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Jaspers: esistenza, ragione e trascendenza
di Daniele Lo Giudice
Cominciamo ad occuparci di Karl Jaspers con un'introduzione che sarebbe stato saggio scrivere alla fine, cioè con tutti i contributi ben allineati sul desktop, in modo da poter dire: siamo arrivati fin qui, questo è stato Karl Jaspers, secondo noi. Invece, mi trovo, assai poco saggiamente, ad introdurre il filosofo ignorando in gran parte come andrà a finire la nostra indagine. Ma bisogna pur sempre cominciare! E allora, diciamola così: questo non è un saggio introduttivo, ma il resoconto di come sono partiti i lavori, e la sottolineatura di alcuni temi sui quali porterò personalmente un contributo.

Avevo pensato di dedicare a Jaspers uno spazio importante, perché, a mio parere si tratta di un autore che ha affrontato tematiche di eccezionale rilievo nella filosofia del Novecento. Ma volevo evitare un lavoro di routine, organizzato secondo il solito schema del riassunto delle posizioni e delle idee. Ho così fatto partire un appello in tutte le direzioni, ricevendo due proposte, una da Dario Smizer e l'altra da Guido Marenco. Smizer non ha fatto mistero delle sue posizioni e delle sue intenzioni. Condivide la prospettiva disegnata da Umberto Galimberti con Il tramonto dell'Occidente (1), e quindi, a partire da essa, rifletterà " a voce alta" su parole-chiave del pensiero jaspersiano quali l'Umgreifende e la periecontologia, termini che necessitano di un chiarimento. Il primo esprime il concetto di una comprensione "realmente comprendente" in quanto omnicomprensiva, il secondo rinvia alla differenza tra pensiero ontologico e pensiero ontico in Heidegger. Jaspers, grosso modo, con periecontologia, intende significare il pensiero dell'essere e non dell'ente, cioè lo stesso concetto che Heidegger intende con ontologia.
Guido Marenco, dal canto suo, si è offerto di rileggere alcune pagine della Psicologia delle visioni del mondo, restando così sul suo terreno preferito, quello della ricerca orientata al formarsi della coscienza. Ma in una prospettiva irta di difficoltà, se ho ben capito le sue intenzioni, perché attraversare le barriere disciplinari tra psicologia e filosofia, così come sono state erette, in modo peraltro molto instabile, tra la seconda metà dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, "non è affatto semplice".
A quanto mi consta, ha trovato diversi elementi degni di riaprire il sipario su un lavoro generalmente trascurato dalle storie della filosofia. Di solito, infatti, nei manuali viene data una breve descrizione di Psicologia delle visioni del mondo ricorrendo alla formula: "un testo che già contiene molti dei futuri sviluppi del pensiero di Jaspers". Insieme, probabilmente, a molte cose che non riappariranno affatto, o che verranno poste in una luce differente. Vedremo che succede.
L'approccio di Smizer rappresenta un tipo di contributo che finora era mancato sulle pagine di Moses,o era solo stato accennato, ad esempio nei capitoli su Heidegger. Sono particolarmente lieto che ciò avvenga perché, credo, è sempre meglio che a parlare di una particolare corrente di pensiero sia un autore più direttamente interessato alla corrente stessa.
Il tramonto dell'Occidente di Galimberti è stato certamente un libro importante, non solo per i suoi contenuti. Infatti sembra aver goduto di un relativo successo di pubblico, superando di molto l'attenzione del ristretto gruppo degli addetti ai lavori, senza scadere mai in quella volgarizzazione delle tematiche filosofiche che tutti quanti aborriamo. Galimberti ha così contribuito a chiarire, in Italia, il senso ed i termini della critica alla tradizione occidentale da parte della riflessione filosofica più significativa del secolo trascorso. Smizer vive con molta lucidità il problema di un ritorno al pensiero aurorale e alle tematiche del periodo assiale (il periodo dei grandi illuminati in Oriente e in Occidente, prima dell'avvento della metafisica socratico-platonica-aristotelica, secondo Jaspers), non rinunciando, però, a dire la sua su alcuni punti specifici, ad esempio, quello dell'opposizione tra la metafisica occidentale e quella orientale.

Personalmente, mi sono assunto il compito di scrivere un profilo stringato del filosofo, che inizia da qui, ma non si esaurisce qui, ritagliandomi poi lo spazio per una riflessione sulla fede filosofica, il lavoro di Jaspers che ha assorbito molte delle mie energie negli ultimi tempi.

I tempi di Jaspers, la crisi delle scienze e la loro necessità
Un breve inquadramento è necessario. Dopo la prima guerra mondiale si diffuse, non solo in Germania, ma particolarmente in Germania, il senso del venir meno dell'ottimismo positivistico e dell'ideologia del progresso. Mentre da un lato si accentuava la consapevolezza del fallimento delle sintesi dialettiche, dell'idealismo e del marxismo, dall'altro emergeva un nuovo modo di intendere la filosofia con Simmel, Dilthey, lo stesso Husserl. Era evidente a molti autori l'impossibilità di comporre in unità e razionalità il reale, e di raggiungere l'Assoluto e la totalità non solo nella speculazione, ma con l'attività umana concreta. Sullo sfondo stavano produzioni letterarie che avevano il merito di presentare i problemi dell'esistenza in modo decisamente nuovo, da Ibsen a Strindberg, da Proust a Kafka, per non parlare della grande incidenza che continuava ad avere l'opera di Dostoevskji. Anche il mondo della fede sembrava rinnovarsi grazie al teologo Karl Barth. In tale contesto, l'opera di Jaspers prese ad emergere con autorevolezza.
Dopo studi di giurisprudenza, Jaspers aveva studiato medicina, laureandosi nel 1908. Nel 1916 ottenne la cattedra di psicologia a Heidelberg. L'itinerario intellettuale fu fortemente segnato dall'incontro con grandi filosofi, come Windelband e Husserl, non meno che dalle riflessioni sulle esperienze-limite, come quelle relative alle psicopatologie, che trovarono una provvisoria sistemazione nel trattato Psicopatologia generale, un testo che fu tradotto ed edito in Italia solo nel 1966, ma che ancor oggi sembra attrarre l'attenzione di chi non pensa alle psicoterapie solo in termini di calmanti da iniettare in vena. Nel 1919 uscì Psicologia delle visioni del mondo, un lavoro orientato a comprendere la vita psichica che proseguiva l'esplorazione degli orizzonti estremi dell'esistenza, identificate nelle situazioni-limite, in particolare il dolore, la lotta, la morte, la disgrazia e la colpa.
Fortemente attratto dal metodo fenomenologico, si può dire che Jaspers fece un percorso che dalla scienza andava alla filosofia, convinto che la scienza stessa fosse impotente nella sua potenza esplicativa.
Jaspers ha scritto che senza fare esperienza della ricerca scientifica, senza mettersi nei panni dello scienziato, non si potrebbe evitare l'errore di attribuire alla filosofia quel compito che è invece meglio assolto dalle scienze. Per questo, il filosofo cui mancasse un affiatamento con la ricerca scientifica, «rimarrebbe senza chiara conoscenza del mondo, come cieco.» La ricerca filosofica non può, tuttavia, nè identificarsi, né porsi in modo antinomico alle scienze. Essa può solo proporsi come oltrepassamento del pensiero scientifico, ma non nel senso di sintesi superiore alle particolarità, bensì in quanto capace di istituire un nuovo punto di vista: al sapere oggettivo, essa affianca il sapere inoggettivabile dell'uomo che si eleva dalla sua particolare esistenza al di sopra del mondo oggettivo. (2)
Certo è che Jaspers rigetta il positivismo asserendo che si tratta di un approccio al mondo che riduce l'essere a ciò che è conoscibile con il metodo delle scienze naturali. Ciò porta a dichiarare reale solo ciò che è percebile nello spazio e nel tempo.
Rispetto a questa riduzione dell'essere alla realtà percepita, poco vale dichiarare la legittimità delle scienze dello spirito. Infatti, anch'esse, nella prospettiva disegnata da Dilthey e dai neocriticisti del Baden viaggiano verso l'oggettivismo, cioè verso un ideale di scientificità che si traduce in psicologia, sociologia, antropologia, ovvero indagini limitate e settoriali, di per sé incapaci di raggiungere una vera esplicazione.

Filosofia, chiarificazione dell'esistenza, metafisica
L'esposizione completa della filosofia jaspersiana si ha nel grande trattato Filosofia in tre volumi., il primo dei quali era intitolato Orientamento filosofico nel mondo, il secondo Chiarificazione dell'esistenza, e il terzo Metafisica.
Mondo, esistenza e trascendenza sono i tre concetti fondamentali attorno ai quali ruota la riflessione di Jaspers. La filosofia procede dal mondo, quindi dagli oggetti, andando all'esistenza ed in essa trova la possibilità della trascendenza., riconoscendola come fondamento dell'essere.
Il mondo è costituito dagli oggetti che vengono indagati dalle scienze. Il sapere scientifico non può superare il suo limite, cioè il fatto che si può conoscere solo un determinato aspetto del mondo, ma mai la sua interezza. Il positivismo vorrebbe realizzare e trasmettere un'immagine unitaria, ma l'impresa è destinata al fallimento. Se diventiamo coscienti di questo limite, ci accorgiamo che anche l'esistenza sfugge alle pretese del sapere oggettivo. E' quindi compito dell'orientamento filosofico del mondo, mostrare come, passando per l'inevitabile e necessaria conoscenza scientifica degli oggetti che lo compongono, si arriva alla questione dell'esistenza, ma in una luce nuova. Occorre la chiarificazione dell'esistenza.
Ogni esistenza è una situazione, nella quale l'uomo può diventare sé stesso. Sottraendosi alla propria oggettivazione, e a ogni relativizzazione, l'uomo si coglie nella sua originarietà che "sostiene e penetra tutte le cose. «Ciò è possibile - scrive Umberto Galimberti - perchè l'uomo non è solo realtà empirica, coscienza generale, spirito, ma è innanzi tutto Umgreifende, cioè orizzonte omnicomprensivo, apertura incondizionata, luogo dell'apparire dell'essere.» (3)
L'esistenza è quel poter essere tipico dell'uomo perché egli può pensare, decidere ed agire. La sua essenza sta qui. Ma l'esistenza non è solo libertà, è anche colpa.Perché? L'uomo è colpevole perché non può non assumere i limiti della situazione in cui si trova ad essere. Non può, dunque che scontare questi limiti come una condanna. D'altro canto, però, mantiene una libertà proprio nel momento in cui accetta e non rifiuta tali limiti.
Ciò porta ad evidenziare uno dei problemi tipici di Jaspers, quello della comunicazione.
Problema che viene dopo il "grande approccio" al rapporto tra verità ed esistenza. C'è una verità, che è propria dell'esistenza, dice Jaspers, che non può essere verificata, coi metodi delle scienze empiriche, facendo esperimenti, e nemmeno si può ritrovare in quella evidenza necessitante, aristotelica, che è propria di ogni conoscenza razionale. Nemmeno possiamo sperare di trovarla sul terreno della persuasione, che è tipica della vita spirituale. Nessuna di queste tre forma della verità, che pure si dispongono in forma ascendente, ed entrano nella vita di ognuno come esperienze fondamentali, riesce poi a tradursi, a esprimersi, a parlare, e quindi a comunicarsi, in modo assoluto e totale. Prima di rivelarsi impossibile, tuttavia, essa diviene un nostro obiettivo costante, un nostro modo di esistere. Ciò potrebbe portarci a commettere un errore, ed a sbagliare nuovamente, qualora ci prefiggessimo di evitare l'errore stesso in modo inadeguato.
Quando, come nel cattolicesimo, crediamo di essere arrivati a possedere la verità, (e questo ragionamento si potrebbe estendere all'Islam, tanto più oggi), diventa inevitabile il nostro cadere in forme di dogmatismo che non rendono alcuna giustizia alle verità di altri percorsi religiosi o filosofici o semplicemente esistenziali. Ma, se proprio per evitare la presunzione dogmatica, ci ritirassimo in un pensiero per il quale esistono molte verità, molti linguaggi, molti modi di intendere la Trascendenza, tutti ugualmente validi, rischieremmo di cadere in un relativismo, che Jaspers vorrebbe appunto evitare.
Insistendo troppo, dice sostanzialmente Jaspers, sulla indissolubilità del rapporto tra verità ed esistenza singola, la quale è comunque vera solo se autentica, abbandoniamo la pretesa dell'intelletto oggettivante, ma ci ritroviamo poi a combattere con scetticismi di ogni genere e relativismi solo formali, sostanzialmente estranei a quella tensione alla comprensione che è invece insita nell'uomo, oltre che nel filosofo. Sarebbe un pluralismo passivo, che si limita a sopportare, ma che non instaura alcun dialogo. Il che non evita, per giunta, che anche in questo caso si eviti l'oggettivazione. Abbiamo dinnanzi tante "verità"? Ecco che ci sorprendiamo a guardarle dall'esterno. Ma, atteggiarsi in tal modo significa tradire la filosofia, la quale non può mai ridursi ad essere un "punto di vista" tra i tanti, e nemmeno un punto di vista pan-oramico su tutti i possibili punti di vista, ma la tensione a superare tutti i punti di vista, a oltrepassarli.

Trascendenza
Da ciò si emerge solo con la trascendenza. La quale non può essere oggettivata e dimostrata mediante il ragionamento. Essa può essere solo indicata ed esperita. La via che conduce all'esperire è l'interpretazione della cifra, il simbolo. Le cifre sono di due tipi: il primo appartiene alla sfera oggettiva, il secondo a quella soggettiva dell'esistenza. Cifre della sfera oggettiva sono date dall'esperienza del mondo naturale, ma anche dai miti che incontriamo, dalle tesi metafisiche, dalle filosofie. Cifre della sfera soggettiva sono in particolar modo la libertà e lo scacco se esperiti autenticamente.
Su questo punto mi è parso molto utile richiamare un passaggio del lavoro di Jeanne Hersch, composto quando l'allieva di Jaspers era ancora molto giovane, poco più di una studentessa. «In che senso è reale l'oggetto della metafisica, l'essere della trascendenza? Ogni concetto di un oggetto reale si delimita in contrasto a un concetto di irrealtà. In quanto esistenza possibile, io cerco, sciogliendomi da tutto ciò che è particolare, la realtà assoluta. Questo è per me il trascendente. Ma io posso, rimanendo nella realtà empirica ed esistenziale, incontrare i limiti che me la renderanno presente.
Studiando la trascendenza, vale a dire la realtà cercata dall'esistenza, non si possono ottenere risultati apodittici. Perché essa è realtà senza possibilità, realtà assoluta al di là della quale non c'è niente. Io me ne sto muto davanti ad essa. Sono i possibili che mi offrono presa sulla realtà empirica e mi permettono di conoscerla; ma la trascendenza non ha possibilità da cui possa trarre la sua realtà: non che la possibilità le manchi; al contrario la distinzione tra"possibilità" e "realtà" rappresenta una deficienza della realtà empirica che ha sempre qualcosa al di fuori di sé. E' anche grazie ai possibili che l'esistenza può essere libera; ma la trascendenza, essa non ha la possibilità di decidere, non perchè questo le manchi, al contrario la possibilità di una scelta esprime una deficienza dell'esistenza nella realtà temporale.
Così dunque, dove cozzo contro la realtà che non si cambia in possibilità, incontro la trascendenza.» (4)
Secondo Jeanne Hersch, dunque, Jaspers aveva visto nella cosa in sé kantiana una opportunità per "la coscienza in generale" di trovare un'idea-limite, "che interdiceva uno spazio vuoto, la trascendenza". Questo passo non può che portare a riconoscere che l'oggetto metafisico, sia si presenti come pensiero, sia si presenti come immagine non è se stesso, ma solo un simbolo. E che quando si cerchi di pensarlo chiaramente, esso crolla davanti all'intelletto. Non c'è possibilità di sfuggire al circolo, alla tautologia, o alla contraddizione. Davanti all'abisso della trascendenza, non ci si può che ritrarre sgomenti. Anche l'esperienza empirica della trascendenza ci lascia senza parole e senza concetti. Il linguaggio della trascendenza non può che presentarsi come medium per un capovolgimento. "L'essere e il non-essere capovolgono costantemente il loro rapporto" - dice Hersch.
Eppure, il linguaggio della trascendenza può darsi in modo da avere un senso generale, anche se eterogeneo. In esso possiamo cogliere tre forme.
1) L'elemento generale è oggettivo, ad esempio nelle forme religiose primitive. E' la mitologia.
2) Ciò che si trova nella trascendenza è indicibile. Tuttavia, può darsi uno sforzo intellettuale per esprimerlo mediante un elemento relativamente generale, si che l'oggettività rifletta la trascendenza. Accade così che si ha l'oggettività davanti a sé quando si crede insieme ad altri credenti. Ecco la teologia.
3) La trascendenza appare nell'esistenza come unità inconcepibile di generale e particolare. Ma essa non ha niente in sé e niente fuori di sé che aiuti a distinguerla. Non appena la si pensa tramite una distinzione o un'immagine, diventa apparenza storica e perde l'universalità. Sicché la terza forma di generalità è quella che in cui, trascendendo l'unità inconcepibile, e dunque paradossale, di generale e particolare, porta all'impotenza di pensarla; infatti ciò conduce a pensare l'essere della trascendenza "come ciò che è se stesso e non può appartenermi. E' la filosofia." (Hersch)

La fede filosofica
Dalla Trascendenza, dopo un susseguirsi di scacchi e naufragi, può uscire la mossa della fede filosofica.
Per Jaspers si può dare una "fede" filosofica: essa si fonda non già sulla rivelazione e sul testo sacro che la contiene, ma sull'atto dell'esistenza che "diventa consapevole della Trascendenza nella sua realtà". Diviene così centrale e decisivo per il pensiero il fondamento della "fede" filosofica nella Trascendenza. Ma qui, sarebbe da chiarire se non sia possibile che anche la Trascendenza venga dall'uomo e non da un Dio che sta lassù. Però è inutile arrabattarsi su tale questione, almeno per ora. L'importante è cogliere che la fede data dalla rivelazione tocca soltanto coloro che nelle proprie situazioni storiche hanno la possibilità di incontrare la parola di Dio. La filosofia, al contrario, si propone di incontrare Dio universalmente e, nel filosofare, si esprime una fede che non viene da altra rivelazione ma, dal ragionare di Trascendenza. La fede filosofica non "è la fede dell'uomo nelle sue possibilità. In essa egli respira la libertà". E il modo "con cui l'uomo acquista coscienza della propria condizione umana costituisce il tratto fondamentale della fede filosofica". Si può trovare la fede solo ai limiti del conoscibile. Essa diviene allora consapevolezza di una verità incondizionata".
Per avere esperienza della Trascendenza occorre spesso, se non sempre, un naufragio. Solo nel naufragio, l'uomo si aggrappa alla Trascendenza, e si rende conto della sua illusione massima, la possibilità di dire Dio contando solo sulla propria forza intellettuale, la quale, però, è perennemente risucchiata nell'oggettività, quindi nella scissione tra soggetto e oggetto. Ciò è un ostacolo al divenire sé stesso, al maturare pienamente. Per poter divenire sé stesso l'uomo ha bisogno di qualcosa che gli renda possibile il potere su se stesso. Ma ciò implica il riconoscimento del fatto che noi esistiamo, heideggerianamente, in quanto "gettati" nell'esistenza. "Io non esisto - dice Jaspers - per mia decisione, ma l'esistere per virtù propria è per me un essere donato nella mia libertà".
Chi è il donatore, (e molti potrebbero dire: chi è quell'infame che mi ha gettato in questo inferno?). Il datore è la Trascendenza. Ed essa è la nostra libertà.
Ma, dice Jaspers, c'è qualcosa che si oppone al nostro reincontro con la Trascendenza. «Noi siamo sempre in cerca di qualcosa che si lasci toccare con le mani. Ci inganniamo quando consideriamo il pensiero filosofico alla stregua di una conoscenza oggettiva, e quando vi ricadiamo come un gatto nelle sue zampe. Noi recalcitriamo dinanzi alle vertigini della speculazione filosofica, dinanzi alla sua pretesa di farci camminare sulla testa. Sarebbe nostro desiderio tenerci "sanamente" attaccati al nostro oggetto, e quindi evitare quella nuova nascita del nostro essere che si realizza nel trascendere.
Ma nulla ci aiuta. Senza volerlo potremmo ritirarci dietro il nostro cosiddetto sano intelletto, ma quando sottoponiamo ogni cosa alla sua forma apodittica, cadiamo inevitabilmente nella superstizione che ci conduce a fissare in un oggetto tangibile l'essere che trascende la scissione tra soggetto-oggetto
La fede filosofica - conclude Jaspers - che si oppone alla superstizione in quanto fede in un oggetto, non è in grado di tradursi in enunciati. Tutto ciò che è oggettivo deve restare in movimento e al tempo stesso dissolversi, affinché, proprio in forza del suo dissolvimento, la coscienza dell'essere abbia la possibilità di raggiungere la sua pienezza e la sua chiarezza. Per questo.la fede filosofica deve appoggiarsi sempre a una dialettica che afferma negando.» (5)

Ciò che Jaspers chiama dialettica è un molteplice di processi discorsivi e tecniche di argomentazione molto differenti, ma la fede filosofica li contiene tutti. "Come l'essere e il nulla sono inseparabili reciprocamente si richiamano, pur contrapponendosi diametralmente, così la fede e la sua negazione sono inseparabili e si respingono con violenza".
Dallo scontro bipolare la fede filosofica emerge "nella difesa di un minimum che è ai confini della negazione della fede, e da lì passa bruscamente da una presenza puntuale a un'ampiazza senza limiti". Una simile affermazione rischia di rimanere avvolta nell'oscurità se l'individuo che la riceve non abbia almeno una volta nella sua vita meditato su Dio in termini radicalmente staccati dalla sua stessa esperienza, la quale può essere stata oggettivante, come nell'approccio scolastico, ma anche soggettiva. Il che non è in conflitto con la necessità di esperire la Trascendenza stessa, avvertendo tale necessità, se non altro, come un bisogno vitale. Io credo, ad esempio, nella sincerità e quindi nell'autenticità, di alcune esperienze di religiosi. Ed è solo conoscendo e riflettendo su esperienze che non sono le mie, ma le loro, e che tuttavia io cerco di conoscere, che trovo una parte di Trascendenza realizzata. L'esempio di don Luigi Ciotti è il primo che mi viene in mente. Ma, recentemente ho leggiucchiato il fascicolo di "Testimonianze" 443-444 dedicato a Dietrich Bonhoeffer, impiccato dai nazisti a Flossenburg nel 1944, e devo dire che quando comincio a pensare la Trascendenza, oggi, non posso non esimermi dal richiamare alla mente quanto ha scritto, ivi, Roberto Mancini, nell'articolo Memoria di Bonhoffer nel tempo della cristianità mediatica. «L'idea di cristianesimo non religioso - scrive Mancini - possiede diversi strati semantici, che vanno pazientemente riconosciuti in un'ermeneutica che sia, al tempo stesso, attenta a leggere il nostro presente. Il fatto che si tratti di una connotazione negativa non indica una carenza di significato positivo, il movimento puramente reattivo di una protesta o dell'abbandono di una posizione senza sapere quale sia un'altra migliore e più adeguata ai tempi. Il "non" segnala un'interruzione. Il cristianesimo è l'esperienza di un'interruzione, di un trauma che segna l'esodo dalla religione. Solo assumendo e accettando l'interruzione può aprirsi un altro orizzonte di vita.»
Tra questo cristianesimo drammaticamente vissuto come rottura con la religione e quella smania "identitaria" che sembra aver attecchito nelle sfere più basse della politica e della religione di questo nostro disgraziato paese, c'è ovviamente un abisso. Se ben guardiamo, al contrario, tra i richiami di Jaspers alla Trascendenza e il lascito di Bonhoeffer la distanza è minima, la tensione è la medesima, la fede filosofica ha moltissimi punti di contatto con la fede... non incatenata nella politica di potenza della Chiesa.

Jaspers aveva ben chiaro questa verità storica: lo gnosticismo, cioè il sapere assoluto e incontrovertibile circa Dio e il mondo, è passato nel cristianesimo in modo sotterraneo, per non dire subdolo, condizionandolo però profondamente. Di qui lo "sciovinismo" cristiano di un certo cattolicesimo e dei fondamentalisti americani, cioè lo sciovinismo teocon del nostro momento attuale. Ciò che condanniamo nel fideismo cristiano, dice Jaspers, non è propriamente cristiano. La fede non è sapere, non può essere la mostruosa certezza che abbiamo conosciuto nei secoli. E allora perché, i fideisti hanno la pretesa di detenere l'unica verità? Perchè, appunto, la loro fede non è una fede genuina, ma una volontà di potenza. Non più il semplice desiderio che così sia, e speriamo che lo sia, ma una volontà determinata, cosciente, di piegare le strutture dell'umano all'ordine che si crede divino. Tale ordine che viene dalla pretesa di potenza si potrebbe discutere criticamente in termini di bioetica, tema al quale sono molto sensibile, ma scricchiola decisamente quando si arriva all'etica.
Una filosofia che voglia essere "autentica", secondo Jaspers, non può dunque pensarsi che come ricerca della verità senza mai presumersi di essere in una verità diversa da quella del continuare a cercare. Ciò consente di mantenere aperta la questione fondamentale senza cadere in un'oggettivazione.

(1) U. Galimberti - Il tramonto dell'Occidente - Feltrinelli "Universale Economica" 2005 / Il libro è in realtà la fusione di differenti opere di Galimberti: Il pensiero aurorale, che riproduce con qualche modifica il volume Linguaggio e civiltà, Mursia 1977; Il pensiero occidentale, ricavato da Heidegger, Jaspers e il tramonto dell'occidente, Marietti 1975 e il Saggiatore 1996, Oltre l'occidente, che riporta capitoli non presenti nella prima edizione di Linguaggio e civiltà.
(2) questo aspetto del pensiero di Jaspers nel breve profilo di G. Fornero e S. Tassinari in Le filosofie del Novecento - Paravia Bruno Mondadori 2002
(3) U. Galimberti - Il tramonto dell'Occidente - Feltrinelli "Universale Economica" 2005
(4) Jeanne Hersch - L'illusione della filosofia - Paravia Bruno Mondadori 2004 - Il testo fu pubblicato come L'illusion philosophique nel 1936, con una prefazione dello stesso Jaspers
(5) K. Jaspers - La fede filosofica - Raffaello Cortina Editore 2006
DLG - 14 giugno 2006