| home | Kant Bicentenario | indice di filosofia moderna

Kant - La critica della ragion pratica
Tra felicità e morale

di Renzo Grassano
Se nella Critica della ragion pura il tema dominante era la contestazione della pretesa della ragione di oltrepassare i limiti dell'esperienza sensibile e, contemporaneamente, la contestazione dello scetticismo humeano che faceva un uso ridotto della ragione e delle sue potenzialità entro un empirismo radicale, il tema fondamentale della Critica della ragion pratica sarà riportare l'uso della ragione applicata alla condotta di vita ai suoi limiti, quelli che sono propri dell'uomo razionale come essere finito, non onnipotente, non onnisciente, non un sacco di altre cose definibili come attributi divini.
Kant rifiuta di fondare la morale sulla ricerca della felicità, e pertanto rifiuta anche di proporre un'etica, ovvero un modo di vivere regolato da costumi e da norme che faccia della felicità il movente di tutte le azioni, comprese quelle morali. Ciò dipende forse da un equivoco, o da un'ambiguità. Vale a dire che tra i filosofi non c'è accordo su che significa felicità. Per Kant, indubbiamente, il termine aveva assunto un significato del tutto particolare e ciò creò, e continua a determinare, non pochi problemi a chi si sforza di chiarire la storia della filosofia evitando ammucchiate e giudizi all'ingrosso.
Per questo, ho ritenuto opportuno approfondire il significato che la parola ha assunto per Kant, un significato ben diverso da quello adottato da Platone (coincidenza con il sommo bene), da Aristotele (una vita contemplativa attiva, cioè la vita di studi che rende felice e beato, ad esempio, il nostro webmaster), da Epicuro (il principio del godimento moderato), dagli stoici (la felicità dell'essere virtuosi) e così via.

Ma, l'oggetto prevalente di questo mio studio è l'esame delle condizioni della morale, la quale si rivela nella sua pienezza sol a partire dall'imperativo categorico, che proprio in quanto tale, assoluto ed incondizionato, non è derivabile da alcun altro principio che non sia o Dio, o la ragione umana pura. Che non sono la stessa cosa, o forse sì, dato che nella religione cristiana oggetto di venerazione è il Verbo, la Parola di Dio rivelata dal Cristo incarnato che altro non dovrebbe essere che la Ragione incondizionata.
Comunque sia, in Kant, come sostiene Nicola Abbagnano nella sua Storia della filosofia, maturò la consapevolezza della mancanza di un accordo necessario tra volontà e ragione: rimanendo nel dualismo, tra volontà del singolo uomo e volontà del Verbo, o della ragione. Se accordo vi fosse, la legge morale non varrebbe come comando; l'uomo agirebbe in modo morale senza sentirsi costretto a farlo.
In altre parole, per Kant, come poi anche per Stuart Mill, la natura umana e l'istinto non sono qualcosa da seguire, ma da imbrigliare.
In ciò, tuttavia, non si deve vedere una perdita di libertà, ma il trionfo stesso della libertà. Potendo scegliere, l'uomo è libero, e la moralità non è possibile senza libertà. Non è un individuo morale chi fa le cose per paura o sotto costrizione.
E qui, proprio ad evitare fraintendimenti, occorre sbarazzarsi del possibile equivoco: Kant non ripropone la solita solfa della vita spirituale contrapposta a quella materiale. Le inclinazioni ed i desideri dell'uomo non sono un male in sé, e tantomeno il male assoluto e infimo. Per certi aspetti sono persino manifestazioni di innocenza.
Ciò che è male è solo ed esclusivamente la violazione della legge morale.

Da tutto ciò deriva un terzo argomento oggetto di particolare attenzione: per Kant le ragioni pratiche sono due, non una, come pretendevano gli empiristi. Essi hanno confuso la ragione discorsiva e calcolante, che potremmo chiamare prudenziale, ruotante attorno agli argomenti empirici, con la ragion pura, la quale viene ad essere definita essenzialmente dall'oggetto a cui è rivolta. Questa specie di ragione, a differenza dell'intelletto, non ha rapporto con la sensibilità, ma si muove su terreno trascendentale ed aprioristico, quello, appunto della legge morale universale, la quale non è ricavabile empiricamente, né muovendosi su un piano oggettivo, né muovendosi su un piano soggettivo.

Una rivoluzione nel pensiero di Kant

Nel Canone della ragion pura, che si trova alla fine della monumentale Critica della ragion pura, incontriamo l'embrione di quello che sarà La critica della ragion pratica, ovvero il testo decisivo per la comprensione dei fondamenti della morale in Kant.
Molti hanno osservato che la posizione di Kant, nel passaggio da una Critica all'altra, mutò significativamente, al punto da rivoluzionarsi.
Sergio Landucci lo evidenzia con molta chiarezza nella sua introduzione alla edizione italiana della Critica alla ragion pratica, edita da Laterza (con il testo a fronte e la traduzione di Francesco Capra): «Quel che nella Critica della ragion pura si trovava sulla morale (alla quale era riservato il capitolo Il canone della ragion pura) era palesemente insufficiente, troppo sommario. Ma, se Kant scrisse la Fondazione della metafisica dei costumi, fu perché nel Canone della ragion pura aveva sostenuto, (al pari che nei suoi corsi, da un decennio e più) una dottrina che ora invece rinnegava completamente: che solo l'attesa dei premi e delle punizioni ultraterreni, e cioè la paura e la speranza, possono indurci a rispettare i precetti morali, o funzionare da "moventi" per l'adempimento del dovere; e pertanto - se non esistesse un Dio giudice e la nostra anima non fosse immortale - la legge morale risulterebbe vana, chimerica, appunto in quanto ininfluente quanto alla pratica effettiva. Invece, nella Fondazione della metafisica dei costumi ciò si trova rifiutato con sdegno come l'esattamente opposto della moralità, in quanto verrebbe a rendere del tutto eteronoma l'etica, di contro a quella individuazione del principio della moralità nell'" autonomia della volontà" che si trova consegnata appunto nella fondazione.» (1)

In realtà, nel Canone, la posizione di Kant ha già contorni molto originali, e non può essere compresa né tra le morali di semplice derivazione religiosa, né tra le morali innovative, fondate su genuini e innati sentimenti di simpatia per il genere umano, tipiche del periodo illuministico.
L'originalità di Kant va cercata nella distinzione tra uso pratico ed uso puro della ragione.
Infatti, scriveva Kant - «Pratico è tutto ciò che è possibile mediante la libertà. Se le condizioni per l'esercizio del nostro libero arbitrio sono empiriche, la ragione non può avere altro uso che quello regolativo, servendo esclusivamente a porre in atto l'unità delle leggi empiriche:ad esempio nella dottrina della prudenza, la riunione di tutti i fini connessi alle nostre inclinazioni in un solo fine, la felicità, e il coordinamento dei mezzi per raggiungerlo, costituiscono l'intero compito della ragione; in questo caso la ragione può darci solo leggi pragmatiche del libero agire in vista del raggiungimento dei fini promossi dai sensi, e non leggi pure, determinante rigorosamente a priori. Al contrario, le leggi pratiche pure, il cui fine è stabilito dalla ragione rigorosamente a priori, e i cui comandi non sono empiricamente condizionati, bensì assoluti, sono prodotti della ragion pura. Tali sono le leggi morali: soltanto queste dunque, appartengono all'uso pratico della ragion pura e comportano un canone.» (2)

Nel Canone, Kant legava strettamente il raggiungimento della felicità al compimento del dovere morale, in modo tale che la felicità stessa veniva subordinata alla realizzazione della moralità. La massima che sintetizzava tale punto di vista era: «Fa ciò per cui diverrai degno di essere felice.» Cui seguiva una specie di domanda retorica: «Se mi comporto in modo da non essere indegno della felicità, come potrò sperare di diventarne partecipe?»
E come a ribadire il concetto, aggiungeva: «Io affermo allo stesso modo che i principi della morale sono necessari alla ragione nel suo uso pratico, è necessario alla ragione, nel suo uso teoretico, che ognuno speri fondatamente la felicità nella misura in cui se ne è reso degno col suo comportamento e che, di conseguenza, il sistema della moralità risulti inscindibilmente connesso con quello della felicità, solo però nell'idea della ragion pura.» (2)
Nulla, così messe le cose, vieta di pensare che si dia una proporzione tra l'entità (e la purezza) del comportamento morale e la felicità, e che questa proporzione sia un sistema necessario.
La libertà di scegliere, che è tipica degli esseri razionali, cioè dell'uomo, diverrebbe essa stessa una delle cause della felicità, forse la più importante, se non quella realmente determinante. In altre parole: in questa proporzione si avrebbero uomini autori della propria felicità.
C'era, ovviamente, qualcosa che non funzionava in quel ragionamento kantiano, qualcosa che aveva ancora troppo a che fare con Leibniz, non a caso citato, ed il suo regno della grazia (il mondo delle relazioni umane) contrapposto al mondo della natura sottostante. Di mezzo c'era il terremoto di Lisbona e la critica satirica di Voltaire allo stesso Leibniz... olà che viviamo nel migliore dei mondi possibili anche se tutto va mal... Fatto sta, che il mondo sottostante si era preso fin troppe rivincite su quello della grazia per continuare a tenere rigidamente divisi i due mondi. Il sottostante aveva crudelmente dimostrato di poter diventare sovrastante in ogni momento.
Mentre scrivo queste note, il tornado sta facendo a pezzi la Florida. Più che alla felicità mi viene di pensare alla disperazione.
Poi mi giunge la notizia che due volontarie italiane sono state sequestrate in Irak. Erano convinte di non correre alcun rischio di questo tipo, essendo impegnate in un'azione di grande utilità sociale e di grandissimo valore morale. Ed erano anche felici, perché facevano quello che realmente volevano, credendo di vivere in un regno della grazia anche in mezzo all'inferno..
Ora è tutto spezzato, incerto, incomprensibile. Avevano ragione i greci nel dire che il Fato sovrasta tutte le altre divinità? Ha ragione la vulgata quando afferma che la fortuna è bendata e non guarda né al bene né al male, ma bacia a caso il primo che le capita a tiro, facendo solo incazzare i giusti?

Kant aveva certo il senso del ridicolo, e finì col comprendere che la sua posizione era del tutto relativa, coglieva una tendenza, ma il mondo empirico, il mondo della storia concreta, presentava anche altre tendenze, una così grande messe di disgrazie e punizioni per gli uomini morali, che era davvero insostenibile legare moralità e felicità, nel senso di fortuna o favore divino come premi terreni.
Altra cosa, ovviamente, la soddisfazione interiore; ma sai che ce ne facciamo della soddisfazione interiore quando tutto attorno cade in rovina?

E come a mostrare che nel fondo della coscienza kantiana si agitava nebuloso l'interrogativo, già nel Canone, si trova un'annotazione di tipo storico che quasi riassume lo svolgimento dell'idea di Dio dal grossolano al raffinato, dall'arcaico al moderno.
Arriviamo - dice Kant - ad un'idea di Dio corretta solo oggi, solo al termine di una vicenda umana che in passato ha prodotto divinità grossolane ed immorali.
Questo perché solo oggi, l'ideale di Dio coincide con i principi più profondi della moralità. E di fronte a ciò, ecco il superamento di una morale di semplice derivazione religiosa: «Fin che la ragion pratica avrà il diritto di guidarci, non riterremo obbligatorie talune azioni perché comandi di Dio, ma le riterremo comandi di Dio perché ci sentiamo internamente obbligati ad esse.» (2) Che è come trarre una conclusione siffatta: Dio è ciò che illumina la nostra coscienza, ma è anche vero che la nostra coscienza illumina Dio e ci costringe a respingere tradizioni religiose (ed anche filosofiche) che contemplano un Dio immorale.
Pensiero profondo, che sarà rivisitato in tutta la sua radicalità, però, solo nella Religione nei limiti della sola ragione.
Ma a noi, qui interessa soprattutto evidenziare il ritorno critico sulle indebite conclusioni della prima critica.
Scrive Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi:« Il principio della felicità è il più riprovevole, non solo perché falso e perché l'esperienza contraddice al presupposto che il benessere si accordi sempre col retto agire; non solo, inoltre, perché non da alcun apporto alla fondazione della moralità, essendo cose del tutto diverse rendere un uomo felice e renderlo buono, ma perché attribuisce alla moralità moventi che la mandano in rovina e ne distruggono la nobiltà giacché riuniscono in una sola classe i moventi della virtù e quelli del vizio, perché non insegnano che a calcolare meglio e negano del tutto la differenza specifica che esiste tra le due classi.» (3)

Dobbiamo così constatare che nella Critica della ragion pura in Kant mancava una sufficiente fenomenologia della felicità e dell'infelicità terrene, pur avendo ben chiaro che la felicità ultraterrena era questione puramente metafisica.
Questa fenomenologia arrivò poco alla volta, conducendo a considerazioni di grandissimo interesse proprio attorno alla felicità.

La felicità
La felicità è una condizione mentale, di spirito, e si fonda semplicemente su principi empirici. Essa è il risultato di un'elaborazione intellettuale della sola esperienza dei piaceri sensibili. Kant comincia col definirla come attitudine umana al godimento ed alla ricerca dei piaceri forniti dal buon esercizio delle funzioni vitali.
Nella Critica della ragion pratica scrive: « Esser felici è necessariamente il desiderio di ogni essere razionale ma finito, e perciò un motivo determinante inevitabile della sua facoltà di desiderare. Infatti, la contentezza per la propria intera esistenza, non è già un possesso originale e una beatitudine, che supporrebbe una coscienza di autosufficienza e indipendenza, ma un problema che a quest'essere è imposto mediante la sua stessa natura finita: poiché esso ha dei bisogni, e questi bisogni riguardano la materia della sua facoltà di desiderare, cioè qualcosa che si riferisce a un sentimento soggettivo di piacere o dispiacere, che sta alla base, e così è determinato ciò di cui esso abbisogna per la contentezza del suo stato.» (1)
La Selbstzufriedenheit, ovvero la contentezza di sé è però una sorta di compiacenza negativa per la propria esistenza. Non si deve confondere questo godimento immanente della ragion pratica con la felicità. Incapperemmo in una sorta di illusione ottica interna, un vitium subreptionis, perché crederemmo che la felicità sia essa stessa causa di virtù, e che viceversa, la virtù sia causa di felicità. Certo, aggiunge Kant, questaè un'antinomia della ragion pratica per certi aspetti inevitabile, ma è pericolosa.
Nel Kant della maturità la felicità non ha nulla a che fare con la consapevolezza dell'autonomia pratica dell'uomo; essa può essere solo conseguenza dell'esistenza sensibile. Non vi sono altri motivi determinanti, sia della felicità che dell'infelicità, che quelli legati alla facoltà inferiore di desiderare.
Con ciò, Kant rompe con la concezione razionalistica dell'illuminismo tedesco, con lo stesso Leibniz, con Wolff, con la popularphilosophie che riconoscevano nei piaceri intellettuali l'unica fonte di vero godimento.
Possiamo pensare che questo distacco sia stato preparato dall'assidua frequentazione di autori francesi, portatori di una concezione ridotta all'edonismo.
Ma alcuni autori hanno rinvenuto una specie di svolta nella Dottrina trascendentale del metodo (Critica della ragion pura) dove l'uso del termine Neigung (inclinazione) potrebbe essere interpretato estensivamente, e forse fantasiosamente, come abituale desiderio sensibile.
Qui Kant aveva effettivamente definito la felicità come appagamento di tutte le nostre inclinazioni (Neigungen) sia in senso estensivo, rispetto alla loro molteplicità, sia in senso intensivo, rispetto al grado, sia in senso protensivo, rispetto alla durata.
Può essere, allora, che la felicità sia possibile solo a condizione che di un totale soddisfacimento dei bisogni e di una totale liberazione dal bisogno, il che ancora fantasiosamente, farebbe di Kant un pre-marxista. Ma, a mio avviso, è scorretto porre le questioni in questo modo, perché Kant riflette sul rapporto tra ragione pratica e felicità, evidenziando quelli che sono i limiti stessi della ragione pratica. La pretesa del calcolo protensivo, di far durare la felicità nel tempo, costruendo condizioni per il continuo soddisfacimento dei bisogni si scontra con difficoltà ed ostacoli dettati dalla stessa natura del mondo in cui siamo.
Per quanto l'uomo possa ritenersi accorto e potente, è creatura finita. Non è in grado di calcolare tutte le conseguenze delle proprie azioni, né di evitare effetti secondari non desiderabili.
Nella Fondazione della Metafisica dei Costumi si trova una considerazione notevole: « Se vuole la riccchezza, si attirerà addosso ogni sorta di preoccupazione, invidie ed affanni. Se vuole grande intelligenza e cultura, forse non avrà che una maggiore e più terrificante consapevolezza dei mali inevitabili prima nascosti alla sua vista, oppure accrescerà il fardello dei suio desideri, che è già abbastanza pesante. Se vuole una vita lunga, nessuno può garantirgli che essa non comporti una più lunga sofferenza. Vuole almeno la salute? Ma quante volte l'impedimento del corpo lo ha invece allontanato da eccessi in cui l'avrebbero fatto cadere una salute perfetta e così via. In breve egli non è in grado di stabilire con assoluta certezza che cosa lo renderebbe veramente felice, perché si richiederebbe l'onniscienza.» (3)

Abbiamo così che la ragione pratica non può far molto per guidarci alla felicità. Anzi, abbiamo che può far molto per impedirla. Perché sua essenziale caratteristica è provocare artificialmente, con l'aiuto dell'immaginazione nuovi desideri non derivanti da bisogni fisiologici e naturali ma, addirttura in grado di alterare gli equilibri naturali.
Sicché, ansietà e preoccupazioni possono porate alla destabilizzazione fisiologica, a quella vertigine della contingenza che altera e confonde la capacità di scelta, ad esempio quella del giocatore d'azzardo incallito.
L'istinto, afferma con non poca autoironia Kant, è potenzialmente più idoneo della ragione nel guidarci alla felicità, od alla illusione di essa. Infatti, ancora nella Fondazione della Metafisica dei Costumi si trova: «... quanto più una ragione raffinata tende al godimento della vita e della felicità, tanto più l'uomo si allontana dalla vera contentezza; sicché in molti uomini, e nei più esperti nell'uso della ragione, qualora siano abbastanza sinceri per riconoscerlo, nasce un certo grado di misologia, cioè di odio per la ragione, perchè calcolati tutti i vantaggi che si traggono non solo dalle scoperte delle arti generatrici del lusso comune, ma anche delle scienze, (che finiscono col sembrare un lusso dell'intelletto), capiscono, alla resa dei conti, di essersi procurati una fatica maggiore della felicità conseguita e provano più invidia che disprezzo per la maggior parte degli uomini, che tendono a farsi guidare dal puro istinto naturale e restringono al massimo l'influenza della ragione sulla propria condotta.» (3)

La conclusione sulla felicità, come è intesa da Kant, è dunque pessimistica. L'uomo non può essere felice in quanto dominato dall'insaziabilità, e questa è una condizione patologica.

(continua)


note:
(1) La critica della ragion pratica - Laterza 1997
(2) La critica della ragion pura -
(3) La fondazione della metafisica dei costumi -
RG - 10 settembre 2004