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Preludio alla rivoluzione industriale: dai Tudor alla guerra civile

di Guido Marenco
Cos'era l'Inghilterra all'inizio del 1500, pochi anni dopo la scoperta dell'America e l'inizio delle grandi traversate transoceaniche? Un paese rinascimentale in crescita, pronto a diventare una potenza commerciale e marittima, od un residuo di feudalesimo più stagnante che altro? Come spesso accade, i due aspetti convivevano l'uno accanto all'altro. Il mito racconta che fu l'inizio di un periodo felice, una specie di età dell'oro. La realtà, che quasi sempre è più interessante della leggenda, dice che l'oro scorreva, sì, ma in poche mani, e che tutto il Cinquecento inglese fu più che altro un secolo di plutocrati, di grandissimi artisti (da Marlowe a Shakespeare) e di mediocri politici, sovrani compresi. Il tenore di vita medio non crebbe nonostante un altissimo tasso di inflazione, e qualche progresso si ebbe solo nelle abitazioni dei contadini benestanti ed, ovviamente nelle grandi case dei nobili e dei mercanti.
La leggenda racconta ancora che la gente, anche la più misera, andava a teatro, si divertiva con balli e feste campestri, mangiava pasticci di carne d'oca e beveva ottima birra. Al di sotto di questo strato iconografico c'è solo il dato di uno sviluppo demografico modesto e di molte leggi sui poveri (le Poor Law) che imponevano alle comunità locali di tassare contadini ed artigiani al fine di dare cibo e lavoro ai disoccupati, onde evitare pericolose tensioni sociali.
Dietro al mito si nasconde anche la realtà di uno stato-canaglia nel senso che gli americani danno oggi a questo tristissimo termine. Non terroristi, ma pirati; la differenza non è grande perché i corsari terrorizzavano i mari e non facevano prigionieri se non per ottenere riscatti. L'Inghilterra incoraggiò e protesse questi bande di suoi privati cittadini perché facevano gli interessi della Corona e credevano che tutto ciò fosse anche positivo per il buon nome del paese. Anche sul piano interno i sovrani inglese di epoca Tudor non si fecero frenare dagli scrupoli. Enrico VIII trovò il coraggio di provocare una scisma religioso, mandando al diavolo il Papa, poi si impadronì di tutte le ricchezze delle abbazie e dei monasteri, buttando sul lastrico monaci e suore. Eppure, nonostante tali atti ed una politica generalmente pregna di prepotenza ed illegalità, i successori dei Tudor ereditarono un paese che non aveva i soldi necessari a mantenere un esercito permanente, non era in grado di imporre tributi e nemmeno risultava capace di garantire ordine e giustizia, sia pure la giustizia parziale e paternalistica dei potenti.
Il capostipite della dinastia Tudor era un gallese che poteva vantare qualche goccia di sangue regale per via di madre, imparentata coi Lancaster. Dopo la vittoria ottenuta a Bosworth Fields contro Riccardo III, l'ultimo degli York, il 25 agosto 1485, salì al trono con il nome di Enrico VII e cominciò a distinguersi per metodi di governo del tutto nuovi.

EnricoVII, mercante di titoli e di cariche
Enrico VII, più che un nobile sovrano, fu un trafficante in titoli e cariche. Vendeva patronati ed incarichi per cifre considerevoli, arrotondando così il bilancio della Corona, gran parte del quale era basato sulla proprietà dei terreni. Il sovrano raccolse una somma considerevole, ad esempio, per la presidenza della corte d'appello. Si può immaginare perché qualcuno la comprò. Accomodare processi e correggere sentenze poteva diventare un business.
Usando abilmente bastone e carota, Enrico VII riuscì a ridimensionare il potere e la ricchezza dei Pari d'Inghilterra e dei nobilastri di campagna, imponendo loro ammende, più che tasse, ed anche ricorrendo ad espropri. Aveva cominciato con Lord George Neville di Bugavenny, reo di aver costituito un esercito privato. Il processo, immancabilmente pilotato, portò alla condanna. All'incauto Lord fu comminata una sanzione di 70.650 sterline che pagò prontamente. Cifra spropositata, pari a più di un quarto dell'intero bilancio annuo della Corona; rende l'idea dei rapporti di forza esistenti tra finanze private e tesoro pubblico.
Seguirono 138 casi di condanne per violazioni, vere o presunte. In 86 casi, nonostante i ricorsi in appello, confische e sanzioni furono confermate.
Alla politica del bastone, tuttavia, seguì spesso e volentieri quella della carota. Enrico VII restituiva, ovviamente con molto comodo, una parte delle terre confiscate agli eredi legittimi. E questi non potevano che essergli riconoscenti. Si può dire che con Enrico VII il bilancio della Corona, che era tutt'uno con il bilancio dello stato, cominciò ad essere una cosa seria. Era lo stato in sé che non lo era affatto, perché vi valeva non la legge, ma il diritto del più forte o del più ricco. Possiamo solo supporre, a beneficio di questo sovrano, che egli perseguì un disegno politico preciso volto a perseguire l'unità nazionale ed a rafforzare il potere centrale, poco badando alla liceità dei mezzi. Machiavelli docet?

Enrico VIII
Enrico VIII fu ancora più plateale. Dopo lo scisma della chiesa anglicana, motivato, come è noto, dal problema del divorzio con Caterina d'Aragona, egli pose sotto sequestro tutti i beni monastici con atti di violenza inenarrabili. L'azione portò ad un notevole incremento delle entrate del regno, dovuto anche al rendimento delle terre confiscate agli abati, ma questo esproprio del tutto illegale non migliorò di molto la base economica della monarchia. Alla morte, Enrico VIII lasciava un mare di debiti ed un sistema di prelievi fiscali del tutto inadeguato sia a mantenere eserciti permanenti, sia ad amministrare con più equità il sistema giudiziario, sia ad intraprendere opere di pubblica utilità.
Bisogna poi mettere nel conto le conseguenze sociali. Migliaia di religiosi e di monache si trovarono di colpo senza un tetto ed un lavoro. I poveri ed i diseredati furono privati della ciotola di minestra quotidiana. La miseria tornò ad essere visibile come non mai, e divenne anche un problema di ordine pubblico.

Maria la sanguinaria, cattolica, tristemente nota per le persecuzioni dei religiosi protestanti, fu sotto il profilo amministrativo migliore dei predecessori, ma commise troppi errori politici, alleandosi con la Spagna contro la Francia. L'esercito inglese venne sconfitto a Calais, dimostrando di non essere ancora all'altezza di una politica aggressiva di espansione sul continente.
Ne era ben consapevole Elisabetta I, sorella di Maria per via del padre, che salì al trono il 17 novembre del 1558 e regnò 44 anni.

Elisabetta I e la vittoria sulla Spagna
La Corona non disponeva di entrate sufficienti per mantenere un esercito e promuovere guerre a chicchessia, eppure l'Inghilterra fu in grado di respingere il tentativo di invasione spagnola, sconfiggere l'Invicibile Armadadell'ammiraglio spagnolo Medina Sidonia ed impedire ai trentamila uomini del Duca di Parma di sbarcare sul suolo britannico. Il fattore fortuna ebbe la sua parte non trascurabile. Ma è indubbio che l'abilità dei comandanti e dei combattenti inglesi risultò superiore a quella degli spagnoli. Non perché esistesse una scuola nazionale di addestramento alla guerra marittima, ma perché gli inglesi avevano imparato l'arte del combattimento navale, dell'abbordaggio all'arma bianca e del tiro di artiglieria su vascelli corsari che infestavano l'Atlantico, il mar dei Caraibi, le coste del Sudamerica, attaccando sistematicamente tutti galeoni spagnoli che arrivavano a tiro. La flotta che sconfisse l'Armada spagnola nel 1588 era armata dalla Corona inglese, ma era costituita in gran parte da bucanieri super addestrati in anni di brigantaggio. La comandava Lord Howard, un ammiraglio come tanti, ma il vice-comandante era Francis Drake, pirata ed avventuriero.
In gran parte era stata costruita sotto la direzione di John Hawkins, altra figura dal fascino vago.
Non possiamo dire se, prima di questo evento cruciale, i sovrani britannici si fossero limitati a tollerare la pirateria, oppure l'avessero appoggiata ed incoraggiata apertamente. Possiamo però affermare che, dopo il disastro spagnolo, si verificò un significativo incremento della pirateria a ridosso delle coste continentali. I mercantili iberici furono sottoposti ad attacchi permanenti. Persino gli storici inglesi riconoscono la verità di questo punto, asserendo, da un lato che l'Inghilterra si era "salvata per il rotto della cuffia" e dall'altro che, anche in seguito, Elisabetta non ebbe mai il coraggio e la forza di attaccare direttamente la Spagna, limitandosi ad operazioni militari di scarsa entità e di dubbia efficacia. Il resto lo facevano i corsari.
Lo stato inglese, minimo ed inefficiente, per secoli relegato ad un ruolo marginale sulla scena europea, con una popolazione complessiva di soli quattro milioni di abitanti, era riuscito ugualmente a diventare una potenza mondiale.
Il mistero di questa forza non è facilmente spiegabile. Gli storici tradizionalmente insistono su alcune peculiarità quali la collocazione geografica, l'isolamento e l'assenza di confini terrestri, la scarsa attrattiva che il territorio inglese poteva offrire a potenziali invasori. Ma questi ragionamenti tornano utili per giustificare l'esistenza di una debole Inghilterra indipendente, nonostante la forza degli altri, ma hanno scarsa rilevanza al fine di spiegare la crescita della sua potenza.
L'epoca Tudor, inaugurata da Enrico VII, proseguita da Enrico VIII, e poi proseguita da Maria la Sanguinaria, si concluse con la morte di Elisabetta I agli albori del 1600. Successero gli Stuart, ereditando una situazione che formalmente non era rosea, ma che pure conteneva potenziali inimmaginabili.

Il giudizio degli storici su Elisabetta non è concorde. C'è chi la esalta e chi la critica per la sua indecisione. Prosperi e Viola, studiosi italiani, sono persino più benevoli dei loro colleghi inglesi, mentre particolarmente dura è la valutazione della sua politica economica e finanziaria data da molti storici anglosassoni.
«Elisabetta e Burghley permisero che il sistema fiscale inglese subisse un irrimediabile declino; un cospicuo finanziamento parlamentare non bastò a controbilanciare l'inflazione, poiché il gettito fiscale rimase inalterato in un periodo in cui le spese del governo crescevano in termini reali. [...] Si passò dalle 140.000 sterline incassate con un unico prelievo fiscale all'inizio del regno di Elisabetta alle 85.000 di un altro prelievo alla fine del suo regno.» (John Guy in K. O. Morgan, cit)
Lo stesso Burghley, che era lord tesoriere, evadeva il fisco, dando così uno splendido esempio. Per tutta la durata dell'incarico continuò a denunciare un reddito di 133 sterline, 6 scellini e 8 pence, mentre ne guadagnava non meno di 4.000. Lo storico dovrebbe chiedersi se dietro a questa inefficienza si nascondesse una sorta di complicità tra la Corona e le classi dominanti, o se il tutto non rispondesse ad un lassismo diffuso e non fosse conseguenza di una pessima organizzazione. Ma la risposta è difficile. Probabilmente, il risultato era una combinazione dei due elementi. La riscossione delle tasse era appaltata, come quasi tutti gli altri incarichi, fin dai tempi di Enrico VII: con Elisabetta I, cortigiani e "favoriti" della regina ebbero di che crogiolarsi. Il conte di Essex godeva, ad esempio, del monopolio dei dazi sull'importazione dei vini dolci. Sir Walter Raleigh controllava il monopolio della fabbricazione delle carte da gioco. Gli stessi bucanieri che nella prima parte della loro vita avevano contribuito allo sviluppo del contrabbando, ora prosperavano da galantuomini usufruendo di qualche appalto statale.
Con Elisabetta I, gli atti aggressivi sviluppati dai suoi predecessori all'interno del paese, divennero pane quotidiano nelle relazioni internazionali. La pirateria fu incoraggiata. La vittoria sulla Spagna faceva dell'Inghilterra, fino ad allora un paese marginale sulla scena europea, con soli quattro milioni di abitanti ed una società civile sostanzialmente più povera della media europea, una potenza. Ma era una potenza sui generis in quanto fondata su basi organizzative e finanziarie del tutto precarie, oltre che su un'etica politica a dir poco discutibile.

110 anni d'inflazione
Nel 1607, l'ambasciatore veneziano a Londra scriveva al proprio governo: «E' opinione comune che il re Giacomo non abbia un soldo, perché l'ultima regina ha dilapidato una grande quantità di denaro nelle sue guerre contro l'Irlanda e la Spagna e c'è da meravigliarsi che non abbia lasciato debiti invece di denaro.»
Ma il problema era ben più grave. Tra il 1530 ed il 1640, in soli 110 anni, i prezzi erano saliti di cinque volte, e quello del grano di sei. Quando Giacomo I Stuart sedette sul trono, alla morte della regina vergine, si era all'incirca a metà di questo processo inflattivo la cui spiegazione potrebbe stare nella tesi di Cristopher Hill (Hill, cit.), ovvero che l'aumento di popolazione aveva prodotto una maggiore domanda di alimenti, la quale aveva indotto un aumento dei prezzi. Ma lo stesso Hill ricorda che in Boemia si era verificato un incremento dei prezzi in presenza di un decremento demografico. Quindi non è una legge, ma solo un fatto che deve ancora essere analizzato.
Spiegare questi processi è sempre più complicato di quanto possa sembrare. Personalmente propendo per una combinazione di incremento demografico, ingresso nel paese di ricchezze nuove provenienti dalla pirateria (con oro ed argento rubato agli spagnoli che l'avevano predato in Sud America) ed aumento della spesa pubblica.
L'inflazione arrichiva i ricchi mercanti ed un pochino le classi medie dei piccoli proprietari e degli affittuari della terra, impoveriva un pochino gli aristocratici, non troppo, e gettava nella desolazione i salariati di ogni categoria.
La politica dei Tudor, in particolare quella di Elisabetta, dopo il primitivo ridimensionamento del potere economico dell'aristocrazia attuato da Enrico VII, si era decisamente volta a frenare ad impedire l'ascesa delle classi mercantili ed imprenditoriali. Salvo che nel breve interregno di Edoardo I, non a caso un malatticcio bigottone protestante, i Tudor remarono sistematicamente contro il progresso dell'economia e dei mercati.
Una legge del 1533 aveva limitato al numero massimo di 2400 pecore il possesso degli allevatori, e nel 1551-1552 venne varato un provvedimento contro le cardature.
Il Weaver's Act del 1555 proibiva ai fabbricanti di stoffe di possedere più di un telaio e di impiegare più di due lavoranti. Erano provvedimenti volti a a contrastare la diffusione della manifattura nelle zone agricole e favorire le città? Probabilmente sì, ma più in generale non si può non cogliere il prevalere di una mentalità retriva votata a negare il progresso e l'arricchimento delle classi inferiori.
Tant'è vero che lo Statute of Artificers varato nel 1563 escludeva tassativamente dal diritto (si badi, diritto!) di lavorare sotto un padrone manifatturiero tutti coloro che non avevano fatto sette anni di apprendistato nel settore. Non solo, C. Hill aggiunge: «Per le professioni più specializzate, tessitura compresa, esso limitava l'apprendistato ai figli di coloro che producevano per un valore annuale superiore alle 2 sterline (3 se l'apprendista proveniva da una municipalità). Tre quarti dei poveri di campagna risultavano esclusi, perlomeno sulla carta, benché nel Galles e nel Nord i tessuti meno costosi per uso familiare potessero essere lavorati nei villaggi senza passare per l'apprendistato. Un decreto del 1576 limitava a venti acri l'ammontare della terra che i fabbricanti di stoffe del Somerset, Gloucestershire e Wiltshire avrebbero potuto acquistare.» (C. Hill, cit)
Naturalmente,ognuno è libero di interpretare questi dati come meglio crede: ci sarà chi porrà l'accento sul carattere umanitario dei provvedimenti sull'apprendistato, atti a tutelare bambini ed adolescenti dall'avidità dei datori di lavoro. Altri vi vedranno solo, esattamente al contrario, un bieco strumento per tenere bassi i salari e sfruttare il lavoro minorile, favorendo i padroni. A mio avviso, tutto ciò si spiega soprattutto come un tentativo di mettere le brache all'ascesa di nuovi ceti, come una posizione reazionaria intenzionata a mantenere gli equilibri esistenti. Di fatto, era un invito a dedicarsi ad attività illegali, come contrabbando, brigantaggio e pirateria.
Il lato ridicolo della faccenda (c'è sempre un lato ridicolo in tutte le faccende, anche quelle più serie) era che il governo di Elisabetta I non aveva né la forza, né l'organizzazione in grado di far applicare le leggi. Evasione sistematica e continua, solo in parte contrastata da delatori professionisti, mestiere in auge quando si cerca di mettere le cinture al mondo senza averne la capacità e la misura, che vivevano di estorsioni e di ricatti. Per evitare denunce, imprenditori e mercanti pagavano, soprattutto pagavano i ricchi finanzieri che applicavano tassi da usura proibiti sui prestiti. Chi l'ha detto che la mafia è un fenomeno nato in Sicilia?
Da quando mondo è mondo, uno stato che cerca di imporre leggi senza essere in grado di farle rispettare, non fa che originare fenomeni di economia parallela e controlli ombra del territorio di questo tipo.

Giacomo I, Carlo I e la guerra civile
«Il 9 febbraio 1649 fu un giorno che fece tremare tutti i sovrani d'Europa; su di un patibolo eretto a Londra, davanti al palazzo di Whitehall, fu tagliata la testa del re Carlo I Stuart. Non era il primo monarca a morire di morte violenta, ma era il primo a venire condannato a morte da un tribunale, in nome della legge e per effetto di una regolare sentenza di un'Alta Corte di giustizia. » (A. Prosperi, P.Viola, cit.)
Come si giunse a tanto?
Morta Elisabetta I nel 1603, le succedette Giacomo VI Stuart, figlio di Maria Stuarda e nipote di Enrico VIII. Regnò come Giacomo I di Gran Bretagna, unificando in una sola figura di sovrano le corone di Scozia, Irlanda ed Inghilterra. Nasceva, senza spargimenti di sangue e senza quisquiglie diplomatiche, uno stato di nazioni, qualcosa di diverso da quanto si era visto finora. Ma sotto la crosta non mancavano tensioni vecchie e nuove. Il regno di Elisabetta si era chiuso con una sanguinosa repressione di una rivolta dei cattolici irlandesi sorretti dalla Spagna.
Giacomo I susicitò molte speranze tra i cattolici e molte illusioni tra i protestanti. I cattolici godevano ormai di cattiva fama in quanto legati a potenze straniere che pretendevano di comandare in Inghilterra ed influenzare le vicende interne in Scozia ed Irlanda. Molti "missionari" inviati da Roma erano stati processati. Quelli che avevano rapporti troppo stretti con loro furono accusati di tradimento. «Ma il colpo di grazia alla causa cattolica fu dato dalla "congiura delle polveri". All'apertura della sessione del Parlamento, nel 1605, trentasei barili di polvere furono scoperti nei sotterranei del palazzo di Westminster. Dovevano saltare in aria il re con la sua famiglia e di tutti i membri del Parlamento, il giorno della seduta inaugurale.» (A. Prosperi, P.Viola, cit.)
La congiura "papista" fu sventata. I responsabili vennero trovati e ferocemente puniti, insieme a cattolici che nulla avevano a che fare con strategie terroristiche.
Anche con i protestanti le cose non filarono lisce. Erano l'espressione della nascente borghesia artigianale e mercantile, mentre Giacomo I, che pure era fondamentalmente un protestante, aveva idee del tutto opposte circa l'ordine sociale. Sosteneva "il diritto divino" della funzione regale e fece del suo meglio per governare senza l'impaccio di confronti con il Parlamento.
Secondo gli storici, si realizzò piuttosto una certa concordanza tra Corona ed aristocrazia, seppure incrinata dai comportamenti scandalosi e disinvolti di Giacomo.
Morrill, ad esempio, scrive: «Nel XVII secolo, l'arte del governo consisteva nel persuadere coloro che comndavano nelle città e nelle campagne che tra loro e la Corona esisteva una stretta convergenza di interessi, nella stragrande maggioranza dei casi effettivamente riconosciuta. Corona e gentry condivedevano il vocabolario politico, avevano lo stesso concetto di società, nutrivano le stesse preoccupazioni circa la fragilità dell'ordine e della stabilità, cosa questa che persuadeva i membri della gentry a obbedire alla Corona anche quando non erano abbastanza convinti delle sue buone ragioni. Nel 1625, a un amico che si lamentava di dover esigere tasse probabilmente illegali, un gentiluomo replicò: "Non possiamo dare alcun esempio di disobbedienza a chi sta sotto di noi."» (John Morrill in K.O.Morgan, cit.)
Ma il fuoco covava sotto le ceneri, ben più potente di quei 36 barilotti di polvere "papisti".

Giacomo I era una personalità singolarmente boriosa, sciatta, discontinua e sgraziata. Credeva di essere un grande intellettuale ed un sottile teologo, ma la competenza era oscurata dal pregiudizio su troppe questioni basilari. Omosessuale segreto (mica tanto), ebbe una passionale relazione col Duca di Buckingham e forse con altri gentiluomi effemminati della corte.
Enrico IV di Francia lo definì ironicamente " il più saggio stolto del mondo". In realtà, Giacomo I era troppo stolto per essere saggio. Riuscì persino ad offendere la nobiltà che era disposta ad obbedirgli anche se dissenziente. Infatti, per far tornare i conti, anzichè limitarsi a vendere cariche, si diede ad un indecoroso commercio di titoli nobiliari. Per la verità, già in epoca Tudor, nel 1530, si era deciso che quanti godevano di "buona reputazione"con terre vincolate del valore di 10 sterline annue e possedevano beni mobili del valore di 300 sterline, avevano diritto all'acquisto di un blasone. Era da quasi cento anni, quindi, che il sangue blu si poteva acquistare con una semplice trasfusione di sterline. Ma Giacomo I esagerò. Vendette il titolo di pari d'Inghilterra per 10.000 sterline. In dieci anni il numero di questa casta di privilegiati raddoppiò, mentre il più modesto titolo di cavaliere ebbe larga diffusione. Anziché tenersi ben stretto il ricavato per le spese di stato, largheggiò in lasciti e donazioni ai "favoriti" ed ai cortigiani. E questo mentre le galere si riempivano di mercanti ed artigiani condannati per insolvenza, ed i poveri crescevano.
L'aristocrazia, colpita a morte nel suo orgoglio, cominciò a prendere le distanze dagli Stuart, insieme esosi e spendaccioni.
L'inflazione continuava a complicare la vita agli inglesi. Mentre cresceva il settore commerciale dell'economia e il bilancio della Corona subiva il deprezzamento della sterlina, le entrate fiscali non riuscivano a pareggiare le spese, gran parte delle quali erano autentiche dissipazioni, o per dirla con Adam Smith, spese improduttive.
Giacomo I era convinto di poter comprare la lealtà con la corruzione, e perfino che vezzeggiare i nemici potesse essere una buona politica. Non essendo in grado fare guerre, provò a fare la pace con la Spagna. Ma il costo dello stato cresceva, anche perché era uno stato ormai esteso anche geograficamente. Mantenere l'ordine interno, specie nella ribelle Irlanda, costava sempre più. La ribellione scoppiata sotto Elisabetta, nel quadrienno 1599-1603 era costata 1.134.000 sterline.
Archi e balestre erano ormai stati sostituiti da archibugi e cannoni. Le navi erano sempre più grandi. Ed anche viaggiare, per il re, con tutto il codazzo della corte al seguito aveva un prezzo notevole. Senza contare che tra la nobiltà era sempre più difficile trovare dei pari disposti a fare gli ambasciatori a proprie spese. Sedi diplomatiche permanenti erano ormai un obbligo del galateo europeo, anche se Adam Smith ricorda che esse furono istituite per ragioni eminentemente commerciali, com'era stato per la Russia e la Turchia..
Per fare fronte alla nuova dimensione della spesa pubblica, sprechi e dilapidazioni a parte, occorreva ormai una soluzione a lunga scadenza, un programma di governo ed un moderno sistema di tassazione. Cosa che Giacomo I non riuscì nemmeno ad impostare.
Il successore, Carlo I, a differenza del padre, era un introverso, piccolo, brutto, balbuziente, poco comunicativo e scarsamente incline al confronto ed alla discussione. Salì al trono nel 1625 e si trovò subito nella necessità di procurare nuove entrate. Persino la vendita dei titoli nobiliari incontrava ormai un certo scetticismo da inflazione. Carlo toccò il limite dell'assurdo cercando di imporla a benestanti recalcitranti. Emanò sanzioni contro chi non voleva sentir parlare di acquisto, ed in cinque anni raccolse la bella cifra 173.337 sterline solo con le multe. Si trattava appunto di una quelle misure che fanno gridare: la misura è colma; non ne possiamo più!
Pertanto, anche il successivo tentatitvo, molto più serio, di estendere la Ship Money, una tassa originariamente introdotta per finanziare la marina militare ed applicata solo alle città portuali, incontrò resistenze impensabili. Il Parlamento rifiutò di votarla e Carlo I si trovò costretto ad imporla d'imperio, su base annuale, accertando gli importi singoli sulla base del reddito derivante dalle rendite, dai commerci e dagli incarichi. La risposta non si fece attendere: ad un governo sempre privo della capacità di far rispettare la legge si oppose una sorta di sciopero fiscale progressivo, possibile solo nella repubblica delle banane e nei regni da operetta. Le potenti compagnie commerciali della City si fecero quattro risate e non pagarono, come la Society of Apothecaries e la Founder's Company. In tutto il paese la disobbedienza divenne un comportamento diffuso, spesso con la scusa di una Londra "ladrona".
Come sempre, in questi casi, quando un governo è incoerente e screditato, quando la legge non è legge ma la scorreggina di un sovrano con il portafoglio vuoto, senza polizia e senza ispettori finanziari, quando si chiede denaro non solo per spese indispensabili, ma per mantenere la bella vita dei cialtroni di corte, la giusta protesta si confonde con la demagogia di chi progetta rovesciamenti a favore della propria parte, mentre chi assume atteggiamenti moderati e ragionevoli rischia il linciaggio. Ed ormai gli spazi di mediazione erano ridotti al lumicino. Carlo governò senza più convocare il Parlamento, favorì i tentativi filo-cattolici dell'arcivescovo Laud, inasprì il conflitto religioso, ebbe la rara capacità di scontentare tutti senza accontentare nessuno. Poco valeva che i suoi predecessori avessero combinato disastri più grandi. Ancor meno valeva il quasi-raggiungimento del pareggio finanziario. Il calcolo di un consenso "silenzioso" da parte dei nobili e delle persone oneste e laboriose si rivelò del tutto errato.
A cominciare la rivoluzione furono i nobili stessi, i soli che disponessero di un esercito, di arsenali privati, di cannoni e munizioni. Non cominciò come una guerra di classe, ma come ribellione all'assolutismo.
La scintilla fu provocata dai cattolici irlandesi che si ribellarono ai protestanti dell'Ulster, tutti di origine inglese e trapiantati in epoca Tudor, massacrandone tremila in un colpo solo. I nemici di Carlo ne approfittarono per accusarlo di complicità con i cattolici, il popolo di Londra manifestò nelle strade, il leader parlamentare John Pym si fece addirittura promotore di una iniziativa tendente a far dichiarare il re incapace di intendere e di volere, quindi non in grado di esercitare la funzione. Qualcosa di inaudito, che fece scalpore e divise la nazione secondo criteri non solo politici, e nemmeno solo religiosi. Per chi non ha confidenza con le tonnellate di carta che riportano testimonianze e giudizi sul periodo, è difficile districarsi tra le varie posizioni. C'erano pari favorevoli al Parlamento e mercanti favorevoli al re. La nobiltà di rango inferiore non era tutta dalla parte del Parlamento. Molte divisioni erano di tipo geografico, o come si dice oggi, geopolitico. Intere contee simpatizzavano per il Parlamento, altre, specie quelle favorite dalle esenzioni fiscali e dal clientelismo, erano realiste. Il popolo minuto era diviso. In generale, la minoranza cattolica e la chiesa ufficiale parteggiava per il re, mentre i protestanti stavano dalla parte dei ribelli. Ma gli stessi protestanti erano divisi tra i calvinisti presbiteriani (una chiesa di tipo patriarcale, guidata da anziani) e i cosiddetti congregazionalisti, più decisamente orientati ad una predicazione evangelica pura ed alla redistribuzione delle terre e delle ricchezze. L'unica cosa che pare certa, tuttavia, era che solo un cittadino su dieci voleva veramente la guerra e la distruzione del nemico. Indifferenti, neutrali e indecisi, preoccupati dalle conseguenze di atti che avrebbero sconvolto le tradizioni non fecero tuttavia granché per fermare la spirale di odio e violenza. Inizialmente furono in molti a non schierarsi, ed alcuni si prodigarono per una mediazione. La piazza chiese la testa dell'Arcivescovo Laud e del ministro Stratford, il re glie le concesse, non rendendosi conto che era solo un preludio a richieste ancora più gravi. Come spesso accade, la minoranza estremista ebbe il sopravvento, e guerra fu.
gm - 22 maggio 2005