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Karl Jaspers
Periodo assiale e periecontologia
Dario Smizer
La parola Nirvana è formata dal prefisso "nis" che signica "da", "via", "fuori", dalla radice "va" che significa "soffio" e dal suffisso del participio passivo "na". Nirvana significa allora letteralmente: "Ciò che è via, che è fuori dal dharma, ciò che spegne ogni dharma col soffio. (Umberto Galimberti - Il tramonto dell'Occidente)
Il pensiero oggettivo non è ancora pensiero scientifico, perché il pensare scientifico richiede uno sforzo di concentrazione e astrazione, un balzo, una rottura metodologica. Con poche eccezioni - penso ad Archimede e ad alcuni altri matematici dell'antichità - la rottura è visibile solo nella modernità, in particolare con Galileo. Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, la figura di Simplicio, esemplare rappresentante del vecchio pensiero oggettivo metafisico, prima ancora che dogmatico, mostra il tipo di resistenza che l'antico modo di vedere l'oggetto "mondo" oppone al nuovo.
Una conseguenza della modernità è la negazione della sostanza pensata da Aristotele. La sostanza "uomo" non c'è più. Il moderno, già con il temerario Spinoza, nega vi sia altra sostanza che quella divina da cui tutto dipende. Poi venne la negazione pura e gratuita: "non ci sono essenze", recita il filosofo in bilico tra moderno e post-moderno, e qui siamo, ora, a cercar di capire come l'uomo possa dare un senso alla propria vita se dentro a sé, o attorno a sé, quando non vede alcuna essenza, e nemmeno l'essere solidale con essa, ma solo agglomerati di materia privi di significato "oggettivo". Siamo così sfidati a dare, noi, un significato alle cose. Impresa che non può non condurre a scacchi ripetuti, al naufragio jaspersiano.
Era meglio, allora, la vecchia metafisica? Indubbiamente, rispetto al disordine attuale, essa presentava alcuni vantaggi, anche se rifletteva un atteggiamento nei confronti dell'essere, e quindi del "mondo", sostanzialmente aggressivo, e quindi radicalmente erroneo. Inoltre, come ha mostrato Nietzsche, essa si contorceva attorno alla consolazione delle grandi menzogne. E non si può vivere in esse senza sentirsi soffocare. Nei primi anni del Novecento, questo venne finalmente in chiaro. Nata come superamento delle favole mitiche, come presunta razionalità, la metafisica mostrava tutte le crepe di cui era intessuto il sistema, l'edificio. Un volto rugoso, vecchio, vacillante. Il segno più evidente della crisi era il tramonto dell'epistéme. Esso si realizzava nella frantumazione del sapere come conoscenza della realtà. La descrizione di tale frantumazione assume toni di rara efficacia nel pensiero di Emanuele Severino: «Frantumazione, quest'ultima, che non consiste soltanto nella sostituzione della conoscenza metafisica del Tutto, da parte di una molteplicità di conoscenze e teorie parziali, specializzate, e legate a loro volta da relazioni accidentali, ma che consiste nell'abbandono, in ampi settori della filosofia contemporanea, di quel significato trascendentale del pensiero, che nella filosofia moderna era stato portato alla luce dall'idealismo: la coscienza che il pensiero, nel suo significato primario, non è come un ente tra gli enti, ma è l'orizzonte di ogni ente, è la dimensione all'interno della quale soltanto è possibile parlare di un qualsiasi ente, e che questa è la dimensione totale, la totalità stessa, appunto.» (1)
Anche la filosofia, pur sforzandosi di conservarsi pura nel pensiero puro, viene risucchiata nella logica delle discipline specializzate, cosa ben visibile anche oggi, dove la tendenza è farsi filosofo della fisica, della biologia, della bioetica e così via. Una rincorsa disperata a cercarsi un mestiere, uno spazio per fare un discorso che sia anche "sensato". E ciò è inevitabile, considerato il modo in cui i filosofi si sono posti rispetto al "divenire". Nel "divenire" la spinta al dissovimento è intrinseca. Seguendo il divenire, si diviene con il mondo, e ci si leva sempre più al tramonto e sempre meno all'alba.
Può darsi che alcuni credano ancora alla possibiltà di recuperare qualche vecchia vecchia favola, per farla dire a Lyotard, a qualche grande narrazione in grado di supportare una rinascita della metafisica. Liberi di farlo, per carità, ma il mestiere del filosofo è quello di seminare qualche dubbio circa la reperibilità di un senso nelle cose della natura o nelle artificialità costruite dalla tèchne. Se senso c'è, esso va cercato altrove, possibilmente con altro sguardo. Non indagando l'ente, ma riaprendosi all'essere. In ciò, sono stati grandi maestri Karl Jaspers e Martin Heidegger. Parlando del primo, sarà inevitabile, dunque, richiamare molte volte il secondo. In tal senso, è subito utile evidenziare che ciò che Heidegger declassò a pensiero ontico, ridefinendo l'ontologia, per Karl Jaspers rimase ontologia. Quest'ultimo coniò un termine nuovo: periecontologia. Quando Jaspers parla di periecontologia, si riferisce, con qualche differenza, a ciò che Heidegger, chiama ontologia. Chiarendo il significato di periencontologia, veniamo così anche a parlare di ontologia in senso heideggeriano, contrapponendola all'ontologia classica che lo stesso Heidegger definisce pensiero ontico.
La periecontologia
Anche l'antico pensiero metafisico oggettivo, sorto con Platone ed Aristotele, rappresentò la conseguenza di una rottura. Essa segnò la messa in disparte della domanda fondamentale della filosofia, quella che Jaspers chiama fragen nach dem Sein, la domanda sull'essere, il pensare oltre gli enti, la totalità, per rivolgersi all'ente in quanto ente, la sostanza separata, isolata dal tutto. Jaspers definisce l'atteggiamento originario come periecontologia, e il suo mutato atteggiamento, come ontologia. La differenza sta nel fatto che la periecontologia (dal greco perì, attorno) era ancora lontana dall'idea di dividere e contrapporre soggetto e oggetto e di proporsi di dominare l'oggetto, impadronendosi di tutte le sue strutture costitutive e vitali. Il pensiero periecontologico pensa l'essere come primo, e solo successivamente distingue. Il pensiero ontologico divide e classifica e l'intento e quello di imperare sugli oggetti. Così Jaspers: «L'ontologia pensa l'essere suddiviso in specie, che nel loro insieme non costituiscono specie alcuna, ma sono in quel rapporto reciproco stabilito dall'analogia dell'essere.
La periecontologia pensa l'essere come ciò che, nei confronti degli enti determinati, passa per primo, o, come ciò che suscitando sostiene insieme e accoglie ogni ente conferendogli significato, senza per questo diventare esso stesso un oggetto.» Con l'ontologia, in sostanza, si perde il senso profondo dell'essere. La periecontologia compie un'operazione a ritroso, riscavalca il fossato scavato dagli ontologisti per ristabilire il primato dell'essere. Ma questo "dare la precedenza all'essere" non è di tipo logico, perché l'essere è, per così dire, nascosto nel rapporto solidale con le sue determinazioni. Dunque non può precederle (anche se qualcosa del genere accadde nel pensiero di Antonio Rosmini) ma deve "passare per loro". La periecontologia deve sostenere questa compresenza di essere e di enti. Umberto Galimberti chiarisce in proposito: «Esclusa dunque questa precedenza logica, è opportuno precisare che nel contesto di Jaspers il "passare per primo" ha un duplice significato: innanzitutto un significato polemico nei confronti dell'ontologia che perviene all'essere "dopo" l'esame delle determinazioni, non rendendosi conto che se le determinazioni sono pensate senza l'essere, le determinazioni non sono, in secondo luogo, un significato fenomenologico che accosta la periecontologia jaspersiana all'ontologia heideggeriana: entrambe, infatti, si presentano come fenomenologia, o come esame dell'orizzonte trascendentale dell'essere, che, non pensato, non consente di pensare ente alcuno.» (1)
Sicché, possiamo intendere meglio, ora, una seconda importante precisazione di Jaspers: «L'ontologia ovvia l'impossibilità di definire il "Primum" attraverso l'analisi dei diversi significati dell'essere, e attraverso l'eliminazione dei significati impropri.
La periecontologia, al contrario, supera l'impossibilità di definire il "Primum" attraverso l'unità del pensiero dell'Umgreifende in tutti i modi dell'Umgreifende (e precisamente, trascendendo il piano dell'oggettività, così da portarsi al cospetto della presenza).» L'ontologia classica, così, non può sottrarsi al compito di risalire all'infinito per spiegare l'esistente, arrestandosi all'Ente supremo, cioè a Dio, creatore e sostenitore di tutti gli enti.
Al contrario, la periecontologia, pone un fondamento non un Ente, ma l'essere pensato come la stessa presenza dell'ente. Per raggiungere l'inafferabile realtà dell'essere, occorre un altro pensiero (das andere Denken), la Trascendenza, in grado di portarci "al cospetto della presenza".
«L'ontologia - prosegue Jaspers - si chiede: "Che cosa è?", e in base a questa domanda, costruisce un quadro delle determinazioni dell'essere, un edificio di enti, perché quello che essa vuole è un sistema di enti.
La periecontolgia si chiede: "In che cosa consiste l'essere?", e in base a questa domanda non costruisce un quadro delle determinazioni dell'essere, non costruisce un edificio di enti, perché quello che essa vuole è una sistematica di ciò che è.»
Ora, la domanda che ci dobbiamo porre, è come e perché, nacque una metafisica, dunque un'ontologia classica. Jaspers si sentì in obbligo di indagarne le origini, e pensò di trovarle nella separazione tra Oriente ed Occidente, al termine di un favoloso periodo, l'epoca assiale, in cui l'umanità conobbe il pensiero di grandi maestri che avevano colto la verità, spesso ognuno indipendentemente dall'altro.
Il periodo assiale
Così, Jaspers "fa" la storia dello sviluppo del pensiero antico: «Un asse della storia mondiale, supposto che ne esista uno, dovrebbe essere trovato empiricamente, come un fatto valido, come tale, per tutti gli uomini, compresi i cristiani. Tale asse dovrebbe essere situato nel punto in cui fu generato tutto quello che, dopo d'allora, l'uomo ha potuto essere nel punto della più straripante fecondità nel modellare senza riguardo a un determinato contenuto di fede, se non empiricamente cogente e palese, perlomeno così convincente dal punto di vista della penetrazione empirica, da dar vita a una struttura comune di autocomprensione storica per tutti i popoli. Questo asse della storia appare dunque situato attorno al 500 a.C., nel processo spirituale svoltosi tra l'800 e il 200 a.C. si trova la più netta demarcazione della storia. Allora sorse l'uomo come oggi lo conosciamo. A quest'epoca diamo per brevità il nome di periodo assiale.»
I nomi son quelli che sappiamo. Lao Tzu e Kun Fu Tzu (Confucio) in Cina. I maestri delle Upanishad e il Budda in India, Zararthustra in Persia, i profeti in Israele, Omero, Esiodo e i primi filosofi in Grecia. Come spiegare questi fatti, e queste concomitanze?
Non si può stabilire a priori quanto sia conveniente andare alla preistoria, sperando di trovarvi una verità biologica, la differenza tra uomo ed animale. Inferiore biologicamente, annota Jaspers, l'uomo si è rivelato nel tempo come portatore di una coscienza. E tale coscienza, viene dalla morte, tema che già si era manifestato nel celebre incipit della Stella della redenzione di Franz Rosenzweig. L'uomo sa che deve morire, e dalla morte, "dalla morte viene il conoscere del tutto". «Nel rifiuto di questa situazione limite - scrive Jaspers - egli sperimenta l'eternità del tempo, la storicità come manifestazione dell'essere, nel tempo, l'obliterazione del tempo. La sua coscienza storica si identifica con la coscienza dell'eternità [...] la storia, sia essa un interludio tra condizione astoriche, oppure una penetrazione nel profondo, sempre conduce nella sua interezza, anche sotto forma di sconfinato disastro, fra parziali e ripetuti naufragi, alla manifestazione dell'essere tramite l'uomo.» E qui occorre scorgere che prima della comparsa delle grandi figure del periodo assiale, nel pensiero umano non v'è traccia di problematicità. Il sapere è sapere del sacro, ed esso è dogmatico. Non c'è irrequietezza, autentica spinta alla ricerca, alla domanda.
«La crescita di quest'epoca - prosegue Jaspers - in tutti e tre i mondi in cui si è espressa, è costituita dal fatto che l'uomo prende coscienza dell'essere come Umgreifende di sé stesso e dei suoi limiti. Egli viene a conoscere il carattere terribile del mondo e la propria impotenza. Pone domande radicali. Di fronte all'abisso anche alla liberazione e alla redenzione. Comprendendo così certamente i suoi limiti si propone obiettivi più alti. Incontra l'assolutezza nella profondità dell'essere se-stesso e nella chiarezza della trascendenza.»
Tale cambiamento sta per Jaspers, com'è persino ovvio, nella transizione dal tempo del mito a quello del Logos. Quanto è stato raccontato dai miti in forma astorica, viene ripensato alla luce del Logos come passato, vicenda umana. Questo ripensare è figlio del deserto, del ritiro sui monti, della solitudine del saggio eremita. Nel suo ritiro egli scopre il "potere creativo" della solitudine. Esso dà la forza per ricomporre nel mondo, in quanto saggio e profeta, la separazione tra senso comune e filosofia. Nella voce del profeta, annota Jaspers, la norma, la Legge divina, viene offerta come valore metafisico, non ancora giuridico. Ciò significa che non è etica, anzi, va contro l'etica dominante. Non è legge, nel senso che c'è qualche istituzione umana che la fa rispettare con la forza ed il timore di una punizione. E' "il"modo di trovare la pace nell'essere.
Il periodo assiale non giunse in Occidente a compimento. Fu interrotto bruscamente a causa della téchne, la quale generò una vera e propria aggressione alla terra e alla natura da parte dell'uomo. Così l'uomo mutò il suo atteggiamento nei confronti dell'essere. Nel mancato compimento dell'ispirazione assiale si deve osservare la separazione tra Oriente ed Occidente. Separazione che è già in Erodoto, ma che trova nella filosofia delle scuole ateniesi il suo punto di massimo sviluppo. La sfida dell'Occidente è entrata nel mito come forma originaria della volontà di sapere ed è stata narrata con le figure di Prometeo e Adamo. «Prometeo si rese colpevole perché portò coscienza, sapere e tecnica agli uomini abbandonati che Zeus voleva mandare in rovina. L'uomo occidentale trovò il senso della propria origine nella ribellione di Prometeo che, anche se incatenato alla roccia, non viene meno a sé stesso, ma è capace di una voce d'accusa che conquista nello smisurato dolore dell'impotenza, e che non abbandona la violenza finché la divinità non muta disposizione, ed egli non si sente disposto a riconciliarsi nell'abbandono.»
Quanto ad Adamo, Jaspers scrive: «Anche il Dio dell'Antico Testamento teme la pericolosa ascesa di Adamo. "Adamo è diventato come uno di noi", e con l'espulsione traduce un fatto accaduto in una decisione irrevocabile che continua ad avere la sua efficacia. La colpa originaria della libertà nascente è a un tempo la colpa originaria della violenza divina.»
E così Umberto Galimberti riassume in un brivido alla schiena il cuore del pensiero jaspersiano: «Violentando col sapere e dominandolo con la téchne, l'uomo si espone alla potenza tranquilla dell'essere. Resta aperto alla sua strapotenza come incidente, la cui comparsa è regolata dalla forza prorompente dell'essere, che sottraendosi alla sua verità, appare sotto il giogo dell'uomo. Ma l'apparenza non convince, l'inquietudine non si riduce, l'uomo affina la sua sfida con l'astuzia, nel tentativo di ottenere in dono dal più potente quanto non è riuscito alla propria potenza. Nasce la preghiera propiziatrice, che però non appaga l'uomo che vuole sapere i disegni di Dio...»
L'epoca della preghiera è caratterizzata da Jaspers nella forma dell'abbandono, Hingabe. L'uomo vuole anche sapere quale senso ha abbandonarsi. «L'abbandono esige per sé un fondamento. Il sapere che nasce e che dimentica la sfida connessa alla volontà di sapere deve servire all'abbandono che cerca di rendere tutto comprensibile partendo dalla divinità.» Tuttavia, questo è solo il senso iniziale, in quanto: «Il vero abbandono rinuncia al sapere, perché si affida al fondamento dell'essere. L'abbandono è autentico solo nel non sapere, è l'annullamento dell'esserci nell'essere, senza che quest'ultimo possa essere conosciuto. Quando invce l'abbandono cerca una giustificazione nel sapere diventa inautentico, mentre la rassegnazione, intesa come fiducia attiva, è in grado nel non sapere, di gettare uno sguardo alla trascendenza.»
Secondo Jaspers, il pensiero orientale non ha mai abbandonato l'essere, il pensiero occidentale sì. Nel farlo, ha de-ciso e re-ciso, separando la verità dall'essere.
Un esempio di pensiero orientale è la dottrina del Buddha, che Jaspers affronta ne I grandi filosofi. Qui cita un sutra: «Il Buddha dice: la mia dottrina sta nel pensare il pensiero del non pensato, nel parlare il linguaggio del non parlare, nell'esercitare la disciplina dell'indisciplina.»
A leggere Jaspers, tuttavia, si può anche sospettare, che egli abbia inteso, afferrato, i concetti fondamentali della dottrina secondo un atteggiamento che rimane essenzialmente occidentale. Il problema, (che resta, a sua volta, un "concetto" in senso occidentale, e che quindi rischia di portarci fuori strada se lo formuliamo come "problema") è che nel discorso del Buddha non c'è alcunché da afferrare, da stringere nel pugno della mente, da toccare con mano. Esso sta "oltre", nella vacuità, sunjata, e nell'indeterminazione, animmita. Raggiungere il luogo della massima apertura a tale "pensiero del non pensato" significa uscire dalla ruota del tempo e da tutte le determinazioni originarie della metafisica indù. La prima delle quali è il "concetto" di dharma. «Dharma è ciò che è, è cosa, proprietà, stato, contenuto, coscienza di contenuto, è oggetto, soggetto, ordine, formazione, legge e dottrina.» Così Jaspers. Ma, definendo il dharma, noi siamo già in pensiero metafisico, in un'etica che viene ricavata dal mondo sociale. Essere conformi al dharma significa che il dharma della tigre è fare la tigre, mentre il dharma dell'uomo è rispettare le leggi. Il movimento della coscienza è a ritroso: si osservano i costumi e le regole degli uomini e da essi si estrae un succo sostanziale, cioè il dharma delle entità nelle loro varietà naturali. E ancora: se si parla del dharma della tigre, non si parla, forse, della "sostanza" tigre, dell'essenza della tigre? Non c'è parentela, allora, tra quella metafisica e la nostra?
Infine: il pensiero del Buddha non nacque dal nulla, da un'innocenza originaria, oserei dire roussouviana, come espressione del buon selvaggio pensante. Nacque in reazione ad una metafisica preesistente, che si era già impadronita della polis e risuonava sulle bocche dei sapienti.
La ricezione jaspersiana del buddhismo è dunque viziata dalla mediazione, peraltro insostituibile, del filosofo Nagarjuna. Espressione di scetticismo radicale e di nichilismo estremo, dalle profondità dell'abisso dei tempi, egli ce la dà ancora ad intendere circa una verità del buddhismo che probabilmente non è quella vera. Una filosofia, quella di Nagarjuna, resa possibile dal buddhismo, ma che lascia molti dubbi se messa in termini di "consequenzialità". Dal buddhismo non consegue necessariamente Nagarjuna più di quanto da Locke conseguano necessariamente Berkeley o Hume, Mach o Einstein.
Eppure, nonostante tali obiezioni, tutte verificabili storicamente, l'idea che Jaspers ci trasmette del buddhismo è assai fedele all'originale, nello "spirito" se non alla lettera. Il linguaggio di Jaspers, incardinato sui concetti della nostra metafisica di "essere" e di "nulla", di "ente", riesce comunque a tradurre in un vocabolario occidentale il senso di una filosofia che giunge alla vacuità come risoluzione e alla indeterminazione come ritorno alla dimensione originale.
Heidegger, per altro verso, ha saputo mostrare indirettamente quanto l'analisi jaspersiana del periodo assiale fosse intuitivamente valida, ma analiticamente e storicamente inesatta. In Zur Sache des Denkens (tradotto come La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Tempo ed essere, Napoli 1980) Heidegger fa un'affermazione singolare: il mio modo di esperire il senso dell'alétheia è più originaro di quello degli stessi presocratici, perché in essi vi sarebbe già la certezza del soggetto in grado di corrispondere a sé mediante l'esatta comprensione dell'oggetto. Ma ciò è già téchne, tecnica impositiva, in quanto ne condivide la presunzione. A suo modo, la tecnica diviene così forma del disvelamento. Dunque, ha a che fare con l'alétheia, entra in rapporto. Tale relazione non può rimanere ulteriormente nell'oscurità. Portarla alla luce significa pensarla, evidenziando come "Fin dall'alba del pensiero occidentale" l'essere, in sè indeterminabile, viene al contrario determinato sia come Anwesenheit che come Gegenwart, dunque nel tempo e per suo tramite. "Noi siamo costretti a questa rappresentazione" - dice Heidegger - e qualsiasi domanda sul perché verrebbe 'troppo tardi'. (3) Ciò si accorda con la sentenziosa affermazione contenuta in Il detto di Anassimandro: «La storia dell'essere comincia con l'oblio dell'essere, perché l'essere trattiene in sé la propria essenza, la differenza tra essere ed ente. La differenza resta esclusa. E' obliata.» Una storia dell'essere senza il darsi dell'ente, e dell'ente uomo in particolare, sarebbe impensabile. Ma, dato l'ente, l'essere si nasconde e solo chi è memore dell'essere riesce ad intravvedere la differenza come scarto irriducibile, non assorbibile in qualsiasi rapporto di 'opposizione'.
Viene, allora da chiedersi se la 'separazione' tra Oriente e Occidente sia davvero storicamente determinabile come ha creduto Jaspers, o non sia, essenzialmente, qualcosa di astorico, semplicemente l'opposizione di atteggiamenti mentali, di altri modi di pensare e di vivere, modi nei quali sia persino ravvisabile una differenza sessuale. Qualcosa balena nel pensiero di LaoTzu: la via è femminile. E l'Occidente è maschile, così come lo è l'India, inarrestabile macchina metafisica, sostanzialmente un avamposto dell'Occidente nel cuore dell'Oriente. A meno che non si pensi, a rovescio, che sia l'Occidente stesso ad essere un avamposto dell'India.
Di tale opposizione jaspersiana, poco o nulla viene autenticamente dall'India e dai suoi sistemi metafisici, data la concettuosità originaria degli stessi. La mia idea è che il nesso tra metafisica occidentale e indiana sia molto più stretto e complice di quanto le vulgate su opposizioni irriducibili siano disposte a pensare e riconoscere. Si potrebbero fare esempi infiniti, ad esempio pigliando Empedocle e i quattro elementi, per accostarli alla tradizione medica ayurvedica, la quale è sapere metafisico. Sarebbe assolutamente fantastico credere che l'intuizione intellettuale, concettuosamente forte, dell'esistenza di quattro elementi, fuoco, terra, aria e acqua, sia il frutto di tradizioni diverse. Una tradizione diversa, in proposito, è quella cinese, che riconosce l'esistenza di elementi quali legno e metallo, e non v'è modo di capire perché. Ma il problema, credo non possa sfuggire, è che il pensiero cinese non rinuncia affatto ad esprimersi in concetti esprimenti una differenza di essenze passando dalla "via", che non è un concetto, perché non può esser descritta, ma solo esperita da ogni singolo, alla stabilità della morale confuciana, che si avvale di concetti e principi non meno del pensiero occidentale.
(continua)
tutte le citazioni di Jaspers sono tratte da (2) U. Galimberti - Il tramonto dell'Occidente - Feltrinelli 2005. Anche tutto il presente saggio è fortemente declinato secondo traiettorie disegnate da Galimberti, pur non costituendone un 'riassunto' che in minima parte.
(1) E.Severino - La filosofia contemporanea - RCS 1996
(2) U. Galimberti - Il tramonto dell'Occidente - Feltrinelli 2005
(3) devo questo coglimento al saggio di Massimo Cacciari Salvezza che cade. Saggio sulla questione della tecnica in M. Heidegger in "il Centauro" n. 6 settembre-dicembre 1982
DS - 8 maggio 2006