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David Hume
di Renzo Grassano ( e Guido Marenco, autore del paragrafo sulla religione)


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David Hume nacque in Scozia nel 1711. Apparteneva ad una famiglia di piccola nobiltà terriera. Fece studi di giurisprudenza all'università di Edimburgo, ma ben presto li abbandonò per dedicarsi alla lettura dei classici della filosofia.
Durante un primo soggiorno in Francia (dal 1734 al 1736) scrisse il "Trattato sulla natura umana".
Per le sue posizioni scettiche in materia religiosa, fu osteggiato dalla chiesa presbiteriana e gli fu preclusa la cattedra di etica all'università di Edimburgo.
Scrive Paolo Casini nell'introduzione alla "Storia naturale della religione" di Hume, Laterza 1994« ...i ministri presbiteriani riversarono sul candidato tali accuse di scetticismo, ateismo ed immoralismo, che fu costretto a ritirarsi. Sei anni più tardi Adam Smith lo avrebbe voluto come proprio successore nell'insegnamento di logica a Glasgow, ma ancora una volta le violente proteste dei benpensanti ottennero la sua sconfitta.»
Successivamente ricevette però vari incarichi che gli permisero di viaggiare in Europa.
Nel 1748 pubblicò "La ricerca sull'intelletto umano".
Nel 1763 conobbe a Parigi i maggiori filosofi dell'illuminismo, tra i quali D'Alambert, Rousseau, Diderot.
Ospitò poi per qualche tempo Rousseau nella sua casa in Scozia, ma per diversi motivi, sia di carattere umano che filosofico, entrò presto in divergenza con questi.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita ad Edimburgo a rivedere le sue opere per la riedizione.
Ulteriori notizie sulla vita di Hume sono contenuti in un file in preparazione.

Uno scetticismo moderato

L'originalità dell'indagine filosofica di Hume consiste soprattutto nel tentativo di estendere il metodo sperimentale allo studio della natura umana. Egli stesso definisce questa sua filosofia "scetticismo moderato", confrontandosi con diverse forme di scetticismo.
« "Innanzi tutto parla di una specie di scetticismo antecedente ad ogni ricerca in filosofia", quale quello "raccomandato da Descartes ed altri". Hume vede, sì in questo tipo di scetticismo un eccellente mezzo di difesa dall'errore e da giudizi affrettati, ma anche ove esso venga sviluppato in modo conseguente, l'impossibilità per l'uomo, di attingere uno stato di sicurezza e di convincimento relativamente ad un oggetto qualsiasi.
Più importante per Hume "un'altra specie di scetticismo", quella "conseguente alla scienza ed alla ricerca". Questa mette in crisi la certezza delle percezioni sensibili, e, quindi, della conoscenza del mondo. Noi - osservano qui gli scettici - abbiamo solo immagini delle cose, solo rappresentazioni, nulla sappiamo della loro connessione con gli oggetti. " Come causa delle nostre percezioni" resta soltanto "un qualcosa di sconosciuto, di inesplicabile"
Quando, movendo da tale constatazione, si giunga a negare la possibilità della conoscenza umana in generale, si ha quello scetticismo "eccessivo" che Hume non può che rifiutare, perchè troppo in contrasto con gli istinti naturali dell'uomo e privo pertanto di utilità per la vita. » ( da "Il problema di Dio nel pensiero scettico" testo rielaborato di una conferenza del 4 marzo 1975 tenuta da W. Weischedel nella Katholische Akademie di Monaco)

Hume "volle" essere il filosofo di questo scetticismo moderato e scelse come oggetto della sua skepsi, che in greco vuol dire "ricerca", la natura dell'uomo: «La natura umana è la sola scienza dell'uomo, eppure è stata sinora la più trascurata.
Io avrò fatto abbastanza a metterla un po' più di moda: questa speranza giova a dissipare il mio umore malinconico e a darmi forza contro l'indolenza che a volte mi domina.» ("Trattato, I,4,7)

Fu acerrimo avversario del dogmatismo e di coloro che procedono in modo unilaterale, considerando l'atteggiamento scettico come l'unica modalità per pervenire a qualche certezza.
La teoria gnoseologica di Hume dipende in larga misura dalla filosofia di Locke. Anche per Hume la coscienza umana è data dalle percezioni, le quali producono impressioni (motivo di emozioni e sentimenti) e idee, che sono sempre il risultato di un'associazione tra memoria ed immaginazione operata dalla mente sui dati sensibili provenienti dalle impressioni.

Tramite memoria ed immaginazione la mente umana associa idee semplici dando vita a ragionamenti complessi secondo principi di somiglianza, contiguità nel tempo e nello spazio, e causalità.
Questa via conduce alla matematica, cioè un mondo di conoscenze astratte, ma rigorosamente fondate.
Assai diversa da questo tipo di conoscenza astratta è la conoscenza empirica, che si riferisce ai fatti dell'esperienza, e che costituisce rapporti tra le impressioni dovute alla conoscenza delle cose, dette "materie di fatto" (matters of fact).
Alla distinzione tra questi due tipi di conoscenza (peraltro assai simile al modello elaborato da Leibniz tra verità di ragione e verità di fatto) Hume aggiunge che la conoscenza certa, universale e necessaria procede dalla matematica, mentre quella empirica dovuta alle impressioni è solo una conoscenza probabile, particolare e contingente.
Tuttavia secondo Hume le scienze matematiche non servono a far progredire le scienze naturali, cioè la conoscenza dei fatti, poichè la matematica ha un carattere puramente strumentale e quantitativo, ma non può avere alcuna efficacia nella spiegazione della realtà. In questo senso egli concorda perfettamente sia con Locke che con Berkeley.

Nelle questioni di fatto le cose vanno assai diversamente perchè qui ogni cosa che è potrebbe anche non essere poichè l'andamento dei fatti esperibili dalla mente umana non è mai dato una volta per tutte, ma segue un andamento particolare, contingente, determinabile diversamente di volta in volta.
Per questo motivo Hume contesta in primo luogo la possibilità di fare previsioni in base all'esperienza ed anche parlare di cose che non vediamo nè sentiamo.

Critica alla "causalità"

Il vero nocciolo del problema filosofico sta dunque per Hume nella liceità sulle quali la scienza sperimentale ha costruito le proprie certezze, cioè il principio di causalità secondo il quale ogni oggetto od ogni evento, considerati come effetti, hanno una spiegazione in qualche causa.
Si tratta, ovviamente, di una posizione antiaristotelica, e, soprattutto di una presa di posizione polemica nei confronti del principio di ragion sufficiente introdotto da Leibniz.
Questa posizione trova un illustre precedente nella filosofia di Guglielmo di Ockham, il quale aveva scritto che la conoscenza di una cosa non porta in sè a nessun titolo la conoscenza di una cosa diversa da essa.

Hume fa diversi esempi, peraltro non molto convincenti, secondo i quali lo stesso principio è messo in discussione.
Osservando il fenomeno del fuoco e del fumo, ad esempio, Hume afferma che trattandosi di questione di fatto, la connessione tra "fuoco" e "fumo" deve essere ricavata dall'esperienza.
L'esperienza, tuttavia, secondo Hume può solo consentire sulla contiguità spaziale di fuoco e fumo, ad esempio riconoscendo che ove sia fumo, non lontano vi sia anche fuoco; ed anche riconoscendo la successione temporale, nel senso che prima viene il fuoco, poi il fumo.
Ma per Hume l'esperienza stessa non può confermare la connessione necessaria tra i due fatti, fumo e fuoco.
Infatti, secondo Hume, non è contraddittorio, che possa darsi un fumo senza fuoco od un fuoco senza fumo.
Analogamente egli descrive un tavolo da biliardo nel quale ad un certo punto una palla in movimento tocca un altra palla ferma. Questa si pone a sua volta in movimento. Cosa possiamo "inferire" secondo Hume? «E' evidente che le due palle si sono toccate...»
«Noi ci illudiamo - prosegue Hume - che se fossimo condotti all'improvviso su questo mondo potremmo subito dedurre che una palla di biliardo può comunicare il movimento ad un'altra...(...) (ma) ...anche supponendo che mi nasca per caso il pensiero del movimento della seconda palla quale risultato del loro urto, io potrei concepire la possibilità di altri mille avvenimenti differenti, per es, che entrambe le palle rimanessero ferme o che la prima se ne tornasse diritta o scappasse da uno dei lati in una direzione qualsiasi. Tutte queste supposizioni sono coerenti e concepibili; e quella che l'esperienza dimostra più vera non è più coerente e concepibile delle altre.» (Inq. Conc. Under., IV,1)
In pratica Hume vuole significare che da un punto di vista filosofico (ma sarebbe meglio dire radicalmente scettico) l'esperienza delle palle che si sono toccate potrebbe anche non avere alcuna reale validità rispetto ad una possibile previsione sul futuro in circostanze analoghe. Una palla in movimento potrebbe cioè urtare una palla ferma, e questa potrebbe rimanere ferma.
Non credo che i giocatori di biliardo condividano la filosofia di Hume. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, essi sanno esattamente cosa vogliono ottenere tirando con la stecca a quella palla. E lo sanno sia per esperienza sia per un'intuizione che deriva in parte dall'esperienza, in parte da una riflessione coerente all'esperienza stessa.

Dicevo pocanzi, a ragion veduta, che gli esempi non sono molto convincenti non perchè lo scrivente sia prevenuto contro lo scetticismo (del resto, a ben vedere, come potrei definirmi io stesso, se non scettico?) quanto perchè esempi diversi potevano risultare sicuramente più convincenti nei confronti di qualsiasi forma di determinismo esasperato.
Per esempio: affermare che una giornata nuvolosa e coperta sarà inevitabilmente causa di pioggia è chiaramente sbagliato ed imprudente. Non solo perchè una "giornata", cioè un periodo di tempo, non può essere causa di qualsivoglia oggetto, ma perchè, stabilito che una causa della pioggia sta nella presenza di perturbazioni in cielo, e che pioverà solo se queste perturbazioni interesseranno il cielo che sta sopra di noi, è evidente che, nessuno, neanche il più esperto meteorologo, potrebbe predire che pioverà esattamente alle 17,01 a Roma e dintorni. La cosa era peraltro molto più sostenibile ai tempi di Hume, ovviamente. Oggi potrebbero anche darsi previsioni di questo tipo abbastanza accurate; non sono un esperto di metereologia. Però sto sfogliando il numero 5 delle "Scienze dossier"- ottobre 2000 dedicato al "Clima che cambia" e trovo scritto: «Applicare le leggi della dinamica e della termodinamica all'atmosfera richiede l'impiego di equazioni di difficile risoluzione, a causa della complessità dei fenomeni studiati.
E questo è il motivo per cui, per l'impostazione rigorosamente scientifica del problema delle previsioni meteorologiche, si è dovuto attendere gli anni settanta-ottanta, quando la potenza di calcolo raggiunta dai computer ha permesso la risoluzione diretta, seppure approssimata, del sistema di equazioni nel volgere di qualche ora, mediante appropriati modelli fisico-matematici.» (da "Prevedere il tempo " di Chiara Palmerini)
Da queste semplici considerazioni emerge dunque un sostanziale atteggiamento antiscientifico da parte di Hume, il quale si limita ad esporre in modo unilaterale i possibili ostacoli che si pongono sulla strada della ricerca scientifica, esagerandoli, senza dall'altro lato incoraggiare alcun approccio veramente analitico ed induttivo ai problemi.
In altre parole: uno scettico come Hume potrebbe arrivare a contestare anche le concatenazioni di idee più evidenti, ed affermare anche che anche la nostra associazione tra nuvole e pioggia è solo una credenza. Un qualsiasi altro filosofo si chiederebbe semmai: "Perchè scende la pioggia?" "Perchè la palla urtata si mette in movimento?" "Perchè se c'è fumo c'è anche fuoco?"

Per Hume anche questo fare domande logiche sarebbe un "belief", cioè una credenza determinata dall'abitudine al pensare che qualcuno conosca le risposte, oppure che noi stessi potremmo trovarle.
Noi crediamo alla connessione causale, ma in realtà, per Hume, la connessione causale è solo probabile, ma non è mai certa.
E' quindi da evidenziare su questo piano sembrerebbe Hume distaccarsi radicalmente dalla visione scientifica dei suoi contemporanei e per qualche verso precorrere le posizione scientifiche probabilistiche e congetturali del novecento.
Ma ciò è vero solo in parte: infatti tutto il probabilismo della scienza moderna è dato dall'uso strumentale della matematica applicata alla fisica, alla chimica ed alla biologia. Non solo: la stessa economia, che spesso viene trascurata come "scienza", ma è invece uno dei settori di studio e di ricerca che evidenzia con maggiore acume cosa è scienza anche in senso predittivo, costituisce la prova lampante del carattere fondamentale della matematica come scienza statistica in grado di costruire scenari futuri.
Non si conducono imprese di natura economica senza bilanci preventivi, chiari prospetti di spesa e probabili ricavi. Poi rimane da fare i conti con le probabili oscillazioni del mercato, l'aumento del prezzo delle materie prime, il costo dei trasporti e così via: ma senza un minimo di previsione fondata su dati certi e su dati probabili, non si va da alcuna parte.
La vicenda scientifica del novecento, pertanto, è semmai una sconfessione della posizione humeana secondo cui la matematica non è di alcuna utilità alla conoscenza scientifica.

Giova ancora ricordare che la credenza è per Hume non un'effettiva conoscenza che deriva dall'esperienza, ma una specie di istinto, ovvero una forma di sentimento. Anche su questo piano siamo cioè di fronte ad una negazione della razionalità, la quale, come vide successivamente Kant nella "Critica alla ragion pura" , ha invece il diritto di trarre qualche conclusione e qualche giudizio razionale sulla base della conoscenza empirica dei fenomeni.
Il problema è che per Hume non esiste una regolarità della natura. Egli considera possibili eventi del tutto impossibili secondo le stesse leggi naturali, le quali sono anche ricavate dalla nostra esperienza e non da costrutti teorici campati per aria.
Contestata in modo così radicale la ragione, Hume attribuisce quindi al sentimento una funzione di giudizio superiore alla pura ragione e questo è certamente il limite più grande della sua filosofia. Anzi, per la verità, il sentimento istintivo è per Hume il vero costituente distintivo della natura umana, ossia ciò che accomuna tra loro tutti gli esseri umani.
Questa è dunque una definizione dell'uomo radicalmente alternativa a quella di Aristotele.
Mi piacerebbe affermare che è complementare ma, dati i ragionamenti proposti da Hume, questo non è del tutto accettabile perchè una nera ombra oscura l'intera proposta filosofica humeana.
Nelle "Ricerche sull'intelletto", in chiusura del libro troviamo una sentenza inquietante che dovrebbe indurci a riflettere: «Quando scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi principi (cioè la filosofia di Hume...nda), che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto o di esistenza? No. E allora gettiamolo nel fuoco, perchè non contiene che sofisticherie ed inganni. »
E' un atteggiamento assai simile a quello del famigerato Califfo che fece incendiare la biblioteca di Alessandria, per il quale tutto il sapere necessario era contenuto nel Corano ed il resto dei libri non erano altro che inganno.
Il ritratto del "buon" Hume, gaio, socievole e soprattutto "comprensivo", di raffinata compagnia, che circola spesso come un trito luogo comune nei manuali di storia del pensiero, trova in queste poche righe una secca smentita. Come si fa ad essere insieme "comprensivi" ed incitare il prossimo a bruciare i libri di teologia e metafisica, solo perchè hanno il torto di non contenere il pensiero di Hume? Dobbiamo intenderlo come uno sfogo, un momento di debolezza del filosofo, oppure dobbiamo prenderlo sul serio come espressione di un sentimento non benevolo, ma distruttivo?
Come ho già detto in generale mi ritengo sia scettico che fondamentalmente vicino alle espressioni più empiriche e criticiste del novecento. Trovo da sempre, insieme a Bertrand Russell, una radicale avversione per il concetto di "causa" usato in senso metafisico, in particolare per tutta quella autentica rassegna di ipotesi improbabili che è la filosofia medioevale incentrata sulla dimostrazione dell'esistenza di Dio.
Ma da qui alla proposta di "bruciare il passato" ovviamente ce ne corre, perchè allora dovremmo bruciare anche la Bibbia, il Corano, i Veda, e perchè no, i trattati di Tolomeo e di Euclide.
In Hume manca il rispetto per la storia del pensiero che muove pertanto da una saccenza che ha poco a che fare con una vera skepsi.

Critica alla "sostanza", negazione dell'io

Anche sul problema della sostanza Hume svolge una serie di affermazioni di grande interesse.
Infatti, secondo lui, noi non abbiamo alcuna esperienza, e quindi nessuna impressione, della reale esistenza dei corpi materiali; abbiamo solo impressioni del colore, della forma, della solidità, del peso ecc...
Per questo non siamo in grado di affermare che le sostanze materiali esistono.
Sulla scia di Berkeley, Hume afferma che le sostanze esistono sono in virtù dell'abitudine a crederenella loro esistenza.
Ma la vera esperienza non attesta alcunchè, in quanto noi abbiamo esperienza del peso, del colore, della forma, ma non del corpo materiale realmente esistente nella sua unità.
Pertanto l'esistenza della sostanza è semplice oggetto di credenza .
Su questo piano va detto che Hume riesce a superare persino Berkeley, il quale era comunque certo dell'esistenza delle sostanze spirituali, compreso l'io di tipo cartesiano, oltre che a tutto ciò che è oggetto di fede religiosa.
Non solo: per Berkeley lo spirito che Dio ha immesso in noi è garanzia della nostra intepretazione delle idee. Pertanto la nostra mentalità risulta comunque orientata in modo conforme alle idee stesse.
Hume pone radicalmente in dubbio anche questa prospettiva svelandone il carattere dogmatico e contestando persino l'esistenza dell'io.
Nella nostra reale esperienza non vi sarebbe infatti alcuna traccia di un io stabile e permanente, ma solo un succedersi di stati di coscienza.
Questo per dire che noi non siamo una sostanza dotata di di identità permanente, sempre identica a sé stessa, quindi un individuo, ma solo un contenitore di impressioni mutevoli che si susseguono nel tempo.
Pertanto anche in questo campo noi crediamo di esistere sostanzialmente, ma in realtà siamo solo un fascio di impressioni che si succedono.

La morale

Il capolavoro di Hume, a questo punto, consiste nel ricavare una teoria morale su presupposti così vacillanti, tenendo conto che proprio la morale costituiva la parte più importante della sua filosofia, essendo condizione e garanzia di una ordinata vita sociale.
La morale di Hume non si basa solo sul sentimento o solo sulla ragione.
Anche la morale è una questione di fatto sulla quale la matematica può dire ben poco.
Egli infatti pone alla base di ogni valutazione morale del singolo la sua utilità alla vita sociale.
L'Abbagnano scrive sulla morale di Hume: << L'approvazione che viene tributata a certi sentimenti o a certe azioni, la riprovazione che viene inflitta ad altri sentimenti od azioni, si fondano entrambe sul riconoscimento implicito od esplicito della loro utilità sociale. In una condizione in cui fosse data, per esempio, al genere umano la più prodiga abbondanza di tutte le comodità e di tutti i beni materiali, in cui l'uomo non dovesse preoccuparsi di nessuna delle sue necessità materiali, la giustizia sarebbe inutile e non potrebbe mai nascere. Come nessuno può commettere ingiustizia per l'uso ed il godimento dell'aria, che è data dall'uomo in quantità illimitata, così nessuno potrebbe commettere ingiustizia in una condizione i cui anche gli altri beni fossero forniti all'uomo in quantità illimitata.>> (Storia della filosofia, volume IV)
Ciò, ancora una volta, tuttavia, finisce col fare rientrare dalla finestra quello che Hume aveva messo fuori dalla porta.
Infatti questo significa implicitamente riconoscere che una particolare forma di privazione suscita una reazione di scontento ed una richiesta di giustizia. Ma come potremmo definire altrimenti la privazione come causa dello scontento?
Del resto anche sulla questione dell'aria vi sarebbe molto da dire, visto che si può inquinare e quindi commettere forme di ingiustizia che vanno davvero al di là dell'immaginazione empirica.

La tesi di fondo che Hume sostiene in campo morale è che la ragione è del tutto impotente ad orientare le azioni umane. Questo perchè le passioni, come del resto le credenze, sono il risultato di impressioni che non derivano direttamente dall'esperienza, ad esempio l'esperienza del piacere e del dolore, ma da altre impressioni e da altre "credenze" come l'amore e l'odio, l'orgoglio e l'umiltà.
La volontà è nientaltro che una passione, la quale non nasce da una determinazione razionale a raggiungere uno scopo, ma solo da un'impressione la quale ci spinge a produrre movimenti del corpo e pensieri della mente.
Dice Hume che « La ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire ed obbedire ad esse.»
Pertanto l'etica non può fondarsi sulla ragione, come pretendevano Locke o Cartesio, o contemporanei come Toland.
Per Hume quindi l'etica si può solo fondare sul sentimento morale, cioè sulla propensione della natura umana a compiere azioni virtuose e disapprovare azioni malvage.
Hume contesta apertamente che l'unico movente dell'uomo sia l'egoismo. Per questo vorrebbe togliere alla morale l'abito da lutto con il quale l'hanno vestita teologi e filosofi. Per Hume la morale "vera" è gaia, gentile, benefica, comprensiva. La morale si propone quindi di rendere gli uomini felici in ogni istante della loro vita, non di opprimerli.

Anche qui siamo dunque in presenza di un presupposto piuttosto vacillante perchè è davvero tutto da dimostrare che la natura umana sia naturalmente inclinata ad azioni virtuose.
Inoltre il continuare a contrappore sentimento e ragione come non potessero darsi, ad esempio, un sentimento razionale ed un sentimento irrazionale, pare piuttosto semplicistico.
Odio ed amore sono certamente forme estremistiche di sentimenti molto più innocenti quali antipatia e simpatia, repulsione ed attrazione, divergenza e convergenza, disaccordo ed accordo.
Ma dati questi sentimenti ognuno vede come sia possibile sia semplicemente accettarli e farsi dominare da essi, sia esaminarli e vedere da dove muovono.
Se l'attrazione e l'amore che proviamo per una persona è determinata dalla bontà del suo carattere, dalla modestia dei suoi comportamenti, dall'equilibrio dei suoi giudizi e comportamenti, è certo che il nostro è un sentimento razionale.
Se all'opposto noi detestiamo una persona nonostante essa presenti gli stessi caratteri su elencati, è molto probabile che il nostro sia un sentimento irrazionale, cioè motivato da ragioni pregiudiziali, come il fatto che si tratti di un Capuleti invece che d'un Montecchi, d'un napoletano invece che d'un veneto, d'un negro invece che d'un bianco, d'un cattolico invece che d'un protestante.
Del resto anche la contrapposizione tra istinto e ragione, come se nell'uomo non fosse istintivo ragionare, pare davvero un ferrovecchio del peggiore irrazionalismo, più che un tratto distintivo del vero empirismo inglese inaugurato da Locke.

Un altro tratto caratteristico del pensiero di Hume è quindi il credere al carattere socievole dell'uomo [forse fino a quando non conobbe Rousseau:-)))], il quale desidera l'approvazione sociale e teme la disapprovazione.
Anche qui siamo di fronte ad un'osservazione parzialmente vera, ma molto limitata, in quanto non esiste e non è mai esistito un sociale omogeneo se non nelle culture tribali. Pertanto è ovvio che sia difficile incontrare un tipo di "approvazione" generalizzata; molto più facile riscontrare un tipo ristretto di approvazione sociale e culturale, riportabile alla categoria delle "maggioranze silenziose e pettegole" ed a quella delle minoranze inquiete e ribelli, oppure quello delle avanguardie sperimentali ed utopistiche.
E' del tutto impossibile, comunque, che si possa incontrare approvazione generalizzata in filosofia, date le innumerevoli correnti di pensiero che l'attraversano.
Lo stesso Hume, del resto, venne apertamente criticato e disapprovato per le sue temerarie considerazioni etiche e filosofiche. E fu quindi tollerato e sopportato solo in virtù delle sue posizioni politiche conservatrici, fondate sulla persuasione che i rapporti sociali esistenti siano naturali anzichè convenzionali, e che la società stessa sia di origine naturale e non contrattuale come avevano proposto Hobbes, Locke e lo stesso Rousseau.
In pratica è come "filosofo antiborghese" in senso reazionario e non socialista, che Hume trovò un certo seguito tra la piccola nobiltà terriera annoiata dalla caccia alla volpe, ma assai poco disposta ad imprendere economicamente attività artigianali e commerciali.
Hume fu un accanito difensore del diritto di proprietà, ed anzi credette che esso sia "naturale", senza considerare che è conseguenza di una storia, ed è quindi causato da eventi concatenati l'uno all'altro in ordine temporale. Quindi insieme "naturale e sociale", perchè le due cose non sono in contraddizione, nè quando si creda la società ( e lo stato) come originata da un contratto "do ut des", nè che si creda la società come un semplice risultato della spinta ad associarsi.
Non è anzi da escludere che il motivo vero del dissidio con Rousseau sia da ricondursi a queste differenti concezioni della vita sociale.
Il problema del resto è molto semplice: se accettiamo l'origine contrattuale di ogni associazione umana, è implicito che il concetto di giustizia nasca su basi certe, ovvero il contratto con le norme e le regole che esso impone, oltre che ai diritti che esso consente.
Se fondiamo l'origine della società semplicisticamente sull'innato cooperativismo e sulla socievolezza, non abbiamo altra via che affidarci al caso, alla buona sorte temporanea ed ai colpi di genio di qualche legislatore illuminato per fondare il concetto stesso di giustizia, oppure trovarlo all'esterno, per esempio nella legge divina, od ancora, in un sovrano cui dovremmo comunque riconoscere una investitura divina, o comunque superiore.
La mia impressione è che Hume non abbia fatto veramente i conti sia con il pensiero di Hobbes sia con quello di Locke.
Consiglierei pertanto il lettore che volesse realmente approfondire la dottrina politica di Hume in rapporto alla tradizione inglese di consultare la voce "giusnaturalismo" in Storia delle dottrine politiche, economiche e sociali, diretta da Luigi Firpo, nel IV volume, "L'età moderna" tomo I , UTET, 1980, pag 492.

Per quanto attiene la teoria morale di Hume vi sarebbero ancora diversi punti da evidenziare, in primo luogo il fatto che Hume contesta apertamente la derivazione di qualsiasi precetto normativo da proposizioni contenenti osservazioni di tipo predicativo o esistenziale. Questo da un punto di vista di logica aristotelica, che era l'unica logica che Hume conosceva. Pertanto, per Hume, ricavare sentenze includenti il verbo "dovere" anteponendo frasi contenenti il verbo essere, è fondamentalmente scorretto, perchè ciò costituirebbe il passaggio da un genere di discorso ad un altro di genere diverso.

La legge di Hume

Sulla base di queste osservazioni alcuni filosofi del novecento hanno dedotto la legge di Hume, secondo la quale è ingiustificato dedurre da proposizioni descrittive, ovvero contenenti una conoscenza, proposizioni prescrittive, cioè contenenti un comandamento morale. Questo perchè l'etica non può fondarsi su alcuna conoscenza, in quanto mondo dell'etica e mondo della conoscenza sarebbero completamente divisi l'uno dall'altro.
Che le cose in realtà non stiano così, tuttavia, è fortemente comprovato dalla "ragione pratica" di Kant, il quale parlando degli imperativi ipotetici, cioè di quel tipo di ragionamento che comincia con la formula "se vuoi devi..." dimostrò che semplicemente trasformando la proposizione derivante da una conoscenza in una proposizione di tipo condizionale, è del tutto possibile legare una conoscenza ad una scelta etica. Non solo: la stessa scelta etica è determinabile razionalmente in base a quello che vuole la volontà. Una proposizione del tipo: "se vuoi la pace prepara la pace, ma tieniti addestrato alla guerra" non solo non sarebbe pertanto illegittima sotto il profilo logico, ma sarebbe anche del tutto saggia e sensata, in quanto conterrebbe sia la volontà di pace, sia la possibilità che qualcun altro voglia la guerra.
A ciò vorrei aggiungere una considerazione banale e tuttavia necessaria a chiarire la questione. Semplicemente considerando il codice della strada, noi possiamo verificare quanto sia imprecisa e fuorviante questa cosiddetta legge di Hume.
Infatti, dato che c'è chi conosce la struttura ed il tipo di percorso di una particolare strada, questi formula tramite un segnale la prescrizione di rallentare fino a 50 kmh in caso di ghiaccio, neve o nebbia. Ciò, a mio avviso, non solo non ha nulla di scorretto, ma è fondalmentalmente "logico", perchè afferma una premessa universale, ovvero: "se vuoi evitare incidenti, devi rallentare".
Questa prescrizione, che ha un carattere morale in quanto si propone di evitare danni a sé ed al prossimo, è ragionevolmente dedotta da una descrizione.

La religione (di Guido Marenco)

<<Dato che ogni indagine riguardante la religione - scrive Hume - è della massima importanza, due problemi si impongono soprattutto alla nostra attenzione: il primo è quello dei suoi fondamenti razionali, l'altro concerne le sue origini nella natura umana.
Per fortuna il primo - che è il più importante - può essere risolto nel modo più ovvio o almeno più chiaro. L'intera costituzione della natura rivela un autore intelligente; e nessuno che indaghi secondo ragione può, dopo seria riflessione, sospendere sia pure per un momento la sua credenza nei primi principi dello schietto teismo e della religione. Ma il problema dell'origine della religione nella natura umana va incontro a difficoltà maggiori. La credenza in un potere invisibile ed intelligente è stata sempre diffusa largamente nella razza umana, in tutti i luoghi e in tutte le età, ma non è mai stata così universale da non ammettere eccezioni, né ha suggerito idee affatto uniformi. Si è scoperto qualche popolo privo di sentimenti religiosi, se c'è da credere a quel che dicono i viaggiatori e gli storici; ma non esistono due popoli, e neppure due uomini qualsiasi, che siano perfettamente convinti della medesima opinione.>>
(da David Hume, Introduzione a "Storia naturale della religione" - Laterza 1994)

Come si vede Hume sembrerebbe in primo luogo convinto dell'esistenza di un Dio creatore, trovato, secondo ragione, nell'ordine del creato a misura d'uomo. Ma ne "I dialoghi sulla religione naturale" Hume, contro ogni specie di prova dell'esistenza di Dio, studiate peraltro proprio su quei libri che invita a bruciare, oppone un argomento tipico della sua filosofia generale. <<Niente è dimostrabile, senza che il suo contrario implichi contraddizione. Niente che sia distintamente concepibile implica contraddizione.
Tutto ciò che noi concepiamo come esistente, possiamo concepirlo come non esistente. Perciò non vi è un essere la cui non esistenza implichi contraddizione. Di conseguenza non vi è un essere la cui esistenza sia dimostrata.>> (dai "Dialoghi", II. pag 432)
Questo tipo di considerazione, ovviamente, vale per la prova ontologica di Descartes, per il quale, se noi abbiamo concetto di Dio, il fatto che pensiamo questo concetto è prova della sua esistenza.
Per Hume questo "fatto", giustamente, è solo un pensiero, non è un questione di fatto e dunque non dimostra alcunchè.
Ma Hume liquida anche le altre prove, in particolare quella "causale", per la quale, a partire da Aristotele, deve esistere una causa prima di tutti i fenomeni. E considera come prova negativa di questa ipotesi una collezione di individui. Se si mostrano le cause particolari di ciascun individuo, dice Hume, è assurdo poi domandare quale sia la causa di tutta la collezione. Questa infatti sarebbe già data dalle cause particolari.
L'argomento non è dei migliori, sia che si parli in concreto di oggetti da collezione, figurine di calciatori o soldatini di piombo, sia che si parli di individui umani. Infatti nel primo caso la causa degli oggetti è il loro rispettivo produttore, mentre quella della collezione è nel collezionista che li raccoglie.
Nel caso di individui viventi la causa è ovviamente nei loro genitori. Ma dato che non si può risalire all'infinito di padre in padre e di madre in madre, bisognerà per forza porre un termine relativamente al primo vivente con le stesse caratteristiche dell'ultimo esemplare della catena, non già una scimmia che tende ad essere umana, ma un uomo che ha ancora caratteri scimmieschi :-))), ovvero un individuo che parla, disegna simboli dotati di significato e non emette solo rutti, grugniti "e del suo cul facea trombetta".
In sostanza diviene difficile negare un qualsiasi inizio della specie umana anche se ammettiamo che la materia e l'energia di cui sono fatti i corpi che costituiscono il cosmo esistono da sempre e sono increati.
Ciò non prova direttamente l'esistenza di Dio, ma prova che un inizio c'è stato e non può non esserci stato, rimanendo sul piano della sola ragione. Quanto ai fatti, ovviamente, la ricerca scientifica ormai è anche in grado di datare i reperti archeologici e archeoumani, cioè i fossili, grazie al processo di decadimento del carbonio 14. Prove che Hume non poteva considerare ai suoi tempi.
Ma ciò che disturba, in Hume, è proprio l'assenza di un qualsiasi sforzo intellettivo per andar oltre alla "questione di fatto".
Il che comporta, da un lato conseguenze assurde, tipo la negazione della causalità tout court, e dall'altro un restringimento della possibilità proprio laddove la si vuole affermare. ( E non ci sono dubbi su questo: Hume voleva affermare la possibilità contro il rigido determinismo filosofico, scientifico e religioso)
Un esempio di questa miopia la si ritrova nel ragionamento che egli conduce attorno ad una possibile causa fisico-teologica del mondo "proporzionata" all'effetto, cioè il mondo esistente.
Hume dice: siccome il mondo, cioè l'effetto, è imperfetto e finito, pertanto anche Dio è imperfetto e finito. E non c'è neppure motivo per riconoscere un unico Dio. Tant'è vero che se una città può essere costruita da più uomini, anche l'universo potrebbe essere costruito da più divinità, o anche da demoni.
Questo tipo di riflessioni, a mio avviso, persegue lo scopo di dimostrare l'impossibilità di pervenire a Dio secondo ragione, o nei limiti della sola ragione, dunque si contrappone seccamente in particolare alle posizioni di Toland, che in quegli anni aveva cercato di mostrare il carattere razionale del cristianesimo. In un certo senso si ricollega alle posizioni di Duns Scoto che, in pieno medio evo, aveva avviato una sottile polemica contro il tentativo volto a rivalutare la ragione operata da San Tommaso d'Aquino, aprendo quindi la strada alla rinascita del fideismo.
Ma come ho evidenziato altrove, Duns Scoto aveva avuto buon gioco operando sui limiti stessi della filosofia dell'aquinate, di ordine teorico laddove egli subordinava comunque la ratio alla fides in caso di contraddizioni, e di ordine pratico laddove si evidenziava che la scuola dell'aquinate non creava comunque movimento, non arrivava cioè a fare del cristianesimo una prassi volta al cambiamento del mondo secondo lo spirito dell'Evangelo.

Ciò detto appare altrettanto evidente che la filosofia di Hume finisce col combinare una miscela davvero esplosiva di fideismo senza Dio, parlo di un Dio certo, il Dio dei profeti per intenderci, e di scetticismo senza ricerca, ovvero senza un vero obiettivo.
La cosiddetta analisi sulla natura umana che avrebbe in sè l'atteggiamento religioso come sentimento connaturato non tocca in realtà che molto superficialmente i problemi, sia rispetto ad un'indagine di tipo storico, sia rispetto ad un'analisi di tipo filosofico. Affermare, ad esempio, che il politeismo è "tollerante", mentre il monoteismo conduce all'intolleranza è quantomeno fantasioso e dimentica, tra le tante cose, che l'ebraismo fu oggetto di persecuzione nell'antichità almeno fino a Salomone, e che il cristianesimo fu perseguitato per un intero periodo storico, da Nerone fino quasi a Costantino, cioè per quasi trecento anni.
Quanto al fatto che lo stesso cristianesimo sia a sua volta caduto nella tragedia dell'inquisizione, noi abbiamo la certezza che vi siano delle ragioni storiche che Hume non rileva nella sua miopia. Il cristianesimo dell'inquisizione è un singolare intreccio di logiche temporali e di potere, di fideismo e di sospetto dovuto al dogmatismo che è connaturato al fideismo. E' cioè un momento di trionfo dei sentimenti oscurantisti, un vero e proprio momento di eclissi della ragione.
L'unica osservazione degna di nota nella critica humeana alla religione diventa allora quella che il cristianesimo, ad un certo punto della sua vicenda, ridiventa politeistico, cioè rivaluta l'uomo "santo" fino al punto di farne oggetto di culto, e attraverso il culto mariano, rivaluta a dismisura il carattere femminile, "attivo" della divinità, dimenticando che Maria è nei vangeli simbolo di obbedienza "passiva" e finendo col riproporre modelli, quali quelli del sacerdozio femminile comportante la verginità, che appartengono al politeismo semitico e greco, alla vestalità romana, ma non hanno alcun precedente nell'ebraismo e nel vero monoteismo.
Infine Hume non evidenzia un dato che invece è basilare nella comprensione del moderno cristianesimo: da un lato abbiamo un cattolicesimo tollerante nei confronti del proprio interno politeismo, ma sostanzialmente incline, fino a prova contraria, e dopo le "sberle" presi da Galileo in poi, a rivalutare la ragione ed a dimostrarsi comunque intollerante nei confronti di ogni altra espressione religiosa in quanto irrazionale; dall'altra abbiamo un protestantesimo fideista, ma sostanzialmente fedele al principio del monoteismo che è comunque più razionale dello strisciante politeismo demagogico dei cattolici, e comunque incline al dialogo interconfessionale.
Nel settecento, tuttavia, proprio dall'alveo del protestantesimo, in particolare tra gli inglesi e con Kant, abbiamo una significativa rinascita del rapporto razionale con Dio. Da tutto quanto abbiamo visto e considerato è evidente che Hume stava da un'altra parte, e che forse la chiesa presbiteriana non aveva tutti i torti ad opporsi a Hume come "maestro" di etica e di "logica".

Evito una nuova polemica con Renzo Grassano se preciso che egli non è d'accordo con me?




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Renzo Grassano - Guido Marenco - 4 ottobre 2000 - mailto: grasslawrence@hotmail com - guernica@playful.com