a mente libera. Il più delle volte arriva dopo ripetute esperienze traumatiche. Ne so qualcosa. Se dopo una serie di KO si persiste in una condotta spavalda, procedendo a testa bassa contro i nemici delle proprie idee e della propria visione del mondo, si finisce un'altra volta al tappeto. Andare a cacciarsi in imprese più grandi delle proprie possibilità trova corrispondenza in quel severissimo monito biblico: "Non tenterai il Signore Dio tuo!". Anche impegnarsi in discussioni su questioni e materie che non si conosce a sufficienza è indice di immodestia. Una rondine non fa primavera e c'è troppa gente che annuncia primavere solo per aver visto l'ombra di una rondine, oppure una rondine dipinta. Il mondo pullula di arroganze quotidiane e di individui che si credono nel diritto inalienabile del "tutto mi è dovuto". Può darsi che sia così ma, bisognerebbe fare qualcosa per meritarselo sul serio, cominciando con l'abbassare la cresta.
Il secondo senso del ritorno sta nell'essere capaci di tornare a se stessi, lasciando l'adolescente spavaldo alla sua inevitabile agonia. Nel linguaggio della filosofia occidentale più recente l'atteggiamento arrogante è stato identificato con il "pensiero forte" e la razionalità illuminista. Il "pensiero debole" sarebbe il modo di far cadere la maschera del soggetto che si presume "forte". E' fumo negli occhi anche questo, della serie "chi parla non sa". Ci sono momenti nei quali pensar debole è radicalmente sbagliato e l'atteggiamento che si assume contro le "interpretazioni" non è né forte, né debole ma, solo approssimativamente giusto. Rispetto a chi nega la realtà storica dell'olocausto, ad esempio, seguire i flebili su una linea di dialogo improntato alla cortesia ed alle buone maniere, sarebbe una sorta di harakiri. Ma, trovandosi circondati da un manipolo di fanatici neo-nazisti, sia l'atteggiamento spavaldo che quello cortese e dialogante non avrebbero alcun senso. Darsela a gambe, e si salvi chi può. Se si assume che conservare la propria vita è più sensato che gettarla in un'impresa eroica, a meno di non essere Tex Willer, questa è la condotta da seguire. "Un soldato che scappa è buono per un'altra volta" - sentenziò Churchill. E non aveva tutti i torti. Ma il comandante che si è assunto la responsabilità di una nave da crociera non può darsela a gambe come un disertore qualsiasi, od un combattente semplice cui venga comandata la ritirata. Questa è una delle leggi supreme e chi la coglie non si farà confondere dalle ciarle sul relativismo etico. Chi si assume grandi responsabilità, dovrà risponderne sia nel bene che nel male.
Ritornare a se stessi, pertanto, porta alla consapevolezza della necessità di far morire l'istupidito che è inevitabilmente in chiunque si sia fatto istupidire da chiacchiere sull'eroismo e la viltà, sul senso e il non-senso, e persino sul vuoto e sul pieno. Pensiero forte e pensiero debole sono due astrazioni, due oleografie che non rendono alcuna giustizia all'individuo nel suo procedere reale. D'altra parte, anche il Libro dei Mutamenti descrive questa situazione con una sorta di aut-aut: "seguendo l'uomo forte si perde il ragazzino, seguendo il ragazzino si perde l'uomo forte". Non sta scritto in alcun testo della verità universale che seguire il ragazzino sia necessariamente un male ma, seguendo un uomo forte ci si sente più tranquilli a patto che l'uomo forte non sia un fascio di muscoli senza testa pensante.
La via del ritorno a se stessi è preludio indispensabile alla via dello yoga, la quale non ha alcun senso se si ammette l'inesistenza dello spettatore che contempla lo spettacolo della propria vita e della vita degli altri. Maestro di quest'arte fu Patanjali, un indiano dell'VIII° secolo d.C. La grande verità che propose mastro Patanjali fu più una "tecnica" che, appunto, una verità metafisica. Ciò che mancò al pensiero dei maestri cinesi fu proprio la "tecnica", o meglio: la sue esplicitazione. Negli insegnamenti cinesi manca il libretto di istruzioni da seguire punto per punto. I Sutra indiani, ovvero le raccolte di istruzioni per perseguire lo scopo, anche il più discutibile come il piacere del sesso (Kama-sutra), ovviarono a questa mancanza, offrendo ricette sicure e garantite. Lo spettatore dovrebbe essere inteso come il nucleo irriducibile dell'io, soppresso il quale non rimane più nulla. Dovrebbe stare al di là di ogni coinvolgimento e di ogni piccineria, ed allo stesso tempo, vivere fino in fondo l'esperienza di essere un elefante, o di vivere la vita dello sciacallo, della pantera, del verme e del cobra, dell'opportunista e del benefattore. Del ladro e dell'onesto. Del sommo illuminato e dell'ultimo dei coglioni, sì da abbracciare tutte queste vite e persino arrivare a cogliere le sue vite precedenti.
Il problema che presenta ogni "tecnica" è sempre lo stesso dalla notte dei tempi: è "neutrale". Nelle mani di un individuo destinato ad una vita sana e giusta funziona in un certo modo; nelle mani di un irresponsabile funziona in un altro. Avevano ragione i cinesi a tenersi sul vago?

Ritorno nel vago
«Yu Xioung disse: "Nel loro ruotare incessante, Cielo e Terra si muovono in modo misterioso. C'è forse qualcuno che riesce a cogliere tale movimento? Di fatto, le cose che là diminuiscono si accrescono qui, le cose che qui sono complete là sono manchevoli. Come la diminuzione è inseparabile dal contemporaneo accrescimento, come la completezza è inseparabile dalla contemporanea mancanza, allo stesso modo il vivere è inseparabile dal contemporaneo morire. L'andare e il venire si susseguono e il momento di discontinuità che li separa è impercettibile: c'è forse qualcuno che riesce a coglierlo? Il Soffio unico che costituisce ogni cosa non si manifesta in maniera istantanea; la Forma unica che costituisce ogni cosa non si esaurisce in maniera istantanea. Tuttavia, non ci è dato di cogliere il momento in cui il Soffio giunge a compimento, così come non ci è dato di cogliere il momento in cui la Forma arriva ad esaurirsi. Lo stesso si può dire dell'uomo quando si considera il suo cammino dalla nascita alla vecchiaia: il suo aspetto, la sua conoscenza e il suo comportamento non restano gli stessi da un giorno a quello successivo; pelle, unghie e capelli ora crescono ora cadono, non restano immutati dal periodo dell'infanzia. Il momento di discontinuità che separa uno stato dall'altro non riusciamo a percepirlo, dobbiamo aspettare che uno stato giunga a manifestarsi compiutamente e solo allora riusciamo a coglierlo."»

(continua)


gm - gennaio 2012